Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Friday, December 20, 2024

GRICE ITALO A/Z S SCI

 

Grice e Sciacca: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- l’idea della libertà – fondamento della coscienza etico-politica – la scuola di Messina -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Studia a Palermo sotto RENDA. Insegna a Palermo. Volge il suo interesse verso il criticismo, a cui dedica “La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano” a cui fece seguito, “La libertà come fondamento della coscienza etico-politica” (Palumbo, Palermo), che reproduce la memoria in appendice. Società filosofica italiana Altri saggi: “Filosofi che si confessano” (Anna, Messina); “La steresis nella filosofia dell'azione” (Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, Palermo); “Il concetto di tiranno, dagl’antichi italici a SALUTATI” (Manfredi, Palermo); La visione della vita nell'Umanesimo di SALUTATI” (Palermo); “Politica e vita spirituale” (Palumbo, Palermo); “Gli Dei in Protagora” (Palumbo); “Esistenza e realtà” (Palumbo, Palermo); “Scetticismo” (Palumbo, Palermo); Ritorno alla saggezza” (Palumbo, Palermo); “L'uomo senza Adamo” (Palumbo); “Sapere e alienazione” (Palumbo, Palermo); “Il segno -- quel Segno” (Cappelli, Bologna); Reale accademia di lettere scienze e arti", «La filosofia per cambiare il mondo», La Repubblica.  Bono, Rocca, M. K. N., la tradizione del criticisimo, in Giovanni, Le avanguardie della filosofia italiana, Angeli, Società Filosofica Italiana", Plebe, Giovanni.   Sciacca fu un filosofo italiano nato a Messina nel 1912 e morto a Palermo nel 1995,  fu professore di storia della filosofia presso la facoltà di lettere dell’Università di  Palermo e presidente della Società Filosofica Italiana.  OPERE:  Le opere di Sciacca sono:  • La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945)  • L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in  appendice riproduce la memoria del 1965).  • Ritorno alla saggezza (1971).  • L’uomo senza Adamo (1976).  • Sapere e alienazione (1981)  • Il segno, quel segno (1987).  PENSIERO:  Sciacca, nella sua opera “L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-  politica” tratta del rapporto esistente tra Scienza e Filosofia, privilegiando la  dimensione metafisica della filosofia contro la dimensione positiva delle scienze  esatte.  Sciacca recupera il pensiero di Renda e abbandona il pensiero di Cantoni, secondo la  quale oltre la conoscenza del mondo è importante il destino dell’uomo nell’aldilà e  nell’aldiquà.  Nel 1963, egli nel suo saggio si chiede con Kant se la metafisica sia possibile come  scienza; la risposta è negativa, in quanto la metafisica di per se, andando oltre la  scienza tratta i problemi di maggior rilievo per l’uomo. L’uomo usa la sua ragione per  problematizzare la sua esistenza nel mondo, proiettandola verso l’aldilà in una  dimensione etico-religiosa. La presenza di Kant, in Sciacca, la possiamo ritrovare  nelle sue opere successive, ovvero: Ritorno alla saggezza (1971); L’uomo senza  Adamo (1976); Sapere e alienazione (1981); Il segno, quel segno (1987).  Sciacca, sottolinea che , nella fase storica di maggiore espansione della scienza e  della tecnica, l’uomo ha più che mai bisogno della filosofia, cioè l’uomo ha bisogno  di tornare alla saggezza, considerando che l’uomo dei tempi moderni è primo di  saggezza, ovvero “un uomo senza Adamo” che ha mistificato e mercificato la natura.  Egli, sottolinea che l’uomo non può ignorare l’enigma dell’aldilà, cioè non può  dimenticare l’ignoto oltre l’orizzonte della vita terrena.  Per Sciacca, il sapere che distoglie l’uomo dai ver problemi è un sapere allenante o  fuorviante, cioè: il mondo è un sistema di segni che vanno decifrati aldilà  dell’apparenza, ed è proprio per questo motivo che Sciacca suggeriva di cercare  l’essenza della metafisica, ovvero della filosofia.  Egli, afferma che la filosofia si è sempre limitata a chiedersi il perché delle cose  senza mai ritenere di poter dire l’ultima parola, la scienza invece ha finito con il  prevaricare ogni forma di sapere, nel momento in cui da scienza pura e semplice, è  diventata tecnica o peggio ancora tecnologia.  Proprio per ciò occorre scoprire e riscoprire una filosofia “critica” che torni alla  saggezza.  Successivamente, Sciacca, nel suo volume “L’uomo senza Adamo” si confronta con  Marx; sembra strano che uno spiritualista come Sciacca riesca a riscoprire attraverso  una lettura di carattere antropologico del giovane Marx e quella di carattere  economista del Marx maturo, evidenziando una forte esigenza di metafisica.  Sciacca, sottolinea l’esigenza di tornare all’origine, a Dio, ovvero riscoprire la  dimensione umana; qui, si ha un distacco dal materialismo storico , dal marxismo-  leninismo, che predicava la violenza come strumento di lotta, al contrario del  pensiero di Sciacca che a una libertà raggiunta con la forza, preferiva una libertà  raggiunta con la pace, semmai con la forza della ragione.  Il penultimo libro di Sciacca, “Sapere e alienazione”, è composto da cinque saggi  ciascuno dei quali pone il problema di intendere il sapere come alienazione, infatti il  filosofo è convinto che ogni forma di sapere storico costituisce una forma di  alienazione.  Sciacca nel primo saggio si interroga sulla dicotomia tra vero e falso, ed il suo  suggerimento è quello di scavare, socraticamente, dentro se stessi, considerando che  il vero e il bene sono da ricercare sempre come problemi.  In “Sapere e alienazione”, nell’interiorità di Sciacca si accende una curiosità: quella  di Nietzsche che nel Saggio 125 della Gaia Scienza, conferma che sono stati gli  uomini ad uccidere Dio, e secondo Sciacca, conferma anche che nello stesso tempo è  morto l’uomo stesso, sradicato dalla sua storia e dalla sua cultura.  Sciacca andava incontro Marx per superarlo e andava incontro a Nietzsche per  superarlo; in quegli anni, il filosofo, andava contro corrente.  Nel suo ultimo libro “Il segno, quel segno”, egli intende il mondo come un insieme di  segni, sottolineando che l’atto della conoscenza rappresenta il primo segno  dell’uomo, il segno iniziale e distintivo che lo rapporta al mondo.  Egli, suggerisce che conoscere non costituisce un atto semplice cosi come può  apparire a chi è accecato dalle apparenze, proprio per ciò sostiene, come già detto,  che si dovrebbe tornare all’essenza delle cose e non soffermarsi all’apparenza delle  cose.  Tutti questi interrogativi posti da Sciacca possono trovare una risposta in una sua  affermazione: “Forse, risalendo all’origine del nostro personale, ripetitivo conoscere  nei suoi atti spontanei e pur carichi di significative responsabilità, l’essere di un  mondo del quale sempre cerchiamo il volto migliore potrà aiutarci a rispondere  insieme alle domande dell’anima e a quelle del sapere, scientifico e no”BIOGRAFIA:  • Filosofo italiano;  PENSIERO:  - Tratta del rapporto tra Scienza e Filosofia; - Privilegia la dimensione metafisica della filosofia;  preso roteare i il di mivesta  di Palermo;  Presidente della Società Filosofica Italiana.  GIUSEPPE MARIA SCIACCA  (1912-1995)  OPERE:  La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945) L'idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in appendice riproduce la memoria del 1965). Ritorno alla saggezza (1971). L'uomo senza Adamo (1976). Sapere e alienazione (1981) Il segno, quel segno (1987).Giuseppe Maria Sciacca. Sciacca. Keywords: Grice, ‘Negation and Privation’, negation, privation, negatio, privatio, the use of ~ to stand for both negatio and privatio – privatio as mere negatio (~), plus implicatum -- steresis, l’idea della libertà – fondamento della coscienza etico-politica -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Sciacca: all’isola -- la ragione conversazionale dell’anti-filosofia e contra-implicatura – filosofia fascista – il ventennio fascista – la scuola di Giarre – filosofia siciliana --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Giarre). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Giarre, Catania, Sicilia. La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi, ma dice la sua parola sulla verità delle lacrime e dei sorrisi. Dopo gli studi liceali classici si trasfere a Napoli, dove si laurea sotto ALIOTTA. Insegna a Napoli, Pavia, e Genova. Fonda Il Giornale di Metafisica. Molto intenso e il suo rapporto filosofico e di stima reciproca con il filosofo fascista GENTILE, un sodalizio testimoniato dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui però ben presto S. si allontana, in particolare dal filone idealista, per condurre la sua propria ricerca filosofica in modo più ampio, tanto da condurlo a studiare per un certo periodo, grazie alle sue conoscenze pure in campo teologico, sia la corrente del misticismo che quella dello spiritualismo. Accademia di studi italo-tedeschi, Merano. Profondo conoscitore di SERBATI, promotore della fondazione del centro di studi dedicato a Serbati a Stresa. Una delle principali figure dello spiritualismo, a cui pervenne dopo i primi interessi per l'attualismo ed i successivi, più impegnativi studi sullo spiritualismo, anche interpretandolo in modo originale, delineando un particolare percorso di continuità che, rifferendo alla metafisica classica, perviene a concepire un'apertura del soggetto personale come creatur averso l'attualità assoluta dell'essere nell’integralità. E ricordato principalmente attraverso Ottonello. Saggi: “Agostino” (Morcelliana, Brescia); “L'Anima” (Morcelliana, Brescia); “Filosofia morale” (Bocca, Torino); Atto ed essere (Bocca, Torino); Interpretazioni rosminiane Marzorati, Milano); “Come si vince a Waterloo” (Marzorati, Milano); “La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei” (Cremonese, Roma); “Platone” (Marzorati, Milano); Filosofia e anti-filosofia (Marzorati, Milano);  Chiesa e civiltà (Marzorati, Milano); Critica letteraria (Marzorati, Milano); L'oscuramento dell'intelligenza (Marzorati, Milano); Studi sulla filosofia antica. Con un'appendice sulla filosofia medioevale (Marzorati, Milano); Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico-teologico Marzorati, Milano. L'Insegnamento della filosofia: atti del Convegno di studi, Messina (Peloritana, Messina); Ontologia triadica e trinitaria (Epos, Palermo); Atto ed essere (Epos, Palermo); Il magnifico oggi (Epos, Palermo); In Spirito e Verità (Epos, Palermo); La clessidra (Epos, Palermo); L'ora di Cristo (Epos, Palermo). Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G. C. Sansoni; Dizionario dei Filosofi (Firenze, Sansoni); Schiavone, L'idealismo, Negri, “Dall'atto all'integralità” (Forlì, Ethica);  Pignologni, Genesi e sviluppo del rosminianesimo, (Milano, Marzorati); Bologna, Quaderni del Giornale di Metafisica, Stresa, Rivista Rosminiana, Incontrare S., Venezia, Marsilio, Ottonello, “L'anticonformismo costruttivo” (Venezia, Marsilio); Shiavone, L'idealismo, Collana di studi filosofici rosminiani, Domodossola; Milano, Sodalitas, Ospitato su Bontadini e la metafisica. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. MICHELE FEDERICO SCIACCA    Filosofia e Metafisica    VOLUME I    MARZORATI - EDITORE - MILANO       FILOSOFIA  E METAFISICA    I due volumi di Filosofia  e Metafisica raccolgono le  pagine più impegnate e pro-  fonde che lo Sciacca ha  scritto tra il 1945 e il 1950  e segnano il passaggio dal-  lo «Spiritualismo cristiano»  alla «Filosofia dell’integra-  lità». In essi si possono leg-  gere saggi di rilevante inte-  resse teoretico come quelli  sul concetto di metafisica e  sull’ateismo, oltre all’altro  sull'esistenza di Dio, che or-  mai si allinea tra 1 testi clas-  sici della filosofia contem-  poranea.   Lo stile avvincente e chia-  ro, il vigore del pensiero in-  sieme profondo e cristalli-  no, l’unità dell’ispirazione,  il modo proprio dell’ Auto-  re di rendere attuali e vivi  problemi di sempre, fanno  che quest'opera, sistemati-  ca senza pesantezza, sta una  lettura appassionante e pro-  ficua.    Zursarax - $. Tommaso visita S. Bo-  naventura.    OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA    Volumi pubblicati:  I. L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120,  L. 1000.    2. Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224,  L. 1200.   3. Interpretazioni rosminiane, Il edizione riveduta e aumentata,  pag. 272, L. 2000.   4. L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000.   5. Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400.   6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata,  pag. 980, L. 6000.   8. La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180,  L. 1500.   9. Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500.   0. La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160,  L. 1300.   Il. In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500.   12. Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500.   13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen-  tata, pag. 478, L. 4000.   15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000.   16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300.   17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000.    Volumi in preparazione:   18. Soren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità.   19. La filosofia italiana, II edizione.   20. Il tempo e la libertà.   21. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia.  22-23. Platone, II edizione.   24. Studi sulla filosofia antica, Il edizione.   25. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione.   26. Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, Il edizione.  27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico.   29. Studi sulla filosofia moderna, III edizione.   30. Le mense di Cristo.    MICHELE FEDERICO SCIACCA    FILOSOFIA  E METAFISICA    Terza edizione riveduta e aumentata    Volume I       Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI  MILANO — via privata Borromei, 1 B/7       Proprietà letteraria riservata       © Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano    Stampato in Italia - Printed in Italy  1962       Tipo-Lito P. Pasquetto - Milano    INDICE    VoLume I    Dedica  Prefazione . .  Premessa alla seconda edizione .    Nota bibliografica    INTRODUZIONE    Parte PrIMA  FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA    Car. I. - FiLosoria.    I.  2.    3.  4.    5.    Saggezza greca e saggezza biblica .   La filosofia scienza «sui generis» e sua autonomia  dalle altre scienze ‘o   Astrattezza del dialettismo antinomico   La filosofia come ricerca della verità interiore e suo  esito religioso Lee   La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a    Dio    Cap, II. - « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? »    I.  2.    3.    4.    La filosofia come ricerca « perennis » della verità .   La filosofia e i suoi rapporti con la sua storia e la  scienza . . .   La filosofia come . metafisica. Essenzialità della filosofia  e inessenzialità delle scienze   Ancora sulla distinzione tra filosofia e scienza .    Cap. III. - FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE .    49    5I  56    61    69    70    73  76    81    PARTE SECONDA    CONCETTO DI METAFISICA  E SUA PROBLEMATICA INTERNA    Cap, I. - LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI    I.  2.  3.    4.    « Crisi » ed essenzialità della metafisica .  Metafisica e trascendenza. Le istanze dell’interiorità    La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro-  blemi della metafisica PIA    Gli esseri e l’Essere. L’Atto creatore .    Car. II. - ÎDISCUSSIONE INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA.    I.  2.  3.    PN »    Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni .  Questioni marginali .    Se hanno una metafisica anche le filosofie che la  negano    . Metafisica e trascendenza ‘i  . L’interiorità come l’opposto dell’immanenza .    Ultime precisazioni .    . Replica ad una replica .  . Ultima replica    Car. III. - CULTURA E TRASCENDENZA    Cap. IV. - CULTURA E METAFISICA    Cap. V. - Vi È UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?    Car. VI. - ESISTENZA E CONSISTENZA    I.  2.    o n da w    L’esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza .    L’incontraddittorietà dell’essenza e il problema è della  metafisica LL. ‘o    . Critica dell’esistenzialismo   . Esistenza e consistenza .   . L'essere e il problema teologico .  . Conclusione    pag. 89    105    170  179       Indice 7  VoLume II  PartE TERZA  ATEISMO E TEISMO  Sezione Prima  L’ATEISMO  Cap. I. - PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA.  I. Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine . . . . pag. 7  2. Abuso del termine ateismo. . . . . . ‘ » 9  Cap. II. - L’ATEISMO PRATICO.  1. Di alcune sue forme . . . ....0.0.» 15  2. L’inconsistenza dell’ateismo pratico . . . . . » 22  Cap. III. - L’ATEISMO TEORETICO.  1. Schema delle sue principali forme . . . . . n» 25  2. L’ateismo assoluto o dommatico . . . . +.» 26  3. L’agnosticismo . . . 0 .. » 29  4. Il fideismo come forma di agnosticismo . .. » 38  5. Il deismo . o . . ..0.0.0.. <. » 41  6. Monismo e panteismo . . . . . . <- . » 4  7. L’umanesimo ateo... ... . . . n 60  Cap. IV. - CRITICA CONCLUSIVA DELL’ATEISMO . . . » 70  Parte TERZA  ATEISMO E TEISMO  SEZIONE SECONDA  L'ESISTENZA DI DIO  Car. I. - POSIZIONE DEL PROBLEMA E I € DATI REALI ©) DEL-  L'IPOTESI « DIO ».  1. Definizione nominale di Dio e fondamento razionale  dell'ipotesi . . . . pag. 79  2. Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando  si pone l’ipotesi « Dio»... . .... » 84  3. L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos» . . » 87  4. Da quale dato reale è conveniente partire per provare  la verità dell'ipotesi « Dio» . . .. » 88    Indice    . Importanza dei « dati » psicologici » nella dimostrazione    dell’ipotesi « Dio » .    . La pregiudiziale critica da cui muove il problema del-    l’esistenza di Dio    . La realtà spirituale punto di partenza della dimostra.    zione dell’ipotesi « Dio »    Cap. II. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO ”:    2) DALLA VERITÀ.  Impostazione dei termini del problema    Gli elementi del giudizio e il problema della sua va-  lidità    I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione  nè indotti dall’esperienza esterna    Ragione e intelligenza: l’intuito fondamentale dei prin    cipî del giudizio  Il problema dell’origine dei principi del giudizio:    risposte fondamentali    Indubitabilità ed indistruttibilità della < verità dei prin-  cipî del giudizio    Elementi e formulazione della prova « dalla verità »  In interiore homine habitat veritas .    Cap. III. - CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA PROVA « DALLA    7.    VERITÀ ».    . Dio Primo Vero assoluto Ln  . Il principio di causa e le due forme di astrazione .    x    . La verità presente alla mente è appartenenza di Dio    senza essere Dio    . Critica costruttiva del principio di causa .  . Il non senso dell’ateismo    La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve-  ritas » e «ratio » . .    Partecipazione iniziale e finale .    Cap. IV - LE IDEE.    Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori  di Kant . . .    Pag.    92    95    %    107    115    118    120    126    128  135    138    149    153  156    162       Indice 9  2. L’Idea nell’empirismo inglese . . . . . . . pag. 167  3. Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e  validità del giudizio... . .. 0...» 170  Cap. V. - LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO.  l. Critica e precisazioni . . . . . . . » 177  2. Conoscersi ed essere conosciuti. . . . . . » 180  Cap. VI. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO »:  b) DALLA VITA MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE  DI BEATITUDINE.  I. Contraddittorietà dello scetticismo . . . . . . » 182  2. La prova dalla vita morale... . . .. . » 184  3. La prova dal desiderio naturale di beatitudine. . . » 186  Cap. VII. - BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI ONTOLO-  GICO E COSMOLOGICO.  I. La prova ontologica . . . » 194  2. La prova cosmologica . . . » 203  Cap. VIII. - L’IPOTESI PROIBITA . «+.» 212  Cap. IX. - RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESI-  STENZA DI DIO. 0... » 219  Cap. X. - LA CONVERGENZA TOTALE . . . . ... » 225  APPENDICE. - ÎL CONCETTO CATTOLICO DI LIBERTÀ DI PENSIERO » 239  INDICE DEI NOMI . » 247    Ai mici giovani dell'Università    di Genova e di Pavia       L’ illustrazione è opera del pittore fiorentino  Primo Conti.    La caravella dalle vele crociate, che attraversa le  Colonne d’ Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale  della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli  per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se  esso cammina e procede sorretto dalla fede nella    verità di Cristo.    PREFAZIONE    I più impegnativi e sistematici scritti raccolti în questo  volume sono il «condensato » dei due corsi universitari di  Filosofia teoretica, da me tenuti negli anni 1947-48 e I 948-49  nell'Università di Genova, elaborazione di idee maturate  nell'ultimo corso professato nell'Università di Pavia. La le-  zione — almeno per me — è la forma più efficace di comu-  nicazione e di silenziosa collaborazione: è sempre stato ben  poco quel che ho insegnato al confronto di quanto ho appreso  insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari  aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà, avrò esaurito la mia  capacità d'imparare insegnando e sarà giustizia e onestà che  scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco  (e direi in segno di riconoscenza) che il volume è dedicato  ai mici Giovani di Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un  altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori  di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di Dio, nella fase di  elaborazione e in quella di revisione, ho chiesto il loro  ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise  obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di ciò ringrazio  i Proff. Antonelli, Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi,  tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici colla-  boratori nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate alla  perennità dello spirito.   Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai lontani, pub-  blico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’or-  ganicità del volume non abbisogna di essere giustificata:    14 Filosofia e Metafisica       l’unità dell’ispirazione (almeno questo è il mio avviso)  trapela dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali  che lo sostanziano, sempre presenti, tornano con una inst-  stenza martellante. Ma, come che sia di ciò, resta il fatto  che pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici, invece  di quella Filosofia dell’integralità, che prometto da alcuni  anni e la cui pubblicazione non ritengo prossima. Il senso  di responsabilità mi obbliga manzonianamente a pensarci  sopra, a meditare ancora su quella che considero la siste-  mazione definitiva del mio pensiero, per minima che potrà  essere la sua importanza.   Ma, in mancanza diciamo pure di meglio, anche le pa-  gine qui raccolte forse significano qualcosa.   Innanzitutto ho cercato di eliminare un equivoco, a cui  i miei precedenti scritti potevano prestarsi: non dall’imma-  nenza alla trascendenza, ma dalla presenza in noi di qual-  cosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in sè:  da Dio come è presente alla nostra mente a Dio in sè nella  sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La  prima posizione, per la sua equivocità, andava definiti-  vamente chiarita e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa  può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse  un passaggio obbligato per chi proviene dall’idealismo tra-  scendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto  d'arrivo definitivo, fondato criticamente e sondato fino tin  fondo. Ma l'abbandono di ogni compromesso con l’idea  lismo trascendentale, in special modo con l’attualismo del  Gentile, mi ha consentito di distinguere nettamente le sue  due forme fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed  oggettivo e dell'idealismo immanente e soggettivo, quest’ul-  timo negazione della verità del primo, sopruso che il pen-  siero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta,  per cui problemi, esigenze e principî dell’Idealismo trascen-  dentistico, trapiantati nel campo sterile dell'immanenza as-  soluta, trovano la loro morte proprio nella soluzione imma- è    Prefazione 15       nentistica. Mi è sembrato e mi sembra necessario — tenendo  conto del processo di nascita, crescita e dissoluzione del pen-  siero moderno — riscattare problemi, esigenze e principi dal-  la illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella  verità dell’Idealismo trascendentista, fatto più ricco, ma-  turo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito  di Cartesio alle posizioni più recenti della filosofia contem-  poranea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo tradizio  nale di essenziale ispirazione platonico-agostiniana nel vivo  della problematica della speculazione moderna non per adat-  tarlo ad essa — che sarebbe ucciderlo — ma quale elemento  risolutore della sua dissoluzione e soddisfacente le sue esigenze  critiche. Così, a nostro avviso, la « metafisica della verità »,  propria dell’Idealismo oggettivo, risolve in sè le due opposte  metafisiche « dell'essere » e « del pensiero », conservando al  pensiero e all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò  ritengo di rendere un buon servizio al pensiero moderno e a  quello tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla  filosofia, di avanzamento nella via della verità. Evidente-  mente le pagine qui raccolte non presumono di avere rea-  lizzato questo programma, la cui attuazione è solo all’int-  zio; ma mi pare che in esse l'impostazione vi sia, ed è pure  qualcosa.   Ancora su un altro punto desidero richiamare l’atten-  zione di chi leggerà questo libro. Spesso i miei precedenti  scritti sono stati accusati (dai tomisti) di esigenzialismo:  «esigenza» della metafisica e della trascendenza, ma non  .ancora loro « fondazione ». Di questa critica ho tenuto conto  perchè ha la sua parte di verità. Credo che ora non mi si  possa più muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza  efficacia un luogo comune, perchè mi pare di avere abban-  donato la posizione esigenziale ed essere passato alla fon-  dazione razionale della metafisica e della trascendenza, pur  senza sacrificare (al contrario) quell’apporto della vita spi-  rituale nella sua integralità, della quale la ragione è un    16 Filosofia e Metafisica       elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta  e da cui non va isolata. Mi sembra che così il pensiero mo-  derno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una con-  clusione che non può più ignorare: la trattazione più  teoretica e critica impone, nella sua razionalità autentica e  concreta, la verità insopprimibile della metafisica e della  trascendenza. In altri termini, chi scrive ha l ambizione di  poter dimostrare che proprio la più rigorosa istanza teoretica  e la più intransigente esigenza critica, se spinte fino in  fondo dalla logica che governa e guida la vita dello spirito,  debbono necessariamente concludere alla fondazione di una  metafisica teistica, la sola vera e perciò la sola autentica-  mente razionale e critica. Queste nostre conclusioni, per altri  motivi, valgono anche contro quei pensatori contemporanei  cristiani o cattolici che credono di poter accettare con alcune  correnti odierne la svalutazione e quasi la inutilità (quando  non la nocività) della ragione e di salvare ugualmente la va-  lidità della ricerca filosofica facendo della filosofia dell’ « est-  genza », del « cuore », della « fede », del « mistero », del  « sentimento » ecc. e riducendo la metafisica alla psicologia  o ad una specie di fenomenologia dell’esistenza. Le stesse  conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0  cattolici che credono basti contrapporre il pensiero tradi-  zionale a quello moderno e condannare questo per avere  partita vinta e instaurare un nuovo clima speculativo; op-  pure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della  filosofia, sacrificano alla ragione la ricchezza della vita spi-  rituale, finendo così per isterilire le capacità della ragione  stessa. A noi sembra invece che la filosofia vada assunta  in tutta la sua pienezza, che è la stessa della vita dello spi-  rito. Crediamo che queste affermazioni siano sufficienti per  distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da po-  sizioni di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità  innegabili con la nostra), come pure definitivamente da.  ogni forma di immanentismo ed anche, infine, da un razio-    Prefazione 17       nalismo che impoverisce la stessa ragione con la pretesa di  garantirne la purezza e il primato.   Le pagine di questo volume sono dunque impegnative:  chi le ha scritte può chiedere pertanto che chi legge, prima  di accettarle o respingerle, s'impegni a sua volta almeno su  quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significa-  tive. Chi le ha scritte si è «compromesso » e l’ha fatto in  modo di « compromettere » chi le legge. Direi che le pagine  sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete:  vogliono entrare con violenza. E ciò perchè chi le ha pen-  sate e scritte esige da chi legge una risposta.    M. F. Sciacca    Genova, Università, 10 luglio 1949.    PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE    Nell’ordinare le mie « Opere complete » pensavo di ri-  stampare questo lavoro col titolo L'esistenza di Dio e d’inse-  rire i restanti scritti in qualche altro volume della Collana.  Ho dovuto rinunziare al progetto: non si può sopprimere  un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contem-  poranea ed ha suscitato appassionate, anche se non sempre  intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una let-  teratura critica di mole considerevole, alla quale si sono  aggiunte le traduzioni della parte centrale in spagnolo (La  existencia de Dios, Tucumdn, Richardet, 1955), francese  (L’existence de Dicu, Paris, Aubier, 1951), inglese, par-  ziale (in Modern Catholic Thinkers, London, Burns and  Oates, 1960); ancora in spagnolo degli altri capitoli (La filo-  sofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires, Troquel,  1955, 2° ediz., 1959) e dell’« Ateismo» (Madrid, Miracle,  1954), tradotto anche in inglese (Formville, Virginia).   Ma questa seconda edizione non è una ristampa della  prima; infatti, il contenuto è stato riordinato în altro modo:  il breve saggio su «Il concetto cattolico di libertà di pen-  siero » è il solo rimasto nell’Appendice; sono state aggiunte  pagine nuove e il saggio su « L'ateismo », oltre al seguito  della discussione con F. Olgiati, sicchè il libro ha dovuto  essere diviso in due volumi.   L’opera, anche nella veste attuale, non fa parte del corpus  della « Filosofia dell’integralità », ma segna il passaggio dallo    « spiritualismo cristiano » a quest'ultima posizione, di cui,    20 Filosofia e Metafisica       come è noto, la prima formulazione è L'interiorità oggettiva.  Essa, dunque, da un lato, presenta ancora incertezze ed im-  precisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva, est-  stenza, realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati,  elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non criticamente ri-  pensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una cri-  tica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tema-  tica rinnovata ed arricchita st trovano nei volumi posteriori;  pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere  un altro libro, non mi restava che conservare la stesura di  dodici anni fa, limitandomi ad una revisione della forma e  ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto,  mi è stato possibile, servendomi di note che risalgono al 1951,  inserire nella terza parte aggiunte e precisazioni senza alte-  rare il contenuto dell’opera, che, com'è, segna una tappa nello  sviluppo interno del mio pensiero.    M. F. Sciacca  Griesalp (Svizzera), luglio 1961.    N.B. La terza edizione, meno qualche ritocco nella forma,  riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi.    M. F. S.    NOTA BIBLIOGRAFICA    Volume I  Introduzione, « Giornale di Metafisica », 1, 1946.    Parte I - I. Filosofia, « Humanitas », n. 1, 1946. — II. Come biso  gna concepire la filosofia?, testo francese, « Revue de Synthèse», lu-  glio-sett. 1947 (XXI, Nouvelle Série), testo italiano, « Humanitas »,  n. 5, 1947. — III. Filosofia e vita spirituale, relaz. letta al « Congreso  Internacional de Filosofia Suirez y Balmes » di Barcellona, 7-12 ott.  1948, Actas, vol. II, pp. 925-929, Madrid, Instituto « Luis Vives » de  Filosofia, 1949 e « Humanitas », n. 2, 1949.    Parte II - I. La metafisica e i suoi problemi, « Giornale di Meta-  fisica », IV-V, 1947 e « Philosophia », n. 10, 1948, Universidad Nacio-  nal de Cuyo, Mendoza. — II. Discussione intorno al concetto di meta-  fisica, « Giorn. di Met. », IV, 1949; III, 1950; I, 1951. — III. Cultura  e trascendenza, testo francese, « Études philosophiques », numero spe-  ciale, 1948; testo italiano, « Humanitas », n. 9, 1948: testo spagnolo,  « Revista de Filosofia », abril-junio, 1949. — IV. Cultura e metafisica,  « Humanitas », nn. 8-9, 1949. — V. Vi è una filosofia della storia?,  Procedings of the tenth International Congress of Philosophy, North-  Holland Publishing Company, Amsterdam, 1949, vol. I, fasc. II, pp.  989-991 e « Humanitas », n. 7, 1948. — VI. Esistenza e consistenza,  « Giorn. di met. », n. 1, 1947 e « Atti del Congresso Internaz. di  Filosofia », vol. II, l’Esistenzialismo, Milano, Castellani, 1948.    Volume II    Parte III - I. L'ateismo, nel vol. Dio nella ricerca umana, a cura  di G. Ricciotti, Roma, Coletti, 1950; trad. spagnola, Madrid, Mira-  cle, 1954; trad. inglese, Formville (Virginia), 1962; — II. L'esistenza  di Dio, « Giorn. di Met. », nn. 1, 2, 3, 1949.    APPENDICE. - Il concetto cattolico di libertà di pensiero, San Se-  bastiin, 1948, a cura del Comitato delle « Conversaciones catélicas  internacionales », e « Humanitas », n. 10, 1948.    INTRODUZIONE    Ogni guerra, per la nazione che l’ha combattuta, segna.  sempre la fine di qualcosa che era e il cominciamento di  qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha propor-  zioni gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mon-  diale e si combatte in nome di principii la cui sconfitta  o vittoria importa una nuova epoca del mondo, come quel-  la che da qualche mese si è conclusa ('), essa segna la fine di  ordini e di sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di  ideali e di miti e nello stesso tempo l’inizio di nuove forme  di vita nazionali ed internazionali, continentali ed intercon-  tinentali. Anche la filosofia, che è vita concreta dello spirito  (proprio per l’universalità e la necessità della verità non con-  tingente ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che  estranea allo scorrere del tempo e alle nuove esigenze che  nascono al posto di altre che declinano o sono sommerse,  si trova di fronte a nuovi compiti. Essa — proprio perchè  sicura che i cangiamenti esteriori sono spesso il segno di  profondi mutamenti spirituali — ha il dovere e il diritto di  insediarsi, pur senza fare della politica o dell’economia, alla  base dei nuovi problemi politico-economico-sociali, anche  contro l’intelligenza di quanti credono che essi siano solo  una pura e semplice questione di politica o di economia.  Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della  discussione e della lotta problemi e soluzioni, ipotesi e prin-    (1) Scrivevo nella primavera del 1945.    24 Filosofia e Metafisica       ci pii, affinchè l’eterna verità infinita venga più profonda-  mente sondata e più chiaramente configurata in nuove e  sempre parziali prospettive, anch'esse incomplete come le  precedenti, ma di queste meno inadeguate e più compren-  sive. La storicità della filosofia è figlia della Sofia, che sto-  ria non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò anche  del filosofare. Non la ricerca o il processo storico condizio-  nano la verità, ma la Verità condiziona e fa che esistano e  la ricerca e il processo.   Una nuova rivista di filosofia (?), nel momento in cui  per l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non  ha bisogno di giustificare la propria ragion d'essere; spe-  cialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più  accreditate riviste filosofiche o hanno già da alcuni anni  esaurito la loro funzione e perciò rappresentano un modo  di filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi  sorpassate, comunque esprimono quel che alla filosofia e al-  la cultura in generale è già acquisito e come tale appar-  tenente alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad  esse conferivano con la loro personalità, ben definita e ri-  conosciuta, indirizzo ed autorità.   In questi lunghi ed atroci anni di guerra la filosofia, co-  me qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’im-  mane conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso  trepidante per i destini della vita dello spirito, per l’esi-  stenza stessa del diritto al pensiero, che è essenzialmente  diritto alla libertà. Trepidante, ma fiduciosa nella peren-  nità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo; perciò  ha atteso pensosa e raccolta: non ha disperato e dunque  ha potuto continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma  ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel nostro spirito  gli orrori della morte; superstiti di uno sterminio senza  precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come    (2) Il «Giornale di Metafisica » (Torino, Società Editrice Internazionale),  presentato dalle pagine qui ristampate.    Introduzione 25       capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per anni  sotto l'incubo della morte e tra tanti morti che assiepavano  e rendevano oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi  superstiti abbiamo gran desiderio, brama di vivere. Ma, per  vivere veramente da uomini, è necessario che facciamo  violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spiri-  tuali gli istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazio-  nale valutazione ha portato l’umanità alla guerra di ster-  minio, all’ebrezza atroce e crudele del sangue, l’ha de-  gradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze  primitive ed elementari della vita animale ancora oggi,  malgrado tutto, sembra ribellarsi al rispetto dei valori spi-  rituali e alla disciplina di un ordine morale. Perciò noi so-  steniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posi-  zione) che il desiderio di vivere — e con esso il genericissimo  concetto di « vita» — venga qualificato come desiderio di  vivere nello e per lo spirito, quasi di spirito; che lo spet-  tacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla  furia, dalla violenza e dall’odio sia al più presto cancellato  dai nostri occhi e soprattutto dai nostri cuori e dalle no-  stre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone colpite,  oltre che dalla guerra, dal cozzo violento e a volte brutale  delle ideologie politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati  di un partito e quelli del partito opposto; i sopravvissuti co-  vano nel loro cuore rancori, odii, propositi tenaci di ven-  detta; sedimenti si accumulano nelle loro coscienze; la sete  di sangue vendicatore repressa e non sanata aumenta; potrà  — di nuovo! — rompere gli argini e provocare nuove guerre  e nuovi sanguinosi e disordinati sconvolgimenti. La corru-  zione dell’organismo sociale minaccia sempre l’esistenza di  una società. Ogni coscienza che non sa oggi perdonare, che  non lotta contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed  affermarsi coscienza autentica, per vincere il gelo della ven-  detta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la pau-  rosa responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella    26 Filosofia e Metafisica       di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace nel perdono e  conforto nel lavoro e nel bene è uno dei compiti alla rea-  lizzazione del quale ogni forma di umana attività deve con-  tribuire e più delle altre la filosofia, che, come abbiamo  detto, è la vita stessa dello spirito. Si tratta di ricostruire,  d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle  rovine morali e religiose (incommensurabilmente più gravi  di quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima,  durante e con la guerra (*), si sono satanicamente accanite  a seminare a piene mani. In questa santa battaglia di ri-  marginazione delle ferite spirituali, ciascuno di noi, quale  che sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali  che siano la sua professione e il suo mestiere, i dolori e i  lutti che porta dentro di sè, ha il dovere di prendere e te-  nere il suo posto, di restarvi fedele come umile combattente  della verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo;  farla trionfare a lui non compete.   Ritrovare noi stessi; aver ragione del nostro individuali-  smo per affermare la nostra vera personalità che è, come  tale, negazione degli egoismi individuali o familiari, di clas-  se o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra persona,  prima di reclamarla come un diritto, dobbiamo sentirla co-  me un dovere e perciò come un atto morale; ma non vi  è moralità senza legge, senza una norma universalmente va-  lida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi, consistere  come persona. Solo l’adempimento del dovere conferisce  il diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del do-  vere e la dedizione all'adempimento di esso sono la condi-  zione necessaria e sicura di qualsiasi altro diritto, che, senza  dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esal-  tatore dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge  e ogni libertà conculca. Libertà della persona significa libertà  dall'egoismo individuale e sociale dalle mille facce, o non    (3) E, purtroppo, bisogna dire anche dopo la guerra.    Introduzione 27       significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la pro-  pria persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoi-  smi dividono, la legge unifica; la materia rende impene-  trabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli altri, è la via mae-  stra della comunicazione nella verità; le passioni accendono  passioni ed accentuano le distanze, la virtù tempera, contem-  pera ed avvicina; l’interesse cristallizza le menti e raffredda  i cuori, l'amore rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue  versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e del-  l'ingiustizia non può e non deve essere stato versato per per-  petuare questi flagelli, che tutti concordemente ed unanima-  mente diciamo di condannare e di voler tenere lontani.  Molti giovani oggi tornano dai campi di battaglia o di  concentramento, dalla prigionia o dalle carceri, dai nascon-  digli e dalle montagne. Quel che hanno visto soffrire e sof-  ferto non lo sapremo mai: il racconto delle sofferenze mo-  rali e fisiche ha poco senso per chi non ha sofferto e visto  soffrire, tanta è l’intimità e la personalità del dolore, come  di tutti gli umani sentimenti. Quel che è passato per le loro  menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non trasmissibile;  è necessario però che diventi capitale del loro spirito, ric-  chezza che produca nuova ricchezza. Lo esigono loro stessi,  se è vero che hanno combattuto per un mondo migliore,  se la serietà, la pensosità e spesso la serenità dei loro volti  sono il segno di serietà e serenità interiori; lo esigiamo noi  tutti che con e per loro vogliamo contribuire alla rinascita  della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orien-  tamento in tutti profondo ed urgente; lo esigono soprat-  tutto quanti (quanti!) non sono tornati, quanti nella fossa  hanno seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sco-  nosciuti ed inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per il  mondo a cui non appartengono più, per la terra che li co-  pre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non  si consola con altro male; chi è caduto non vuole che la sua  morte sia resa sterile da altra morte. Il chicco di grano    28 Filosofia e Metafisica       che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi nel suo germo-  glio; i morti di ieri esigono da noi — e abbiamo il dovere  di rispondere al loro appello — che siano tanti semi di fru-  mento e non di zizzania, da cui dovrà germogliare l’uma-  nità di domani, cioè dello spirito, nostra realtà dignità gran-  dezza, non della materia, che, da sola, è la nostra anima-  lità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio,  della ferocia e della barbarie, loro, che più di tutti avreb-  bero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che  un simile diritto sia riconoscibile all'uomo), siano i pionieri  di un mondo di pace e lavoro, di un’umanità che sappia  trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in  un lavacro di riscatto e purificazione.   Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e bisognosi di  orientarsi; hanno sete di giornali, riviste, letture, pro-  grammi, che, in verità, non si manca di offrir loro, tanto  è in tutti il bisogno di fare e dare alcunchè. Che cosa noi  offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore,  il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che è filosofare,  filosofando noi stessi. Non presentiamo una filosofia bella  e fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da  sè, ma un modo di concepirla, un metodo di filosofare, che  valga come metodo di vita e di condotta. Essi tornano non  con problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di  carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo dare in cambio  formule confezionate in serie, valide per tutti e perciò non  buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime pro-  blemi ed -esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espres-  sione dello spirito umano e non di estraniarsi dall’uomo,  che la fa essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita  perenne. Il pensiero, come la ragione, è universale per-  chè leggi universali governano la sua attività; ma il pen-  siero e la ragione non esistono come enti impersonali ed  astratti, bensì come pensiero e ragione degli uomini, di  ogni singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è.    Introduzione 29       la negazione dell'umanità della ragione e perciò è inuma-  nità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è  chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non  la sola ragione, quasi staccata dal resto di sè, ma tutto se  stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento  più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello  spirito. Da essa — col concorso della religione, dove trova  il suo completamento — ci può venire una rigenerazione  verace di tutto l’uomo e un rinnovamento profondo della  vita; da essa, che, quando si scruta fino al midollo e si sco-  pre come fondamentale verità e come apertura al Dio ri-  velato e incarnato, non è più inutile somma di esperienze  e di fatti scientifici, politici, sociali, economici ecc. ma  loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben ele-  vato; dunque, è altresì atto di supremo coraggio, la filo-  sofia. Filosofare è guardare in faccia noi stessi e le cose  per leggervi dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare,  quel che noi significhiamo e le cose significano; è cercare  e trovare la significanza del creato, il senso assoluto del  suo contingente esistere; perciò è concludere, senza chiu-  dersi in una conclusione definitiva, contro ogni aperta o ma-  scherata inconcludenza del mondo, banale o sublime che sia.   Una filosofia così concepita, che pone in prima linea la  validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come  suo oggetto la verità che non nasce e non muore; che, come  vedremo, è filosofia della trascendenza teologica razional-  mente fondata; che propugna un integrale realismo, che è  assoluto spiritualismo, da un lato non teme l’accusa di psi-  cologismo, di riduzione del filosofare a descrizione dei fe-  nomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad inti-  mismo soggettivista pre o afilosofico; dall’altro, accetta la  problematica che scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e  viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi,  speranze. Dare anima e volto umano ai problemi ed alla    % Filosofia e Metafisica       verità, che trascende gli uomini e le età perchè alla contin-  genza sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con  la luce inestinguibile del vero; inverare il fatto, affinchè viva  nell’eterna verità ed esistenziare il vero, affinchè si faccia  la nostra verità umanissima: questa è la filosofia.   Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto fino al sa-  crificio significa che, anche nelle ore più oscure, l'umanità  non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero  finito per vincere; ma non c’è speranza senza fede; gli uo-  mini, dunque, hanno avuto fede. Anche la filosofia è spe  ranza, quella di trovare la verità che chi filosofa cerca:  chi cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede  ancora il vero, ma ne è posseduto fin dall’atto che lo  cerca: chi filosofa è chiamato dalla verità, ne ha la vo-  cazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa  e nei suoi disegni, anche nonostante tutto. Anzi, proprio  quando il meccanismo delle passioni sembra invincibile, ci  si rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione  meditata alla situazione effettuale e suo superamento, prende  la spinta dal riconoscimento deciso e preciso che solo un  fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita;  è fede nella perenne validità del principio, e questa fede è  la molla del filosofare. Non è credenza, preconcetto e dogma-  tica affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di  comunicarsi attraverso la ricerca per farsi scienza. Senza  di essa la filosofia non sarebbe mai nata: le menti ed i  cuori degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dub-  bio, senza speranza. Ragionar molto, è vero; ma anche sen-  tire molto: un pensiero robusto e ferace è ad un tempo  figlio della ragione e della fede. Proprio perchè ricerca e in-  sieme possesso iniziale della verità, la filosofia non è scet-  ticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita;  perchè non possesso pieno, non è dommatismo ed intransi-  genza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, di-  namismo spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la    Introduzione 38       scoperta della verità stessa, grido di eremita che trascina  popoli interi.   Filosofare, dunque, è nutrire sempre più di fede la filo-  sofia, nutrirla d’interiore certezza e di razionale fiducia nel-  l’essere della Verità che è anche di ciascuno di noi, il nostro  immortale Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, do-  po tanti crolli di idoli e miti, è innanzi tutto bisogno di fede,  sete di credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cer-  care, aspirare. Così è, specie quando circostanze straordi-  narie pongono di fronte a loro stessi uomini e popoli, li ri-  velano nella loro interiorità profonda, in quel che è il loro  consistere, che si nasconde, indomabile, al di sotto del loro  fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca  e così vivo calore di fede siano bene istradati, cioè siano au-  tentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile aspirazione,  inconcludente andirivieni, pericolosa imboccatura di vicoli  ciechi; urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o ina-  ridirla nella sfiducia, a cui segue l’indifferenza, morte dello  spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeg-  giamenti che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in  un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga.  fiamma limpida e illuminante; affinchè non sia disordinata  crescenza, ma ricchezza fondata su principî e da essi sorretta e  guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il  cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù vizi e i vizi virtù,  quel gran male con cui Tucidide caratterizza la mutata e  corrotta società di Atene alla fine della guerra del Pelo-  ponneso.   Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento intellettuale  e politico d’Italia fu preparato e nutrito da una fede pro-  fonda e robusta, che non conobbe scoramenti e disarmò le  smentite; fede saldissima nei destini della Patria divisa ed  oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili  dello spirito, negli ideali più nobili di una umanità mi-  gliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta inte-    32 Filosofia e Metafisica       ressi ed egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche  della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata da Cristo, fonte  d’ogni progresso e d’ogni civiltà, in quanto sorgente e  legge di salute. Antonio Rosmini e il « Rosminianesimo »  (indichiamo con questo nome il movimento dello spiritua-  lismo italiano della prima metà dell’Ottocento, che dal Ro-  veretano ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran  fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filoso-  farono. Noi oggi, come i nostri progenitori di ieri, abbiamo  una gran fede nei destini dell’umanità, proprio perchè ab-  biamo una gran fede nei disegni della Provvidenza, pro-  motrice e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi figli.  L’anima di verità dello spiritualismo italiano dello scorso  secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia:  questioni di ordine pratico e non filosofico, l’avvento del  positivismo prima e l’affermarsi del neohegelismo nel primo  quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il pro-  cesso, anche se alcuni — e positivisti e neohegeliani — ab-  biano detto o creduto in buona fede di continuarlo.   Oggi è necessario liberare lo spiritualismo da alcune in-  terpretazioni, che riteniamo tendenziose ed erronee e di pro-  muovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto in  cui fu rotto per riannodarlo ai fili della nostra vita di uo-  mini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per conti-  nuare e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non  si ripete. Imparare significa accrescersi ed accrescere, riela-  borare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua e  si rinnova la vita degli altri nella e con la nostra propria  vita. La dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i  limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in  quanto è anche il nostro nuovo, personale, attuale filosofare;  ci impegna non per quel che il passato ha di caduco ed è  passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente  vivo vi è in ogni filosofare che è stato veramente la passione di  un’anima e, in questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi    Introduzione 33       tutta una nazione. La tradizione è indispensabile alla filosofia,  come a qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo  che abbiano una storia, ma dev'essere lievito, non peso  morto; tradizione rivissuta da noi, in modo che diventi il  nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi.    * * *    Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, del-  l’universale; come scienza, deve essere pura da ogni ele-  mento soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispec-  chiare l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza  di spazio e tempo: la verità nella sua oggettività è co-  mune a tutti gli esseri razionali e per tutti uguale in ogni  epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è  chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli elementi sogget-  tivi, elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e se-  vera; far tacere tutti quei sentimenti che possono essere an-  che individualmente certi o quelle soluzioni che si pre-  sentano anche belle edificanti confortatrici, ma che non so-  no, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè ogget-  tivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare i propri pro-  blemi e le proprie soluzioni con le circostanze contingenti di  un determinato momento storico e di non fondarsi su di esse.   C'è molto di vero in questo modo millenario, glorio-  sissimo e nobilissimo di concepire la filosofia e l’oggetto  della sua indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse  scienza dell’essere e la verità oggettiva e realissima, ante-  riore ad ogni ricerca, Verità, anche se la filosofia non fos-  se mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non  esistessero massimi problemi, non avrebbe senso parlare  di filosofia, di metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggetti-  vità della verità, che è prima dopo e indipendentemente  dal pensiero che la cerca e conosce, non esclude affatto la  personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma  è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in astratto una astrat-    34 Filosofia e Metafisica       ta verità, ma il singolo, questo o quel filosofo, cerca le  verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dal-  la ricerca filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo  o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La  pura oggettività ed universalità, che mettono in parentesi il  soggetto che cerca, sente e pensa, non appartengono alla fi-  losofia nè ad altra forma di umana attività. Comnoscere  la verità significa sforzo di penetrazione, scoperta di quel  che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo  « specchio » tersissimo è freddo ed inerte, indifferente al-  l’immagine che riflette, al suo riflettersi e al suo sparire;  copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quan-  to più l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro.  Chi cerca, invece, non è indifferente alla verità — conoscere è  possedere —; non pensa ad altro, ma al contrario, non pen-  sa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale partecipa-  zione ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di  possesso e d’appropriazione, di meità, direi, della verità uni-  versale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè per-  chè la scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma  nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla  e quando la possiedo, la ho come mia verità, come /a ve-  rità che è mia e mi costituisce. Una la verità contempora-  neamente presente nelle innumerevoli coscienze che furono,  sono e saranno: universalissima e personalissima al tempo  stesso. Non si tratta soltanto di quella soggettività che è  riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la  matematica (il Poincaré, com’è noto, distingue i matematici  in due tendenze: quelli che, guidati dalla logica, procedono  per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizio-  ne, per sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità  dei metodi, dei modi particolari di procedere nella scoperta del  vero e nella sua sistemazione, ma di una soggettività più  profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si trat-  ta, infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione -    Introduzione 35       dell’uomo intero, nell’atto che filosofa, alla verità, per cui  questa — e nel momento della ricerca e in quello della sco-  perta — aderisce interamente al soggetto filosofante, suona  per la sua mente e per il suo cuore con determinati, parti-  colarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo  riempie di gioia, lo innova, come dice Agostino. L'uomo apre  un nuovo spiraglio sull’infinita verità; e — come il pri-  gioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettata-  mente, è rischiarato dal sole — chi «vede» saluta e sor-  ride alla luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo  è il lavoro della ricerca, sua la gioia della scoperta, sue le  ansie e le esitazioni, suoi i dubbi e le angosce, sua la pro-  spettiva dalla quale si è posto per cogliere un aspetto del-  l’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è madre  del filosofare, ma le vedute di e su di essa son geniture del-  l’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si allegra  d’esser figlia del suo figlio, il pensiero, che certo, non la par-  torisce, ma, dalla verità fecondato, partorisce; tale gestazione  è appunto il filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie;  perciò il pensiero, che è fecondità fecondata e fecondatrice,  conosce il dubbio e la speranza, il sorriso e il pianto. La verità  sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e  cerca; assume essa, divina, volto anima espressione umane.  È l’umanità perenne della filosofia, la personalità di cui  essa è gelosa.   Perciò noi, contrari ad ogni forma di soggettivismo, che  vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza  l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto di personale vi  è nella ricerca filosofica, per la quale la verità si fa nostra  senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con  esso; contrari ad ogni forma d’individualismo siamo per  la personalità della filosofia, in quanto nessuna forma d’im-  personalismo riescirà mai ad eliminare la persona, sogget-  to del filosofare; avversari di ogni riduzione della filo-  sofia a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora    36 Filosofia e Metafisica       il problema ontologico e schierati per la centralità del pro-  blema dell’essere, ci opponiamo ad una concezione pura-  mente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo con-  trari ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’in-  telletto, alla riduzione del conoscere alla pura intuizione  immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo a-  stratto e geometrico razionalismo, che non tien conto del-  l’umanità del filosofare, dei diritti del sentimento, delle  ragioni del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano  sapere. Difensori della scientificità della filosofia, non tol-  leriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qual-  siasi scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo  che precluda l’apertura del filosofare scientifico e razionale  ad una verità metarazionale e superscientifica. La « Scien-  za », onnipotente ed onniveggente divinità, che tutto risolve  ed ogni mistero svela, è un idolo nefasto, che annulla, con  paurose confusioni e gran danno, le differenze qualitative  tra le varie forme di attività spirituale e sovverte la stessa  natura razionale dell’uomo nel momento stesso che ne de-  creta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspet-  to particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente  come suo scopo essenziale l’approfondimento dello spirito  nella sua interiorità e nei suoi rapporti con il mondo ester-  no, è ancora una forma di cosiddetta scientificità della filo-  sofia che non possiamo accettare, in quanto tende a limi-  tare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è  sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione unica. La co-  noscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che  pur possono rendere segnalati servigi alla speculazione, non  possono assorbire o sostituire la filosofia, il cui compito prin-  cipale è di far acquistare all'uomo una sempre maggiore  consapevolezza di sè e della « gravità metafisica » della sua  destinazione, il senso della sua esistenza e della sua auto-  nomia, di dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’e-  ternità e non d’inabissare lo spirito nel divenire temporale.    Introduzione 37       Soltanto così l’uomo, a mano a mano che sonda le sue pro-  fondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente e  principio dell’intelligibilità e del mistero. Perciò noi, nello  stesso tempo che accettiamo il concetto della filosofia come  scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradi-  zione che ha secoli di autorità e testimonianze antichissime,  e respingiamo le più recenti riduzioni di essa a psicologia, a  gnoseologia pura, a metafisica del pensiero immanente, a  pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a me-  todologia della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci  dichiariamo pronti ad accettare quanto di vero e vitale ha  il pensiero moderno e contemporaneo, solleciti di non far  nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di por-  tarci indietro di molti secoli verso forme di realismo e d’in-  tellettualismo, che è doveroso e proficuo rivedere — nell’in-  teresse stesso della verità del realismo — spalla a spalla, in  una lotta serrata ma sincera e non ostile, con un pensiero che  da Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che im-  pongono rispetto e meditazione profonda, scevra da pre-  concetti e prevenzioni, senza intolleranze premeditate o  dogmatismi precostituiti. Piuttosto che ritornare a quanto  ha di sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incon-  tro a quanto ha di meglio il presente: radicati nella tradi-  zione, vogliamo pensare oggi per il futuro.   Questa nostra maniera di concepire la filosofia ci porta  a cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, ap-  parentemente opposti: il personale e il sociale. Non solo  l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è,  diciamo così, la elaborazione scientifica dell’altra. La sua  universalità è veramente tale quando include la con-  cretezza dell’intuizione: universalità, difatti, non significa  affatto astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è  anche la mia verità espressa in un concetto universalmente  valido. Concetto significa sintesi, e la sintesi è una veduta  che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammen-    38 Filosofia e Metafisica       tarie vedute individuali. Non vi è pertanto verità sociale, va-  lida per gli altri, che non sia o non sia stata prima verità  intima, personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo  — se è davvero verità e coglie ed esprime una nota od un  accento dell’umano pensiero — anche quando diventa so-  ciale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti,  per cui è verità, la riconosce e rifà sua, intima personale  verità. Altrimenti è formula morta, informazione estrinseca,  curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spi-  rituale. La verità « pubblica » è davvero tale quando, al tem-  po stesso, è verità « privata », di ciascuno, quando ogni  singolo la riconquista e possiede e vive come assoluta-  mente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la pre-  senza dello stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze  singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna  di esse all’istessa verità. Forse in nessun’anima, come in  quella del pensatore solitario, è tanto presente l’umanità  di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pen-  sosa ed operosa; diciamo della solitudine, non dell’isola-  mento.   L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è riscoperta ed  accettata da un’anima, le dona e l’arricchisce. Solo così c’è  commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno  di noi, ogni mente, è industria di idee; altrimenti gli uo-  mini commerciano e scambiano parole senza contenuto, for-  mule senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono  le epoche, cosiddette di decadenza della filosofia o afilosofi-  che, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla sanno  mettere a profitto; in esse la verità ha solo l’apparenza della  socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dal-  l'intimità e dalla personalità del vero nella sua oggettività.    * * *    Poco più di un anno dopo la fine della guerra ’14-18,  Giovanni Gentile nel « Proemio » premesso al primo fasci-    Introduzione 39       colo del « Giornale critico della filosofia italiana » così scri-  veva: «oggi noi vogliamo un idealismo storico o attuale,  uno spiritualismo antiplatonico e immanentista ». Molti  giovani, che la guerra avevano fatto e vissuto, sfiduciati del-  l’ambiente filosofico e culturale del momento, si orientarono  verso la nuova rivista. Durò poco; il « Giornale » continuò a  vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e  s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico o attuale, anti-  platonico e immanentista, non era la filosofia che rispon-  deva alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che han-  no reagito al positivismo, è tra quelle che hanno fatto mag-  giori concessioni alle tendenze naturalistico-empiristiche e  più si è adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà  spirituale, ma, per il suo fondamentale storicismo ed im-  manentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nel-  le forme e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso  quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essen-  ziale alla filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro ve-  ramente universale e non mozzo, al di sopra di quella ge-  nerica divinizzazione dell’umanità, a cui in fondo si ri-  duce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col  quale identifica la totalità del reale.   Altri indirizzi in Italia e fuori sono contemporanea-  mente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guer-  ra ’39-45. Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie  che fino alla vigilia dello scoppio del conflitto e a qualche  anno dopo erano studiate ed appassionatamente discusse,  oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se  da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con esse, com-  preso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo an-  cora fare i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orienta-  mento al filosofare. Misurarsi con gli avversari, con tutto il  rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro,  è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la nostra consistenza.   Diciamo subito, sebbene il lettore abbia già capito, che    40 Filosofia e Metafisica       il nostro spiritualismo è platonico, come può esserlo uno spi-  ritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno e  contemporaneo nè da esso straniarsi; ed è trascendentista. Di-  re per esteso come noi intendiamo il nostro spiritualismo, in  che senso lo denominiamo platonico e trascendentista, qual’è  l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe antici-  pare in questa introduzione molte tra le pagine di questo  libro e quanti volumi formeranno la nostra Filosofia del-  l’integralità. Come abbiamo scritto altrove: « Noi... capo-  volgiamo il principio animatore di buona parte del pensiero  moderno e contemporaneo: non conquistare la posizione im-  manentistica dell’attività creatrice del soggetto, ma conqui-  stare — ed anche questa è dura e aspra conquista — il sen-  so, che è senso della trascendenza, di essere creati, il calore  spirituale di esser parte vivente della creazione. Aver sem-  pre presente alla propria coscienza di essere creature, signi-  fica avvertire sempre la propria esistenza come dono, gra-  zia di esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono della  grazia del Creatore. Appunto, per noi, filosofare è pensare  trascendendo il nostro pensiero; è far della storia trascen-  dendo la storia; è tensione dello spirito verso una Realtà  che è in lui senza esser lui, che immane e trascende; è  aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non  è filosofia, ma che fa e la storia e la filosofia ». Platone?  Sì, ma anche Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platoni-  smo, che è un aspetto perenne perchè essenziale e invin-  cibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito uma-  no, che è « filosofo », perchè è aspirazione indomabile, eros  inesausto della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente  decisa tendenza alla trascendenza.   Oggi, come nel periodo immediatamente anteriore alla  guerra, vi è, specie nella filosofia francese e italiana, non un  ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i proble-  mi filosofici, quello religioso e dei suoi rapporti con la fi-  losofia, sono posti, trattati e discussi nei termini della spi-    Introduzione 41       ritualità agostiniana: questa oggi la nota attuale (che non si-  gnifica di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche la  nostra nota che non contrasta affatto con la ricchissima spi-  ritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in quanto,  aggiungiamo, è tutt’altro che antiplatonica ed antiagostinia-  na. Agostinismo significa voler conoscere innanzi tutto  due cose: Dio e l’anima, la mia anima che ama Dio e a  Lui aspira. Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;  centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio  che in lei parla e della consistenza dell’uomo e delle cose;  senso della creazione, che si coglie come tale nell’aspira-  zione perenne al Creatore e, dunque, senso profondo, inte-  riore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero che si  coglie nell’essere, non essere che si coglie nel pensiero;  perciò metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte,  la persona umana non è l’individuo, che è ogni ente or-  ganico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristia-  nesimo non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza.  E’ più che sostanza, più che essenza: è Persona, Padre,  Creatore, Provvidenza. La teologia razionale, che tende a  scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che  è esperienza interiore e teologia rivelata. Dio non è il re-  siduo logico di un intellettualismo intollerante; non è Og-  getto puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per  la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio di Gesù,  quella « soggettività » che è Sua « natura ». Non si tema  l’immanenza, perchè, se non altro, questa posizione ci met-  te al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascen-  denza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa di Dio un  elemento immanente della vita dell'anima, ma Lo assu-  me e ama come Voce interiore, Norma assoluta e Guida  infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spi-  ritualmente ricreano la creatura. Dio ancora è intelligenza  che attua col pensiero gli intelligibili, ma attuandoli li vuole  liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per-    42 Filosofia e Metafisica       chè siamo al di sopra del dilemma volontarismo-intellettua-  lismo: la nostra posizione non è meramente volontaristica  e meno ancora anti-intellettualistica. L'attività intellettuale  — che solo certe forme d’intuizionismo hanno relegato  nel formalismo e nell’astratta schematizzazione, con una re-  strizione del termine intelletto tanto ingiusta quanto incre-  sciosa — è anch'essa vita intensissima e spirituale sentire,  che si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà  sono fatti per armonizzare nella distinzione e reciproca-  mente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto non  smorza, ma disciplina e rende più efficaci gli slanci della  volontà, come la rigorosa obiettività metafisica non si di-  sgiunge dal carattere personale della ricerca filosofica. « Poe-  tico » è l’intelletto, al pari della volontà. Insufficiente il  primo nella sua sfera se non è integrato dall’altra, come  è insufficiente la volontà che pretende di fare a meno  dell’intelletto; sufficiente è la completa e concreta vita umana  naturale nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra for-  ma di attività. Da ultimo, il « complesso dell’uomo » ha il  suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non  altera l’umana natura, ma la solleva ad un più alto stato.   Una metafisica così intesa esaurisce il contenuto della  filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e  dell’uomo singolo ed associato; è filosofia che ha il profondo  senso morale e religioso di se stessa; perciò cristiana, alla  quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei li-  miti della conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con  la Rivelazione, la soluzione di quel che può solo cercare e  sondare, ma intorno a cui non può e non potrà mai con-  cludere. La filosofia è razionalità, se si vuole, « intransi-  gente » razionalità; ma è atto della ragione autentica rico-  noscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso  il riconoscimento del mistero teologico, che non è affatto,  non occorre dirlo, irrazionalità o arazionalità. La ragio-  ne, lume naturale, riconosce, con un atto naturale, il    Introduzione 43       lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia,  che è indagine razionale, è apertura all’Essere, vocazione  alla trascendenza, che, per noi, è quella teologica. Se così  non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per  innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è spirito e non  materia, che è verità e non illusione, da dove non dimentica  o disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta  al lume della Verità che lo trascende per indirizzarlo al suo  fine, che è il Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupi-  scenza dell’intelletto, non vita spirituale, salute dell’anima.  Fede e ragione in stretta ed armonica collaborazione, senza  che si armino i diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona  filosofia, dunque, in umiltà di cuore, semplicità d’intelletto  e rettitudine di volontà.   Di qui scaturiscono conseguenze di vitale importanza.  Innanzi tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’es-  senziale spiritualità dell’uomo nella sua complessa ricchezza e  dell’ordine del mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso  alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o  attività perennemente creatrice e conservatrice. Consegue che  la filosofia è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni  creatura nel suo grado di essere; in questo senso è « avvia-  mento » all’integrità, che è appunto riconoscimento di ogni  ente nel suo grado di essere, per quel che è e significa;  è « disposizione » (non diciamo realizzazione o compimento)  al ritorno alla creazione genuina, messa in linea per il ri-  scatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione inte-  riore della verità, iniziazione religiosa, contemplazione (theo-  ria) che è concentramento della totalità del creato in un  punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si  fa lo slancio verso il Creatore; è infine — e per tutto ciò —  preghiera.   Da ultimo consegue che essa è essenziale moralità. Chi  filosofa si mette in cammino per incontrare la verità; dun-  que, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini-    44 Filosofia e Metafisica       zialmente può essere di ostacolo al raggiungimento del suo  scopo e a liberarsi, a mano a mano che la ricerca procede,  di quanto risulta falso o inadeguato: con ciò stesso rico-  nosce che non la ricerca produce il vero, ma il vero la ri-  cerca. Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di  purificazione: lotta del vero contro il falso, del bene contro  il male; dunque, è assolutamente moralità, che non è un  fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possi-  bilità di riescire a vincere il falso con il vero, il male con  il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza.  E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia) di passare dalla  possibilità di vittoria sul male e sul falso, alla reale riescita?  Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta  è la sua vita morale; la vittoria definitiva ne è l’esito;  poichè l’esito o cessazione della lotta è al di là di essa, la  trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pen-  siero, cioè il potere dell’uomo; dunque la realizzazione del  fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male,  non è nell’umano potere. La filosofia, intesa come asso-  luta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uo-  mo dispone per realizzare il suo fine supremo. Impegnate  tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero  si fa disponibile per accogliere dall’Alto, se vengono, le  energie della salvezza: l’essenziale moralità della filosofia  si rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della  vita morale (lotta del bene contro il male) non può trovarsi  se non nella religione. In caso contrario, la morale come lot-  ta eterna senza possibilità di risoluzione, come perenne dia-  lettica dei due termini in contrasto, si nega come morale, in  quanto si riduce ad un fatto, al fatto della lotta, che non  può non essere altro e dev'essere quello che è.   E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale?  Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una morale  autonoma nella sua possibilità di riescire, con la spe-    Introduzione 45       ranza che la riescita che la trascende non le manchi e  venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad «assorbire la  morte in vittoria ». La salvezza come fine della moralità  investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di  filosofia e religione.    PARTE PRIMA    FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA    CaprrroLo I    FILOSOFIA    I. — Saggezza greca e saggezza biblica.    Secondo la tradizione, Pitagora, quasi indietreggiando  umile di fronte alla maestà della divina Sapienza, per pri-  mo si nomò non sapiente ma filosofo: semplicemente amico  della Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio,  la filosofia è scienza dell’uomo. Dio « non è filosofo », dice  Platone, perchè è il Sofo.   Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo (da Adamo  caduto, primo grido di dolore e primo atto di pentimento  per la verità perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la  Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è  sforzo perenne di ricerca, superamento di limiti, penetrazione  di zone di ombra, vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore.  L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con  cautela e fatica; sorveglia perchè il parto non sia aborto pre-  maturo e il partorito germoglio rachitico e malaticcio; poi  fa forza per rompere l’involucro che l’asconde e vorrebbe  soffocarlo: non si dà alla luce senza dolore. Ed è giusto:  non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e soffe-  renza, che fanno pura la gioia del generare. Umanissima la  filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia;  infatti è « testimonianza » del vero. Ma non si sopportano  sacrifici nè si affrontano martirii senza fede nella verità,  nel dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo    50 Filosofia e Metafisica       da chi è suo possesso. Filosofo è chi ha fede nel ritrova-  mento del vero, chi usa il dubbio positivamente, come peda-  na di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non ten-  tenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo.   Altro saggio d’antichissima saggezza, Salomone, nel-  l’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui volonta-  riamente si condanna il filosofo per amore del vero: vi-  vere filosofando (non primum e poi deinde, perchè non si  filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità,  senza filosofare) è lotta perenne, fatta di conquiste e perdite,  di elevazioni e cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di  speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandez-  za di pensiero e miseria di peccato, è sempre alle prese  con l’errore, sempre in un’ansia di ricerca che fruga il vi-  sibile e l’invisibile: ora cade al livello della carne che ago-  gna delizie di piaceri, ora si slancia alle cime serene e lu-  minose della pura spiritualità; contraddizione vivente di sa-  pienza e stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed in-  quieto viandante, che sorsa a mille sorgenti ed ha sempre  più sete. Alla fine, spossato umiliato confuso confessa la  propria impotenza e grida all’ausilio di una forza supe-  riore alla sua; invoca il vero che tanto ha cercato, affinchè  scenda sul suo cammino e gli venga incontro, mercede di  tanto affanno. Deum time et mandata ejus observa; hoc  est enim omnis homo (1).   Perchè tanto peregrinare del viandante indomabile? Per-  chè egli, dice ancora il Saggio, per la verità deve lottare  con se stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che a-  spira all’invisibile immutabile vero, affinchè vinca il senso  cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto  d’inganni e raffinatezze, di sostituire al vero le apparenze  di esso. Così dirà anche Platone, che fu filosofo. La saggezza  testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di de-  finire l’essenza della filosofia e del filosofare.    (1) Eed., XII, 5.    Filosofia e concetto di filosofia 51       2. — La filosofia scienza ” sui generis” e sua autonomia  dalle altre scienze.    Che cos'è in concreto filosofia? È una scienza come le al-  tre? È una scienza sui generis? Ha un suo oggetto e quale?   Filosofia non è scienza come tutte le altre. Non lo è  innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue  dalle scienze empiriche: essa, infatti (quando è vera filo-  sofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non ha  fini utilitari. In questo senso, filosofia, «la sapienza desi-  derata per se stessa e per amore del sapere », è scienza inw-  tile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ri-  cerca della Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando di-  cono che la filosofia è « inutile » non si accorgono di tessere  il suo più bell’elogio: inutile, e perciò libera e liberatrice. E  quando avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uo-  mini nel più profondo della loro profondità e tutto sembra  irreale ed assurdo, il volgo, spregiatore del filosofo, chiede  a lui la parola che illumina e salva e nella filosofia intrav-  vede i calzari con cui l’umanità cammina nel tempo per  secoli e secoli.   Bellamente disinteressata, pura contemplazione, spassio-  nata ricerca della verità va fiera della sua sublime e quasi  divina inutilità. Il filosofo è come il poeta: contempla e can-  ta, adoprando princìpi e formulando giudizi; « fa musica »,  secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno  la voce misteriosa (7). D'altro non si preoccupa, dice ancora  Aristotele, «in quanto ha il fine in se stesso ».   Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza  di tutto il reale, dello spirito e delle cose, non nella loro  accidentalità, in quel che hanno di empirico, bensì nei loro  princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare  non cerca pur essa princìpi e cause e leggi? Sì, ma nessuna.  studia «l’ente in universale », bensì « dopo averne rescisso    (2) Fedone, 60 e.    52 Filosofia e Metafisica       qualche parte, di questa studia gli accidenti »; solo la filo-  sofia studia «l’ente in quanto ente e le sue proprietà essen-  ziali » (*). Scienza dell’universale dunque e, come tale, di-  stinta da ogni altra empirica.   Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola che apparten-  ga alle scienze dette « speculative » (distinte dalle « poeti-  che » e « pratiche »): condivide questa nobiltà con la fi-  sica e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il  posto più alto nella gerarchia; e i gradi sono segnati dalla  purezza dell’oggetto: la fisica studia le forme, ma nella  materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; so-  lo la filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristo-  tele, Platone aveva già stabilito una gerarchia delle scienze  culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come og-  getto le Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sen-  sibile (*).   A parte la dottrina aristotelica delle forme e la platonica  delle Idee, proprie dei due filosofi, resta fermo che la filo-  sofia ha come oggetto non alcunchè di empirico o sensibile,  ma il meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disin-  teressata, speculativa, il cui oggetto è l’universale, ciò che è  e non appare; non è ricerca di una singola verità; non si ri-  volge ad un oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere.   Non è scienza come le altre la filosofia anche per un  motivo strettamente connesso a quanto già abbiamo veduto.  Le scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito uma-  no, ma nè una nè tutte insieme sono lo spirito. Che la  scienza sia spirito e lo spirito scienza, è solo un’erronea  equazione di certo positivismo o neopositivismo, che non  vide e non vede ancora che tra l’una e l’altra non v'è dif-  ferenza di quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una  serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni    (3) Mer., IV, I, 1003.  (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a.  (5) Repubblica, 521 c-535 a.    Filosofia e concetto di filosofia 53       singola scienza), perchè è sintesi originalissima, assoluta. Ec-  co perchè /4 scienza, in fondo, è le scienze, mentre /z filo-  sofia non è le filosofie   Di qui ancora la particolarità delle scienze. Ogni sin-  gola scienza conosce secondo un modo suo proprio (Pascal  direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece,  che ha il suo esprit inconfondibile, non s’indirizza ad un  aspetto, ma a tutto il reale. Lo conosce nella sua inte-  rezza? No, e qui bisogna intendersi. Vi è la conoscenza  comune, che non è scientifica nè filosofica, quantunque sia  il materiale sul quale lavorano e la filosofia e la scienza;  vi è la conoscenza scientifica che conosce — secondo un  suo metodo, suoi concetti e regole — un aspetto del reale,  astraendo dagli altri; vi è la conoscenza filosofica che ten-  de a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo pone  intero come oggetto di conoscenza, ma di esso coglie solo  un aspetto, meglio lo vede da un punto di vista, ne ha  una veduta parziale. Per conseguenza le scienze colgono  parzialmente un aspetto parziale del reale; la filosofia co-  glie parzialmente la totalità di esso. Perciò quelle hanno  un’astrattezza che la filosofia non conosce, senza che ciò  obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore co-  noscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico ed economico.  Per povero che sia, un concetto è sempre una finestra sul  mondo; per limitato che possa essere il conoscere scien-  tifico è sempre una veduta della realtà. Vi è inoltre un  problema fondamentale, in cui scienza e filosofia hanno  sempre collaborato: il problema stesso della scienza.   Per un altro verso le scienze sono astratte: sono cono-  scenza nel senso più angusto. Lo scienziato applica un me-  todo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato solo  dall’osservazione e dalla ragione; il sentimento è escluso.  La filosofia no: è fondamentalmente razionalità concreta,  la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione,  volontà, sentimento, cuore. Anche quando la filosofia è pu-    54 Filosofia e Metafisica       ramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla  pura ragione filosofica una vita che è pur presenza di uma-  nità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono pro-  fonde aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae  dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche da ogni mo-  tivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi mec-  canica: in qualunque caso, anche se indeterministica, pre-  scinde dalla finalità del reale. La filosofia invece è sem-  pre teleologica: non è scienza dei fatti, ma dei valori; dun-  que la sua essenza è veramente spirituale. Perciò ancora è  libertà. Inoltre, la filosofia, essenziale ricerca della verità  oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale reste-  rebbe anche se mai alcun soggetto pensante la conoscesse  o la cercasse, ha una sua indeclinabile soggettività: la verità  universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cer-  cando ed amando, faccio mia. La scienza invece astrae dal  soggetto come tale per garantire quella oggettività imper-  sonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ in-  commensurabile ricchezza della filosofia, quella stessa dello  spirito umano filosofante, cioè amante, con tutte le sue for-  ze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si  offre, dedica, sacrifica; quel senso umanissimo proprio del-  la « pagina» filosofica, che spesso, sotto la veste frigida  e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima in-  tera, la vita e l’anima, inconfondibili, del pensiero specu-  lativo.   Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il filosofo che si  accinge al terribile compito di riflettere sulla conoscenza  comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare  la sua vita per esaminarla profondamente, non più vissuta  nella sua immediatezza, ma posta come problema, il filo-  sofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la verità che  è la sua vita. Ogni filosofo è una formula, ma la sua non  è un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua  esistenza; la formula è la croce, su cui si crocifigge e    Filosofia e concetto di filosofia 55       dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, po-  ne un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera,  restare semplice ipotesi. Nei tre casi — tranne che l’ipo-  tesi non abbia una portata metafisica e, in tal caso, o fa  della filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa  della filosofia con esprit scientifico e non più scienza nè  filosofia, ma pseudo-scienza e pseudo-filosofia — Ja sua vita  resta quello che è. Per il filosofo non è così: che Dio  esista o non esista, che il bene sia una realtà o un'illusione,  che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combina-  zioni meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste  ipotesi, impegna la sua vita interamente, importa vedere  l’universo in un modo radicalmente opposto ad un altro.  Lo scienziato che indaga non scommette se stesso; il filo-  sofo sì, totalmente. Vi è nella filosofia un’essenza di to-  talità metafisica e insieme religiosa che manca alla scienza.   Si è ancora sostenuto, muovendo dalla pregiudiziale cri-  tica, che la filosofia non è la scienza, in quanto questa ha  dei presupposti che accetta senza renderne conto. La filosofia  invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo  i presupposti della scienza, ma ogni presupposto, porre in  questione se stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qual-  siasi altra, è essa stessa un presupposto: la si può discutere  in base ad un altro; e questo in base ad un altro ancora  e così via. La stessa pregiudiziale critica, affinchè abbia  senso e possa essere assunta come punto di partenza del  filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità:  la critica ha senso come giudizio sulla umana conoscenza  della verità, non come dubbio che investa la realtà stessa  del vero, altrimenti essa vien meno al suo compito e  alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere  solo rispetto alla verità. Infatti, il problema dei limiti  della conoscenza umana è tale rispetto alla verità ed è  problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è  verità. La posizione critica è consapevolmente critica, solo    56 Filosofia e Metafisica       in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce la po-  sitività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi  presupposti, quantunque sia meno dommatica della scien-   Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun ma-  tematico, per esempio, pensa di far progressi nella sua scienza  cominciando dal mettere tutto in dubbio, anche che due e  due fan quattro; e se ciò mette in dubbio, non dubita  del numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine  filosofica implica dei presupposti. Del resto, non è solo un  limite della filosofia o della scienza; lo è del pensiero umano  in generale, il quale non può rendere conto di tutti i presup-  posti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono di-  mostrabili. Vi è un metodo — scrive Pascal quasi a principio  del frammento sull’Esprit géometrique — più eccellente di  quello della geometria, consistente: a) nel « non usare alcun  termine di cui non sia stato prima spiegato nettamente il  senso »; b) nel « non affermare mai alcuna proposizione che  non sia stata dimostrata con verità già conosciute; cioè, in  breve, nel definire tutti i termini e nel provare tutte le pro-  posizioni ». Bellissimo metodo, ma « assolutamente impos-  sibile ». Di dimostrazione in dimostrazione « si arriva neces-  sariamente a dei termini primitivi, che non si possono più  definire e a principii così chiari che non se ne trovano altri  che lo siano di più per provarli ». Se la filosofia, come ogni  altra umana scienza, potesse spiegare tutti i presupposti  senza presupporne alcuno, non sarebbe più filosofia, ma  Sofia, la Sapienza, di fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè  l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che  non è filosofo. Gli uomini non hanno la capacità (ed è qui  la ragion d’essere della filosofia) di costruire una qualsiasi  scienza di ordine assolutamente perfetto.    3. — Astrattezza del dialettismo antinomico.    Dunque, la filosofia è scienza sui generis, ma l’esser tale  non significa affatto che non vi siano altre scienze, come han-    Filosofia e concetto di filosofia 57       no cercato di dimostrare alcuni indirizzi filosofici contem-  poranei cosiddetti idealisti. Torna il conto soffermarvisi, an-  che se brevemente.   Per il neohegelismo italiano, per esempio, la filosofia è  scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche prin-  cipio del reale, è il dialettismo antinomico. Perciò: l’an-  tinomia dialettica è il principio di tutta la realtà; la filo-  sofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la  filosofia, in quanto dialettica, è scienza del reale. La logica  aristotelica invece (che lo Hegel e gli hegeliani chiamano  « astratta » per distinguerla dalla nuova detta «concreta »)  assume come princìpi logici della speculazione quelli d’iden-  tità e non-contraddizione; per conseguenza muove da un cri-  terio logico speculativo diverso da quello — l’opposizione dia-  lettica — che è il principio del reale; dunque non può cono-  scere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica  «astratta», che procede per esclusione, bisogna sostituire quel-  la «concreta», che fa suo il principio del dialettismo antino-  mico. Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico  della speculazione e il principio del reale; anzi il principio 0  la legge del reale (ciò che è reale) è lo stesso criterio logico  o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza  speculativa, è l’espressione perfetta di questa identità, la tra-  sparenza dell’Idea.   Le altre scienze non sono «scienza » in quanto assumono  come principii del reale leggi determinate e fisse, che esclu-  dono la contraddizione. Dunque non hanno valore cono-  scitivo; astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del reale.  Scienza è solo la filosofia che è l’antinomia, la contraddizio-  ne, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle altre e, co-  me tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel  momento stesso che conferma la sua sola legittimità scien-  tifica.   Che la realtà presenti antinomie e contraddizioni, anche  sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che pro-    58 Filosofia e Metafisica       voca il pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i  termini opposti s'incontrano. La conoscenza, filosofica o scien-  tifica che sia, è soluzione di contraddizioni, componimento  di antitesi ad un livello più profondo dell’antitesi stessa. Co-  me dice il Rosmini, l’universo è un grande e sacro libro  aperto da Dio davanti agli occhi dell’uomo e scritto tutto di  quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le  risolva. Dio « col permettere che insorgano nella mente del-  l’uomo delle dubbiezze, o, per dir meglio, delle difficoltà,  ... riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla  investigazione del vero» (9). La legge « fissa » non è che  soluzione, diciamo così, « dinamica » della contraddizione,  del dubbio e della difficoltà che han provocato la mente a  comporli. Dunque, anche la legge scientifica, in questo senso,  è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme  restando le differenze da noi poste sopra tra filosofia e scienza.  Inoltre, se la realtà, almeno come appare, è contraddizione,  ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antino-  mia. Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sul-  l’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare nella radice pro-  fonda del reale stesso, dove è il componimento di tutte le  antinomie; è indietreggiare di fronte alla metafisica, che è  appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della  filosofia una scienza empirica (sia pure sui generis) come le  altre; è il residuato positivistico che l’idealismo trascenden-  tale non è mai riescito a sciogliere, nonostante i suoi sforzi  metafisici. Nè il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto,  ma l’assolutamente concreto. Astratte son le scienze non in  quanto non riconoscono l’antinomia, bensì in quanto non col-  gono (nè è questo il loro scopo) la soluzione ultima, il con-  creto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in questo  senso, anche nella filosofia, quantunque essa sia lo sforzo  massimo che l’umano pensiero possa fare verso il concreto  assoluto, che è l’assoluto Essere e l’assoluto Vero.    (6) Teodicea, n. 9.    Filosofia e concetto di filosofia 59          Ancora: considerare l’antinomia come principio del reale  e criterio logico di speculazione è accettare il dato, la contrad-  dizione, quell’immediato che pur l’idealismo trascendentale,  dallo Hegel in poi, combatte e respinge in nome del pen-  siero che è mediazione. Ciò comprova che esso è ancora al  di qua della filosofia, che è riflessione sul dato, la contrad-  dizione, non accettazione di esso; componimento dell’anti-  nomico nell’identico essenziale, cioè conquista della metafisi-  cità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada  d’indagare se la soluzione ultima che fonda ed involge le  altre e pur le trascende, che chiude la serie delle antinomie —  al di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipo-  larizzata dalla e nell’antitesi ma aderente alla identità del-  l’essere a se stesso — sia possibile alla filosofia oppure trascen-  da la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso  profondo del criticismo; non arriva al limite massimo della  conoscenza filosofica, dove il pensiero si arresta, e acconsen-  tendo, si dispone a ricevere la verità suprema; al punto in cui  la filosofia legittimamente e col suo assenso si apre alla reli-  gione. Perciò la filosofia, così come è concepita dall’ideali-  smo, fa sua, oltre che l’empiricità delle scienze, l’immedia-  tezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria an-  ch’essa della scienza, di voler ignorare o «risolvere » nel  logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un  « animale religioso» e la religione suprema verità non ridu-  cibile all’ordine di quella filosofica, senza che le contraddica.   Ma l’idealista (anche se non hegeliano ortodosso) ribatte  che la nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come cri-  terio logico della speculazione il dialettismo antinomico non  significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è  l’antinomia, che la logica astratta esclude in base ai princìpi  d’identità e non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concre-  tezza del reale, che è sintesi degli opposti; la mediazione,  cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti  stessi, che, separati — ogni cosa è identica a se stessa e non    60 Filosofia e Metafisica       può essere diversa da se stessa — sono l’astrattezza impu-  tata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per l’ideali-  smo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente,  cioè come elemento dialettico rispetto ad una nuova antitesi;  dunque quel che è reale non è la sintesi ma l’antinomia che  si sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una  antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad essa (e che è il  vero principio del reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e  perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scor-  nato: o conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il  principio del reale non è più l’antinomia, ma questa sintesi  suprema dove ogni antinomia si risolve, e l’idealismo dialet-  tico nega se stesso; o esclude che vi sia questa sintesi e il  principio del reale ed il criterio logico è la contraddizione,  cioè sempre il dato, anche se retrodatato all’infinito. La me-  diazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione sulla  contraddizione, che è la filosofia, resta sempre riflessione  sull’antinomia, che è il dato.   Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia  ad astrattezza. Identificato dialetticamente il reale con il  pensiero e questo con il processo logico (« ciò che è reale è  razionale, ciò che è razionale è reale »), consegue che la filo-  sofia è panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni  forma di attività spirituale e della realtà tutta al puro cono-  scere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta ad  astrarre da quanto nell’uomo non è ragione o riducibile a  questa, cioè a far propria quell’astrazione che, come abbiamo  detto, va imputata alle scienze.   Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni —  che, in verità, l’hanno inteso su molti punti a modo loro —  ha voluto essere consequenziario. Spinto dal miraggio del-  l’assoluta immanenza, risolve l’essere nel pensiero, il pensiero  nel pensare in atto — reale non è l’oggetto del pensiero, ma  il pensiero conoscente l’oggetto — l’attualità del pensiero nel  mio pensiero, che non è il Pensiero ma, d’altra parte, non    Filosofia e concetto di filosofia 61       è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e ar-  riva alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a  conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo, la filosofia,  scienza sui generis, conoscenza per eccellenza e la sola rigo-  rosissima, si fa assoluta soggettività; priva di un’oggettività  propria, svanisce come scienza, essa che si era posta co-  me la sola. Lo storicismo, infatti, conclude che la filosofia  non esiste ed è metodologia della storia: « Un forte avanza-  mento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo ef-  fetto: che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice  che la filosofia è «scienza delle cose divine»; ma Aristotele non  ha scritto di storia e dunque ha fatto opera inutile e da non-  filosofo ] giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti  gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e discipli-  nati filosofi; e il filosofo, in generale, il purus philosophus,  non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sa-  pere »; l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di  attività spirituale (pedagogia, politica, arte, religione, ecc.),  mentre un seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene  che non c'è la filosofia come scienza a sè, ma che è la scienza:  la filosofia non è una particolare forma di sapere (filosofia  « astrologica »), ma l'universalità di ogni sapere, sicchè non  ha un campo autonomo d’indagine. Così l’idealismo contem-  poraneo, dalla filosofia come scienza sui generis, autonoma  dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue pre-  messe, che come scienza a sè non esiste, ma è immanente  ad ogni singola scienza.    4. — La filosofia come ricerca della verità interiore e suo  esito religioso.    Torniamo all’antica definizione della filosofia: amore del-  la sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia è  Eros; ed Eros è figlio della Povertà e dell'Abbondanza; di-  vino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non    62 Filosofia e Metafisica       è possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristia-  nesimo; l’amore è sì aspirazione, ma è anche sovrabbon-  danza e perciò non è imperfezione, ma atto di perfezione:  il Dio greco, perfetto, non ama; se amasse non sarebbe Dio,  in quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano,  perfettissimo, è essenzialmente Amore.   La perfezione o l’essenza della filosofia è la ricerca, lo  sforzo di riflessione; perciò non è la Sapienza divina:  Dio è la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come  tale ha sempre dei limiti: sottintesi, concessioni, presupposti,  ipotesi, ecc., che la riflessione non riesce mai ad esplicare  interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La  filosofia, che è sforzo, resta sempre aspirazione al di là del  limite; perciò la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,  l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi  particolari, la filosofia è sforzo di riflessione su Dio, sua meta  agognata ed irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo  aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema,  ma non lo sarebbe se non fosse, come tale, richiesta di solu-  zione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel Bello,  nel Bene, nell’Essere; i suoi parti sono nella verità che il  filosofo, dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè:  verità oggettiva innata. E anche qui Agostino va oltre Pla-  tone: la verità abita în interiore homine, non come dato  di cui si risveglia la memoria, ma come presenza peren-  ne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta,  lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è presente anche  quando non è ascoltata. Che cosa stimola e guida la ricerca?  La Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la  vocazione; perciò la ricerca è almeno iniziale possesso del  vero, a cui l’anima aspira. Che cosa sono i veri che la  mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi  più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, può non essere  ascoltata? E quando lo è?    (7) S. Acostino, De vera religione, XXXIX, 72.    Filosofia e concetto di filosofia 63       I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo  dà alla verità, testimonianza del suo amore; il loro insieme  è il mondo ideale, il regno dello spirito, il solo veramente  reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni  dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce delle verità, non la  Verità; possiede il lume dell’intelligenza che, illuminandola,  fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo  vero è concreto vero, sintesi dell’universalità dei principii e  delle determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i  principii in sè sono astratti, rispondiamo che è astratto e perciò  irreale il puro particolare (almeno dal punto di vista specu-  lativo), mentre è concreto e perciò reale il particolare illumi-  nato dai principii, dove trova appunto la sua verità e con  essa la sua realtà: la rinunzia della filosofia all’universalità è  la rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione.  Evidentemente la determinazione è limitazione e perciò noi  conosciamo i veri, ma non la Verità nella sua pienezza, nè i  veri quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola  determinazione, nè tutte insieme possono esaurire l’infinita  possibilità di conoscere che è il pensiero umano; perciò niente  può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun vero, tranne la Ve-  rità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio, l’unum  necessarium, può appagarlo. La vocazione dell’uomo è la stes-  sa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo per il  pensiero. Il lume d’ intelligenza e di ragione, universale e  infinito, è la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza  che egli disponga della capacità di tradurla in atto; l’immagi-  ne di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per questo  il filosofare è ricerca e sforzo, non la sapienza a cui aspira.  D'altra parte, partecipando l’uomo della verità, porta conna-  turata la molla che lo spinge ad essa, conficcata la spina che  lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo  che sia, è sempre infinitamente corto. È la sua grandez-  za e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima no-  bile angoscia del filosofo e della filosofia, mestizia confortata    64 Filosofia e Metafisica       dalla speranza che non può non nutrire chi veramente ama  il vero ed insita nell’eroico sacrificio della ricerca indo-  mabile. Perciò filosofare è moralità: implica l’impegno ini-  ziale che il filosofo assume di cercare ex veritate; l’umiltà  del soggetto pensante di fronte alla verità che cerca, già  ama e verso la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula  filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che  con esso esprime un valore assoluto; perciò è risposta a Dio,  sorgente di tutte le verità, Verità creatrice dei veri, Libertà  creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è  dunque decisione di diventar buoni, di amare l’essere dovun-  que s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filo-  sofica è la stessa legge della morale. « Non ci par degna del  titolo di Sapienza quella cognizione che nulla opera sul cuore  umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente del-  l’uomo mortale senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i  mali e senza appagare o consolare almeno di non menzognera  speranza, i perpetui suoi desideri » (°).   Se non è così, la filosofia non è più tale: è la caduta del  pensiero, di tutto l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, inizia-  zione alla verità, come Platone dimostra in più parti dei suoi  dialoghi e soprattutto in alcune pagine immortali e bellissime  del Fedone. Ogni vero trovato è anche acquisto di una virtù  intellettuale o pratica, norma regolatrice del nostro pensare e  del nostro agire. Nè alcun vero si può trovare se lo spirito  non si è disposto a trovarlo, se non è passato attraverso il  difficile esercizio della purificazione. Perciò la filosofia è  perfezionamento della natura umana: mortificazione, non  compressione, delle sue debolezze. Non è contro la na-  tura umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un  arido moralismo di astratta ragione, ma contro le sue mise-  rie, affinchè sia autenticamente umana natura, e il filosofo  quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel  Teeteto: libero dalle passioni e dagli inganni sensibili e per-    (8) Rosmini, Teodicea, n. 4.    Filosofia e concetto di filosofia 65    ciò riscattato all’autentica sensibilità; libero dalla passione  della ragione, che pretende di essere il vero e si ribella di  esserne scolara e perciò ricco di verace ragione e di profonda  umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello  razionale irragionevole. Gli è dunque essenziale l’umiltà, ra-  dice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura  e di amare in sè il Creatore, testimonianza dell’Essere e  del Bene, che cerca ed ama; di amare la propria esistenza  come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è  legge d’amore, rende morali l’intelletto e la volontà ed ef-  ficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze;  ci dà il senso del sacrificio purificatore a cui siamo chiamati  per ascendere o filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce  l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna  e vigorosa la pianta.   La filosofia è volontà di sacrificio: chi filosofa è consa-  pevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a  quanto ostacola l’amore e il possesso interiore dell’unum ne-  cessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora uma-  nissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento  di tutto l’essere umano, frattura con quanto non è essenziale  al suo essere o è d’impedimento al raggiungimento della ve-  rità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca, vuol conoscerLo, posse-  derLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita col lume  della ragione, datoci da Dio come il solo che ci faccia desi-  derosi di Lui e sia condizione per conoscerLo. La Grazia, in-  fatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume sopran-  naturale al lume naturale.   Ma l’uomo da solo, per filosofo che sia, sacerdote e sup-  plice della verità, non riesce ad esserne veramente vittima: le  miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non del-  l’antico — modello di condotta nella sua superiore e superba .  imperturbabilità — ma del cristiano, coscienza vivente di  dubbi e fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, pe-  rennemente insoddisfatto e perennemente in attesa di rice-    66 Filosofia e Metafisica       vere il dono che cerca. Egli non impersona nè la sapienza nè  una determinata scienza, ma lo sforzo sublime verso la sa-  pienza, l’appello perenne della creazione. Attesta la realtà  dell'Essere, i limiti del pensiero, il gran benedetto e il gran  maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla  verità, fatto per la verità e che pure è più spesso sofisma e  dubbio, negazione e distruzione. Si sacrifica in una formula,  il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora  quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in essa. Sacrificio senza  successo, che non vanta possessi o dominii; silenzioso, per-  chè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità del-  l’anima; perciò autentico, che non rimpiange le caducità per-  dute, non attende dagli uomini niente di male o di bene e  conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene  tanto desiderato folgora la mente, il filosofo sa che non lo  potrà esprimere; è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il  sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta  inedita per tutti, tranne per colui a cui è donata. Vi è  nella filosofia un’interiorità profonda, insondabile, che non  si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad  essere filosofo (non è un mestiere): non lo saprà mai chi non  lo esperimenta.    5. — La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a Dio.    Da quanto abbiamo detto filosofia risulta essere: a) amore  per la Verità o per Dio, essenza di sforzo; b) possesso di veri  parziali; c) ciascuno dei quali è acquisto di bene morale;  d) perciò è purificazione ed ascesi, potenziamento non nega-  zione dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza del-  l’autentico valore della creatura e della creazione. La sua  essenza è dunque morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha  la stessa finalità della religione.   Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma  alla porta, bussa e chiede. Platone, forse per primo, nel Fe-    Filosofia e concetto di filosofia 67       done, vide esattamente il problema e ne fissò i termini. Fi-  losofia e religione, egli dice, hanno in comune il fine di li-  berare l’anima dal sensibile e dalla schiavitù delle passioni,  ma mentre la religione « si affida ad una divina rivelazione »,  la filosofia invece «segue il raziocinio ed in esso persiste  ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero,  del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi,  e da ciò trae il suo vital nutrimento ». Ebbe torto Epicuro di  eliminare dall’ideale della perfezione morale la via religiosa  e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la  ragione, meglio il pensiero che è l’uomo nella sua inte-  rezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca speculativa è la ve-  rità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai  perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto della sua aspira-  zione.   La filosofia lo guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi  non assunzione alla verità. L'essere assunti è un dono gra-  tuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente amata;  è la charitas soprannaturale che si dona alla charitas naturale,  al filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma  l'apertura a Lui, come dice il Blondel. Ascendere fino ad  un certo grado è in nostro potere; l'assunzione no; dunque la  ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente  avente lo scopo preciso (ma quanto defettibile!) di spingerci  alla conoscenza ed al possesso della Verità.   La filosofia, « liberatrice dell’anima » (secondo un’espres-  sione agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio,  cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non dipende da essa: è  Dio che salva; a lei compete soffrire, combattere ed amare,  nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del  suo problema assoluto è nella religione rivelata, nel gratuito  folgorar della grazia. È la grande verità di Agostino: la fi-  losofia prepara alla salvezza (moralità), non dà la salvezza  (religione). Il problema della morale è filosofico, la sua solu-  zione è teologica: i due ordini sono immensurabili. La fi-    68 Filosofia e Metafisica       losofia, autonoma come ricerca — ritrovamento dei veri e  conquista di virtù — non lo è come soluzione finale,  come salvezza, acquisto dell’unum mecessarium, che costi-  tuisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia assoluta-  mente autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e  senza fede; i saggi greci erano « senza speranza », come dice  San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal, « la vraie nature  de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu, et la vraie  religion, sont choses dont la connaissance est inséparable ».   Significa che la religione neghi la ragione e con essa an-  nulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva,  non uccide; Grazia non destruit naturam sed perficit et ele-  vat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge: « Che  se la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa  ancora il consegna, come a più certa guida e a più sublime  maestra. — Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia alla  ragione, che diviene maestra sicura e guida infallibile quando  dalla fede è confortata e sorretta ». Evitare i « due eccessi »:  «esclure la raison, n’admettre que la raison », in quanto « si  on soumet tout à la raison, notre religion n’aura rien de my-  sterieux et de surnaturel; si on choque les principes de la  raison, notre religion sera absurde et ridicule » (Pascal). La  ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha  perduto e non ha più; e la fede è sempre generosa genitrice  d’intelligenza, via di spirituale salute e di eterna beatitudine.    CapritoLo II    « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? »(*)    |. — La filosofia come ricerca « perennis » della verità.    Domanda quanto mai imbarazzante, questa. Sì, « conce-  pire » non è propriamente « definire », ma ogni « concezio-  ne » porta implicita una « definizione ». Ora, è tutt'altro che  facile, ancora oggi, dire « che è filosofia ». Il matematico sa  da tempo che è matematica, il biologo che è biologia; noi fi-  losofi non siam così fortunati, se pure quella è una fortuna:  non sappiamo ancora che è filosofia — dico, non lo sap-  piamo in due parole, alla spiccia, come due più due fan  quattro —. Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filo-  sofo, ma hanno torto: la filosofia non può chiudersi in  una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e rifles-  sione è infinito, perchè nessuna formula può esaurirne,  «comprenderne », la totalità. Perciò nessuna umana ricer-  ca è tanto perennis ed universale quanto quella filosofica.   La filosofia come scienza del reale nella sua totalità, evi-  dentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle scienze  umane è la sola autonoma: il suo rimando — fondamentale  e non accessorio, intrinseco e non estrinseco — è solo ad un  sapere di ordine non più razionale e naturale, ma super-ra-    (*) Il « Centre International de Synthèse » di Parigi ha pubblicato nel fasc.  di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle Série) della « Revue de Synthèse »  le risposte a questo tema generale proposto alla discussione, alla quale fummo  gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si ristampa contiene  qualche pagina in più di quello francese.    70 Filosofia e Metafisica       zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è autonoma:  la storia, per esempio, ad un certo punto rimanda al problema  del suo significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli,  ecc.; le scienze naturali pongono invincibilmente numerosi  problemi (che è il mondo? quale la sua origine? ha una fi-  nalità ? che sono tempo e spazio?) che non compete ad esse  risolvere. A questi e ad altri interrogativi è chiamato a ri-  spondere il filosofo e, se anche lo storico o lo scienziato, non  in quanto tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si  può dire che la filosofia è l’unità delle singole scienze,  scienza prima e ultima, in confronto alle altre che sono  seconde o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia  è ricerca della verità; se ricerca, non è la verità, l’ogget-  to che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto  che è scienza del reale nella sua totalità; perciò dobbiamo  dire del reale in quanto verità. Ancora: la verità è di ordine  spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca  — e nella ricerca è impegnato tutto l’uomo — la Verità to-  tale o il Reale in sè, che fonda e fa essere ogni altra verità o  reale finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume  d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad esso adeguato, a  cui perennemente tende, senza che abbia ad osare di pre-  tendervi.    2. — La filosofia e suoi rapporti con la sua storia e la scienza.    Ma è tempo che rispondiamo direttamente a quel che il  Centre ci ha gentilmente domandato: fornire argomenti pro  o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale  sostiene «une certaine conception de la philosophie dan ses  rapports avec son histoire et avec la science ». Nessuno certo  vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bi-  sogno di precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa  s'intenda per storia della filosofia per poter poi stabilire i  rapporti tra essa e la filosofia. Precisazione anche opportuna,    Filosofia e concetto di filosofia 71       se si pensa che, in Italia, per esempio, l’idealismo neohege-  liano ha identificato filosofia e storia della filosofia al punto  di risolvere l’una nell’altra e tutte e due nella storia della  cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che  è lo stesso, per non esser nulla, per non avere più un oggetto  proprio; se si pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese  ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili  (tanto che qualche volta verrebbe voglia d’inventarsi un posi-  tivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di altri  che si chiamano impropriamente «idealisti» e «spiritualisti»),  ha concepito la storia della filosofia come pura esposizione  «oggettiva » di sistemi e di « fatti» riguardanti la vita dei  filosofi: ci ha dato compilazioni spesso filologicamente pre-  gevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la filosofia.  Similmente, per stabilire i rapporti tra filosofia e scienza è  altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e  quali i rispettivi campi di competenza, per evitare che la fi-  losofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al punto  da negare a quest’ultima la qualifica di « scienza »; 0, al con-  trario, che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a sem-  plice registratrice dei risultati scientifici; ad una particolare  scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; al-  l’insieme delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità;  alla conoscenza della natura fisica, sulla base dei contributi  delle scienze particolari, come se essa dovesse restringere la sua  indagine alle percezioni e alle leggi naturali, dimentica dello  spirito e dei suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca  filosofica, è già scoperta della realtà spirituale e, per sua in-  trinseca necessità, conseguente approfondimento metafisico  del suo destino.   Detto ciò, credo che il nostro punto di vista appaia già  chiaramente molto diverso da quello proposto dal Cenzre, il  quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia  come « synthèse des connaissances» «science plénière ». Se  « sintesi» e «scienza plenaria» qui significano composi-    72 Filosofia e Metafisica          zione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo  accettare questa concezione della filosofia, la quale ha pro-  blemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola come  al loro insieme, anche se per i suoi problemi possa ricevere  lumi ma non soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro  complesso — il più completo e sviluppato — non esauriscono  ‘e non esauriranno mai il contenuto della ricerca filosofica, la  plénitude a cui essa aspira e per la realizzazione della quale  tutto l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine  Science con la maiuscola richiama il non lieto ricordo dei  tempi del positivismo, quando si divinizzava la scienza, la si  profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e  religiosi, con grave danno per la serietà della scienza stessa,  fatta idolo da adorare, tanto che le cosidette réveries della me-  tafisica facevano bella figura al confronto con le nuove réve-  ries.... scientifiche. La Science, intesa come sapere assoluto e  totale, non è più tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo  della scienza. Il controllo della filosofia fa sì — ed essa è chia-  mata ad esercitarlo anche sopra ogni vero filosofico pretenden-  te a porsi come verità totale — che ogni verità scientifica e la  scienza in generale acquistino consapevolezza dei loro limiti e  rinunzino ad una pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbi-  traria extrapolazione e maggiorazione a volte aberrante di una  verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice  dommatismo: di estensione — il sapere scientifico è esplicativo  di ogni aspetto della realtà —; e di validità — esso è assoluto.  Il controllo critico della filosofia rileva l’inconsistenza di tale  dogmatismo e svuota il funesto mito illuministico dell’infal-  libile scienza onnicomprensiva e della coincidenza tra pro-  gresso scientifico, progresso culturale e miglioramento spiri-  tuale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il più  basso livello di cultura e una rudimentale coscienza morale e  religiosa possono coesistere con la tecnica più progredita:  nessuna scoperta o invenzione scientifica ha mai fatto pro-  gredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un    Filosofia e concetto di filosofia 73       solo millimetro la statura morale; anzi la decadenza della  cultura occidentale coincide con lo sviluppo della scienza e  della tecnica moderna e il suo precipitare nel fondo dell’in-  cultura con il loro vertiginoso progredire.   Conveniamo con il Centre che, nella successione delle  filosofie, vi è « une logique interne » e che « dans le retour  méme des doctrines, un progrès s'est accompli ». Ma, dire  che il ritorno di dottrine filosofiche segna un progresso — oggi  come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o ari-  stotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani, mentre  non si può essere più, per esempio, tolemaici dopo Copernico,  Galilei e Keplero — significa affermare inconfutabilmente che  la filosofia è una scienza diversa dalle altre, non riducibile ad  alcuna di esse o al loro insieme, con problemi, soluzioni e ve-  rità proprie, per cui non può essere la « science plénière »  nel senso di « somma » (quanta meccanicità in questa parola!)  dello scibile. Si è che, tra filosofia e scienza, prima di stabi-  lire un rapporto quale che sia — anzi affinchè esso possa  essere fondatamente stabilito — riteniamo sia necessario  fissare una differenza non di quantità, ma di qualità. La filo-  sofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di fatti  quali che siano, trasposizione di essi in un piano diverso, in  un ordine superiore.    — La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia  e inessenzialità delle scienze.    Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti a  rovesciarne i termini, la concezione della filosofia proposta  dal Centre e cioè: «que la synthèse des connaissances s’est  constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que  posaient les philosophies, depuis les origines, pour substituer  peu à peu le positif à l'a priori, les vérités de la science aux  imaginations ou aux réveries de la métaphysique ». Che è  questa « sintesi delle conoscenze » che si propone rispondere    74 Filosofia e Metafisica       alle questioni che pongono i filosofi « depuis les origines » ?  Per noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari  delle singole scienze che pongono domande ai filosofi, affin-  ché costoro — da filosofi, con metodo filosofico e con spi-  rito speculativo — rispondano. Non è la scienza chiama-  ta ad esercitare un controllo sulla filosofia (e quando lo  esercita, esso si rivolge alle stravaganze pseudofilosofiche o  ai sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza,  i cui principii sottopone a critica. Secondo le parole sopra ri-  ferite, sembrerebbe che il compito della scienza, nei con-  fronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano  immaginari i filosofemi escogitati dai filosofi e fanta-  stiche le loro costruzioni metafisiche, gli uni e le altre da  sostituire con « verità scientifiche ». A parte tutto, è facile  ribattere che le « imaginations » e le « réveries » della scienza,  come comprova la sua storia, non hanno niente da invi-  diare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le « rèveries de la  métaphysique » e le «réveries de la science »; ma come si  avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia fantasticheria,  così si ha torto ad identificare la metafisica con la strava-  ganza, quasi si trattasse di una manifestazione patologica  della mente umana. Difendere la metafisica, per noi, è di-  fendere l’essenza stessa della filosofia: se la metafisica fosse  fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma  si può affermare dogmaticamente che le metafisiche e la  ‘metafisica siano senz'altro fantasticherie? Se così, è fanta-  sticheria la filosofia che, dalle origini ad oggi, è stata sem-  pre metafisica; fantasiosa la ragione umana che pone, come  suo bisogno fondamentale essenziale e naturale, l’esigenza  insopprimibile di un sapere metafisico. Mi faccio forte del-  l’autorità dello stesso Kant che, nella «Prefazione » alla  prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come  i « sedicenti indifferenti » per la metafisica « finiscono per  cadere sempre in affermazioni metafisiche »; e ne traggo la  conseguenza legittima ed evidente: essenzialità della filosofia    Filosofia e concetto di filosofia 75       e inessenzialità delle scienze. Il sapere scientifico è infor-  mativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il  sapere filosofico è formativo e terribilmente impegnativo:  risponde ad un bisogno totale dell’uomo totale. Si può non  essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo  sofia non ci si può sottrarre. L'avventura della scienza si  può correre e non correre; l’avventura della filosofia è  obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la  richiesta essenziale della sua umanità profonda. L’uomo è  naturalmente compromesso a percorrere l’itinerario della  filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel mo-  mento essenziale della ricerca essenziale. Di qui la «se-  rietà » dell’indagine speculativa, l’intransigenza del filosofo.  La filosofia è « molesta » a chi filosofa e soprattutto a quanti  si adagiano nelle consuetudini e negli ordini costituiti; per-  ciò rischia sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni epoca  è circondata di rispetto e protezione.   Ancora: che significa « substituer peu à peu le positif  à 1° priori »? Che s'intende per « positivo » e per «a prio-  ri»? Positivi sono i « fatti», dicevano i positivisti; noi, me-  glio, che reali sono quae facta sunt, ma tra le cose quae  facta sunt vi è anche l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale  «è positivo », ma è l’«a priori » di ogni fatto; infatti, non  vi è « fatto », almeno nel senso filosofico, che non sia anche  coscienza del fatto. Un fatto positivo, diceva Pascal, sono  anche Dio, la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il po-  sitivismo questi « fatti»? A forza di sostituire il positivo  a l’a priori, nel senso in cui i termini sono usati dai posi-  tivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo,  pericoloso all’esistenza stessa della scienza e misconoscitore  dei diritti dello spirito. Non vi è fatto positivo senza espe-  rienza nel senso più esteso della parola, ma non vi è cono-  scenza intellettiva del positivo — degli enti finiti che costi-  tuiscono il reale cosmico — senza un 4 priori; e il reale  finito, per ciò stesso, rimanda al problema dei suoi prin-    76 Filosofia e Metafisica       cipii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna verità scien-  tifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la me-  tafisica, anche se, per sua buona sorte, non è positivistica.    4. — Ancora sulla distinzione fra filosofia e scienza.    Per il Centre, il filosofo è un gran peccatore contro la  filosofia senza essere un penitente. Infatti: « Il explique le  réel par l’imaginaire. Il explique le tout par une partie du  réel. Il fait prédominer la tradition ou le sentiment sur la  raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme  personnelle, il rend la pensée floue ou obscure. Il est poète,  artiste, métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur inter-  prète des résultats acquis par l’effort collectif des généra-  tions pensantes ». Dato il modo come il Centre intende la  filosofia, si può spiegare questa severa requisitoria contro il  povero filosofo; dato il modo come la intendiamo noi sono  necessari chiarimenti e precisazioni.   Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti in-  sieme non sono la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la  filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro  sistemi lo sono; pertanto, i terribili peccati dei filosofi sopra  elencati, sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce  ne occupiamo, se essa spiega il reale con umagiazio, sa-  crifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi po-  trebbe assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza,  che non sarebbe soggetta a questi traviamenti? E perchè,  nonostante tutti i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne  hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora  Pascal, possono fare a meno di tutte le scienze? Perchè  quando l’uomo si trova di fronte a se stesso e al problema  della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in al-  tezza e profondità (metafisicamente, appunto) non chiede  risposta alla matematica, all’astronomia o ad altra scienza,  ma alla filosofia?    Filosofia e concetto di filosofia 77       La requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filo-  sofo « spiega il reale con l’immaginario » è da riprendere  subito; ma se s'intende per «immaginario » ogni principio a  priori o metafisico, è da consigliare di spiegare il reale con-  tingente e particolare proprio con i principii necessari ed uni-  versali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al senti-  mento è da ammonire che la filosofia è ricerca razionale;  ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al  pari della ragione. Se è poeta ed artista non è certo filosofo,  ma non è poi sì gran danno poichè anche arte e poesia,  come tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero  filosofo; e quanto ad essere « mago », credo che questa pa-  rola siastata messa accanto all’altra di « metafisico » solo  per spirito polemico, senza che risponda ad una afferma-  zione positiva che si presti ad essere discussa. Se poi cerca  l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da con-  dannare senz'altro, ma come « un originale » non come « un  filosofo »; così pure se spiega il tutto con una sola parte del  reale, facendo un'’illegittima maggiorazione d i un principio   arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto, è respon-  sabile la scienza, per esempio, quando presume sostituirsi  alla filosofia e risolvere problemi che non le competono.   Secondo il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo  non pecchi, bisogna che sia «il puro interprete dei risultati  acquisiti dallo sforzo collettivo delle generazioni pensanti ».  In parole mie, questa affermazione significa: « perchè il  filosofo sia filosofo e non erri bisogna che smetta di fare  il filosofo ». Una delle due: o egli si limita a registrare i  risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filo-  sofia e nemmeno storia della filosofia; o « interpreta » i ri-  sultati acquisiti nel senso che li ripensa, li fa propri per acqui-  sire nuovi risultati, che segnano un avanzamento della ve-  rità rispetto ai primi, e in tal caso è filosofo, se i suoi  risultati sono filosofici e non puramente scientifici. Pecche-  rei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una    78 Filosofia e Metafisica       tale concezione della filosofia si considera pacificamente sor-  passata, se la mia conoscenza, credo sufficiente, della filo-  sofia francese contemporanea non mi autorizzasse a dire  che anche in Francia non pochi e non certo trascurabili pen-  satori sono del mio stesso parere. Del resto, anche gli stessi  teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rap-  porti tra scienza e filosofia sulla base di una diversa con-  cezione di quest’ultima.   In due punti il Cenzre insiste sulla concezione della filo-  sofia come « sforzo collettivo », come «coopération à un  grand oeuvre collectif »; purtroppo, nemmeno questa volta  posso trovarmi d’accordo. Se scienza e filosofia s’identifi-  cassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di atti-  vità da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO  questo è uno dei punti di distinzione: la scienza è opera  sforzo collettivo, la filosofia opera di sforzo personale. Mi  spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto  in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e la spingono fino  ad un certo grado per lasciarla nelle mani di altri e così  via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accet-  tano, come acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ ogget-  tività della verità scientifica è impersonale e perciò la scienza  è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo  sia. Non così la verità filosofica: è oggettiva, ma non imper-  sonale; è impegno totale del filosofo, è la sua (personale) verità  oggettiva. Essa non può essere accettata z0ut court da un  altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione  è opera del singolo, non di più uomini. Ciò dimostra non  il soggettivismo o il relativismo della verità filosofica, ma  il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qual-  siasi verità scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filo-  sofia, il suo carattere d’interiorità e, diciamolo pure, la sua  capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non  cominciano da capo, non usano le parole più comuni come  nuove di zecca, come se mai nessuno prima le avesse usate,    Filosofia e concetto di filosofia 79       non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è opera di  creazione. Ogni uomo non è la sua scienza, ogni filosofo  è la sua filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze  insieme non sono l’umanità o spiritualità dell’uomo; la  filosofia lo è, anche se non può dare la soluzione totale:  al limite massimo si apre ad una verità che non è razio-  nale ma superrazionale, non di ordine umano, ma divino  o soprannaturale.   Ciò chiarito, consentiamo col Centre nel deplorare il sog-  gettivismo radicale di certa filosofia contemporanea che si  perde in puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti  di tormento e angoscia, specie di barocco filosofico. Ma non  tutto l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune  forme di quello francese meritano la più attenta conside-  razione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il senso  della persona umana, il richiamo all'importanza della meta-  fisica che sia tale e non pura descrizione fenomenologica e,  quando ce l’ha, quell’anima religiosa che ha il merito di  aver contribuito a recuperare alla ricerca filosofica.   Ma è tempo che concludiamo senza più oltre abusare  della ospitalità che ci viene concessa. Lo facciamo come noi  possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella  filosofia dovuta a Platone: non le cose sono reali, ma le  Idee, e non le Idee aspirano al grado di realtà delle cose,  ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e  positivo è lo spirito e la filosofia è scienza dello spirito e  lo spirito è verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata  dal Cristianesimo che ai concetti di reale, verità, persona,  Dio ecc. ha dato ben altro significato. c) La filosofia è solo  scienza che è sapere e saggezza; pertanto i « réveils reli-  gieux » e le « réveries mystiques », verso cui il Centre sembra  tutt'altro che tenero, sono, i primi quanto mai benefici an-  che per una maggiore consapevolezza e coscienza critica  della filosofia e le seconde tutt'altro che «réveries». Da  ultimo, diciamo che di Scienza con la maiuscola non ne    80 Filosofia e Metafisica       conosciamo nell’ordine umano: vi è solo quella di Dio.  L’uomo, dice Pascal, non è capace di una scienza di ordine  assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspi-  ra necessariamente ed incoercibilmente, ma sempre ineffica-  cemente. Certo, la scienza deve affermare la sua verità, ma  non « sa vérité souveraine », perchè qualcosa la sorpassa infi-  nitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella filosofica;  se filosofia, la Scienza di ordine extra e superfilosofico.    CapitoLo III    FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE    Il filosofare implica due termini: la ricerca e la verità,  il soggetto cercante e l'oggetto cercato. Un’analisi del con-  cetto di filosofia s’identifica con quella di questi due termini.   Che è ricerca?   Per definire questo termine è necessario tener presente  anche l’altro con cui è in rapporto intrinseco e necessario;  e la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca  non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è essenzialmente,  assolutamente, universalmente, necessariamente: chi cerca la  verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta  dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza; dunque cerca il  tutto dell’oggetto; non può non cercarlo che con il tutto del  soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno  di tutta la vita spirituale del cercante, che è esso stesso im-  pegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il grado  di verità o di essere che è, egli non è fuori ma dentro  l'oggetto cercato, la verità. Chi cerca, dunque, cerca con’  tutto se stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e  con la ragione, con l'intelligenza e con la volontà. Io cerco  il positivo assoluto (l’essere-verità) con tutta la positività di  cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filo-  sofare è perfecte quaerere: non una astrazione che opero  su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nel-  l’atto del cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso    82 Filosofia e Metafisica       lo stesso punto tutte le capacità e le risorse del cercante, è  come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la  filosofia come ricerca della verità è movimento di conver-  genza integrale dell’uomo totale verso la verità integrale.  Movimento di coesione e compattezza, genera la solidarietà  di tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la ve-  rità che cerco (il bello, il bene, il vero ecc.), come verità  presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, uni-  versalità e necessità; richiede pertanto lo stesso atteggia-  mento spirituale; e quantunque a ciascuno di questi veri  s'indirizzi una forma particolare di attività — la sensibilità  al bello, la volontà al bene, l’intelligenza al vero ecc. — tutto  lo spirito collabora alla sua conquista e scoperta. La filosofia  come ricerca della verità è dunque la stessa vita spirituale,  impegnata nella ricerca totale della verità totale. Questa la  filosofia 4 parte subiecti; e a parte obsecti?   Lo spirito che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto  per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è  naturalmente indirizzato. Pertanto l’espressione: «lo spirito  che cerca la verità cerca se stesso» non è affatto vera se  significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso  che lo spirito trova ed attua tutto se stesso nella verità:  non è vera nel senso dell’« immanenza », bensì in quello del-  l’« interiorità ». Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità  e l’universalità del vero e cioè sempre che esso non è lo spi-  rito cercante, ma il suo oggetto, dallo spirito distinto e indi-  pendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il  reale in quanto reale è verità. Dunque l’oggetto del pen-  siero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì l’ente  in quanto è suo oggetto e dunque verità. Ma il reale come  verità è il reale come intelligibile, come ciò che è vero; dun-  que: realtà è verità; verità è ciò che è intelligibile; l’intelli-  gibile è l’oggetto del pensiero. È la verità perenne dell’idea-  lismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di verità 0  realtà intelligibile. Il soggetto non può essere concepito se    Filosofia e concetto di filosofia 83       non in termini di pensiero; il suo oggetto non può essere  pensato e conosciuto se non in termini di verità; dunque, la  filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come  la scienza della vita spirituale.   Ma a questo punto è necessario approfondire ancora il  rapporto pensiero-pensante verità-pensata, gerarchico, di di-   ndenza. Se lo spirito « tende », « aspira » alla verità, ne  è attratto e dall’interno stimolato ad essa, significa che il suo  oggetto gli è superiore; se è desiderio di verità non è essa,  che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè  immutabile è l’aspirante al possesso del divino, che gli è  interiore come riflesso della Verità in sè che lo trascende.  D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per  la verità; in questo senso e per questa sua aspirazione è  anch'esso qualcosa di divino: divino eros della divina verità.  Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la  pone, ma è la verità che pone il pensiero; dunque è prima  ed indipendente da esso, è anche quando non è pensata,  anche se nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che  le menti umane fossero; e le menti umane non ci sareb-  bero state se la verità non le avesse create.   Ma com'è possibile una verità non pensata, se non c’è  verità se non per un pensiero che la pensa?   Esatto, e da ciò consegue che se la verità è eterna —  madre e non figlia dei singoli veri che pensano le menti  umane — essa è sempre stata, è stata sempre pensata, ma  solo il Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pen-  sare l'eterna ed immutabile verità; dunque vi è il Pensiero  eterno ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed as-  soluta; esiste la Mente divina, il cui oggetto eterno ed im-  mutabile è la verità, anzi è essa stessa la Verità eterna ed  immutabile, in quanto in essa il pensiero e il suo oggetto  s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio  che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere è verità, Pensiero,  Mente.    84 Filosofia e Metafisica       La Mente-Verità assoluta crea — la verità è feconda per se  stessa — menti o spiriti fatti per la verità, ma proprio per  questo le menti create non sono la verità: Dio la Mente  pensante, gli spiriti le menti pensate alle quali per natura  è essenziale pensare la verità loro oggetto, cercarla e sco-  prirla. Nella mente creata la verità non s’identifica con essa;  dunque la verità come è data alla mente creata non è la  Verità come è in sè; è come verità astratta della Verità, im-  magine reale di essa. Nel mio pensiero leggo la verità, come  nello specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine  non ombra, verità partecipata e perciò conosciuta da me  in maniera diversa da come è conosciuta dalla Mente di-  vina; ma come verità è anch’essa assoluta.   L'immagine è nello specchio; dunque la verità data alla  mente finita è in essa, ma, a differenza dello specchio, la  mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto;  perciò è nella verità che le è interiore e la trascende. Non è  la mente che giudica la verità, ma è la verità che la fa  capace di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La ve-  rità è sempre divina; umana è la sua scoperta attraverso la  ricerca; umano è il leggere in essa.   Ecco: leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare  che l’una sia presente all’altra; è anche un raccogliersi di  tutto l’uomo, concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma rac-  cogliere la verità e raccogliersi in essa è acquistare coscienza di  noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che  essa è in noi senza essere noi, pur essendo la profondità  di noi. Dunque leggere che è filosofare: l’umano cercare e  scoprire è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo  sofia è l'intelligenza della verità, la mente pensante vi-  vente nella sua luce.   La mente non può pensare alcun oggetto se non in ter-  mini di verità, di ciò che è intelligibile; dunque, quando  penso secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-.  rità che è in me, e non è la Verità in sè: non posso pensare    Filosofia e concetto di filosofia 85       me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in termini  di verità. Il pensiero passa sempre per la verità quale che  sia l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità,  che è la sua realtà.   Ma allora pensando io penso Dio, sempre, anche quando  non Lo penso, anche quando penso che non esiste; infatti,  quando penso e conosco un vero, penso e conosco quel che  Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia mente fosse  mente, cioè capace di pensare e conoscere. Dunque, io penso  perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non  faccio essere la verità, ma essa fa che io sia un essere pen-  sante la verità, quella che a me è consentito pensare e  conoscere, ma sempre tale che la sua presenza mi obbliga 2  trascendermi, a riconoscere che è più di me, non è da me;  è dalla Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per  essere donata alla mente creata, intermediaria tra la crea-  tura e il Creatore. La verità che è in me è la molla che  mi spinge a trascendermi e a trascendere essa che pur mi  trascende, mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni  mente, rende insonne la mia ricerca.   Se è così, la filosofia come ricerca della verità è scienza  di me che cerco la Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io  e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’iden-  tifica con la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che,  scoprendo in sè la presenza mediata della Verità assoluta  creante, si volge alla ricerca essenziale e totale dell’Essere  infinito.    PARTE SECONDA    CONCETTO DI METAFISICA  E SUA PROBLEMATICA INTERNA    CapritoLo I    LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI    l. — «Cris» ed essenzialità della metafisica.    Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più  complesso dei concetti speculativi, se il semplicismo di alcuni  pensatori moderni e contemporanei non avesse disinvolta-  mente concluso che la metafisica è una pseudoscienza filo-  sofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente esca-  vazione critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito  da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo discorso, defini-  tivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di aver  concluso un discorso infinito si crede in possesso di una sem-  plificazione estrema del concetto di metafisica e di un ap-  profondimento così totale di esso da poter affermare che  metafisica non è, che è sogno — opprimente o generoso —  di un particolare filosofare ormai irreparabilmente tramon-  tato. Se davvero i negatori della metafisica fossero riesciti  a concludere definitivamente il loro discorso, bisognerebbe  considerarli metafisici così consumati da consumare senza  residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o  pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da far trasparire  il suo vuoto e il suo nulla: conosciuta e sondata profonda-  mente è risultata nient’altro che una tenace illusione pro-  dotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno im-  prudenti, si sono astenuti o hanno creduto di astenersi  dalla metafisica: non posizione antimetafisica, ma ameta-    % Filosofia e Metafisica       fisica, d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e gli  altri si sono addossati la responsabilità — conseguenza in-  vincibile della loro posizione — di considerare il problema  metafisico come non essenziale e necessario — e perciò acci-  dentale e contingente — alla filosofia. Infatti, se è possibile  filosofia senza metafisica, questa non risulta essenziale alla  prima: solo per accidente, contingentemente e quasi per una  sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha con-  siderato fondamentale e ad essa connaturato il problema  metafisico. Libera ormai di questa pesante ed inutile sopra-  struttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità  «critica » e « problematica » che il suo fondamento essen-  ziale è altrove.   Evidentemente per gli anti e gli a-metafisici non si tratta  di affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella  soluzione del problema della metafisica, ma di concludere  che non le è essenziale la metafisica tour court. Alla filosofia  è essenziale, per esempio, il problema politico o quello del-  l’arte o dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino  a quando penserà, ma non le è affatto essenziale il pro-  blema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi,  da quando gli si è dimostrato che la metafisica non è, non  è scienza e non è vera filosofia, di diritto e di fatto non ci  dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è  perchè egli, oltre che di ragione, è dotato di « immagina-  zione »; per maturo che sia, conserva sempre un grado irri-  ducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè non riesce  mai a guarire dalla sua tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò  prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e  come la sua storia si possa identificare con quella degli errori  dell’immaginazione e del dommatismo della ragione astratta,  ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve,  si afferma: a) si può (si deve) porre e risolvere il problema  dell’arte o quello della economia o qualsiasi altro, senza  che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del .    Concetto di metafisica 9I       problema di quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo  ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più  giusta o meno ingiusta o se l’arte sia un'attività alogica o  logica, anzichè conoscere che cosa egli sia, donde venga,  che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i pro-  blemi inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio,  si fa — sempre concretamente, seriamente e con mente  sana — della vera filosofia, poniamo, intorno alla repub-  blica o alla monarchia, all’utile o al piacere! Antimetafisici  e a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della  metafisica e si può dar loro ragione quando si tratta, per  esempio, di certe metafisiche idealistiche o materialistiche,  ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettan-  tismo vacuo dell’antimetafisica moderna e contemporanea.   Infatti, solo per aberrazione o errore della mente (da al-  cuni amato e vagheggiato con lunghi pensieri) si può ne-  gare che l’esigenza metafisica sia naturale, essenziale e uni-  versale. Già Kant nella Prefazione alla prima edizione della  Critica della ragion pura osserva che «i sedicenti indifferenti  finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche »;  e il Gentile — il solo dei neohegeliani italiani contemporanei  che abbia avuto mente di filosofo — rileva (La riforma della  dialettica hegeliana, Messina, 1923, II edizione, p. 110) che  «c’è un momento immancabile nello sviluppo ideale dello  spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della  filosofia: quel momento in cui il contrasto della morte con  la vita, la differenza tra il non essere e l’essere, spinge  l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? ». Questa  domanda, che è la posizione più efficace del problema  metafisico, «suona nei secoli, e riassume tutta la storia  del pensiero umano » (ici, p. 114). Perciò Aristotele, che  di essa ha dato la formulazione più profonda e più sem-  plice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema  che si aggira « intorno all’ente in quanto ente» (#e9ì 705    4 + ”  ovtos dv).    92 Filosofia e Metafisica       Il problema metafisico si presenta così essenziale al pen-  siero (e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche  studioso che, in fondo, tutti ammettono un concetto del  reale, anche coloro che negano la metafisica e si dichiarano  antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recente-  mente Mons. Olgiati in un articolo chiarificatore (Il con-  cetto di metafisica, in « Riv. di filos. neosc. », fasc. IV, 1945,  p- 226) quel che è in qualche modo, cioè che non è il puro  nulla; e perciò tutti concordiamo che qualcosa di reale c’è  (ivi, p. 228). Dunque, « persino i negatori della razionalità  del reale, come altresì i negatori della metafisica, fondano  le loro dottrine, e le vivificano in ogni momento di esse,  su un loro concetto di realtà » (01, p. 232). Se ogni sistema  ha un suo concetto della realtà in quanto realtà e « non può  non averlo, sotto pena di venire escluso dal mondo filoso-  fico » e se tale concetto lo hanno tutti (chi dice, per esempio,  che la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi  tutto riduce a problematicità, definisce la realtà come proble-  maticità), « ne risulta che ogni filosofo ha una sua meta-  fisica, non essendo quest’ultima null’altro se non la scienza  che studia la realtà în quanto realtà » (p. 242).   Se fosse vero quello che scrive Mons. Olgiati — e vorrem-  mo che lo fosse — non si dovrebbe parlare, ormai da tempo  non breve, di una crisi della metafisica in generale, nè di posi-  zioni negatrici di essa, ma soltanto della crisi della classica  metafisica dell’essere e del conseguente succedersi di altre  concezioni del reale in quanto reale, cioè di metafisiche  diverse da quella e tra loro. A noi sembra invece che nel  pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio  rifiuto e mépris della metafisica (non di questa o di quel-  la) e chi nega la metafisica sic et simpliciter e si dichiara  antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire  soltanto: «io nego la metafisica dell’essere o quella del  pensiero o altra che sia, ma sono ugualmente metafisico,    Concetto di metafisica 93       in quanto concepisco la realtà in un certo modo». Chi,  per esempio, dice che il reale è il divenire storico o la pura  problematicità, nega che esiste un principio assoluto, che  al di là del mondo «fisico» — nel senso di « questo » no-  stro mondo — vi sia alcunchè, come pure nega che in « que-  sto» mondo vi siano enti o sostanze che soztostanno alla  pura fenomenicità. Dal punto di vista dell’Olgiati, invece,  la polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi,  sarebbe puramente apparente; in realtà si tratterebbe di una  serrata discussione tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi  diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario,  si tratta di posizioni (se siano da considerare filosofiche o  no è altro discorso), le quali negano decisamente ogni prin-  cipio assoluto, qualcosa al di là del nostro mondo o al di  qua o al di sotto di quel che il divenire manifesta nel suo  divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile  e dunque negano la possibilità di una metafisica come scien-  za, cioè la validità di una risposta filosofica quale che sia  alla domanda di che cosa è il reale in quanto reale. E questo  è negare senz'altro che vi è una metafisica e non un sem-  plice contrasto su che cosa è realtà per il fatto che si nega  l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia.   Noi crediamo, dunque, che il problema vada impostato  in altro modo e precisamente: 4) la filosofia come pura pro-  blematicità o si risolve nella contraddizione in termini di con-  siderare il problema come soluzione — la soluzione del  problema è porre e chiarire il problema stesso —; o, nel  porre i problemi, porta in sè invincibilmente l’esigenza e  gli elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui  i problemi han senso e trascendono lo stesso problematiz-  zare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è  necessario un principio assoluto, che la ricerca può scoprire  ma non creare; la guida, trascendendola, anche come ri-  cerca dello stesso principio assoluto. In tal modo, la filosofia    94 Filosofia e Metafisica       come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente, l’esi-  genza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio pri-  mo ed assoluto del sapere. 5) Similmente la filosofia come  storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella  contraddizione in termini di considerare l’essere come dive-  nire, oppure, nel momento stesso di porre il problema del  divenire, sporge all’essere che il divenire fonda e trascende:  fa scaturire irresistibilmente l’esigenza di un principio (e  non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del  divenire stesso e della storia, che non è storico nè dive-  niente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca al  suo stesso dinamismo, pone anch'essa l’istanza metafisica.  c) Da ultimo, le filosofie immanentistiche in generale, pur  non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno  perseguito e sviluppato fino in fondo il principio o demone  dell’immanenza, solo arbitrariamente (e dunque non razio-  nalmente) possono concludere per la sua verità, in quanto  qualunque sforzo, il più impegnato e critico, di autosuffi-  cienza della natura e dell’uomo non è sufficiente a vincere la  consapevolezza della nostra insufficienza e della contingenza  del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ric-  chezza del nostro spirito e una sua detonalizzazione — so-  lo una concezione non razionale e non razionalmente giu-  stificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque  astratta — ci possono convincere della nostra autosufficienza  ed adeguazione alla natura, che, a questo prezzo, è la no-  stra degradazione al finito senza aspirazione d’infinito, ad  un destino puramente terreno, cioè di nulla. È come se per  dimostrare che gli uccelli non son fatti per volare, taglias-  simo loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento in-  naturale non spengerebbe in essi il desiderio istintivo del volo.  L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in  lui sono tutti i dati sufficienti e necessari per dimostrarne  l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere al posto del- .  l’uomo reale e concreto una sua figurazione immaginaria o    Concetto di Metafisica 95       un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso  frutto della immaginazione e dell’astrazione. In questo sen-  so, conveniamo con mons. Olgiati che anche — soprattutto  — l’indagine intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del principio essenziale del reale,  che non può farsi con procedimento astrattivo, nè per enu-  merazione (p. 229).   Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una prima con-  clusione: non ogni negazione della metafisica, anche la più  decisa, è sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi  dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o ametafisica porta  in sè immanente, intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile  ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi  validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o ametafisica per  difetto di approfondimento critico della natura del pensiero  e del reale. Così non poche posizioni speculative ci si pre-  sentano, non come tante diverse antimetafisiche pur meta-  fisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci — meglio  come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista —  di abolire la metafisica, che rinasce, invece, dalla sua stessa  negazione, invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci ri-  sultano, dunque, essi stessi, tante prove della ineliminabilità  dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti  e l’ametafisica non possono e non potranno mai escludere la  possibilità della metafisica, la quale è possibilità assoluta, il  risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica.  E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo accennato: quando  dite all'uomo: «tutto è problema », risponde: « sarà vero,  ma io son fatto per la soluzione »; « tutto è qui », confessa:  « ed in me è reale e naturale l’ aspirazione all’al di là »; « tut-  to l'universo è tuo », aggiunge: «ed io sono più dell’uni-  verso e vi è troppa dignità in me per potermene acconten-  tare; anche se tutto l’universo fosse mio non basterebbe perchè  fossi me stesso e in me stesso capissi fino in fondo »; « tutto è  relativo », obietta: « ed io sento di esser fatto per l’assoluto,    % Filosofia e Metafisica       so di avere in me stesso una presenza di assoluto »; « tutto  è divenire », protesta: «la mia vocazione è l’essere perchè  l’essere è la mia radice, il principio del mio pensare, il de-  stino della mia esistenza ». Il discorso sul finito non si con-  chiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come la prima-  vera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino  il discorso sul Nulla sottintende sempre un silenzioso e per-  ciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere: chi  dice: « nulla è di ciò che è », intende dire: « solo l’eterno  è reale ». L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente  apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi, piuttosto che con-  siderare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche, pre-  feriamo considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano  nelle loro istanze antimetafisiche delle filosofie, in quanto,  dove manca metafisica, manca filosofia, che è indagine sul-  l’essenza della realtà in quanto realtà, ricerca del principio  assoluto, risposta ai problemi che investono la nostra ori-  gine, il senso supremo e autentico della nostra vita, il destino  della nostra esistenza.    2. — Metafisica e trascendenza. Le istanze della interionità.    Questo discorso sottintende una equazione: metafisica  uguale trascendenza, perchè tale è anche la filosofia. Se filo-  sofare è cercare, l'oggetto della ricerca trascende la ricerca  stessa; se filosofia è scoperta del principio assoluto, questo  fonda e condiziona ogni filosofare e perciò trascende il pen-  siero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è inappaga-  mento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso,  è già trascendenza implicita e aspirazione esplicita ad una  realtà da e per cui è tutto ciò che è ('). Perciò alla meta-    (1) L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in « Salesianum », genn.-marzo 1948)  trova questa mia definizione della metafisica « inadeguata perchè si ferma soltanto  sull’esigenza della trascendenza, la quale costituisce certamente l'elemento riso-  lutivo e il punto di arrivo di ogni metafisica autentica, ma non è tutta la  metafisica ». Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza tra-    Concetto di metafisica 97       fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-uni-  versale e una relativa-particolare, di cui la prima è il fon-  damento. Di qui la distinzione tra il sapere assoluto e un  sapere relativo, il primo condizionante ogni altro sapere,  che da esso dipende. Parmenide per primo (« padre nostro »  lo chiama Platone), in maniera chiara ed esplicita, distinse  la realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli  enti molteplici, il mondo dell’Essere puro dal nostro conta-  minato dal non-essere, questo condizionato dall’altro, infe-  riore. La prima decisa affermazione del reale assoluto compor-  ta, dunque, il « ridimensionamento » del reale relativo, cioè  è nata dalla constatazione della contingenza e perciò della in-  sufficienza di « questo » mondo e dunque dalla necessità del  pensiero di trascendersi in un principio assoluto, fondamento  di ogni reale e di ogni sapere. Parmenide è la prima rivela-  zione, in sede filosofica, del pensiero a se stesso, l'esplicita  consapevolezza che la filosofia o il pensiero ha come suo  oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone  raccolse l’eredità della netta distinzione tra « fisico » e « me-  tafisico », tra il « sensibile » e l’«Idea » o forma universale  di ogni realtà particolare, tra le Idee che essenzialmente sono  ( 6vttws dvra ) sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27  aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non  sono. Stabilì una gerarchia ancora più decisa: il « metafisi-  co » sovrasta il « fisico », come ciò che è assolutamente ciò  che è relativamente e condizionatamente, come l’eterno il  temporale; e sulla base di questa gerarchia fissò il fine del-  l’anima umana nella « aspirazione » al reale in sè, nell’Eros  per il suo destino ultraterreno, nella contemplazione dell’e-  terno Essere. Aristotele si propose di stabilire una relazione  ontologica tra i due mondi, ma co nservò il platonismo del  principio assoluto della scienza universale dell'ente in quan-    scendenza, se metafisica significa ricerca di ciò che è « al di là della fisica ».  In questo senso la trascendenza gon è solo « punto di arrivo », ma è anche  implicita inizialmente nel punto di partenza.    98 Filosofia e Metafisica       to ente, fondamento di ogni particolare sapere. Noi crediamo  che questa distinzione tra il relativo e l’assoluto trascen-  dente sia essenziale ad ogni costruzione filosofica avente un  nucleo metafisico per cui, e solo per esso, merita il nome  di concezione filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio,  quasi a giudizio unanime, le filosofie dette postaristoteliche  segnano la decadenza del pensiero classico: la dualità di  « fisico » e «metafisico » vi diventa secondaria, la meta-  fisica è fatta rientrare nella fisica e il principio è identificato,  in un monismo opaco, con la realtà naturale. Le ali di Eros  si chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un  mondo finito, accettato con l’indifferenza che detta l’amor  fati, ma senza la serenità del convincimento persuaso. Per  lo stesso motivo facciamo cominciare col « terminismo »  di Occam la decadenza della Scolastica. La carenza metafi-  sica, in qualunque epoca del pensiero, si presenta come il  dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare il  sensibile e il bloccarsi nell’esperienza siano i pesi mortificanti  la potenza del pensiero, per sua natura doviziosamente ge-  neroso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino  come l’ultima grande affermazione della Grecia immortale  e i grandi pensatori della Patristica e della Scolastica come i  rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche  veramente filosofiche sono quelle dei grandi metafisici. Con  ciò abbiamo segnato la condanna, sia pure parziale, della  speculazione del nostro tempo.   Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essen-  ziale e perenne che è l’anima stessa di ogni vera metafisica:  l'aspirazione al di lè del fisico (trans-physica), divino Eros,  che è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione  beatificante dell’Essere assoluto eterno; platonismo essenzia-  le che importa distinzione e dualità di mondi: « questo » e  «l’altro» in un rapporto di relativo e assoluto, di contin-  gente e necessario, di temporale ed eterno. Platonismo, che  è nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una meta-    Concetto di metafisica 99       fisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo pe-  renne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con la Verità che  è; interiorità che non abolisce il mondo, anzi, dal di dentro,  lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo  di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt sono prova e testi-  monianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del   , miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bo-  naventura.   A noi sembra che l’istanza agostiniana, in una discussione  intorno al concetto di metafisica coincidente con quello di  filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente signi-  ficativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è an-  cora cosmologia e con l’idea cosmologica identifica, in fon-  do, l’idea teologica: il Demiurgo e il Motore immobile  sono i due principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino,  mediatore tra le Idee e la materia, l’altro, Causa prima del  movimento. È una metafisica al servizio della natura fisica e  dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafi-  sica, dunque, come scienza della natura, con cui Aristotele  identifica la realtà in quanto realtà: l’« al di là » del mondo è  sempre un « mondo » e non lo Spirito creante. In esso manca  il problema dell’uomo in quanto uomo, così come lo si conce-  pisce e lo si pone dal Cristianesimo in poi con quell’interesse  quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi  è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo, al quale  nessuno, credo, vorrà negare il diritto di cominciare, come  dice E. Le Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà  quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha cominciato Agostino  il suo discorso metafisico e si è accorto che, quale che sia il pro-  blema, la soluzione si trova sempre nella Verità che è e nel-  l’Essere che è la Verità. Questo senso d’interiorità profonda-  mente umana di ogni problema filosofico non va perduto:  in esso riponiamo principalmente l’avvenire della metafisica.   Anche la storia della filosofia crediamo che su questo  punto ci dia ragione. La metafisica, come scienza prima della    100 Filosofia e Metafisica       natura o ricerca dei principii primi del mondo fisico, fino  alla scoperta della scienza moderna, non distingueva netta-  mente i due mondi; essa aveva ereditato il carattere natura-  listico della metafisica aristotelica, per la quale anche i pro-  blemi di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’ani-  ma (psicologia razionale) si pongono sul terreno della natura  fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identifi-  care la visione «scientifica » con la visione « metafisica »  della realtà. La critica kantiana della metafisica è la critica  della concezione scientifico-metafisica del razionalismo da  Cartesio al Wolff e tende a distinguere la « teoria della scien-  za » (Critica della ragion pura) dalla « teoria della morale »  (Critica della ragion pratica), dove è legittimo porsi i pro-  blemi della metafisica. La reazione positivistica e neokan-  tiana, contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo  Ottocento, è giustificata dagli arbitri di quella « filosofia  della natura », cioè di una costruzione aprioristica (e in que-  sto senso metafisica) della scienza. La metafisica dell’espe-  rienza interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra  che non si presti a questi equivoci: per essa il principio as-  soluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso  del pensiero; dall’escavazione dell’uomo nell’uomo; dalla  presenza implicita della verità alla mente; dal conflitto della  vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale  e la cui soluzione rimanda razionalmente alla trascendenza;  dalla costituzione stessa del pensiero che è capace di verità,  in quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita  interiore, senza di cui non sarebbe pensiero e sarebbe morte.  Contro queste istanze metafisiche non c’è scienza o « critica »  che valgano, in quanto e la scienza e la critica, le più svi-  luppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità, che  può essere solo negata — e perciò anche questa negazione è  pur essa conferma — da un atto non razionale e dunque non  scientifico, non critico e, in definitiva, non filosofico.   Si consideri ancora che, da quando scienza e filosofia,    Concetto di metafisica 101       fisica e metafisica, pur non ignorandosi, seguono metodi pro-  pri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vi-  sta differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da  quello dell’altra, l’attenzione della filosofia si è concentrata  sull’uomo e su quelle che sono le forme della sua attività. La  storia, l’estetica, la politica, l’economia; le scienze morali in  generale, considerate speculativamente, sono oggi i problemi  vivi della filosofia. È vero che essi, proprio perchè posti come  problemi filosofici, importano sempre una visione totale della  realtà, ma il reale fisico, in quanto tale, interessa subordi-  natamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce alla  soluzione dei problemi dell’uomo. Le costruzioni metafisi-  che, nel senso di filosofia della natura, si debbono più agli  RASTA che ai filosofi veri e propri. Di questa esi-  genza, che possiamo chiamare « umanistica », una costru-  zione metafisica, oggi, non può non tener conto. Non che  il mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse  apparenza illusoria ed opaca materia, sorda alla luce del  pensiero; tutt'altro: la metafisica non può non essere che la  scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo  dire che l’uomo interessa all'uomo più di ogni altra cosa e  una presa di contatto della metafisica con il reale-uomo ri-  porta i suoi problemi a quella interiorità, che è sempre stata  l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende  la metafisica stessa aderente al problema-uomo — ai pro-  blemi del donde vengo, chi sono e dove vado — la cui solu-  zione, in definitiva, sta alla base di quella del significato e  del valore del mondo in generale. Da questo punto di vista  possiamo dare in parte ragione al Carlini, il quale tenendo  presente una determinata concezione della metafisica, consi-  dera tutta la metafisica scienza naturalistica che indaga in-  torno al principio del mondo, quasi una continuazione del-  la fisica, scienza dell’« essere » contrapposto allo « spirito ».  Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica,  come sembra pensare il Carlini, in quanto vi può essere (e    102 Filosofia e Metafisica       vi è nella storia della filosofia) una metafisica dell’esperienza  interiore, dove «essere » e « spirito » non si contrappongo-  no, dove resta primo il concetto del cos'è il reale in quanto  reale, ma dove il reale non è più naturalisticamente inteso.  In questa metafisica, che è ancora scienza che non sta con-  tenta al come, il problema del propter quid importa l’im-  pegno totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle cose  ad un comune destino, per cui il problema metafisico è  innanzi tutto problema dell’uomo in quanto uomo. L’in-  tus legere (intelligere) che è la filosofia o la metafisica  non è solo un leggere nell’inzus delle cose, ma è — in-  nanzi tutto — un leggere nel nostro intus, in interiore  homine; solo quando questa pagina sarà decifrata e chia-  ra, sarà possibile leggere, « metafisicamente » e non « scien-  tificamente », anche il libro della natura, decifrarlo e  chiarirlo. Possiamo, dunque, convenire anche con lo Hei-  degger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che  la metafisica è sì questione sul senso dell’essere « nel suo  insieme e in quanto tale », ma che l’ontologia è vincolata  all’antropologia: l’uomo che indaga è egli stesso oggetto  primo della sua indagine, il ricercatore è incluso nella sua  ricerca. « Ogni domanda metafisica racchiude la problema-  ticità della metafisica nella sua totalità », ma « nessuna do-  manda metafisica può porsi se non è posto in questione —  come tale — colui, che fa la domanda, se non diventa dun-  que domanda egli stesso ». (Was ist Metaphysik?, trad. it.  Milano, Bocca, 1942, p. 55).   Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non sono nè  anti nè a-metafisici e ripongono sul tappeto della più viva  discussione filosofica il problema della metafisica, pur ac-  cettando la posizione classica del problema stesso, ne accen-  tuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico. Non si tratta  d’indulgere ad una moda, come se quel che è stata verità  una volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo  storicistico negatore della verità e della filosofia, ma di    Concetto di Metafisica 103       cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che co-.  stituiscono l’anima dell’indagine metafisica e impediscono  che essa si presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza  puramente naturalistica, anzichè sotto l’altro, che le è più  proprio ed essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello  spirito umano, senza di cui non sarebbero nè l’uomo nè le  cose e lo spirito stesso sarebbe materialità, passività e morte.  Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere  la costante ed insopprimibile esigenza metafisica, anche nei  sistemi anti o ametafisici, sia per provare la essenzialità ed  universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia,  sia per dimostrare, conseguentemente, come nessuna nega-  zione della metafisica possa negare se non altro la possibilità  della metafisica stessa, essendo essa il primo iniziale che  muove ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la  speranza suprema e dunque il fine del pensiero. Aderire alle  istanze della filosofia moderna e contemporanea ci sembra  una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare;  nel nostro caso, per porre concretamente e criticamente il  problema della metafisica. Le critiche e le accuse, quando  non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità  costituzionale per certi problemi, servono a chiarire altri  aspetti della questione e consentono al metafisico di riporsi  il problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella  complessità di momenti, che impedisce una visione par-  ziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale.  L’antimetafisica che quasi senza soste e a volte con accani-  mento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo del-  l’illuminismo anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigen-  za del pensiero. Essa impone, da un lato, la difesa ad ol-  tranza della metafisica in nome del diritto alla vita del-  la filosofia e, dall’altro, il dovere, per il metafisico, di  riporsi il problema in modo che l’istanza metafisica  esca vittoriosa dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle  stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic-    104 Filosofia e Metafisica       chè la sua risposta, più ricca e complessa, comprenda in  sè le esigenze che sembrava escludere e che, solo apparen-  temente, per un errore di prospettiva, si erano poste contro  la metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad  una determinata soluzione del problema metafisico, la quale  trova in quelle critiche non la negazione della sua verità,  ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel  che è stato una volta verità, verità sarà sempre, ma è del-  l'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il cre-  scere continuamente di e su se stessa, in modo da conqui-  starsi sempre più come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza  critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per  dimostrare come non vi è verità che muoia e verità che  nasca per morire ancora, problema che si ponga per restare  sempre problema, esasperatamente tale, ma che vi è ve-  rità perenne che perennemente è vera, oggi più compren-  siva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è evi-  dente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese,  la critica kantiana della metafisica del razionalismo moder-  no, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente del-  l’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte me-  tafisiche contemporanee dell’intuizione, dell’azione, della vo-  lontà, della vita ecc., come pure le stesse negazioni radicali  di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro  sterile (agli effetti dell’avanzamento della questione) pole-  mica contro la classica metafisica dell’essere o della verità  trascendente o dell’oggettivismo o dell’intellettualismo, ma  in quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè:  nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove prospettive, di cui  la metafisica, come la scienza del che cos'è la realtà in quanto  realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia dav-  vero comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze,  in quel che hanno di vero, e di esse l’inveramento concreto (?).   (2) Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia una forma di colla-    borazione feconda nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica)  con la Neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano e, in special modo,    Concetto di Metafisica 105       3. —- La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro-  blemi della metafisica.    Al principio di questo capitolo abbiamo rilevato la com-  plessità di sensi e problemi del termine metafisica, diffi-  cilmente includibili in una veduta comprensiva ed armoniz-  zante di tutti: non di rado si dà la preferenza ad un senso  o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La meta-  fisica è conoscenza astratta, o la più concreta? è opera esclu-  siva della ragione e perciò pura costruzione 4 priori? è sco-  perta delle regole fondamentali del pensiero e perciò valide  per ogni scienza sia fisica che morale? E potremmo ancora  continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafi-  sici, siano d’accordo che essa, come la definì Aristotele, è Za    con Mons. Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come  si pone oggi il problema della metafisica (in «Riv. di filos. neosc. », n. 1,  1922) l° Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella  forma aristotelico-tomista, la quale, dunque resta come l’unica, intatta ed intan-  gibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa affatto, perchè  questa, fenomenistica, considera fenomeno il reale in quanto reale e non col-  pisce, in fondo, la concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la metafi-  sica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata. A noi  sembra che, anche ammesso e non concesso che tutto il pensiero da Cartesio  in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema della meta-  fisica posto « oggi », di vederc quali istanze la metafisica fenomenistica ponga  contro (o a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia chiamata a  tenerne conto se vuol parlare un linguaggio significante per la filosofia moderna  e contemporanea. « Tenerne conto » non significa affatto rinunzia a quel che è  la sua verità, ma dimostrazione della sua fecondità e vita perenne nell’unico  modo in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come  verità comprensiva di esigenze diverse, di essere sufficiente a risolverle ed aperta  a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre meglio a  se stessa, la confermano come verità di ieri e di oggi e non soltanto di un  « ieri », che « oggi » può non interamente soddisfare.   Per quanto qui è detto (e soprattutto per quanto si legge in molti punti  di questo volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a  me e agli altri collaboratori del « Giornale di Metafisica », che nessuno di noi  « si preoccupa del problema critico, come se la metafisica non fosse mai stata  messa in discussione » (« Rivista di Filosofia », genn. 1948, p, 97). Precisa-  mente il contrario: in tutti noi è vivissima tale preoccupazione e il nostro è  un dialogo costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo  dire che, se un qualche interesse ha la mia posizione speculativa, è precisamente  quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza critica, si arrivi  ad una soluzione positiva e razionale dei problemi della metafisica.    106 Filosofia e Metafisica       quosopia 736, la scienza dei principii primi. Così intesa  ebbe l’ultima grande sistemazione scolastica dal Wolff con  la duplice divisione in metafisica generale od ontologia  (scienza dei principii primi in generale e dell'essere in quanto  essere) e metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza  dell'anima — psicologia razionale —; filosofia della natura —  cosmologia razionale —; esistenza di Dio e suoi attributi —  teologia razionale e teodicea). In verità il problema primo  è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di esso, in un  senso o nell’altro, condiziona quella degli altri problemi,  anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria  della conoscenza (problema del fondamento critico del sa-  pere), la teoria dell’essere, come pure il problema dell’im-  mortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto,  di Dio, principio primo di ogni conoscenza e di ogni essere.  Di fronte a questi problemi quali sono le posizioni fonda-  mentali della filosofia moderna e contemporanea?  Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare il pen-  siero moderno, nella Prefazione ai Principes, la considera  «la racine » dell’albero della scienza, avente però come og-  getto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per  mezzo della « ragione naturale » (Méditazions, Epitre dédi-  catoire). La metafisica si distingue così dalla fisica, dalla ma-  tematica ed anche dalla morale e si presenta come teologia  e psicologia razionali. Cartesio, in fondo, rivendica, anche  se ancora non in maniera netta e decisa, l'autonomia delle  scienze fisico-matematiche e quella della morale. « Imma-  teriali » gli oggetti della metafisica: dunque, non spaziali e  non sensibili come dirà Malebranche (Enzréziens, I): c'è,  in fondo, in Cartesio — e di più in alcuni cartesiani —  un'istanza platonica. D'altra parte, la certezza interiore del  Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà  naturale restano nettamente distinte e con la dualità sorge  il problema del loro rapporto. Dunque, ancora, platonismo.  Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la    Concetto dî metafisica 107       soluzione del problema testè indicato: la occasionalistica  e la spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Car-  tesio, non escludenti l’etica. Si consideri che il problema della  relazione tra le due res è imposto dall’ente-uomo dove si trova  concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più sol-  tanto ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o natu-  rale (il mondo, per Malebranche, è quasi superfluo ed è  un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto cono-  scenza ed etica, determinazione delle modalità del conoscere  e del volere. Il Leibniz sistemò diverse istanze del raziona-  lismo cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella me-  tafisica la nota divisione scolastica.   La crisi della metafisica razionalistica comincia con la  critica della conoscenza — con la gnoseologia nel senso  moderno del termine — dell’empirismo inglese. Il bersaglio  è preciso: il principio assoluto del sapere così come il ra-  zionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale:  ogni realtà oggettiva o assoluta, che la metafisica presup-  pone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile, è  un inconoscibile o una credenza. Leibniz cerca di correre ai  ripari: alla critica lockiana dell’innatismo contrappone il con-  cetto di virtualità, al nominalismo la distinzione tra verità  di ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica  dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a costruire una me-  tafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è  sempre rivendicazione del concreto individuale, degli enti  particolari; inoltre, come tale, implica sul terreno gno-  seologico la risoluzione di ogni realtà oggettiva nella per-  cezione soggettiva. La realtà si pluralizza in infinite sostan-  ze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò ac-  cade non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza  dello Spinoza, mette un universo di monadi, ma anche per  Berkeley, per il quale l’universo è costituito di sostanze per-  cepienti. Si consideri che il Berkeley assolve, dentro l’em-  pirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz contro    108 Filosofia e Metafisica       di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti  e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico del Berkeley s’in-  tende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al  monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro l’uno e l’al-  tro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il  cogito), Hume nega che vi sia una sostanza pensante meta-  fisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così  l’oggetto della metafisica, come mondo naturale e spiri-  tuale, come essenza dell’essere e come principio assoluto del  conoscere, si dissolve, attraverso un processo che va dal  Cogito di Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà,  tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea  del percepire o dell’apparire.   Quasi contemporaneamente gli ideologi francesi del se-  colo XVIII (« l’àge barbare de la philosophie », come scrive  il Lachelier) intendono il termine metafisica nel suo signifi  cato deteriore di inutile logomachia, di vano ed oscuro filo-  sofare (« le roman de la nature » come la definisce Voltaire  nell’articolo ironico « Métaphysique » che si legge nel suo  Dictionnaire philosophique). Ignoranti com’erano del Medio-  evo, coinvolgono nella stessa condanna la grande metafisica  della Scolastica e le sottigliezze fatue della decadenza della  Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo averroista, conti-  nuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in  special modo propria dei filosofi-scienziati del secolo XVII  e alla quale erano rimasti tutt'altro che estranei sia il ma-  terialista Hobbes che Cartesio e Spinoza. All’antica metafi-  sica « teologica » ed astratta contrappongono la loro, intesa,  in opposizione alla fisica (e qui sono cartesiani) come scienza  dello spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac  considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur l'origine des con-  naissences humaines) «bonne métaphysique » la sua teoria  dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana;  e il Destutt de Tracy distingue «l’ancienne métaphysique  théologique » dalla « moderne métaphysique philosophique    Concetto di metafisica 109       ou l’idéologie ». Metafisica, in breve, è conoscenza dei prin-  cipii generali di un'arte (un poeta o un musico, che vogliono  rendersi conto dei principii della loro arte, ne fanno la meta-  fisica) e di una particolare scienza o di quanto non è  oggetto dei sensi esterni come le «operazioni e facoltà  dello spirito », quali le sensazioni, la memoria, la volontà,  ecc. D’Alembert, nel celebre Discours préliminaire de l’En-  cyclopedie, poteva scrivere che Locke «créa la métaphysi-  que ». Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza  degli oggetti immateriali) e l’opposizione di essa alla fisica,  la critica lockiana del concetto di sostanza e la posizione  critica del problema della conoscenza, la negazione humiana  della realtà della sostanza estesa e pensante, l’identifi-  cazione del concetto di « natura » con quello di materia, il  senso della concretezza del particolare e della positività della  ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distin-  zione della realtà in due aspetti: quello naturale o fisico,  oggetto della scienza, sistemato nella concezione meccani-  cistica e deterministica e l’altro umano o « spirituale », 0g-  getto della filosofia vera e propria, intesa come analisi delle  facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, mora-  le, psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica,  la quale non si distingue dalla « gnoseologia » o dall’« ideolo-  gia », intesa come «ricerca sulle facoltà della natura uma-  na », limitata all’indagine dell’origine delle idee, dell’og-  getto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che  la soluzione del problema gnoseologico condiziona quella  della possibilità della scienza della natura o meglio della  scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della  metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo nell’insieme delle  sue facoltà (sensoriali, intellettive e volitive) e come il pro-  blema metafisico si ponga non nei termini di che cosa è il  reale in quanto reale, ma in quelli di che cosa è l’incondi-  zionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura dello  Hume lo pose di fronte a questo problema, sospese la meta-    110 Filosofia e Metafisica       fisica razionalistica leibniziano-wolffiana e si chiese: è pos-  sibile una metafisica come scienza?   Non vi ha dubbio che Kant, nel porsi questa domanda  intorno al problema che restò centrale in tutti i suoi inte-  ressi di pensatore, si proponesse sinceramente di ricostruire  l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza «critica »,  che gli aveva fatto sospendere la costruzione « dogmatica »  del razionalismo. Così il suo primo problema no-n è quello  di una «teoria » della conoscenza, ma della «critica » del  conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ra-  gione dispone per costruire la metafisica. L'indagine critica  lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due  aspetti della questione da tener distinti: 4) vi è un problema  della metafisica « come filosofia dei fondamenti primi della  conoscenza » che s’identifica con la stessa critica, cioè con la  fondazione assoluta dei mezzi del conoscere e non con quello  della metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione  della quale quei fondamenti dovrebbero essere strumenti;  5) vi è un altro problema della metafisica come compren-  siva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che appartiene  alla Ragione pura e costituisce, non una scienza nel senso  della prima, ma una « scienza dei limiti della ragione uma-  na ». Non tener distinti questi due aspetti del problema ed  applicare le forme del conoscere valide per la conoscenza  del sensibile agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’er-  rore e dei paralogismi creando un sapere illusorio che si  avvolge nelle insolubili antinomie della dialettica. A_ questo  punto, alla domanda, « che cosa è il reale in quanto reale »,  Kant dà una duplice risposta: 4) come reale fenomenico è  il « contenuto » della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello  spazio e del tempo e le categorie dell'intelletto sono le  « forme » trascendentali, valide solo per quel contenuto e  come principii necessari universali e assoluti per costruire  la scienza matematica e fisica. Con questa risposta Kant  vuole risolvere il problema della metafisica intesa come    Concetto di metafisica 11}       scienza dei principi primi del sapere, dentro i limiti di un  sapere come conoscenza del sensibile e del fenomenico; e con  ciò conclude il problema del valore del pensiero e dell’analisi  della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato  in eredità a tutto il razionalismo e a tutto l’empirismo  moderno. 3) Come reale assoluto o cosa in sè è il « con-  tenuto » di una forma che non può essere alcuna di quelle  dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenome-  nico (non ci sembra, dunque, che si possa sostenere che,  per Kant, la realtà sia soltanto fenomeno), ma di un’al-  tra forma valida per un sapere o per una scienza che  non è la matematica e la fisica. Tale scienza è appunto  la morale, di cui i problemi della wolffiana metafisica  speciale o degli esseri sono i postulati indispensabili. Kant,  dunque, non dice che non è possibile una metafisica co-  me scienza in generale, ma solo come scienza nel senso di  quella della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Pro-  legomeni necessari di ogni futura metafisica che si presenti  come scienza — senza escludere, anzi includendo, che è pos-  sibile una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, le-  gato al concetto di trascendentalità delle forme a priori come  pure funzioni o condizioni del conoscere e preoccupato di  fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafi-  sica, ma solo indicare gli oggetti di essa come pure esi-  genze e postulati. Tuttavia, crediamo non vi sia dubbio che  sia questa l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai  scrivere nonostante vi si sia provato — esistono frammenti di  questi tentativi — una metafisica della natura, per il motivo  che questa era già stata risolta nella stessa critica, mentre  potè scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la  Metafisica dei costumi. Di lui resta l'insegnamento, da met-  tere a profitto sulla linea della metafisica classica (non inten-  diamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristo-  telico), che la metafisica è una scienza indipendente dalle  altre, le cui « Idee » rivelano la loro efficacia, ineliminabile    112 Filosofia e Metafisica       ed insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o, come  noi diciamo più comprensivamente ed esattamente, della « vi-  ta spirituale »; « Idee » che la « ragione pura », nel senso kan-  tiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò stesso una di-  stinzione tra il regno dello spirito e quello della natura, alla  cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha  riportato la metafisica al suo oggetto proprio e ha fatto dei  suoi problemi le questioni essenziali e fondamentali del-  l’uomo. Egli approfondisce («critica ») il senso cartesiano  della metafisica considerandola un modo speciale di pensa-  re: i suoi oggetti sono «immateriali » e perciò le eventuali  conoscenze, che di essi la ragione può avere, devono essere  assolutamente 4 priori senza ricorso ai dati della esperienza  nè alle intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi  sono « pensati », ma non conosciuti secondo le categorie della  scienza che è solo scienza (critica della metafisica razionali-  stica), ma ciò non impedisce che possano, debbano essere  pensati e conosciuti come condizioni indispensabili ed asso-  lute della «scienza » dei costumi (f).   L’idealismo trascendentale post-kantiano accolse l’istanza  critica quasi esclusivamente nel senso della metafisica « come  scienza dei fondamenti primi della conoscenza » e considerò  principio assoluto il concetto dell’attività creatrice dello spi-  rito. Di qui una duplice «interpretazione » di Kant e un  duplice sviluppo: @) la metafisica s’identifica senz'altro con  la dottrina della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto  funzioni con cui il soggetto «costruisce » l’esperienza: il  soggetto «crea», con la sua attività, forme e contenuto.  Così la metafisica s’identifica con il sapere e il soggetto  « funzionale » di Kant si trasforma nel Soggetto come en-  tità metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Du-  plice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui  — e non nei pensatori anteriori, soprattutto in alcuni razio-    (3) Altre considerazioni critiche sul problema della metafisica in Kant si  trovano soprattutto nella Parte III di quest'opera.    Concetto di metafisica 113          nalisti — un senso della metafisica opposto a quello di Ari-  stotele: non la scienza dell’ente in quanto ente, ma la scienza  della scienza in quanto scienza. Questo non è più Kant, ma  una forma di «kantismo » che riporta il problema della  metafisica alla posizione prekantiana, quale si riscontra nel-  l’empirismo inglese e in alcuni ideologi francesi del secolo  XVIII. A noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre  dell’idealismo trascendentale — tramite un’interpretazione  non-kantiana di Kant: — l’esse est percipi è trasformato  nell’esse est percipere, dove il percipere è l’assoluto spirito  che pone se stesso e il non-io. La posizione kantiana di uno  spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale  è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad essere « filo-  sofia della natura », cosmologia, di cui il principio creatore  è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai  più potersi riconquistare nella sua interiorità spirituale. Il na-  turalismo neoplatonico (Hegel) e il «riscoperto » Spinoza  ritornano nella formula del Deus sive natura, dove Dio è il  trascendentale e la natura la sua posizione, con la quale l’Io  creante s’identifica (immanentismo). Così l’idealismo riporta  lametafisica sul terreno della scienza della natura e costruisce  una nuova metafisica « dogmatica » nel senso kantiano come  quella del razionalismo, con la differenza che in esso l’«esse-  re» è risolto completamente nel «pensiero» creatore. Di qui  l'opposizione della «metafisica del pensiero» alla « metafisica  dell’essere », di una filosofia della verità che è tutta nel suo  processo storico o filosofia dello spirito — dove però lo spirito  non si coglie mai come tale, ma sempre nella sua media-  zione con il non-io, cioè nel suo farsi natura, esteriorizzarsi,  non essere se stesso — alla « dogmatica » filosofia della verità  immobile. Il soggetto non è più problema, ma principio as-  soluto che tutto spiega: resta estraneo alla ricerca metafisica,  che così gli si fa estrinseca, « materiale ». La realtà prima  e ultima è il pensiero, che si fa tutto senza essere mai pro-    114 Filosofia e Metafisica       priamente se stesso, che nega ogni antecedente ontologico  senza riescire a conquistare la sua autentica soggettività.   Compiuto con il Fichte il « salto » dall’Io funzionale al-  l’Io entità metafisica, l’idealismo trascendentale elimina la  distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo  della natura e di mondo morale, annullando con ciò stesso i  termini in cui Kant aveva posto il problema della metafi-  sica: cade la distinzione tra scienza dell’assoluto e cono-  scenza del fenomenico e la metafisica viene identificata  con la stessa teoria critica del conoscere. Razionale e reale  si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il  reale, in quanto il reale è lo stesso dispiegarsi della Ragione.  La metafisica della natura s’identifica con quella del pen-  siero, dato che il principio del dialettismo antinomico è il  fondamento assoluto dell’una e dell’altro. Ogni aspetto del  reale non è che un momento del processo dialettico: i dati  dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo  è nella concretezza delle sue determinazioni.   Costruzione aprioristica e fantastica della natura, disso-  luzione della realtà e degli enti nel processo dialettico  della Ragione e di questa nelle sue transeunti determi-  nazioni, dommatismo e teologismo deteriori determinarono  la decadenza della « metafisica del pensiero » e provocarono  una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua  la distinzione kantiana di fisica e metafisica, di fenomeno e  cosa in sè; Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e  della religione, rivendica il concetto di «esistenza » o di  « singolarità » e alla dialettica del passaggio contrappone  quella del « salto », alla « ragione » l°« assurdo » della fede;  Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o  finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel mondo dei fatti;  il Neokantismo lancia il grido di Keine Metaphystk mehr  contro la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca  la posizione positivistica, imbaldanzita dai successi delle scien-  ze sperimentali. Comte considera « abstrait » l’« état méta-    Concetto di metafisica 115          physique », ormai definitivamente superato al pari di quello  teologico (naturalmente poi egli fa, per suo conto, della me-  tafisica concependo la filosofia come sistema delle scienze e  della pseudo-teologia), mentre Sully Prudhomme (Que  sais-je?, p. 51) scrive: «Il n'y a de métaphysique dans  l’ètre que l’inconcevable. La métaphysique commence où la  clarté finit ». Quando l’idealismo hegeliano ai principi del  secolo rinasce in Italia, la metafisica del pensiero viene  rigettata da un epigono formatosi nell’ambiente positivistico  e negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una  « riforma » della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spa-  venta), come metafisica dell’atto del pensiero pensante, anti-  tetica a quella oggettivistica dell’essere.   In tutta questa reazione violenta contro la metafisica,  escluso il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce con-  tro la metafisica di tipo hegeliano, identificata con la meta-  fisica senz'altro — solo arbitrariamente la condanna è stata  estesa alla metafisica come tale; 2) si rivendica, da un lato,  la realtà, il senso e il valore dell’esistente o singolo contro  la « ragione speculativa » e di fronte all’assurdo e allo « scan-  dalo » della fede religiosa (esistenzialismo teologico e tra-  scendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è nel-  l'umanità (esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dal-  l’altro, il concetto di scienza nel senso moderno, costruita  con metodo sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo  l’identificazione della metafisica con quella di tipo idealisti-  co; il prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione  arbitraria di metodi e leggi valevoli per il mondo fisico an-  che alla spiegazione del mondo dello spirito; il convinci-  mento derivante da un’interpretazione unilaterale della Cri-  tica che, dopo Kant, non era più possibile — e nemmeno se-  rio! — tentare di ricostruire una metafisica; il perdurare del  senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa pa-  rola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII contribuirono  a far decretare una condanna della metafisica, che apparen-    116 Filosofia e Metafisica       temente — quanta superficialità anche in pensatori di non me-  diocre levatura! — è potuta sembrare definitiva. Quasi inesi-  stente, d’altra parte, l’influenza della filosofia rosminiana  fuori d’Italia e pure da noi limitata, scarsa di sviluppi specu-  lativi, prima ostacolata per motivi politico-teologici e poi ar-  restata dal prevalere del positivismo o interpretata kantiana-  mente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal pri-  mo (Spaventa) che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure  il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rap-  presenta ancor oggi — e non solo in Italia — la più vigo-  rosa riscossa della metafisica tradizionale, non ripetuta, ma  ripensata a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia  aspetta ancora di entrare nel vivo del pensiero mondiale.   Com'è noto la reazione idealistica contro il positivismo,  altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di  rivendicare i valori spirituali e di restituire la filosofia ai suoi  problemi e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di  questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico  di quella classica, sia di tipo platonico che aristotelico. Per  il Bergson metafisica è un modo speciale di conoscere e cioè  il mezzo « de posséder une réalité absolument au lieu de la  connaître relativement, de se placer en elle au lieu d’adop-  ter des points de vue sur elle, d’en avoir l’intuition au lieu  d’en faire l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute ex-  pression, traduction ou représentation symbolique » (Intro-  duction è la métaphysique, in « Revue de métaph. et de  mor. », I, 1903). In breve, per il Bergson — a parte che egli  attribuisce questa capacità all’intuizione che contrappone al  pensiero discorsivo — la metafisica è conoscenza assoluta,  ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è l’essenza in-  terna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che  è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui delle immo-  bili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività « indi-  viduale » degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-.  chelier (Vocabulaire technique et critique de la philos., IV    Concetto di metafisica 117       ediz., vol. I, p. 456) si augura che la metafisica possa ridiven-  tare «la science de l’étre, dans le double sens d’existence  en général et de totalité des existences », ma alla « nouvelle  condition » che la chiave di questa scienza sia cercata « dans  la logique interne de la pensée» precisando che Dio e il  nostro possibile destino fuori di questo mondo non sono og-  getti di scienza, ma di fede. Il Gentile (op. cit., p- 123),  nei primi anni del nostro secolo, può scrivere 2a «oggi  i vecchi nemici di essa [ della metafisica ] cercano di scusare  e di attenuare le loro critiche di una volta... Oggi lo storico  della filosofia può parlare della metafisica classica, ossia della  filosofia vera e propria di tutti i tempi, con la certezza di  toccare una corda che risuoni nell’animo dei suoi ascolta-  tori ». E anche per lui metafisica è « spingersi al di là del  fenomeno e fissare l’occhio nel reale» (i22).   Vi è in questi ed in altri pensatori un’istanza comune:  la metafisica si giustifica come rivendicazione di quei valori  spirituali (conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna  scienza sperimentale può mai cogliere. Si tratta di una ri-  valutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik  del Windelband e del Rickert) sul terreno stesso dell’umanità  e della storia, @/ di Îè delle schematizzazioni della scienza  naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e meta-  fisica: la prima non può condurre alla seconda e questa,  come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique,  P. III, c. VII), « ne peut fournir à la science un point de  départ et des principes régulateurs ». « Après les phénomè-  nes, nous voulons connaître l’absolu; après les conditions  nous demandons la raison de l’existence. La métaphysique  serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette  raison » (ivi, Avant propos). Dunque « volontà » e perciò  esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora  esigenza, della ragione dell’esistenza. L’idealismo aveva ri-  sposto dopo Kant, ma « interpretandolo », a queste esigenze  con la nuova metafisica del pensiero, sul terreno dell’imma-    118 Filosofia e Metafisica       nenza assoluta, ma senza appagare quella « volontà » di as-  soluto nè soddisfare quella « domanda » di ragione dell’esi-  stenza.   Siamo arrivati, ci sembra, al punto cruciale, in seno al  siero moderno e contemporaneo del problema della metafi-  sica. Si riconosce l’insopprimibilità per l’uomo e dunque per  il pensiero dei suoi problemi; per conseguenza che bisogna  rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una  « necessità interna» del pensiero, direbbe Lachelier. Ora  l’immanentismo, sotto qualunque forma si presenti, è dav-  vero una (/a) risposta a queste esigenze di « assoluto » e di  «ragione » dell’esistenza, o non piuttosto l’assolutizzazione  della ragione o del pensiero e la negazione di ogni ragione  dell’esistenza? Nell’« assoluto pensiero » immanente e  per-  ciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei ter-  mini: il pensiero pone, intrinsecamente, l'esigenza dell’as-  soluto e esso stesso si pone assoluto. O l’esigenza non c’è e  il pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero  e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e il pensiero non  è l’assoluto, ma fondamentale, invincibile, universale esi-  genza dell’assoluto; ed è qui, e non nel pensiero, la « ra-  gione » dell’esistenza. Questo ci sembra il primo risultato  positivo del travaglio della speculazione da Cartesio ai no-  sti giorni: il riconoscimento razionale — e dunque critico del-  la critica più rigorosa ed intransigente — che l'assoluto oltre-  passa il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua  ragione prima ed ultima, la ragione dell’esistenza come tale.  L’immanentismo non è una risposta alla metafisica, ma l’as-  sunzione a principio assoluto di un elemento (il pensiero uma-  no) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in quanto tale,  pone il problema di una metafisica come «sforzo», dice James,  « unusually obstinate » di pensare «chiaro e conseguente-  mente », soprattutto « consistently », come bisogno di una  Durchbildung energica del nostro Lebdenskreis (Eucken).  Dunque, il travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro’    Concetto di metafisica 119       le sue premesse ma in armonia con le sue ultime conclusioni,  che non vi è metafisica autentica dove non vi è trascendenza  (l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di  immanenza e super-immanenza contrastano con le con-  clusioni stesse di quel pensiero moderno o critico a cui si  richiamano e perciò sono essi delle sopravvivenze; 5) il pro-  blema dell’assoluto come fondamento del sapere e del vo-  lere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente,  come problema della ragione dell’esistenza umana, valida  non per l’umanità in generale, bensì per ogni singolo uomo,  cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non  dell’« altro» mondo, come problema dell’a/ di lè dell’uomo  (e perciò anche come suo destino) e non in un senso soltanto  naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una  metafisica cristiana, vi è un modo cristiano d’intendere la  metafisica; il Cristianesimo non è una cosmologia, ma in-  nanzi tutto, civitas hominis, qui, Civitas Dei, « al di là »..  Questo modo d’intendere la metafisica non è soltanto no-  stro ma predominante da quando la più recente filosofia con-  temporanea si è posto il problema con insistenza e in termini  espliciti; da quando metafisica ed ontologia non sono più  solo « ricordate » come mere parole cadute in disuso ed ar-  chiviate. Un ritorno della metafisica non solo come esigenza  ma come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un as-  soluto come principio dell’esistenza è la posizione più vitale  di una parte del pensiero odierno, che non segna un salto in-  dietro nel processo della filosofia, ma è la continuazione del  pensiero moderno, le cui conclusioni autorizzano la più pro-  fonda revisione delle sue premesse. Noi diciamo dunque che  la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio  della « creatività » dello spirito e conseguentemente dell’im-  manenza, ma la riconquista, attraverso il processo critico,  della sua «creaturalità » e perciò della trascendenza, risco-  perta nel suo autentico significato spirituale datole dal pen-  siero cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasfor-    120 Filosofia e Metafisica       mare quello cosmologico e naturalistico, proprio della me-  tafisica greca.    4. — Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore.    La creaturalità — il sentirsi creature — è l’atto primor-  diale della coscienza: nel momento stesso che avverto an-  che confusamente di essere, avverto che non sono da me,  che sono «esistente », cioè da altri; avverto, dunque, attra-  verso i limiti del mio essere, che un (/") « essere » non limi-  tato, mi ha fatto «esistere ». La presenza di me a me stesso  importa la « presenza » mediata analogica in me dell’Es-  sere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dun-  que l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere. Io-so-  di-essere (cogito ergo sum) in quanto la presenza dell’essere  in me, l’idea dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè  fa che io sia un essere pensante. Penso perchè mi è data l’idea  dell’essere (non che il pensiero la ricavi per astrazione o per  altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi  tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda l’essere, ma l’es-  sere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto.  Io sono innato a me stesso nel senso che l’idea dell’essere  per cui il pensiero pensa e ad esso è data è quella per cui  acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: «pen-  so » perchè « sono stato pensato »; e siccome non mi è dato  l’essere assoluto — se così fosse, me lo sarei dato io stesso  in quanto è dell’assoluto essere principio di se stesso — con  quella del mio essere, ho coscienza del limite e perciò dell’Es-  sere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un corpo, esi-  stente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero — che è  tale per la presenza della verità — avverte una duplice presen-  za di essere: dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è  dall’Essere necessario che trascende il mio essere come l’as-  soluto il relativo, e il pensiero come il reale il possibile. L'atto  del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli es-    Concetto di metafisica 121       seri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito fondamen-  tale della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere  come idea, gli esseri come esistenti, finiti e relativi, l’Essere  come esistente infinito e assoluto: il principio primo del  sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza  sensibile, il Soggetto realissimo, fine di ogni conoscenza,  ma, come tale, aspirazione infinita mai appagata nell’ordine  umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto  l’Essere realissimo non è una possibilità, una pura Idea della  ragione o un dover essere, ma è, esiste, come attestano il  mio esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da —  la mia creaturalità — importa l’esistenza del 44 cui io sono,  cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il mio pensare, che  è tale per la presenza della verità che non è la Verità in sè,  importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207  costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di intelligenza  per mezzo dell’« astrazione originaria » coincidente con l’atto  creativo. D'altra parte, l’essere io come gli altri esseri, una  essenza esistenziata — questa qui — importa che sono un  essere singolo, persona; dunque l’Essere che mi ha creato —  mi ha fatto e mi fa esistere — non può essere un gd, un  essere impersonale, ma è anch’Egli Ego, Persona, l’Altro  assoluto, la Persona assoluta da cui sono. Nel momento stesso  che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della  Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è riconoscere che  Dio è; sapermi è, dunque, cogliere la mia realtà ontolo-  gica e con essa la sua radice; è ancora, come atto di « rico-  noscimento », un sapere che è supremo atto morale. Sapermi  da è volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esi-  stere per Lui: essere da e per l’Essere. Perciò l'oggetto del  mio pensare è infinito come infinita è la presenza della ve-  rità in me, che nessun essere creato adegua; del pari infinito  è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua  forma, che nessun essere voluto compie e appaga. Se in ogni  mio atto di pensiero e in ogni volizione io non so che Dio    122 Filosofia e Metafisica       esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni  esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè desidero co-  noscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so,  disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale, ho  perduto il senso di me stesso e di ogni realtà: è la caduta  del mio essere nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stes-  so e perciò al mio pensiero, per cui la presenza di Dio resta  muta nell’assenza di me a me stesso.   In questa metafisica — di necessità appena accennata —  il concetto fondamentale è quello di creazione, non presup-  posto ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che esiste  e non ha in se stessa il principio del suo esistere, rimanda  al principio che l’ha prodotta; siccome le cose create sono  esseri viventi e pensanti secondo un ordine loro intrinseco,  il Principio primo non può che essere l’Intelligenza su-  prema, la quale — siccome ha voluto creare — è anche  suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il  concetto di Ens realissimum non basta per una metafisica  che vuol tener conto della teologia cristiana. La creazione  è dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli  esseri, l’atto supremo dell’esistere degli esistenti.   Aristotele ha definito la metafisica ocopia zowtn, la  scienza dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza  degli elementi e delle condizioni dell’esistenza in generale  (ogni essere è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla  causa efficiente e dalla causa finale), ma l’Essere o Dio è la  condizione suprema dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per  Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze    (4) Anzi, per Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino  e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con la puiocopla deodoyix. Ma si  tratta — come ha dimostrato lo Jaeger — di due fasi del suo pensiero. S. Tom-  maso intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore,  fine ultimo, principio e giudice della morale; immortalità dell’anima indivi-  duale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è identico a quello della teologia (differi-  scono nel modo di conoscere). Di qui la definizione di S. Tommaso: aliqua  scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica (S. T., II,  2, IX, 2 ob. 2).    Concetto di metafisica 123       concretamente esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è  questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa,  ma appunto è qualche cosa avente una certa natura, qua-  lità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che il reale -  individuo è una essenza esistente, cioè avente certi carat-  teri; ma, come sappiamo, per Aristotele, non vi è scienza  del reale individuale, in quanto la scienza è dell’universale.  La razionalità è dell’essenza desistenzializzata e non del-  l'essenza esistenziata, per cui alla scienza o conoscenza di  tipo aristotelico l’esistente è indifferente: suo oggetto sono  le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi  sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è mia e di  altri, ma io non sono pura essenza, bensì essenza mia,  singola, concretamente esistente. La scienza aristotelica trova  nel singolo il suo limite esistenziale, lascia aperto il pro-  blema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo, la  metafisica di Aristotele, dei due principi del reale — forma  e materia — guarda più alla prima che alla seconda, all’es-  senza pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle sin-  gole essenze che esistono; ma a me, essere esistente, im-  porta la mia essenza esistente. Pertanto, il problema della  metafisica come scienza degli esseri, cioè di chi e che cosa è  l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di  esistere, del principio primo dell’esistenza individuale, cioè  l’atto di creazione.   Io sono un’essenza-esistente: lio sozo — il fatto che esi-  sto — pone il problema del mio esistere, pone me stesso  come problema. Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato;  se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno  è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi ha voluto, dun-  que è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole  e mi ama ancora per il fatto che continuo ad esistere. Jo  sono un'idea di Dio, voluta da Dio; tutti gli esseri sono  idee di Dio, volute da Dio: pensate e volute una per  una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e vo-    124 Filosofia e Metafisica       luta da Dio. Il reale in quanto reale è verità (ens e: verum  convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello  Hegel), secondo l’immortale scoperta di Platone, che ab-  biamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino  e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità) qui significa  singolarità: Dio crea i singoli come singoli e ciascuno di essi  conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i no-  stri concetti astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, fac-  tivae rerum. La conoscenza discorsiva 0 per concetti non  esprime questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza  concreta, la quale è espressa da quelle forme superiori di  conoscenza, che pur la includono, come per esempio l’at-  to morale, in cui la relazione è da persona a persona, da  esistente ad esistente; che è tale solo per la presenza del  supremo atto di esistere, per cui il singolo è singolo e rico-  nosce l’altro come altro.   Questa consapevolezza non dà però il possesso dell’atto  supremo dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta  solo l’esistenza e accende nella creatura il desiderio del pos-  sesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è il  limite assoluto della metafisica. Qui la filosofia si ferma e si  apre alla religione, come quella che ha scoperto l’uomo  all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il  significato del suo vivere, la finalità del suo pensare e  del suo volere. Questa filosofia è metafisica sic et sim-  pliciter, che non contrasta, come crede lo Scheler, con la  religione, ma ne è la preparazione razionale. È vero, come  dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto  che l’esistente non trova in sè ma sopra di sè l’atto del suo  esistere, scopre le mie possibilità, il mio destino, ma non  nel senso della finitezza « inesorabile » e della « nullità »  (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta «sprofondato»  (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia possibilità su-  prema di poter essere tutto il mio essere nella suprema aper-  tura all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma    Concetto di metafisica 125       per essere-per-Dio. Proprio la finitezza implica il riferimento  all'infinito: non « chiude » ma «apre » l’orizzonte. Non dal  nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il mio essere, per  cui il problema dell’essere concreto « gettato nel mon-  do », non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere asso-  luto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode, certamente; ma  in quanto la morte, direbbe Platone, è passaggio all’evi-  denza di quell’ordine (il vero) ontologico, che, qui, l’uomo  non può mai cogliere con le sue sole forze.   Realtà è verità: io sono una verità di Dio e perciò so-  no qualcuno che è e non nulla. Dio è l’Essere Verità  creante, Logos, e ha fatto che io fossi, pensandomi e  volendomi; Verità illuminante e perciò ha voluto darmi il  lume della intelligenza e della ragione, affinchè di Lui leg-  gessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi la  presenza in me, Lo volessi sempre senza mai interamente pos-  sederLo. Non posso strappare il mio essere dalla sua radice,  staccarlo dalla sorgente; dunque sono attratto irresistibil-  mente 4/ di lè: ogni uomo è per natura metafisico. La ve-  rità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è quella  quae ostendit quod est: per quel che io sono, sono vero.  La verità assoluta è l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui  le cose sono simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî).  Io ho dell’essere o del vero, non sozo l’essere o il vero, ma  appunto perchè ho e non sono, sono per l’Essere o il Vero.  Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia  finalità ultima, che l’intelligenza e la ragione mi indicano,  ma che non bastano per farmela conseguire. Nello stato  attuale debbo cercare o amare — perfecte quaerere — ciò a  cui tendo, ed oltrepassarmi.    CapitoLo II    DISCUSSIONE  INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA    |. — Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni.    In un lunghissimo articolo di più che 60 pagine, I! con-  cetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato  nella « Rivista di filosofia nescolastica » (1, 1949), il Rev.mo  Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal fascicolo (IV-V,  1947), che questa Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre  che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in  esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto in Italia e al-  l’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di « Spi-  ritualismo cristiano ».   Naturalmente terrò presenti in questa risposta solo le  obiezioni che mi riguardano direttamente e di esse in spe-  cial modo quelle che toccano l’essenziale. Debbo ancora  dire che, alcune di esse hanno già avuto risposta, spero  chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume.  Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il necessario, sia per-  chè i punti della discussione si possono precisare e chiarire  brevemente, sia per non ripetermi. Premesso qualche rilievo,  accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da  ultimo su quattro punti essenziali.   Monsignor Olgiati riconosce onestamente che la posi-  zione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta « un  così largo e diffuso indirizzo di idee » che, se dovesse valere    Concetto di Metafisica 127  il criterio della maggioranza, Aristotele e S. Tommaso « non  raccoglierebbero oggi se non pochi voti »; e aggiunge: « For-  tunatamente nel campo nostro non contano le adesioni, ma  le ragioni » (p. 18). Mi permetto domandare a Mons. Olgiati:  e che pensiamo delle ragioni senza adesioni? fino a che punto  valgono? la verità è sterile o è feconda? le adesioni, guan-  tunque da sole non costituiscano la verità di un princi-  pio, non sono indicative della sua presa e della sua forza?  Si aggiunga che queste adesioni non mancano da oggi,  ma ormai da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Uma-  nesimo in poi, ancora continua efficacemente il pensiero  tradizionale ed ha avuto influsso nel corso della civiltà, è  platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fio-  rentino, Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico  e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si faccia eccezione di  Suarez e di Balmes ed oggi di qualche studioso di primo  piano e mi si dica quale è stata ed è l’influenza feconda  e fecondatrice del tomismo negli ultimi sette secoli del  pensiero occidentale. Ho detto del tomismo, non di S. Tom-  maso, che è operante anche nella tradizione, diciamo co-  sì, agostiniana, come Agostino è profondamente operante  nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che hanno dimo-  strato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti to-  misti. Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno  storicamente, sia in buona parte responsabile della poca  efficacia di S. Tommaso. Ecco perchè io non metterei così  insieme, quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate  se non altro per non compromettere quest’ultimo addossan-  dogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue.    2. — Questioni marginali.    Ed ora qualche accenno a questioni marginali.  a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile  innanzi tutto richiamare il concetto di metafisica « sia come    128 Filosofia e Metafisica       è inteso da Zui secondo i principî della filosofia classica »,  sia come è inteso da me (p. 4). E il mio, che si appoggia  a Platone ed Agostino senza affatto trascurare Aristotele  e S. Tommaso, non è inteso secondo i principî della filo-  sofia classica? o i principî della filosofia classica sono quelli  di Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una vir-  gola, monopolio della Neoscolastica di Milano?    b) Secondo Mons. Olgiati, io (e il Blondel) non ho il  «concetto del concetto »; ma come avrei potuto formulare  lo stesso tema: « Che cosa è metafisica » (cioè qual'è il con-  cetto della metafisica), se questo ben dell’intelletto mi fosse  mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a  nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate scoprisse  il concetto: si tratta solo di intenderlo in maniera astratta  o concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione  o dell’intelletto, senza di cui l’uomo cesserebbe di essere  uomo, la filosofia filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho  detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello  mi è stato cantato altre volte; altrettante è stato da me detto  e ripetuto che dalla ragione non si può prescindere e che  il problema primo è quello della verità senza di cui non  c’è neppure carità. Credo superfluo insistere su questo punto,  non senza però cogliere l’occasione di dire che è mio desi-  derio che venga tenuta distinta la mia posizione, quale che  sia, da quella del Blondel. Che io abbia simpatia per il pen-  satore francese è vero; che il Blondel abbia contribuito a  formarmi intellettualmente e da me sia stato difeso a vi-  so aperto da fraintendimenti ed accuse infondate, è anche  vero; ma che io l’accetti in pieno e sia blondeliano è asso-  lutamente gratuito. Perciò non comprendo come l’Olgiati  possa scrivere che rispetto al Blondel io sia «ancora nel  periodo del primo entusiasmo » (p. 61). Niente affatto: non  « primo » perchè l’influenza diretta ed evidente del Blondel  c'è già nelle Linee di uno spiritualismo critico di tredici  anni or sono (1936); nè « entusiasmo » (ma che Mons. Ol-    Concetto di metafisica 129       giati pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entu-  siasmo per nessuno, ma solo per la Verità e dunque per  ogni pensatore, quale che sia, per quel tanto di verità che  contiene. Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta  che ho difeso la filosofia blondeliana in più di una cir-  costanza ed ho polemizzato contro quanti Blondel hanno  spesso criticato senza neppure leggerlo. La verità va rispet  tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che  Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere in vista quel  poco di verità che contiene lo Spiritualismo cristiano degli  altri e mio, quel minimum comune, fondamento per inten-  derci anche attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono  due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua verità ed è bene  partire da questo consenso fondamentale; o non ne ha alcuna  ed allora è inutile discuterlo.    c) In un punto del suo articolo (p. 38) l’Olgiati scrive che  io posso replicargli che « non afferra » la mia «idea precisa  colui che mi muove simili critiche ». Sono costretto a dirgli,  dopo aver letto attentamente il suo articolo, che egli ha pro-  prio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non  abbia afferrato la mia idea precisa. E lo dimostrerò repli-  cando sui punti essenziali, oggetto di questo nostro dibattito.    3. — Se hanno una metafisica anche le filosofie che la negano.    Il primo punto di dissenso, pur non così radicale come  crede l’Olgiati, concerne i concetti di filosofia e metafisica.  Per Mons. Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in  ogni filosofia, quale che sia: non c’è filosofo che possa  filosofare senza avere, sia pure implicitamente, una sua con-  cezione del reale, cioè senza avere risposto alla domanda  metafisica di che cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi  ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua meta-  fisica; dunque non c’è filosofo o filosofia — anche quei filo-  sofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche — che non    130 Filosofia e Metafisica       nutra nel suo seno una metafisica, altrimenti « non potrebbe  mai aspirare ad una spiegazione filosofica della realtà » (p.  5). Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certa-  mente si meraviglierà che io dica di essere d’accordo con  lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia tale, la quale  non sia metafisica, come vado ripetendo da anni, dal Pro-  gramma metafisico, redatto assieme all’Aliotta, della Rivista  «Logos» del 1937, alla Necessità di una coscienza meta-  fisica, articolo pubblicato nello stesso « Logos» (1939) e ri-  prodotto e discusso in quell'epoca da una decina di riviste.  E allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa,  e purtroppo anche accreditata, la pretesa che si possa fare  filosofia abolendo la metafisica, cioè esimendosi dal rispon-  dere alla domanda considerata inutile o inesistente, di che  cosa è la realtà in quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribat-  tere: «ma questa non è filosofia ». Appunto: è proprio  quello che ho detto anch'io nell’articolo che si discute come  altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica  o della filosofia: non nell’avere anche inconsapevolmente  una quale che sia concezione della realtà in quanto realtà,  ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e  pretendere di fare ugualmente filosofia e di spacciare per  vera quella che abolisce o ignora il problema metafisico. La  crisi di una disciplina è manifesta quando si nega il suo  oggetto proprio e ad essa essenziale perchè di essa costi-  tutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua es-  senza, è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro  si dice che è filosofia « la non filosofia », cioè il suo contrario;  è come dire che è falso il vero ed è vero il falso. Quando  nego che queste « filosofie » hanno una metafisica, contro  l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene il contrario, e  con ciò che siano filosofie, voglio chiarire un equivoco dan-  nosissimo e richiamare l’attenzione di questi cosiddetti filo-  sofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a me: « prescin-  dete pure dalla metafisica ma non parlate più di filosofia in    Concetto di metafisica 131       quanto questa cumincia con la domanda metafisica; voi do-  vete ancora incominciare a filosofare, anche se vi chiamate  filosofi o anche se la gente ignara e volgare vi considera  tali ». Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi  punti — e non può non esserlo perchè l’accordo c’è: una pura  descrizione fenomenologica o empiricamente psicologista è  metafisica o filosofia? No di certo, perchè non pone nè  sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste  descrizioni oggi si dicono filosofie e passano per tali? Una  pura ricerca metodologica, scientifica o storicista, è metafi-  sica? I metodologi non dicono che il reale, in quanto reale,  è il fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè: « noi ci  interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza  preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un reale o no»;  ed aggiungono che questa è filosofia. Io dico di no, che non lo  è, appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il  problema metafisico. Evidentemente la filosofia incomincia  (e perciò non è scienza, nè storia, nè economia, nè altro,  quantunque questi problemi possano — debbano — essere  posti filosoficamente come problemi del valore e del senso  ultimo — metafisico — della scienza, della storia ecc.), quando  non ci si ferma al fatto e alla descrizione di esso, ma si va  al di là, se ne cerca metafisicamente la intelligibilità pro-  fonda, la sua verità nella verità.   Riassumendo: Mons. Olgiati vuole mettere i cosiddetti  anti o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della  filosofia, non potete sfuggire alla domanda metafisica di che  cosa è il reale in quanto reale, perchè tale domanda è essen-  ziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la meta-  fisica, siete in contraddizione con voi stessi, perchè la filo-  sofia, ogni filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece  voglio dimostrare loro che chiamano filosofia quella che non  è tale. E su questo punto mi pare di aver ragione: a chi  abolisce il problema metafisico e la domanda di che cosa è  la realtà in quanto realtà, non si può dire che sia in con-    132 Filosofia e Metafisica       traddizione, ma gli si deve dire: quella che voi chiamate  filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della meta-  fisica fa a meno della filosofia; voi spacciate per genuina  una merce falsa. Che siano in contraddizione glielo con-  cedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede  infatti l’Olgiati che i «filosofi » dell’assurdo e del nulla  temano di essere in contraddizione, loro che ormai hanno  paura dell’essere e della verità? Gli dicono che appunto la  loro è una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Ol-  giati dovrà acconsentire che anche questa è una metafisica,  cioè che è metafisica la negazione dei due elementi essen-  ziali di ogni metafisica: l’essere e la razionalità. L’Olgiati  si meraviglia come non riesca a capacitarmi che « filosofia  senza metafisica è un assurdo » (p. 6); mi consenta che io  mi meravigli come egli non si accorga che sono perfetta-  mente d’accordo con lui. Ma io aggiungo che oggi si pre-  tende di fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimo-  strare che tante cosiddette « filosofie » odierne, più che con-  tradditorie ed assurde perchè si dicono antimetafisiche men-  tre una metafisica ce l’hanno, non sono filosofie affatto  perchè di fatto rinunziano ad averne una. Aggiungevo però:  pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero  quale che sia, portano in loro « immanente, intrinsecamente,  l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica ».  E questo perchè si può sospendere la risposta alla domanda  metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che  pensi, non si può sopprimere la sua esigenza. Mi pare che  la mia critica sia più efficace: negare ad ogni filosofia che  rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di con-  siderarsi tale e d’altra parte costringerla a riconoscere nello  stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni posizione di  pensiero, è intrinseca l’esigenza metafisica, che si può mi-  sconoscere solo per difetto di approfondimento critico. Ma  si è che Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di « esigenza »,  quasi questa parola sia una sgrammaticatura insopportabile  dalla correttezza dei linguaggio filosofico.    Concetto. di metafisica 133       4. — Metafisica e trascendenza.    L’Olgiati è rimasto quasi scandalizzato — qualche tomi-  sta, com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati,  si è meravigliato come io abbia potuto prendere simili ab-  bagli — della mia affermazione che « metafisica è uguale tra-  scendenza »; d’altra parte, io accetto la definizione aristote-  lica della metafisica come « scienza di che cosa è la realtà  in quanto realtà ». Il mio critico obietta: tra le due tesi  c'è contraddizione (p. 30); poi si avvede che, almeno per  me, contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di  intendere meglio il mio punto di vista. Io non vedo, se  mi si fa dire quello che dico, dove sia mai la contraddi-  zione. L'equazione da me affermata e chiarita di metafisica  e trascendenza non può essere intesa alla maniera dell’Olgiati  e cioè: «bisognerebbe concludere che la metafisica non è  la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è  il Trascendente » (p. 30). E’ evidente; ma con simili in-  terpretazioni la discussione non farà mai un passo apprez-  zabile. La mia affermazione significa solo questo: se meta-  fisica è scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà essa  porta implicito il problema del fondamento primo incon-  dizionato del reale, e dunque è implicitamente trascen-  denza, in quanto il fondamento del reale non può essere  immanente al reale stesso e della sua stessa natura perchè,  in tal caso, sarebbe ancora un elemento del reale e non il  fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche  pertanto sono apparentemente metafisiche, in questo senso:  se il fondamento primo del reale, che è anche la sua finalità  ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci  poniamo il problema della « fisica » e non quello della « me-  tafisica », che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là  della fisica e dunque trascendente il reale dell’ordine natu-  rale. Con ciò volevo dimostrare che le filosofie immanen-  tistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il problema    134 Filosofia e- Metafisica       metafisico, in realtà non pongono questo problema, ma, es-  sendo immanentistiche, ripongono come problema metafi-  sico ancora quello « fisico », risolvendo così (cioè dissol-  vendo, negando) la metafisica nella gnoseologia, nella scien-  za. Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta  la metafisica alla trascendenza, nè confondere il concetto  di « filosofia » con quello di « metafisica », ma è anche evi-  dente che non c’è metafisica vera che non concluda razio-  nalmente alla trascendenza del Principio primo della realtà,  nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è la sua essen-  zialità, in quanto condiziona ogni altro problema filosofico.   Che poi la mia « trascendenza » (p. 32) me la concedono  tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci credo affatto, o  meglio me la concederebbero se essa fosse come la intende  il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso.  Mons. Olgiati mi ammonisce che « per avere una trascen-  denza compatibile con uno spiritualismo cristiano... occorre  che tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal  dato e dalla totalità del dato stesso » (p. 32). E chi ha mai  detto diversamente? Nel passo che egli cita, infatti, parlo  di oggetto della ricerca che trascende la ricerca stessa e se  la trascende non dipende da essa ed è di altra natura; di  un principio assoluto che fonda e condiziona il mio ed ogni  filosofare e perciò trascende il pensiero e se lo trascende è  di natura diversa dal pensiero e dalla totalità di tutto l’or-  dine naturale ed umano. Ed è questa la trascendenza  che mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che  l’Olgiati interpreta tutto il mio passo immanentisticamente.  Un momento: non mi ha poco prima, se non ricordo male,  rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza?  Dunque, secondo il mio illustre contradditore, io dico che  metafisica è trascendenza e poi riduco la trascendenza alla  immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obie-  zioni tra loro contraddittorie. Chiariti questi punti essenziali,    Concetto di metafisica 135       posso risparmiarmi di rispondere alle altre intorno allo stesso  argomento, che ne sono la conseguenza.   A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati  mi fa due domande perentorie: 1) « E’ vero o non è vero  che ogni pensatore ha di fatto e non può non avere un  concetto di realtà, il quale influenza ogni concetto del si-  stema? » (p. 35). Mi pare di aver risposto sopra abbastanza  chiaramente e di aver dimostrato come vi siano delle cosid-  dette filosofie che di fatto aboliscono il problema della me-  tafisica. 2) «E’ vero o non è vero che il problema della  trascendenza non è il prius, ma si collega al problema del  concetto di realtà in quanto realtà? » (p. 36). Ho risposto  già anche a questa domanda, chiarendo in che senso per me  metafisica sia uguale a trascendenza. Non è questione  di prius nè di posterius, ma di insidenza del concetto di  trascendenza nella stessa domanda metafisica. Se metafisica  è, in fin dei conti, ricerca del principio primo del reale,  cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso  la metafisica è implicitamente ricerca del principio trascen-  dente del reale stesso, in quanto l’immanenza del principio  fa di questo un elemento o la totalità degli elementi del reale  naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le  soluzioni immanentistiche del problema essenziale della me-  tafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo ap-  parentemente, in quanto, se il principio non è transfisico, se  non trascende, non è ancora il cercato principio primo del  reale, ma il reale stesso posto come principio di sè a se  stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’er-  rore non è reale ed è reale solo la verità. E la verità  della metafisica è la trascendenza, senza che ciò signifi-  chi che tutti i problemi della metafisica stessa si ridu-  cano a quello della trascendenza, quantunque resti vero e  dimostrato che il problema del principio primo li subordini  tutti.   Quanto all’altro avvertimento di Mons. Olgiati che l’esi-    136 Filosofia e Metafisica       genza non basta perchè non è dimostrativa (evidentemente)  ed è necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di  Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio quando egli scri-  veva queste sue critiche, avevo già redatto il mio studio  sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel « Giornale di me-  tafisica ». Se l’Olgiati avesse tenuto presente, oltre all’arti-  colo sulla metafisica, altri miei lavori, credo che le sue  obiezioni avrebbero avuto un’altra impostazione e parecchie  di esse le avrebbe risparmiate a lui e a me.    5. — L'interiorità come l'opposto dell’immanenza.    Più gravi fraintendimenti son costretto a lamentare a  proposito delle obiezioni che Mons. Olgiati muove al con-  cetto di interiorità, considerato in rapporto alla metafisica.  Egli parla di « esigenza » dell’interiorità (pp. 4, 36 e passim);  dell’interiorità come « aspirazione », « anelito » ecc. (p. 34);  ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e  vita della verità in me.   Evidentemente io parlo di « metafisica dell’esperienza  interiore » nel senso agostiniano dei termini; e dunque qui  non si tratta di origine psicologica della ricerca filosofica  nè di cose simili, bensì di una metafisica che muove dal dato  reale più ricco ed eminente nell’ordine della natura, che è  la vita spirituale; ed è proprio dall’analisi del dato reale-uomo  (o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore  non è altrettanto esperienza e più valida di quella esteriore ?)  che scaturiscono la trascendenza e la dimostrazione dell’esi-  stenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La meta-  fisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra gli enti reali  c'è l’uomo che è spirito e lo spirito è realtà; dunque perchè  non posso prendere le mosse dall’uomo inteso come realtà  spirituale e dallo spirito come interiorità nel senso agostinia-  no? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi « metafi-  sica uguale trascendenza con l’altra di una metafisica in-    Concetto di metafisica 137       teriore (ossia di una metafisica uguale immanenza) ...» (p. 37).  Sfido che non lo vede se mi scrive che interiorità è uguale  ad immanenza; ma che colpa ho io se lui non vede? Proprio  l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità,  la quale, intesa correttamente, importa la trascendenza non  fondata su dati puramente psicologici, ma sul dato reale che  è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini  adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo una domanda  precisa: l’interiorità di Agostino è trascendenza o è imma-  nenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza e la sua  obiezione non riguarda il mio modo di concepire l’inte-  riorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con tutto il  rispetto che ho per la sua autorità, resto con Agostino, si-  curo di non rischiare l’immanenza e lascio a Mons. Olgiati  la responsabilità delle sue gravi affermazioni. La verità è  che l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa  dal pensiero moderno e contemporaneo. Infatti, a pag. 43  egli scrive: « la metafisica classica, ben lungi dallo svaloriz-  zare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che  salva l’una e può appagare le altre mentre, sotto le appa-  renze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e con-  temporanea è orientata verso l’esteriorizzazione ». D'accordo:  la filosofia moderna, che ha creduto di approfondire l’in-  teriorità riducendola all’immanenza, ha negato l’interiorità  autentica, la ha esteriorizzata. E non è stato e non è ancora  oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, con-  tro la mendace interiorità del pensiero moderno, la verace  interiorità agostiniana? Proprio su questo punto ho manife-  stato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini, a  proposito di una discussione intorno al Vico tra lui e il pro-  fessor F. Amerio (« Giornale di metafisica » nn. 5-6, 1948).  Sono costretto a riportare alcuni passi che mi sembrano la  più soddisfacente risposta a quanto mi obietta Mons. Ol-  giati: « Vi è qui un problema storico e uno teoretico, distinti  evidentemente, ma non separati e separabili: 1) tutto il pen-    138 Filosofia e Metafisica       siero medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca  (aristotelica) e nel carattere cosmologico di quest’ultima? Evi-  dentemente no, e il Carlini, maestro di storia della filosofia,  lo sa meglio di noi; nello stesso S. Tommaso vi è più di  Agostino che di Aristotele, più di metafisica cristiana che  greca, più senso d’interiorità di quanto non sembri a prima  vista... 2) Aggiungo ancora — ed il Carlini si scandalizzerà —  che il pensiero moderno, pur combattendo la Scolastica, ha  ereditato dalla Scolastica proprio l’aspetto di essa più lon-  tano da quell’interiorità che tanto sta a cuore al Carlini e a  me, cioè il suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato  tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gen-  tile che la trascendentalità idealistica è condannata all’este-  riorità, a disperdersi nel mondo, a negarsi come inte-  riorità? che lo storicismo idealista è, in ultima analisi, po-  sitivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è  proprio l’interiorità dello spirito ?... È qui il punto della que-  stione: l’idealismo immanentista ha decapitato l’interiorità  cristiana; ne ha accettato il lato, diciamo così, immanenti-  stico, ma l’ha privata della trascendenza che le è essenziale,  del trascende et te ipsum, che è il suo principio e il suo fine  e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde  nella scientificità, nella storicità, cioè nell’empiria. Su que-  sto punto noi non possiamo non essere che critici intransi-  genti del pensiero moderno proprio per recuperare quell’in-  teriorità che esso ha finito per perdere » (Sciacca, Il pen-  siero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi per-  metta ancora l’Olgiati di rimandarlo anche al vol. I del mio  S. Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fa-  tica di continuare a portare vasi a Samo.   E giacchè siamo su questo tema, desidero pregarlo di non  rimproverare più, almeno chi scrive, che lo Spiritualismo cri-  stiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che  questa obiezione (parlo sempre soltanto di me), fino a qual-  che anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più. Se la mia    Concetto di metafisica 139       personale posizione, quale che sia la sua minima importanza,  ha un significato nella filosofia contemporanea e soprattutto  dentro lo Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini,  è precisamente quella di aver tentato di oltrepassare la posi-  zione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non lascino  più dubbi a questo proposito. Desidererei che Mons. Olgiati  o altri ne tenessero conto.   L'ultimo argomento dall’Olgiati discusso riguarda «il  progresso a proposito del concetto stesso di metafisica » (p. 9).  A questo proposito possiamo essere brevi. In tutto il mio  studio, come ha rilevato lo stesso Olgiati, ho tenuto fermo  il concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica  come scienza della realtà in quanto realtà: questo il concetto  di metafisica e non c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà  in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente.  Su questo punto l’Olgiati concede (p. 58) che «è certo che  nella storia della metafisica classica S. Agostino e S. Tom-  maso non sono puramente e semplicemente ripetitori di Ari-  stotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi  non sa che è tollerabile parlare di S. Agostino, come del Pla-  tone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cri-  stiano, solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori  uno spirito essenzialmente diverso e non paragonabile a  quello dei due pensatori greci? Potrebbe quindi sembrare  che la storia deponga a gran voce contro di me. Anche per-  chè, prescindendo da ciò che io penso a proposito della inte-  riorità cristiana in metafisica e delle tesi di Armando Car-  lini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i  grandi filosofi cristiani hanno saputo far sgorgare conse-  guenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene  non vi aveva intuito. Il problema del male e il concetto filo-  sofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, se-  gnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... ». Dunque  per la riduzione del concetto di realtà al concetto di ente  progresso c’è stato e ci potrà essere ancora, senza che ciò    140 Filosofia e Metafisica       faccia che non sia verità quello che di verità si è scoperto.  È evidente che questo non significa progresso del concetto  di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è,  per esempio, del principio di contraddizione. Mi pare però  che subito dopo l’Olgiati confonda i due problemi del con-  cetto di metafisica — senza progresso, una volta scoperto — e  della metafisica aristotelica, quando scrive: «come non pro-  gredisce la definizione di triangolo o di circolo, quando  un matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno  o dell’altro, pur essendo tale teorema contenuto nel con-  cetto di quelle due figure geometriche, così non si può par-  lare di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esem-  pio, si vede che il concetto di ente in quanto ente, nel caso  di un rapporto di non identità tra essenza ed essere, conduce  mediante un ragionamento ad ammettere la creazione... »  (p. 58). Che il concetto di creazione non importi progresso.  nel puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di  sapere se non ne ha importato nella concezione metafisica  aristotelica. È stata tale rivoluzione il concetto di creazione,  che non si vede affatto come possa reggere l’esempio del  triangolo o del circolo. Teniamo distinti i due problemi ed  il progresso della metafisica da Aristotele a quella di Ago-  stino e Tommaso è innegabile ed immenso.    6. — Ultime precisazioni.    Mons. Olgiati a pag. 43 scrive: «lo Sciacca... ha rac-  comandato di non compromettere la realtà spirituale per  amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristote-  lica, della filosofia come cosmologia, ossia per amore di una  metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto corde a tale  preoccupazione. Ma che importa se la scienza dell’ente in  quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana  nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta sia dovuta ad  un pagano nulla toglie al suo valore, il quale non ha nes-    Concetto di metafisica 141       sun rapporto col paganesimo. A noi sembra che non è lecito  qualificare come naturalistica la metafisica aristotelica. Non  ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era  quello di un santo medievale come lo era quello di S. Tom-  maso ». Tutto quello che non sembra preoccupare ed inte-  ressare Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltis-  simo. Precisiamo il nostro punto di vista: quando il Car-  lini ed io parliamo di « metafisica pagana » e qualifichiamo  come « naturalistica » quella di Aristotele, intendiamo dire  che, dopo il Cristianesimo, quella concezione metafisica —  non diciamo il concetto di metafisica — va integrata: si tratta  non di abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S.  Tommaso. Evidentemente in questo completamento i termini  assumono un significato che, senza tradire quello che dà ad  essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa  opinione). Per esempio: di fronte al concetto di creazione, che  è il problema esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può  restare aristotelismo nella lettera e nello spirito? Altro esem-  pio: il Dio di Aristotele è fine totale come lo è il Dio crea-  tore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che  qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo dal campo  strettamente filosofico; gli rispondo subito (e credo di essere  tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono  restare estranee l’una all’altra, almeno per uno spiritualismo  che ci tiene a qualificarsi cristiano.   Il Dio creatore per amore, insegnato dalla fede, è una  verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata  porta una rivoluzione metafisica, che è appunto quella appor-  tata prima da Agostino nella metafisica dei cosidetti « Plato-  nici » e poi da S. Tommaso in quella di Aristotele. Ecco per-  chè il Carlini ed io chiamiamo cosmologica e naturalistica  la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teolo-  gica e spiritualistica quella di Agostino e Tommaso (quali  che siano poi le differenze tra i due pensatori) ed ogni altra  che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo    142 Filosofia e Metafisica       — e certamente Mons. Olgiati lo sa meglio di me — che molti  tomisti oggi sono orientati a mettere in luce l’originalità di  S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare più gli appro-  fondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La Neo-  scolastica italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad  un S. Tommaso abbarbicato tutto allo Stagirita e ad addos-  sare al gran Santo le responsabilità della filosofia aristotelica;  a restare in un isolamento — anche rispetto a tutte le altre  correnti di pensiero cristiano-cattolico, tomista o no — che  comincia a diventare molto (troppo) significativo ? Parrebbe  di sì, se Mons. Olgiati, con una espressione che mi ha tur-  bato, arriva a dire che « neppure gli stessi nobilissimi com-  piti dell’apostolato » (p. 63) smuoveranno la Neoscolastica  che egli rappresenta. E a che cosa la Neoscolastica non vuole  rinunziare? Ecco: al « primato della Luce che è Vita, ma  che è Vita appunto perchè è Verità e Luce». Certo; ma  questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non  è più Aristotele; e se Aristotele leggesse queste parole o le  intenderebbe a modo suo, paganamente e naturalisticamente,  o vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella  natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e lo trova nella  intimità dell'anima (spiritualismo cristiano), nell’interiorità  dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura,  il concetto, la ragione. Nello spirito la cerca anche S. Tom-  maso, che è cristiano prima di essere aristotelico.  Concludo con il Gilson: S. Tommaso «on l’a beaucoup  commenté, mais fort peu suivi. La seule manière de le suivre  vraiment serait de refaire son oeuvre telle que lui-mème la  ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus  loin que lui dans le méme sens et sur la voie mème qu'il a  Jadis ouverte » (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pa-  gine 321-322). Non è questo un compito molto più proficuo  che ripetere S. Tommaso invece di farlo avanzare e di-  fendere lo spirito cosmologistico e naturalistico della me-  tafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a scuola,    Concetto di metafisica 143       il Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri,  la Neoscolastica di Lovanio e gli spiritualisti cristiani italiani,  tutti a scuola: da chi? Evidentemente alla scuola dei grandi  pensatori classici e cristiani, di Platone e Aristotele, di Ago-  stino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella  scuola dove già sono stati e nella quale desiderano rimanere.    7. — Replica ad una replica.    Nel fasc. IV, 1949, della « Rivista di filosofia neoscola-  stica » (pp. 401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del  Carlini e mia. Lo ringrazio della considerazione in cui ha  voluto tenere le mie pagine e di quanto scrive in questa  sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni  accento polemico e limitandomi ad alcuni chiarimenti e pre-  cisazioni.   Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle concessioni:  « E quanto, dal punto di vista storico, si dice che l’amimus  di Aristotele era volto al mondo, all’empiria, alla realtà spe-  rimentale, dalla quale assurgeva, come a spiegazione finali-  stica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto col mon-  do, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini,  come lo Sciacca, hanno perfettamente ragione » (pag. 406).  E aggiunge che questo, più che Aristotele filosofo, è lo  scienziato, quello che « anche quando... parla del mondo  intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo sensibile, all’espe-  rienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni empiriche »  (iv:). Resta da vedere fino a che punto l’Aristotele « scien-  ziato » influenzi Aristotele « filosofo » e lo condizioni; se  il filosofo, almeno un filosofo che oggi si dice « cristiano »,  non debba proprio fare all’inverso, cioè: anche quando parla  del sensibile farlo con l’occhio volto sempre all’intelligibile  e cioè, direi io, «con preoccupazioni non empiriche »; così  come fa Platone, che pure non è cristiano, anche se l’Acri  ha voluto farne il pagano profeta di Cristo.    144 . +» . Filosofia e Metafisica       L’Olgiati pensa che Aristotele, partendo dal sensibile,  «ci ha invitato a riguardar quella realtà sensibile o speri-  mentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro tutti co-  loro — Hume e Kant compresi — che avrebbero dichiarato  l'impossibilità di superare con i nostri concetti l’esperienza,  Aristotele ci ha insegnato — mediante la sua metafisica —  concetti e leggi, che, quanto alla loro origine, hanno le radici  nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e  non possono non verificarsi in ogni realtà ed in ogni mo-  mento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da  noi sperimentabile » (p. 407). Dubito che, se tutti i concetti  e le leggi hanno, quanto alla loro origine, le radici nella  esperienza, possano poi verificarsi, quanto al valore, in ogni  realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile;  credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e le leggi hanno  aristotelicamente le radici nell’esperienza, avrebbero qual-  cosa da dire proprio intorno alla possibilità di oltrepassare  coi nostri concetti l’esperienza stessa; tranne che non si di-  mostri che tutta la critica della conoscenza e il concetto  critico di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni  stiano a provare soltanto che il pensiero moderno di quella  metafisica ha capito niente o pochissimo; che è come dire  che quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fon-  damentalissimo, non contano affatto. Credo, invece, che, a  questo proposito, vadano poste due precise domande: 1)  quell’« origine » (l’esperienza sensibile) rende davvero pos-  sibile che, in quanto al « valore », concetti e leggi si verifi-  chino universalmente, anche in una realtà insperimentata  ed insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che  non ha radice nell’esperienza sensibile, rende proprio es-  so possibile la formulazione dei concetti e ne garantisce  il valore? 2) La posizione aristotelica, al cui insegnamen-  to Mons. Olgiati ci incita, non è forse almeno in parte  responsabile di quella critica della metafisica, a cui il pen-  siero moderno è stato gradualmente portato? In altri ter-    Concetto di metafisica 145          mini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un ari-  stotelismo critico, cioè un giudizio su Aristotele o un appro-  fondimento spinto fino alla negazione della possibilità di  una metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata.  Oppure ancora così: il razionalismo e l’empirismo moder-  ni come il criticismo kantiano concludono col « sospendere »  la metafisica, in quanto si allontanano da Aristotele e l’in-  tendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto  ereditano proprio la mentalità «scientifica » del « filoso-  fo» Aristotele e sue preoccupazioni empiristiche che,  quanto sembra, non lo abbandonano mai, anche quando  costr uisce la sua metafisica come scienza dei principi pri-  mi del mondo fisico, che si continua in quello celeste e cul-  mina nel Motore Immobile?   L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed io abbiamo  ragione («è verissimo ») di sostenere che S. Tommaso non  è Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e « l’uti-  lizzazione di S. Agostino. Son lieto di rilevare quest'altro pun-  to di accordo con il mio illustre contraddittore (stiamo in-  fatti discutendo da circa un anno), il quale così continua:  «La creazione implicava per lui [S. Tommaso] l’impos-  sibilità di ripetere a riguardo delle forme la parola citata  dagli « Analitici » res ita est et non potest aliter se habere:  no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio, Libertà assoluta,  le avesse create diverse » (p. 407). Mi domando se il con-  cetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e  propria rivoluzione metafisica; ma basta solo quel « Dio  Libertà assoluta ». Ora, se le cose stanno come anche l’O.  riconosce, che resta della «costruzione » metafisica aristo-  telica? Il concetto di metafisica, scienza della realtà in quanto  realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica,  resta da vedere se quella che egli costruisce sia vera e fino  a che punto, se identica a quella di S. Tommaso e defi-  nitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga questa tesi, in  quanto ammette tra la metafisica aristotelica e quella    146 Filosofia e Metafisica       tomista differenze profonde. E questo non è progresso?  Perchè allora mi ribatte quando parlo, e non in senso stori-  cistico, di progresso in metafisica? L’O. precisa ancora:  « L’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’em-  piria; meglio, studia anche la realtà fisica, ma con ben altra  preoccupazione che non Aristotele, e cioè con un orienta-  mento metafisico » (p. 408). Se l’animus di S. Tommaso non  è più indirizzato verso l’empiria, si ammette che lo sia  quello di Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra  preoccupazione di quella dello Stagirita « e cioè con un orien-  tamento metafisico », significa ancora, proprio secondo l’O.,  che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è me-  tafisico, ma, come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e  naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son  grato a Mons. Olgiati delle differenze che egli segna tra Ari-  stotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente il  mio punto di vista. Ma tre righe più sotto si legge: « Fe-  dele ad Aristotele, egli [S. Tommaso] non perde mai il con-  tatto con la realtà: nella realtà sta il suo punto di partenza,  la via da lui percorsa e il punto d’arrivo ». Quale realtà?  quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di  arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che vuol dire che  l’animus del grande Dottore non è più indirizzato verso  l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento  metafisico? Francamente su questo punto vorrei vederci  chiaro e perciò semplifico la questione: i concetti di « crea-  zione », della realtà come verità, di « spirito », di « libertà »,  ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo e utilizzati da  Sant'Agostino, una volta introdotti da S. Tommaso nella  costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzial-  mente intatta sì o no? Se tali concetti sono operanti nella  metafisica tomista, come in quella di ogni pensatore cri-  stiano, non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica  e non lo è sostanzialmente; altrimenti bisogna ammet-  tere — l’O. sembra contrario — che il Cristianesimo e    Concetto di metafisica 147       l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e  la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente identica a quella  di Aristotele. Qui non si fa questione del « concetto » o della  definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica  di Aristotele; infatti, non basta dire che il concetto di me-  tafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo  circa il concetto della realtà in quanto ente. È da questo  punto che comincia la questione: che è realtà? che è ente?  Ora i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono  quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione metafisica dei due  pensatori è identica o no? i concetti di analogia, potenza,  atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due me-  tafisiche o no? Se l’O. risponde di sì mi permetta di do-  mandargli dove e in che modo S. Tommaso utilizza S. Ago-  stino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto  rispetto allo Stagirita. Se risponde di no deve concedermi  che, pur sulla base del concetto aristotelico di metafisica, la  metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e  diversissima cosa da quella aristotelica, e che, come sostengo,  è naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scanda-  lizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed atto, Motore immo-  bile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro senso, sono pre-  gnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con  quello della metafisica dello «scienziato » Aristotele.   Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di  metafisica. In tal caso, però, si ferma alla definizione gene-  rale senza entrare a considerare una costruzione metafisica  concreta, cioè una concezione del reale e dell’ente ed è  costretto a limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto  aristotelico-tomista è della metafisica come scienza della  realtà in quanto realtà. E poi? L’O. mi obietta: « Il Prof.  Carlini è logico perchè mi respinge tale concezione del  reale. Invece il Prof. Sciacca dice di ammetterla e poi mi  ostracizza come naturalistica la metafisica costruita su quelle  fondamenta » (423). Credo di essere « logico » anch'io — non    148 Filosofia e Metafisica       come il diavolo dantesco, spero —: accettata quella definizio-  ne della realtà in quanto ente, resta da costruire la metafisica  ed io ostracizzo come naturalistica quella aristotelica; altro  è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è  (o sbaglio?) accettare una determinata costruzione metafisica.  Non accetto quella aristotelica — e desidererei sapere se S.  Tommaso l’accetta così com'è — appunto perchè naturalistica  e perciò lontana da una metafisica che tenga conto del Cri-  stianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste  non trovo una sola risposta precisa in tutto l’articolo di  Mons. Olgiati. Infatti, rispondendo al Carlini, egli dice  che S. Tommaso, « qualsiasi questione affrontasse... la pro-  spettava metafisicamente »; e così esemplifica: « discusse  il problema della libertà umana, ma non fu ad un argo-  mento psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’ar-  gomento morale (l'impossibilità di un'attività etica qualora  non fossimo autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto  alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del  concetto di ente. Discusse il problema di Dio: m a non fu  al consenso dei popoli e della storia, non alle aspirazioni del-  l’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale od  alla vita che egli si indirizzò per le sue vie, bensì ad un  ente constatato ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di  S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’ela-  borazione del dato dogmatico in funzione della metafisica  dell’ente? » (p. 409). Mi permetto osservare: ha ragione S.  Tommaso di rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette  da parte l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze  della vita ecc. ha torto, perchè anche questi sono argomenti  che hanno il loro peso, e la convergenza degli argomenti è  un argomento probativo; ha ancora torto perchè questi ar-  gomenti, se approfonditi, hanno anch'essi una portata meta-  fisica; anche la vita psicologica e morale sono esperienza  (lo è la spiritualità nella sua totalità ed integralità) e vi è me-.  tafisica dell’esperienza interiore, dalla quale, a mio avviso, de-    Concetto di Metafisica 149       vono passare quelle « vie » che dimostrano l’esistenza di Dio.  Inoltre, concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i pro-  blemi in funzione del concetto di ente e della metafisica del-  l'ente, resta da precisare se la sua concezione metafisica sia  quella di Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come  egli abbia fatto a trarre fuori da essa un concetto di «li-  bertà », delle prove dell’ « esistenza di Dio » e persino una  « teologia » che traducono tutta la profondità e l'originalità  di significato che questi termini hanno nel Cristianesimo.  Questo punto non lo vedo chiaro e desidererei precisazioni  ben fondate.   Ancora una domanda: Mons. Olgiati a più riprese, nel-  l’articolo che discutiamo e in quello precedente, dice che  S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (p. 419);  che non si può comprendere il significato della parola es-  senza, che pure è indispensabile per dichiarare cos'è l’ente,  se non si « esulta » prima dinanzi alla « bellezza fulgente »  del concetto agostiniano della realtà come verttas; aggiunge  che S. Tommaso non ripete Aristotele; che utilizza il Cristia-  nesimo (per es. il concetto di creazione ecc.) ed Agostino.  Desidererei che egli mi dicesse non così, in generale, ma con-  cretamente come S. Tommaso completa, senza rinnegarlo,  S. Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se  accetta il concetto agostiniano della realtà come veritas « in-  teriore »j che cosa accetta della metafisica di Aristotele e do-  ve la modifica profondamente, cioè in quali tesi non è aristo-  telico; se la sua metafisica, con la introduzione di concetti  cristiani ed agostiniani, mancanti in Aristotele, si possa  chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo  spirito profondo. Credo che un chiarimento preciso su que-  sti punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico  sinceramente.   Il lettore forse non si sarà ancora accorto che fino ad  ora non ho risposto, tranne che in un punto, alla parte del-  l’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente, bensì all’al-    150 Filosofia e Metafisica       tra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche  me e perciò ho creduto opportuno occuparmene.   D'altra parte, il modo d’intendere e di valutare la me-  tafisica di Aristotele come la questione dei suoi rapporti  con quella di S. Tommaso sono i punti in cui il Carlini ed  io concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giu-  dizio carliniano sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io,  in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente,  come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e come si può  vedere dalla stessa risposta del Carlini all’Olgiati, dove il  mio illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io  qui mi limiti a rispondere solo a Mons. Olgiati, altrimenti  si finisce davvero per confondere le lingue; e poi, contro  due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini ri-  sponderò a parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘):  i dissensi in famiglia — e credo che siano forti — è bene che  ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si con-  viene tra amici e che del resto, malgrado qualche espressione  vivace da ambo le parti, sono stati conservati anche nel di-  battito con Mons. Olgiati.   Che il dissenso con il Carlini sia rilevante appare subito  da queste mie affermazioni categoriche: ritengo, anche dopo  la critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo  la critica al massimo delle sue possibilità, 1) che si possa  fondare una metafisica, con cui identifico la filosofia nel  senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa  metafisica sia quella della verità (dunque punto di partenza  è l’uomo nella sua integralità), di cui Agostino è il maestro,  ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella  linea della metafisica classica. Non esssermi stato riconosciuto  ciò dall’Olgiati è la cosa — lo dico con tutta sincerità — che  più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare  {non « gridare », come dice l’O.) di essere stato frainteso;  ma torniamo alla discussione vera e propria.    (1) La risposta è stata data indirettamente in altra occasione.    Concetto di metafisica I5Ì          Mons. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano (« se  il prof. Sciacca prenderà tra le mani» p. 421) il volume  che l’Università Cattolica pubblicò nel ’31 in occasione del  centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Ago-  stino (volume I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di  volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti  agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta, prego io l’Ol-  giati di « prendere tra le mani » questo mio volume e di leg-  gerlo con un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel  Convegno di Gallarate del ’46, come presentatore del tema  « Agostinismo e tomismo » sostenni, tenendo presente il Ma-  snovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità  dei due grandi pensatori (« Atti del II Convegno dei filosofi  cristiani di Gallarate », Milano, 1947). Ma lasciamo questo  punto secondario anche per evitare di continuare a consi-  gliarci, l’O. a me ed io a lui, la lettura di libri che cono-  sciamo benissimo.   L’Olgiati si mostra ancora preoccupato della mia affer-  mazione: «l’ontologia è vincolata all’antropologia », in  quanto crede che essa apra le porte al relativismo; e aggiun-  ge: «È il valore di assolutezza della verità — tesi primale  di S. Tommaso, di S. Agostino — che ci sta a cuore»  (pag. 423). A me invece, secondo l’O., starebbe a cuore il  soggettivismo e il relativismo della verità; a me che da quasi  quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo — e ciò  fa arrabbiare persino il mio amico Carlini — tra « idealismo  spurio » (soggettivo) ed «idealismo autentico » (oggettivo)  e contrappongo energicamente alla tesi della « verità come  sviluppo » l’altra della «verità come scoperta », ecc. Ma  tant'è, a me starebbe a cuore non il valore oggettivo della  verità, ma un assurdo Cristianesimo «colorito di relativi  smo » (pag. 432). Se così fosse non avrei capito niente di  Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e  piedi nel soggettivismo idealista. Evidentemente le parole  «l’ontologia è vincolata all’antropologia » vanno intese diver-    152 Filosofia e Metafisica       samente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando  mi fa l’onore di discutermi, interpreta le mie espressioni in  senso idealistico e mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco,  infatti, come intende quell’affermazione: «Il nostro sapere  sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi non potremmo  conoscere se non ciò che appare all'uomo in quanto uomo;  ossia il relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna  verità di valore assoluto » (p. 423). Questo è inventare e non  criticare, per il gusto di far passare tutti da « fenomenisti »,  tranne Mons. O., unico interprete di S. Tommaso aristotelico.  Io dico perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della cono-  scenza umana non è dato dal soggetto ma dall’oggetto,  cioè dalla verità che è presente (inzeriore) alla mente e per-  ciò è sempre verità di un soggetto pensante, senza che ciò  significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante  è l’uomo; dunque egli è il soggetto del filosofare, avente co-  me oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante: non  è il pensiero che fa essere (pone) la verità, ma è la verità  che fa che il pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto  della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa,  1) non vedo dove stia il relativismo, in quanto 2) la mia  espressione « l’ontologia è vincolata all’antropologia » signi-  fica precisamente: l’ontologia è vincolata all'uomo in quan-  to soggetto di una verità oggettivamente valida, di cui ha  profonda interiore esperienza. «Se noi siamo chiusi nel-  l'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella esperien-  za» (p. 425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tran-  quillizzare l’Olgiati che #07 restiamo chiusi nel carcere del-  l'antropologia perchè è presente alla mente dell’uomo la ve-  rità che lo spinge a trascendersi fino a quando non abbia  trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon siamo e 207  resteremo incatenati nell’esperienza appunto perchè quella in-  teriore è esperienza della verità oggettiva. Ho i miei dubbi che  questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue «preoccupazio-  ni empiriche » e con quel suo star «sempre volto al mondo    Concetto di metafisica 153       sensibile, all’esperienza », dove «concetti e leggi... hanno  le radici »; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, in-  vece, che il pensiero umano ha le sue «radici » nella verità  che gli è interiore (esperienza, dunque, ma non la sensibile,  almeno in questo caso) e che tale verità ha il suo Prin-  cipio ultimo, la Radice assoluta, in Dio. Perciò, non è vero,  come dice l’O., che io « protesti di essere nello spirito » del-  l’aristotelismo e del tomismo, se per tomismo s’intende l’ari-  stoteliimo di Aristotele; al contrario, non vi tengo affatto  ad essere nello « spirito » dell’aristotelismo, e rifiuto il Mo-  tore immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il  Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se anche S. Tom-  maso, per l’O., sia proprio nello « spirito » dell’aristotelismo  e se il suo Dio sia il Motore immobile aristotelico.   Di passaggio rilevo un’altra espressione: « Tuttavia dire  spiritualità è dire, almeno almeno, potenzialità della concet-  tualizzazione » (p. 427); ma la spiritualità, nel senso pre-  gnante e profondo, è una verità cristiana, ignota al pen-  siero greco. E l’attività dello spirito è solo potenzialità della  concettualizzazione? Per Aristotele sì, ma per la filosofia  cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con  «una scienza puramente nozionale e di astratti ed esangui  rapporti o balletti logici». Se si identifica la spiritualità  con la concettualizzazione o con quella che Platone chia-  ma la È:zvorx, sono costretto a mantenere il mio punto  di vista e a contrapporvi una spiritualità più ricca e con-  creta, la vénets, che del resto non nega affatto il valore  del concetto ed è sempre molto meno della spiritualità cri-  stiana.   Non credo che sia necessario insistere nel chiarire l’altra  mia espressione « metafisica uguale trascendenza » dopo  quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi  sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi costringa a ritor-  nare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia  posizione non è sufficiente per arrivare alla trascendenza,    154 Filosofia e Metafisica       come non lo è quella dello Hegel, che resta nell’immanen-  tismo (p. 435). Debbo anche questa volta ripetere che io sono  ben lontano dalla posizione idealistica, in cui l’O. mi vuol  cacciare a qualunque costo.   Passando ad altro argomento, non credo che io abbia  «confuso » (addirittura!) «immanenza » con «immanenti-  smo » (p. 436), ma ho semplicemente usato il termine im-  manenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno  anche gli immanentisti. Perciò escludo che interiorità sia  uguale ad immanenza e preferisco, appunto per evitare « con-  fusione », parlare di « presenza » od «interiorità » della ve-  rità, anzichè di immanenza, termine ormai compromesso.  Che sia così, lo dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Ol-  giati, che per avere parlato di « méthode d’immanence » i  filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti ac-  cusare di immanentismo e si son tirate addosso una se-  quela di obiezioni e polemiche non di rado ingiuste e  infondate.   Mons. Olgiati osserva ancora: «se metafisica significa  scienza della realtà in quanto realtà, la realtà interiore io  non la posso, in un primo momento, riguardare in quanto  interiore, ma solo in quanto realtà ed allora avrà i concetti  e le leggi valide per ogni qualsiasi realtà e non solo per la  realtà interiore. A questa difficoltà il prof. Sciacca non ha  risposto » (p. 437). La risposta, invece, è data da un buon  numero di miei scritti e la dà indirettamente lo stesso O. a  p. 438: «E quando il pensatore d’Ippona mi dice che la  realtà è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere  il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni realtà, anche  per quella che Platone disprezzava come fenomenica, an-  che per la realtà della natura ». Da ultimo l’O. torna an-  cora sulla questione del « progresso in metafisica »; e, in  fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne sia stato.  Queste le sue parole: «E questo atteggiamento doveroso  ci mostra, sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una con-    Concetto di metafisica 155       quista nuova, la quale però mon segna necessariamente un  progresso in metafisica, ma può realizzare progressi in altri  campi, sia della filosofia come della scienza, come della  storia » (p. 439). In tutti i campi, sì, si può parlare di pro-  gresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a  san Tommaso, tutta compiuta. Non che la metafisica escluda  come tale il progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san  Tommaso, il quale «implica e supera le conquiste platoni-  che ed agostiniane » (p. 424); dopo non più. E perchè?  Perchè mai, se delle conquiste, come quelle precedenti a  S. Tommaso, hanno potuto essere implicate e superate, a  detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di que-  sta non possono poi essere ulteriormente implicate e supe-  rate? Così quella verità metafisica resta là senza progresso,  come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come di-  cono i tomisti, mentre noi diciamo che di perenne vi è  solo il filosofare come progressiva e sempre perenne sco-  perta della verità inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O.  che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno,  nè di Platone, nè di Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel,  ma solo li consideriamo, pur con le loro differenze (e chi  potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine  al nostro e che non è l’arimus o lo spirito del filosofare  aristotelico per il motivo semplicissimo che è quello cri-  stiano. Io mi sono occupato di questi pensatori e battuto  affinchè siano ben intesi e non fraintesi, senza omettere di  rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro  manchevolezze e insufficienze o punti oscuri da chiarire.  Certo il concetto agostiniano di veritas non è quello blon-  deliano di vita, ma credo che i due concetti non si esclu-  dano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nel-  la verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che  è fonte di vita spirituale, se non vivendola. E se l’O. dice  che non è così, mi scusi, ma mi vengono subito in  mente la «scienza puramente nozionale » e i «balletti lo-    156 Filosofia e Metafisica       gici », a costo di sentirmi ripetere che mi manca «il con-  cetto del concetto ».    8. — Ultima replica.    Sotto il titolo « A conclusione d’una polemica » (« Riv.  di Filos. neosc. », IV, 1950, pp. 356-364), Mons. Olgiati ha  risposto alla mia ultima nota, concludendo la discussione  (tale per me è stata e non una polemica) che s'è svolta tra  lui da una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la  posizione carliniana molto distante dalla mia. Anche da me  con queste poche righe la discussione è considerata conclusa.   La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia  precedente, ma ripete cose che egli aveva già detto ed io  controbattuto. Gli avevo posto domande precise sui rap-  porti tra Aristotele e San Tommaso e le loro costruzioni  metafisiche, come su quelli tra Agostino e Tommaso. Mons.  Olgiati ripete ancora che «la costruzione metafisica com-  pleta è certo diversa in Aristotele e in San Tommaso », ma  non mi dice se, poste queste diversità, per me profonde,  quella tomista si possa dire, e fino a che punto, aristotelica;  ripete che il tomismo completa la definizione platonico-ago-  stiniana del reale, ma non mi dice se con questo comple-  tamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui l’ago-  stinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Ro-  smini; e potrei continuare.   In compenso, oltre a volermi insegnare alcune cose di  cui, per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio  alla maniera dell’Olgiati anche, se non con la sua compe-  tenza — coincidenza di idee che l’O. non sembra gradire  — dichiara di aver trovato nella mia risposta «la chiave  per spiegare le difficoltà » che c’'impediscono d’intenderci sul  concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei  sotto il mio agostinismo « un concetto di realtà che non è nella  linea della metafisica classica, bensì in quella dell'innatismo    Concetto di metafisica 157       razionalista » (p. 361); e per due fittissime pagine continua  a svolgere questa sua interpretazione-chiave per concludere  opponendo la concezione della r'eritas agostiniana alla mia,  che riduce «la realtà in quanto realtà al contenuto del-  l’idea » e va a finire difilato nel « fenomenismo raziona-  lista » (p. 363). Lo dicevo io che, volente o nolente, sarei  dovuto andare nel « fenomenismo », le « malebolge » a cui  l’O. condanna tutti quelli che non la pensano come lui.  In quali miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia  letto queste cose, lo ignoro; il passo che riferisce dalla  mia precedente risposta va inteso all’opposto da come egli  lo intende. Non confuto la sorprendente interpretazione,  come non confuterei un critico che dicesse che io sono  spenceriano, marxista o che so io; d’altra parte, dovrei  riesporre quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo  volume su S. Agostino e in Filosofia e metafisica (*), cosa  superflua. Bisogna riconoscere che Mons. Olgiati presenta  la sua interpretazione in forma molto dubitativa: « posso  sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere eventualmente, il  mio errore, del quale — 4 priori — se fosse tale, chiedo  scusa all’egregio amico » (p. 361). Mi permetto dirgli che si è  proprio sbagliato e sinceramente non riesco a comprendere  come abbia potuto interpretare il mio concetto di realtà, clas-  sicamente agostiniano, nella linea dell’innatismo razionali-  sta, da me ripetutamente confutato, e credo in modo che  dovrebbe riscuotere anche l’approvazione dell’Olgiati.  Concludo questa discussione con una battuta scherzosa,  come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono:  trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia qualcuno che  voglia fare delle nuove scoperte nella conoscenza dell’Africa  svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia,  che egli legga alla rovescia quanto vado scrivendo, comin-    (2) Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due ultime  battute della discussione.    158 Filosofia e Metafisica       ciando dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccon-  tano facesse Pico della Mirandola nel ripetere un testo per  dar prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire  in me non so quale «innatismo » o « fenomenismo razio-  nalista » e farmi esplorare l’Africa in America.    Carrtoto III    CULTURA E TRASCENDENZA    Il problema della cultura e del rispetto delle culture, oggi,  si presenta piuttosto come problema della « crisi », profonda,  della prima e di quella, minacciosa, del rispetto delle cul-  ture. A nostro avviso, questa duplice crisi (le culture in crisi  sono sempre intolleranti ed intransigenti: la crisi è un po’  decadenza e il pericolo del crollo rende spesso dommatici),  è la conseguenza di un’altra ben più profonda, di portata  metafisica, della crisi della trascendenza. In altri termini,  la crisi di una cultura è l’aspetto appariscente — ed in questo  senso superficiale — di quella dei suoi radicali fondamenti  metafisici, che spesso si perdono di vista e non si consi-  derano. Per esempio, quella della cultura greca espressa dalla  « sofistica » fu indubbiamente la crisi della metafisica cosi-  detta presocratica e specialmente delle due sue più alte posi-  zioni, di Parmenide ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle  filosofie dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica pla-  tonica ed aristotelica. La crisi del pensiero moderno, nel  suo ormai secolare sviluppo attraverso molteplici crisi dentro  la crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica.  Se ben si osserva, le tre forme di crisi che abbiamo addotto  ad esempio, pur nelle loro notevolissime differenze e diver-  sità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti, sia  la sofistica come le filosofie postaristoteliche e quelle dal Ri-  nascimento in poi — malgrado, com'è noto, non manchino    160 Filosofia e Metafisica       metafisiche della trascendenza, in questo senso dette « anti-  moderne », reazionarie, conservatrici o tradizionali — sono  posizioni filosofiche d’immanenza, preoccupate di giustificare  la realtà fisica e quella umana, come anche il loro valore  e significato, immanentisticamente, cioè da e con se stesse,  senza ricorso ad una Realtà trascendente di ordine super -  fisico e super-umano. Trascendenza significa dualità, imma-  nenza, monismo: la prima fonda «questa» realtà — gli  uomini e il mondo in cui vivono — su di un’ « altra » che  trascende questo mondo; la seconda fonda « questo » nostro  mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà umana e  naturale si origina, si regge secondo sue leggi immanenti,  e si giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’imma-  nenza, anche se si presenta come metafisica, a nostro av-  viso, è sempre una posizione antimetafisica, oppure, se lo si  preferisce, trova il suo sviluppo coerente ed ultimo nella ne-  gazione della metafisica, la quale, infatti, importa, affinchè  sia tale e non pseudo-metafisica, una concezione dualistica  della realtà: «questa » (fisica) e un’ «altra» che la tra-  scende e la fonda. Metafisica significa trans-physica, scienza  dell’2/ di là, che, come tale, trascende quel che è « di qua »;  di un «lassù » 44/ quale il « quaggiù » dipende e nel quale  ha il suo fondamento, il suo significato e il suo fine. Natu-  ralmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il Cri-  stianesimo e lo stesso svolgimento del pensiero moderno,  non possiamo più concepire questo « al di là » in senso pu-  ramente o prevalentemente naturalistico o cosmologico, ma  lo pensiamo come l’assoluta Realtà spirituale, da cui la no-  stra dipende, come l’ « Al di là » interiore e trascendente.  Al contrario, per le filosofie immanentistiche — e come tali  non-metafisiche perchè non-dualistiche — quella realtà che è  l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se stessa: l’unica umana  è la realtà storica, la cui espressione più alta ed assoluta è  stata, a volta a volta, identificata con l’attività morale (mo-  ralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia (panfiloso-    Concetto di metafisica 161       fismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella eco-  nomica (materialismo storico), con la storia nel suo com-  plesso (storicismo) o con le varie culture (culturalismo); in  qualunque caso con un valore puramente umano, mondano,  terrestre, laico, areligioso, finito e relativo, che in tal modo  è stato assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono ap-  punto i caratteri della « cultura » moderna e contemporanea  in generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto,  si presenta come antimetafisica ed antidualista e perciò anti-  trascendentista. In questi caratteri va cercata, per noi, la  causa profonda della crisi della cultura del nostro come di  tutti i tempi, che perciò è crisi della metafisica e della tra-  scendenza teologica; in una parola, crisi di fondamento,  di un fondamento assoluto del pensiero, in quanto il pen-  siero umano, limitato e relativo per sua natura anche se  assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se  stesso, non può autofondarsi, perchè non può autoautenti-  carsi: la sua autenticazione è nel pensiero, nella Verità  assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma, come fondante e  assoluta, lo trascende.   Una delle conseguenze più deprecabili, perchè dannosis-  sima dell’immanentismo della filosofia e della cultura mo-  derna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto  tra le varie culture. Negata la Verità assoluta e trascendente  — dico una verità oggettiva che misuri il pensiero e non  ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indi-  pendente ed anteriore e non da esso creata attraverso la ricerca  — € fatta la verità di un prodotto e non una scoperta della ri-  cerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è più  possibile evitare il soggettivismo della verità. Inconsistente la  distinzione tra «io empirico » ed « Io trascendentale » : l’Io  trascendentale è sempre il pensiero dell’ordine naturale ed  umano (storico) e perciò mutevole e finito e, come tale, in-  sufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificata-  mente fondamento di se stesso, autosufficiente, è privarlo    162 Filosofia e Metafisica       del suo fondamento assoluto: il soggettivismo e il relati-  vismo risultano ugualmente inevitabili. L’aforisma prota-  goreo (« l’uomo è la misura di tutte le cose ») inteso, empi-  ricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o  idealisticamente, nel senso dell’umanità in universale, non  perde il suo essenziale soggettivismo, perchè è sempre l’asso-  lutizzazione fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il  carattere prevalentemente soggettivo delle dottrine, la pretesa  di ciascuna d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di  ogni punto di vista, non come una prospettiva parziale, ma  come l’adeguazione della verità totale. Noi non diciamo  che i valori relativi e i punti di vista parziali non abbiano  alcun valore, ma diciamo che, solo arbitrariamente e per irra-  zionale estrapolazione, possono essere identificati ciascuno  con il valore o con la verità assoluta. In tal caso il rispetto  che si deve a ciascun valore si trasforma, una volta che lo  si assolutizza in fanatismo intollerante. Impossibili, per conse-  guenza, la cooperazione delle culture e il loro rispetto reci-  proco come l’avvicinamento, perchè manca il fondamento  comune di una verità oggettiva, la sola che possa rendere  possibile, pur nella diversità dei vari punti di vista, l’incontro  di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il  loro cooperare fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si  è venuta a creare una miriade di culture, ciascuna « stato a  sè », sovrana, che perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pen-  satore identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la  verità e da questa condizione di « pontefice massimo » lan-  cia scomuniche contro l’« eretico » che la pensa diversamente.  Così siamo diventati tutti pontefici e tutti eretici nello  stesso tempo: dommatismo assoluto e insieme assoluto  scetticismo. Quando si nega l’esistenza di una verità asso-  luta — e non è tale se non è trascendente il nostro pensiero  — non c'è più possibilità d’intendersi perchè manca un  punto di riferimento assoluto da noi indipendente anche se  a noi interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una    Concetto di metafisica 163       questione di umiltà: sentirci non i creatori della verità, ma  gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la  verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo in questo amore  comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono  trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione,  come tanti punti di vista sollecitati dalla stessa aspirazione,  tendente all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di mora-  lità radicale, metafisico anch’esso, ma non vi è moralità  autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è  mondo umano) senza trascendenza teologica, senza metafi-  sica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di  umiltà, è anche questione di onestà, chiarezza filosofica:  riconoscere che i valori metafisici e la metafisica come tale  non possono essere frammenti di esperienza umana per se  stessi non assoluti, elevati al grado dell’assoluto e con esso  identificabili. In questo senso, pur conservando la profonda  umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere  ogni forma di pseudo-metafisica antropomorfica e chiamare  le cose con il loro nome: relativo quel che è relativo, e asso  luto quel che è assoluto.   Non vi è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo  alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cul-  tura; decade o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spi-  rituale: la schiavitù, come negazione della libertà, trova la  sua condanna nella sua « incultura ». Perciò, in questo senso,  è vero che il progresso della cultura è progresso morale, in  quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e del-  l’altro; ma è anche vero che, sulla base dell’immanenza,  non vi è libertà — e dunque non più moralità e cultura — in  quanto si limita, usandogli violenza, il fine dell’uomo al-  l’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo  spazio è sempre angusto e tutto il tempo è sempre breve),  snaturando le sue aspirazioni fondamentali, reali, naturali  e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento  stesso della libertà, che è autentica nel riconoscimento dei    164 Filosofia e Metafisica       suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce) e  non nell’illimitatezza indefinibile dell’arbitrio, in cui tutto  diventa lecito, perchè manca il limite della trascendenza,  come avviene in ogni filosofia immanentista.   Di qui possiamo trarre due ordini di considerazioni:    1) Non vi è cultura (perchè decade in forme decaden-  tistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo  e alla storia — immanentismo e umanesimo assoluti e come  tali astratti —-; se un misticismo eccessivo e perciò nihilista  cancella il tempo e nega la storia (apocalitticismo). In altri  termini, non vi è cultura dove tutto è tempo (negazione del-  l'eterno o di Dio) o dove si nega il tempo — negazione della  storia e dei valori umani. Per conseguenza, la condizione  della cultura risulta essere ancora la concezione dualistica  di « questo » mondo e dell’« altro », del mondo dell’uomo  e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si rompe questo  equilibrio, vien meno la condizione che rende possibile la  cultura e le sue forme. La cultura moderna ha cercato di  abolire l’ultratemporale (il metastorico) ed ha segnato con ciò  la decadenza della cultura occidentale, diventata culturali-  smo soggettivo, caotico e ormai infecondo. Per un motivo  opposto non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi  è stata per la duplice tendenza apocalittica e nihilista (prima  prevalentemente religiosa ed oggi assolutamente atea), che  porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è  assorbito nel problema finale del mondo, storico o metasto-  rico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una zia  attraverso cui si conquista il fine ultraterreno, si purifica  e si riscatta l’attività mondana dello spirito. La Russia, in  questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di  Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente; nell’uno e nell’altro  caso un misticismo apocalittico, che nega il mondo umano.  L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra  soddisfatto della sola cultura, risolve l’essenza della vita spi-  rituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi quest’ap-    Concetto -di metafisica 165       x    pagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e  perciò l'Occidente è malcontento, isterico, decadente, sofi-  stico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una  vera cultura reale, ontologica, metafisica. Ciò è in certo senso  l’autocondanna dell’immanentismo, anima del mondo mo-  derno, e l’indizio dell’ansia di escire dalla zona « mediocre »  di una cultura che si è sganciata dall’eterno (da Dio) per  tuffarsi tutta nella storia, cioè per ricadere pesantemente su  se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di  slanci metafisici. L’Occidente moderno ha voluto risolvere  l’eterno nel tempo, l’essere nel divenire, la trascendenza  nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo,  anticulturalistico, ha preteso negare il tempo, la storia,  l’uomo in una eternità astratta, in un misticismo religioso  antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il  dualismo ontologico è distrutto: assoluto umanesimo è nega-  zione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo  è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio: due forme  di monismo opposte ma approdanti allo stesso risultato.  Entrambe sono atee e inumane.    2) L'altra considerazione, non meno rilevante della  prima, riguarda la struttura radicale di quella che comu-  nemente si chiama «civiltà occidentale »; «radicale »  per-  chè sta proprio alla radice, alle sue origini greco-cristiane.  La concezione greca della vita, quella della migliore ed au-  tentica grecità, è dualistica: vi è una realtà fisica ed una  realtà metafisica che trascende la prima, « questo » mondo e  l’« altro». Platone e il platonismo sono l’espressione più  alta e significativa del mondo classico. Dualistica è anche la  concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato,  senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi reali nel loro in-  trinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione cri-  stiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo del-  l’uomo e il Regno di Dio, « questa » vita e l’« altra », anzi  questa vita per l’altra, l’uomo per Dio. Concezione dualistica,    166 Filosofia e Metafisica          non solo, ma anche gerarchica: il «quaggiù» guidato,  orientato, subordinato al «lassù »: due realtà, l'una dipen-  dente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana,  pur nella sua assoluta originalità rispetto alla concezione  greca e romana della vita, abbia visto, in un primo tempo,  nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale  e, in un secondo tempo, abbia potuto realizzare la gran-  diosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima del  platonismo (Agostino) e poi dell’aristotelismo (S. Tommaso);  così pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della  concezione giuridica di Roma. Il fondamento dualistico, co-  mune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese  pos-  sibile l’incontro e la loro continuità. Grecità, Romanità e  Cristianesimo sono i tre elementi costitutivi della civiltà  occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisio-  nomia essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanenti-  stica non le è propria, anche se non completamente estranea.   Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propria-  mente una forma di civiltà occidentale: la Germania non  è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la strut-  tura della sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello  della romanità e del Cristianesimo; infatti, è la terra del  monismo e del panteismo: monistiche e panteistiche la sua  filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo,  caratteristico del pensiero moderno e contemporaneo, è pe-  netrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influen-  zata dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha  corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla trascendenza l’im-  manenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito  Dio: «Dio è morto », conclude Nietzsche, «e l’abbiamo  ucciso noi ». In un primo tempo lo ha surrogato con l’uomo,  capovolgendo i termini del dogma cristologico: non Dio  Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel)  o uno dei tanti valori umani: l’arte, la morale, l'economia,  la politica ecc.; in un secondo tempo, ai nostri giorni, per-    Concetto di metafisica 167       duta la fiducia nell’assolutezza dei valori umani (com’era  inevitabile una volta negata la concezione metafisica duali-  stica) senza riacquistare la certezza dell’esistenza dell’As-  soluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed ha con-  cluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un  fondamento assoluto nè divino nè umano. Fatalmente l’im-  manentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto  dell’uomo come persona (il nazismo o altre forme politiche  simili). I due elementi fondamentali della civiltà occidentale  risultano negati e così con essi la civiltà che avevano pro-  dotto e fecondato (1).   Di derivazione germanica, immanentista — e non della  genuina civiltà occidentale — è il bolscevismo russo. Il co-  siddetto marxismo o materialismo dialettico o storico, im-  portato in Russia, ha subìto una notevole trasformazione a  contatto con l’«incultura» di quel Paese, cioè con l’opi-  nione negativa che gli scrittori più qualificati avevano sempre  avuto della cultura, come di qualcosa di mediocre, di un  ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspet-  tazione del fine assoluto. Il misticismo russo, con il bol-  scevismo, da religioso si è fatto ateo, il fine assoluto dal  cielo si è spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica  e nihilista è rimasta intatta. In un certo senso il bolscevi-  smo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è  l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un «al di là»  e se vi è solo un « quaggiù », se non c’èdualità e trascen-  denza, l’assolutamente assoluto è il « quaggiù », tanto as-  soluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni  cultura (in prima linea quella occidentale, dualistica e perciò  nemica), ogni forma di vita diversa da quella della nuova    (1) Dico di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione  immanentistica della vita, è condannata, proprio perchè manca della trascen-  denza, ad identificarsi con la « politicità » nel senso più vasto del termine e  dunque a materializzarsi e a sboccare nella violenza, che è la negazione della  libertà e perciò della cultura.    168 Filosofia e Metafisica       apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere  sacrificati, annullati. Così il nihilismo religioso russo, l’« in-  cultura » e l’« antistoria », che negava il mondo rispetto al  fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della  sua antitesi), si è fatto immanentista, restando sempre nihi-  lismo a carattere mistico; assolutizza il mondo al punto da  negarlo come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto  che è come un mondo al di là di quello storico e di questo  negatore, nega la cultura da cui è nato nella sua nuova forma  di « incultura ». L'immanentismo germanico aveva concluso  « Dio è morto », prima che con il Nietzsche con lo Hegel,  il cui Dio è il Gost im Werden, il « Dio che si fa», e Marx  deriva da Hegel; « se Dio è morto », argomenta il bolsce-  vismo, anche « l’uomo è morto », è nulla rispetto al suo fine,  l’Uomo assoluto di domani, l’uomo del millenarismo ateo.   Ci sembra ormai evidente che l’immanentismo, germa-  nico e russo (pur così diversi: l’uno nega Dio per il mondo  e l’altro lo stesso mondo per un mondo nuovo di un do-  mani assoluto), per il fatto che è immanentismo, è la mi-  naccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la cui  radicale struttura, come abbiamo detto, è la dualità, la tra-  scendenza, la metafisica nel senso vero del termine. Natu-  ralmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la  trascendenza è una verità interiore e non di ordine esterno  e naturalistico (l’interiorità della verità è quanto va conser-  vato dell’immanentismo, ma l’interiorità non è immanenza)  e che, d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata  in un umanesimo troppo umano o in un culturalismo che è  adorazione della cultura; ed è quel che ha di positivo 1°« in-  cultura » russa. Non dobbiamo respingere questi insegna-  menti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero  della civiltà occidentale, la quale può superare la crisi e  salvarsi soltanto con la restaurazione di quella metafisica  dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che co-  stituisce la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà ’    Concetto di metafisica 169       saranno il « piano Marshall », ben più importante di quello  economico, della cultura occidentale, o anche per noi,  inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre sep-  pellito. Sarà allora possibile realizzare il più olimpico ri-  spetto delle culture per il semplice motivo che nel mondo  non vi sarà più cultura (7).    (2) Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma il discorso  sarebbe stato necessariamente troppo lungo e forse più « scandaloso » di quello  che qui ho fatto.    CapitoLo IV    CULTURA E METAFISICA    Il titolo di queste pagine può sembrare curioso; e certo,  di primo acchito, non si vede un nesso preciso tra « cultura »  € « metafisica ». Avvertiamo subito che qui il termine « me-  tafisica » è usato nel suo significato più pieno e precisa-  mente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di  ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto quanto è nel-  l'ordine umano e naturale involge il problema metafisico,  in quanto implica quello del suo principio e della sua fi-  nalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra,  ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi sia un problema  metafisico della cultura, come di ogni altra forma di at-  tività dello spirito umano.   Vi è per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri  condiziona, orienta ed unifica: quello che è l’uomo a se  stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della  sua destinazione, del senso totale, integrale ed assoluto della  sua esistenza. Questo problema, sottostante anche se im:  plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costi-  tuisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, l’u-  manità essenziale della scienza e dell’arte, della attività  conoscitiva come di quella morale ecc.; dunque anche della  cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un  valore di immortalità: ne fa un momento, con gli altri  concorrente e solidale, del processo di conquista che l’uomo  fa di se stesso nella realizzazione della sua finalità trascen-    Concetto di metafisica 171       dente il processo stesso. In questo senso tutto ciò che è, è  vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che  sporge e tende verso il Valore e la Verità che sono il suo  fondamento e il suo fine, e dunque il suo significato ultimo o  metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno  e, col tempo, ogni opera e pensiero dell’uomo. E la cultura  è opera dell’uomo; ma egli non ne intende il significato  profondo fino a quando non la giudica per il contributo  che essa porta alla soluzione del problema della sua verità  di uomo, che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi  è pensiero ed opera di uomini vi è quel problema, così con-  naturale ed essenziale allo spirito umano.   Una cultura fine a se stessa — la cultura per la cultura  — non è più tale, ma culturalismo: superstizione e mon-  dana idolatria, mito e non realtà; è i! fazto, non il valore  della cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa,  si assolutizza e con ciò stesso si nega nella sua validità essen-  ziale. Opera dell’uomo, la cultura porta, ad essa immanente,  il problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo prin-  cipio e fine di se stesso? Rispondere affermativamente (im-  manentismo) è assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è negarlo,  dire quello che non è; è definire il suo non-essere e negare il  suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto  ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e fa, attua come  suo fine, tutto l’uomo che è, ma che non è principio primo  e incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere)  e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua un fine che non  è fine a se stesso, ma la condizione affinchè possa realizzare  la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è  dire la verità metafisica dell’uomo, cioè rispondere adegua-  tamente al problema non solo dell’essere o della verità umana,  ma anche a quello dell’Essere o della Verità che è fonda-  mento e finalità trascendente del suo essere e della sua ve-  rità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il  fine della sua intelligibilità metafisica, è sopprimere il pro-    172 Filosofia e Metafisica       blema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del pen-  siero e della natura umana in generale — e dunque con un  atto irrazionale — il problema del suo destino e del signi-  ficato assoluto della sua vita al problema del suo destino con-  tingente e della sua significanza storica. Ma così non si ri-  solve il problema-uomo, ma si immagina il mito-uomo e  in questa miticità ogni pensiero ed opera sua son mito. Mito  anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta fina-  lità di sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cul-  tura si pone autonoma incondizionata assoluta e nega le  altre: la collaborazione delle culture si risolve nel con-  flitto e nell’incomprensione tra le varie culture. La super-  stizione della cultura, principio e fine a se stessa ed assoluta  come l’uomo che ne è l’artefice, porta inevitabilmente al  fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabi-  lità: cessa il colloquio.   Questa conseguenza è fatale: negare la realtà trascen-  dente del Principio assoluto fondante l’uomo ed ogni ente  e dell’uomo e di ogni ente finalità suprema — cioè il pro-  blema primo e ultimo della metafisica, connaturale alla  realtà umana — è negare l’uomo ed ogni cosa e perciò ogni  pensiero ed opera sua; è degradare dall’ordine della ragione  a quello della irrazionalità passionale; negare l’origine di-  vina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con ciò  stesso fare della realtà spirituale una cosa tra le cose, fuori  del suo ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine.  L’uomo divinizzato è feticcio; ed è primitivismo raffinato  e sottile — direi sofisticato — ogni forma d’immanentismo;  è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri ogni forma di  cultura, per raffinata e scaltrita, che di quell’immanentismo  è espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sa-  pere la verità del suo esistere, del suo pensare e volere, e  la cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsa-  pevolezza.   Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che, dal nostro    Concetto di Metafisica 173       punto di vista, non basta dire «che cosa è» cultura — è  ancora problema di conoscenza — ma è necessario, defi-  nitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda, cioè  dire qual’è il suo senso ultimo, il fondamento e il fine  assoluto; ed è questo il problema metafisico della cultura.  Ma è evidente che la soluzione di questo problema può  essere data ed è data dalla soluzione del problema-uomo:  risolto il problema del principio e del fine dell’uomo è  implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di  tutto ciò che è umano, conformemente, univocamente, alla  soluzione del primo problema. Per conseguenza, il senso  o la verità di tutto ciò che è umano è identico al senso  o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il suo senso o la  sua verità nel Principio che lo fonda, lo fa essere, orienta  e stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che  ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel Principio e  in quel Fine.   Il Vico su questo punto vide esattissimo: la verità della  storia (del mondo umano) trascende la storia. Vi è un du-  plice problema che investe lo stesso oggetto d’indagine:  dell’accertamento del fatto o dell’avvenimento e dell’invera-  mento di esso: accertare è constatare e documentare; inve-  rare è spiegarne il significato, scire per causas. Ora l’uomo  è causa della storia e perciò di essa ha scienza, ma non è  principio di sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso  (la verità) di sè al di là di se stesso, nel Principio assoluto  o Dio che lo crea uomo, così la storia, che è la sua opera o  il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al  di là di essa, al di là del tempo e di ogni tempo, nell’ordine  eterno che la fonda e la guida ed essa imperfettamente ripro-  duce affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la  storia, realizzi il suo destino, da cui tutto trae senso, super-  storico ed extratemporale. In questa metafisicità immanente  in ogni pensiero ed opera umana, che è la metafisicità  immanente e naturale dell’uomo nella pienezza della sua    174 Filosofia e Metafisica       realtà spirituale, è anche il senso profondo della cultura.  Perciò noi nel segnare i limiti del culturalismo (la cultura  fine a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la  sua insignificanza sostanziale — sono i limiti di un uma-  nesimo che fa della cultura, dell’uomo e della sua opera in  generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e  finalità — richiamiamo l’attenzione sulla presenza del pro-  blema metafisico al problema della cultura (quel proble-  ma è presente all'uomo in quanto tale e in ogni forma  della sua attività) e concludiamo che non è possibile porre  il problema della cultura e del suo significato senza porre  l’altro del significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che  è, abbiamo visto, il problema metafisico nel senso che noi  diamo a questa parola, cioè della intelligibilità suprema del-  la realtà umana e dunque anche della cultura, che è opera  dell’uomo.  * * *   Della nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo  e la cultura, Firenze, « La Nuova Italia », 1947), Huizinga  scrive: « più ricca e possente che non mai, ma le manca un  genuino stile, le manca una fede unitaria, le manca l’intima  fiducia della sua propria durevolezza, le manca la misura  della sua verità, le manca, infine, l’armonia, la dignità e la  divina quiete ». Vi è del vero — e in duplice senso — in  questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca,  ricchissima di motivi, interessante anche nei suoi aspetti più  sconcertanti, nelle sue contraddizioni, nella sua consapevolez-  za critica esasperata, nel suo stesso scetticismo; interessante  soprattutto perchè ricca di esperienza di vita, per cui — nelle  sue manifestazioni migliori — non è pura esperienza cultu-  ralistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali;  5) ma è altrettanto vero che le manca una norma interiore,  costitutiva della sua struttura, quasi la sua interna e salda  armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una  finalità suprema — e perciò dispersa, frammentaria e come    Concetto di metafisica 175       sparpagliata — la cultura ripete il frammentarismo e l’insi-  gnificanza, la mancanza di fede e della misura della sua  verità. Privata la vita della sua norma, cioè del suo essere  e del suo consistere, anche la cultura è privata di consistenza,  mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa con-  vergente verso un fine, la cui realizzazione è la sua verità,  che, misurandola, le dà significato e scopo, appunto perchè  essa può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è pre-  sente, ma che in essa non si esaurisce. Quando la vita espri-  me la sua verità, il suo essere, la verità e l’essere che la ra-  dicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è espres-  sione essenziale e sostanziosa, unitaria e vera, della verità e  dell’essere della vita; anche essa si sostanzia della stessa intelli-  gibilità metafisica che chiarifica il destino dell’uomo e il  senso della storia.   Il Medioevo espresse meravigliosamente questo ideale di  vita e di cultura: consapevolezza, in un’armonica ed inscin-  dibile simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come  fiduciosa realizzazione di una finalità trascendente, come  convergenza e solidarietà in Dio di tutte le energie della vita  nel loro dinamismo integrale. Il migliore Rinascimento, sen-  za negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse il  suo ideale di cultura nella serena ed armoniosa operosità  umana tesa a realizzare unitariamente i valori della bellezza,  della dignità della persona, della scienza come conquista  del mondo, per cui quel di divino che l’uomo e la natura  esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza  della loro origine da Dio e della loro finalità in Lui. Il pen-  siero moderno, sviluppando fermenti ed elementi impliciti  nello stesso Rinascimento, ha rotto questa armonia e del mon-  do umano e naturale ha fatto tutta la realtà, avente in se  stessa il suo principio e il suo fine e perciò autosufficiente :  fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possi-  bilità dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino  e del suo mondo. Per circa tre secoli la cultura occidentale    176 Filosofia e Metafisica          ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il senso  della trascendenza e la coscienza religiosa per conquistare  quello della immanenza e su di esso costruire, al posto della  religione il cui oggetto è Dio, la superstizione dell’uomo as-  soluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è stato ade-  guato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’espe-  rienza: costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero,  principio e fine metafisico del reale, ha finito per perdere il  vero concetto di metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.  La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attra-  verso un processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in  tal modo egli è rimasto privo di una fede e di un destino tra-  scendente, privo di una fede e di un destino immanente. La  perdita della metafisica si è conclusa fatalmente nella per-  dita della realtà e della verità dell’uomo e, per conseguenza,  nella perdita della fede e della serietà della cultura.   Invano si è cercato trovare la verità dell’uomo e delia  cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolu-  tizzato (nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il  materialismo storico — ultima e legittima conseguenza del-  l'immanentismo — cerca di trovare l’unità e la verità dell’uo-  mo e della cultura nel valore economico-politico-sociale.  Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo e della cultura  è la conseguenza del fallimento delle precedenti forme cul-  turali a carattere immanentistico: non è in crisi una forma  culturale immanentista, questa o quella, ma è in crisi l’im-  manentismo come tale. Perciò qualunque forma culturale im-  manentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa  nei poteri dell’uomo, è essa stessa espressione della crisi  e non di essa risolutrice; è ancora, anche se del presente,  espressione di una cultura del passato, che la crisi del pre-  sente, che è la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltre-  passare perchè rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la  cultura non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto .  ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente dei concetti stessi    Concetto di metafisica 177       di uomo e cultura e fatalmente avviato all’urto delle culture  nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’imme-  diato passato e la «cultura» sovietica dell’oscuro presente  ci sono di ammaestramento e di ammonimento.   Una conclusione scende legittima ed inoppugnabile dalle  nostre premesse ed argomentazioni: l’uomo non è il crea-  tore della sua verità nè l’artefice del suo destino; la verità  e il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e na-  turale, traggono origine e realizzano il loro fine al di là  e al di sopra di esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità  della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene  l’intelligibilità metafisica del suo essere: qui la sua unità,  la verità della verità che egli è. Solo esprimendo questa realtà  umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consi-  stenza, cioè la sua norma e il suo significato.   Eliot ha scritto che una cultura presuppone una religione  ed è vera se è vera la religione su cui si fonda. Ora non  vi è religione senza Dio: le religioni del progresso, della  scienza, dell’umanità, della libertà, del collettivismo ecc.,  adorano un Dio che non è tale e perciò son forme di ido-  latria: il mondo moderno è idolatra, di religioni false e  dunque di false forme di cultura. Religione è fede nell’Es-  sere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa  esistente. Non solo per l'Occidente, ma per ogni uomo che  ne viene a contatto, questa religione e questa fede non pos-  sono non essere che la religione e la fede cristiane, perchè  il Cristianesimo è l’unica religione vera; dunque solo una  cultura cristiana è vera. E se la cultura occidentale ha an-  cora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e  disintegrazione, riesce ad avere una sua certa unità e a  valere più di altre forme culturali, lo si deve al fatto inne-  gabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura  cristiana. Ancora oggi i popoli dell’Occidente respirano e vi-  vono in un’atmosfera cristiana, anche se viziata e corrotta.  Nessuno potrebbe parlare di « persona », « libertà », « amo-    178 Filosofia e Metafisica          re» e «carità» se il Cristianesimo non avesse insegnato  questi concetti e se ancora oggi, pur tra tanti travisamenti,  non fossero presenti alla coscienza occidentale.   A questo punto ci sembra che si presenti un dilemma  perentorio: o la cultura esprime la verità dell’uomo, quel-  la da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegi-  bilità metafisica del suo essere, ed ha la sua verità; o ne è  l’espressione sofisticata e allora, espressione di una falsifica-  zione della natura umana, è altrettanto falsa. Ma una cultura  che esprime la verità dell’uomo è sempre conforme alla verità  cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio  del Cristianesimo. La cultura è sempre l’espressione più  alta della civilità e non c'è civiltà più alta di quella cristiana:  quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile.  Come segno di una civiltà non esteriore la cultura ha una  funzione altissima e dinamica: informare dei suoi valori  il mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la  sua finalità sociale. Una cultura sociale in senso diverso, nel  senso del collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura,  senza senso.    CaritoLo V    VI E’ UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?    L'espressione « filosofia della storia » — e naturalmente  anche il problema — è recente: che io sappia, per primo,  la usò il Voltaire e, successivamente, lo Herder la intro-  dusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita;  e di vita molto contrastata.   Non è senza significato che si sia cominciato a pen-  sare ad una « filosofia della storia » nell’età dell’Illumini-  smo, considerata comunemente come l’età dell’anti-storia;  forse proprio perchè antistorico, per primo l’Illuminismo  pensò ad una filosofia della storia. Il secolo dei lumi aveva  un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla  terra, da instaurare con la sola ragione, autonoma, asso-  luta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazio-  nale, trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come  la scienza si era costituita autonoma, così ogni altra forma  di attività (il diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni  altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla  religione e, in generale, da ogni teologia, il cui contenuto  non si risolvesse perfettamente nell’ambito dell’umana ra-  gione. Si pensò dunque a una «filosofia della storia »,  cioè a una spiegazione puramente razionale del cosmo  umano, a una sistemazione di esso sulla base di un certo  numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non  aveva forse l’« oscurantismo » medioevale accettato la con-    180 Filosofia e Metafisica       cezione agostiniana della storia, secondo le grandi e mae-  stose linee del De civitate Dei? Ebbene, questa di Agostino  e del pensiero cristiano posteriore non è « filosofia », ma  «teologia » della storia, cioè la storia del mondo umano  interpretata e spiegata sui dati della Rivelazione, per cui la  « storia terrena » trova la sua spiegazione e il suo signifi-  cato non in se stessa, ma nella «storia sacra» e nell’or-  dine soprannaturale. Anche la storia bisognava separare dalla  religione; dunque non la storia spiegata teologicamente  (super-razionalmente), ma filosoficamente, dentro l’ordine  della ragione. Ma si possono ricondurre i fenomeni storici  ad un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed  irriducibili? Si può costruire il « sistema» della storia? Lo  Illuminismo non sembra che sia stato di questa opinione  e: o condannò la storia mondo oscuro ed irrazionale delle  passioni, o non oltrepassò la concezione di essa come or-  dine cronologico (d’Alembert). Non così in Germania dove,  a cominciare dallo Herder, fin dagli albori del romantici-  smo, la «filosofia della storia » ebbe ben altra fortuna ed  elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue sorelle, le  molte « filosofie »: della religione, del diritto, dell’arte ed  ultima, col d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio  la nascita di tante « filosofie » segna l’agonia e poi la morte,  anche se apparente e transitoria, della «filosofia ». Se la  storia, la religione, il diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno  ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo  oggetto proprio e problema irriducibile? Il sorgere di tutte  ueste filosofie è l’effetto e insieme la causa della «crisi »  della filosofia, della sua dissoluzione. Evidentemente per  filosofia cominciava ad intendersi qualcosa di ben diverso  da prima.   Infatti basta porsi il problema di una «filosofia della  storia » per ritenere almeno possibile una scienza del par-  ticolare, del singolo, del contingente. Tale possibilità è  esclusa dalla filosofia classica, greca e cristiana; perciò il    Concetto di metafisica 181       pensiero antico e quello cristiano non si posero mai il pro-  blema di una filosofia della storia, quantunque il Cristia-  nesimo abbia posto in prima linea proprio il problema della  storia. Evidentemente grecità e Cristianesimo hanno un con-  cetto di filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che  vi possa essere filosofia che sia filosofia della storia e storia  che possa essere tutta esplicata con e in un sistema di prin-  cipi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la filosofia  è sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per  oggetto l’universale e per strumento la ragione; la storia è  invece ammasso di documenti, pura raccolta generale di  fatti da distinguere dal lavoro di spiegazione o di sistema-  zione e dai trattati teoretici. « Phslosophia individua di-  mittit », dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II,  I, 4) e come tale essa si oppone alla storia che « proprie  individuorum est, quae circumscribuntur loco et tempore »  (ivi, II, 1, 2). La storia è conoscenza dell’individuale ed ha  come strumento essenziale la memoria; la filosofia lo è del-  l’universale ed ha come strumento specifico la ragione; dun-  que la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della  storia è una contraddizione nei termini, in quanto si assegna  alla filosofia un oggetto che non le è proprio, è l’opposto  (l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo stru-  mento (la ragione) ad un oggetto per il quale è adatto un  altro (la memoria). La filosofia, continua Bacone (:24, II,  I, 4), «neque impressiones primas individuorum, sed no-  ziones ab illis abstractas, complectitur »; la storia invece  è proprio conoscenza delle « impressiones primas individuo-  rum ». Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e  teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto i dati di  fatto nella loro singolarità, particolarità e contingenza; l’al-  tra le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ra-  gione. Sono possibili relazioni costanti e generali nei fatti  storici? È possibile una scienza della storia? Alcuni moderni  hanno parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma    182 Filosofia e Metafisica       evidentemente intendono storia e filosofia in maniera, come  dicono, « moderna ».   Il pensiero moderno, a differenza di quello greco e me-  dioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il  particolare, il concreto: per il concreto fisico e il concreto  umano; perciò le scienze naturali e la storia sono una sua  conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze  mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un immenso  sviluppo e sono state scientificamente sistemate assieme ‘alla  cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero  moderno è stato ed è ancor oggi prevalentemente « questo  mondo », « questa terra » ed i loro fatti concreti; non per  nulla con Occam incomincia quella che si chiama la de-  cadenza della Scolastica. È evidente che la filosofia, gradual-  mente, doveva essere portata o costretta a porsi come suoi  problemi quelli del concreto, cioè dei fatti di questo mondo,  naturali ed umani. E solo dei fatti; dunque non più ricerca  dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dap-  prima, la rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro  la metafisica senz’altro; la sostituzione della « metafisica  dell’essere » con la « metafisica del pensiero » o della mente;  di qui la metafisica del pensiero intesa come costruzione  delle scienze della natura (positivismo). In tal modo, da un  lato, la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole  scienze umane o naturali, e, dall’altro, il concetto di storia,  il cui oggetto è il concreto o il particolare per eccellenza, ha  assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la  filosofia ha cessato di essere una scienza autonoma e si è  trasformata in metodologia: o delle scienze (positivismo)  o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia  senz'altro (storicismo); ha cessato di essere filosofia dal  giorno che la sedusse il demone dell’immanentismo e volle  farsi mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se  stessa e si snaturò.   Ma anche così, per limitarci al nostro problema, è pos-    Concetto di metafisica 183       sibile una filosofia della storia? Non propriamente il Vico  ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una spiegazione  razionale totale della storia e dello spirito umano nei mo-  menti del suo divenire: per lo Hegel, la ragione può spie-  gare (e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico ed  umano, la storia senz’altro, senza residui. Ma la storia  è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto: è l’autorivelazione di  esso, che, attraverso il processo dialettico, chiude il cir-  colo su se stesso. Da questa storia resta fuori, al principio e  alla fine del processo, proprio... la storia! La Ragione hege-  liana, il Dio immanente creatore, si sostituisce alla creatura  e la nega come tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve)  in sè: il concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo  antinomico hegeliano, è il non-reale, il non-razionale, il non-  vero, lo strumento caduco di cui l’Idea si serve e che la  stessa Idea sopprime. La storia è la storia dell’Idea, non degli  uomini singoli e delle cose; quella di Hegel è una filosofia  della storia che nega proprio la storia. Ecco perchè il positivi-  smo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso della storia, è  stato anti-hegeliano; e un contemporaneo epigono italiano  dello Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha ne-  gato che vi sia una «filosofia della storia» ed ha identi-  ficato con la storia la filosofia. In tal modo, il positivismo e   uesta forma di storicismo empiristico hanno costruito o  una «filosofia della storia » senza filosofia (il positivismo)  © una storia che dice di identificarsi con la filosofia solo per-  chè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè perchè  in partenza la nega come filosofia. Già lo Schopenhauer ave-  va negato che vi possa essere filosofia della storia (!).    (1) « La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in nes-  sun modo essa conosce il particolare per mezzo dell’universale, ma deve attin-  gere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata a stri-  sciare sul terreno dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per oggetto  che il particolare, il fatto individuale e lo ritiene la sola realtà, essa è tutto  l'opposto e l’antitesi della filosofia, che considera Je cose dal punto di vista  più generale ed ha per oggetto specifico quei princìpi, sempre identici attraverso  tutti i casi particolari » (Die Welt als Wille und Vorst., vol. II, cap. 37).    184 Filosofia e Metafisica       Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno  di costruire una filosofia o scienza della storia (cioè il ten-  tativo di spiegare tutto l’uomo senza Dio) dimostra come una  filosofia della storia in questo senso sia impossibile e fa  attuale, esso, antiteologico, la concezione della storia di  Agostino e della filosofia cristiana; attuale, ma dopo la con-  cezione che della storia ha avuto il pensiero moderno, la  quale non va negata ma assunta come problema della filo-  sofia, come il problema dell’uomo, del suo significato e del  suo destino.   Posto ciò, esiste il problema della storia (del singolo, del-  l’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristoteli-  smo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è il particolare,  il concreto, il contingente non risolvibile, come tale, nelle  leggi che pur lo governano; se i fatti umani sono contin-  genti in se stessi, cioè di una contingenza obiettiva, asso-  luta; e se, d’altra parte, l’oggetto della filosofia è l’univer-  sale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è  nemmeno problema da questo punto di vista, in quanto non  si può porre il problema di quali siano le leggi razionali,  universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali  leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti, per Aristotele,  come per Platone e per il pensiero greco in generale, della  storia non c’è scienza e non c’è neppure problema specula-  tuvo: è il mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale.  Il singolo come singolo ed il fatto umano nella sua concre-  tezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il  singolo è inoggettivabile. Perciò nella concezione greca la  storia non ha progresso nè svolgimento: è circolo, eterno  ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze,  non quello degli individui. Gli uomini tendono a Dio, ma  restano sempre fuori di Lui, come Egli è estraneo a loro  ed alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno;  son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla ananche, e preci-  pitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo    Concetto di metafisica 185.       gettò luce su questa concezione della vita, serena per la sag-  gezza della disperazione e attaccata alla gioia di vivere per  lo sconsolato convincimento che la vita e la morte non  hanno in loro nulla che veramente persuada, con il con-  cetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio della  storia e dell’uomo. E pur essendo il concetto di creazione  anche una verità di ragione, esso entrò nel mondo con la  Parola soprarazionale.   Per la filosofia nasce a questo punto un problema fonda-  mentale: se oggetto della ragione sono le essenze universali  desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli  uomini (quell’essenza singola che è ogni singolo), l’uomo e  la sua vicenda — la sua origine, la sua vita, il suo dolore, il  suo bene e il suo male, la sua morte — restano fuori della filo-  sofia, sono il limite della ragione. Accettare questa conclu-  sione sarebbe cancellare la storia e gli uomini, come, in fon-  do, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della pura  ragione nozionale, sia il razionalismo di tipo plotiniano o  spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filo-  sofia che considera razionali solo le essenze universali si  trova di fronte, imponente, ineliminabile ed inesorabile, il  problema della storia, cioè il problema dell’uomo. Può la  filosofia risolverlo?   Lo ha tentato con la filosofia della storia, ma, come ab-  biamo visto, il tentativo è naufragato: ha soppresso la filo-  sofia (positivismo) o ha soppresso la storia (Hegel) nel mo-  mento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto  l’uomo o la storia nella sua integralità non può essere spie-  gato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa  spiegarlo ?   Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità  e precisamente quella che deriva dalle leggi eterne della  matura umana e dalle connessioni causali derivanti dal con-  tatto di questa con l’ambiente che la circonda. Ma, tale  razionalità, ben lungi dal rendere interamente razionale    186 Filosofia e Metafisica       la storia, si lascia ancora sfuggire proprio quel singolare  concreto che esige spiegazione. La storia è veramente com-  prensibile e persuasivamente spiegata solo quando spiega,  in maniera non contraddicente la ragione e le esigenze fon-  damentali e sempre attuali dello spirito umano, il significato  ed il destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello del-  l’umanità globale del passato, del presente e del futuro.  Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della  storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione dell’Assoluto. Ma  ciò non spiega la storia, bensì afferma che essa è stru-  mento dell’Idea e con ciò le nega ogni significato e realtà;  con ciò si cancellano, senza risolverli, il problema del male,  del dolore, della morte ecc. La « filosofia della storia » non  può dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa.  Ogni tentativo in questo senso è una pretesa infondata della  ragione iperbolica: giustamente A. Franchi (Ultima critica,  p- 190) chiama la filosofia della storia « vanità della vanità ».   Ma il suo fallimento non lo è della filosofia; anzi è il  recupero della sua autenticità. La filosofia si incontra con  il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema  le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma, come abbiamo  accennato, non lo è ad una filosofia delle pure essenze, che  identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico,  puramente intellettualistica e nozionale. Per una ragione delle  essenze, dell’eidezica, il singolare, la storia, l’uomo in carne  ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle  essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma questa ragione  non è tutta la ragione, che non è tutto il pensiero vivente,  l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed  inscindibilmente essere sentire conoscere volere. Per lo spi-  rito concreto la storia è la sua storia; il significato e il de-  stino della storia sono il suo significato e destino. Il proble-  ma scaturisce dal suo dinamismo interiore, gli è intero:  è il problema della sua stessa interiorità. Il problema specu-  lativo della verità manifesta la sua solidarietà con quellò    Concetto di metafisica 187       pratico del destino umano; nasce il problema ultimo della  loro unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo av-  viarne la soluzione integrale, che è quella della storia inte-  grale, cioè può cercare a quali condizioni è possibile quella  unità. È il problema dell’adazzamento del nostro essere con-  creto alla sua finalità interiore e trascendente, che è l’Essere.   Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente  e concreta, con cui ricorosce (e dunque è anche atto volon-  tario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere  che la trascende e che la soluzione del problema della vita  e del destino dell’uomo o della storia trascende l’ordine ra-  zionale umano e naturale; dunque l’atto con cui la ragione  riconosce che il piano della storia è divino, è atto razionale  e perciò razionale è il passaggio dalla « filosofia » alla « teo-  logia » della storia. A questo punto si rivela chiara ed evi-  dente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il si-  gnificato della storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in  Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della sto-  ria, punteggiata dai momenti della creazione, del peccato  originale, dell’Incarnazione, della Redenzione attraverso la  Croce, del dolore come conseguenza del peccato, del gran  Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle  sue linee maestre, la verità perenne sul problema della sto-  ria. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo  che il pensiero moderno ci ha educati all’interiorità della  ricerca e della verità. Ma deve essere una interiorità auten-  tica: quella che « attesta » e non che « pone » Dio. Nella  trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo:  « Beau de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de  César... Qu'il est beau de voir, par les yeux de la foi, Darius  et Cyrus, Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,  sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! » (Pascal).    CapritoLo VI    ESISTENZA E CONSISTENZA    I. — L'esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza.    Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia:  occupa un posto primissimo tra i termini tecnici, già appro-  fondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il secondo  non è tecnico, non ha una tradizione speculativa, manca nei  dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede  filosofica, un problema la cui soluzione totale e unica spetta  alla religione. Il primo ha un antico e glorioso passato, ma  di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro;  infatti, per noi, il problema dell’esistenza trova autentico  chiarimento e soluzione ultima — ad esso interiore ed es-  senziale — nel determinare quale sia la « consistenza » del-  l’« esistenza » stessa.   I termini «esistere », «esistenza», «esistente», « esi  stenziale » hanno una risonanza infinita. Che cosa, infatti,  non appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filo-  sofie sono state esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza  o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che  del resto va presa entro certi limiti, impone il problema  non della riduzione di tutta la storia del pensiero all’esisten-  zialismo o quello di una interpretazione unilaterale di essa,  bensì l’altro, meno grossolano in quanto sa distinguere, del  perchè solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta  « esistenzialista » o almeno che si dichiara esplicitamente    Concetto di metafisica 189       tale. Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico  quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si presenta con una  sua peculiarità in quel che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si  tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo  sofica del concetto di esistente, di una filosofia quasi galva-  nizzata totalmente da questo problema, posto in termini  nuovi; in breve, di un particolar modo di concepire l’esi-  stenza. Il movimento in questione non si caratterizza come  filosofia dell’esistenza, ma come quella determinata conce-  zione di esso, che si chiama appunto esistenzialismo.  L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posi-  zione di pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta  è decisione dichiarata di dire di no a qualcosa o a qualcuno.  Ma è anche dire di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa  il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si  riconosce più tale è l’affermazione di un altro, considerato  valore. A che l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza  onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto  (che è tutto) la ragione speculativa può conoscere e com-  prendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E  quel che resta fuori? Il « conoscere oggettivo » e la « ragione  speculativa » o lo negano, o non se ne curano. Comincia l’as-  sedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta  preme contro i bastioni della filosofia speculativa; preme ed  attacca, pone istanze, formula domande, mette in questione  tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra.  L'’esistente che dice di no ed interroga si pronuncia sulla  Conoscenza o Ragione. I termini del rapporto filosofia spe-  culativa-esistente sono capovolti: non si tratta più di sapere  che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esi-  stenza della Ragione; anzi, giacchè l’esistenza è ancora un  termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della  filosofia speculativa. Non più la ragione rende problematico  l’esistente, ma l’esistente problematica la Ragione; quel che  per quest’ultima era un non-problema — l'esistente, l’acci-    190 Filosofia e Metafisica       dentale che non importa all'essenza intelligibile — è ora po-  sto come il problema assoluto, che la filosofia speculativa è  costretta a riconoscere come proprio limite. Essa perciò è  chiamata non a risolvere un problema per essa insolubile  perchè non razionale, ma a chiarirlo sempre più come pro-  blema, ad esasperarlo quasi scavandone la radicale proble-  maticità insormontabile; e con ciò, in pari tempo, la ra-  gione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriduci-  bilità o non razionalità dell’esistente. In questo porre l’esi-  stente come interrogante la Ragione e come colui che dice  quel che ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamen-  tale di ogni vera filosofia esistenzialistica, ammesso che sia  possibile una tale « filosofia » nel senso che, come pura filo-  sofia, possa risolvere integralmente il problema, quel com-  plesso di problemi che è l'esistente.    2. — L'incontraddittorietà dell'essenza e il problema della  metafisica.    Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso sulla scorta  di Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice sotto l’aspetto  il più universale significa considerarla sotto la categoria del-  l’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il  quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il reale è reale e  senza di cui il reale non è reale. Ente è id cui competit  esse e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente  del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al reale hic es  nunc, che l'Ente fa esistere, pone con una sua essenza.  «Fa esistere », «pone»; dunque all’esse compete anche  l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma è proprio l’espe-  rienza molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o  dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno stato ad un  altro, in una successione di stati diversi, per cui questo ente  diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristo-  tele, e prima di lui Platone e Parmenide, come divenire da    Concetto di metafisica 191       questo a non questo, è esperienza di contrari. Ma non per  ciò è contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nel-  l’esperienza è testimonianza della identità dell’ente a se  stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo  ente a non questo ente senza l’unità e la permanenza del-  l’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È questo  ente che è contrario al ron questo ente, ma l’ente, sia del  questo che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se  l’ente potesse divenire il non-ente, ogni ente diverrebbe la  negazione di se stesso e non vi sarebbero più nè enti nè que-  sto ente che diviene non questo ente. Se tra ente e non-ente  vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che  investe la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi s’irradica  nella sua essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di sta-  bilire i termini di una qualsiasi antitesi; infatti è possibile  un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo  ente e non questo ente in quanto permane l’ente, sempre  identico a se stesso, che da questo diviene non questo. In  altri termini, il principio di identità, piuttosto che negare il  divenire dell’esperienza molteplice, è quello che ne giustifica  e ne spiega il dinamismo, facendo che i contrari siano mo-  menti dell’ente, senza che la contraddizione infirmi l’ente  in se stesso, cioè quella sua positività essenziale e perma-  nente, la quale sola rende possibile il divenire e nello stesso.  tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò  che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente uno e ciò che di-  viene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire  ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto ( xwpic tic 70ò  broxerpevov 0I0PÀg ).   Non sempre noi facciamo un uso preciso dei termini  «esistenza » ed «esistente », anzi tendiamo spesso ad iden-  tificarli; ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come  tale non è oggetto di esperienza sensibile: proprietà co-  mune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza  non esiste; esistono gli esistenti, cioè quanti esseri hanno    192 Filosofia e Metafisica       l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o atto  per il quale un essere è, atto assolutamente primitivo e fon-  damentale, come scrive il Gilson (Les limites existentielles de  la philosophie), a cui tutto va rapportato e condizionato,  non solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza  che possiamo averne. L'atto di esistere fa che ogni essere  sia e, per il fatto che è, sia conosciuto; non è una proprietà  dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condi-  ziona. L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per  il suo atto di esistere, dove l’esistere non è una delle tante  sue proprietà, ma la dimensione immensurabile per cui l’es-  sere che è, è ciò che è. La definizione dell’essere così for-  mulata implica due elementi logicamente distinguibili, ma  metafisicamente indissolubili. Vi è una ontologia e vi è  un’eidetica dell’essere: per l’ontologia l’essere è «ciò #1 quale  è », ciò che, per il suo atto esistenziale, esiste; per la eidetica  l’essere non è «ciò il quale è», ma oggetto da conoscere,  cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui  è da dire che cosa è, di cui va definita l’essenza. Ora, per  tale definizione, la riflessione filosofica prescinde dall’atto  esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto es-  sere e delle sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la  non esistenza di un essere o dell’essere in generale lascia  indifferente la eidetica, in quanto l’essere concettuale, a pre-  scindere che l’essere esista o no, è solo la sua essenzialità.  L'essere è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esi-  stenza non è una necessità intrinseca, ma come un comple-  mentum, superfluo per definirla, anzi ostacolo alla sua tra-  sparente intelligibilità.   La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica,  scienza dell’essere in quanto essere?   Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e non solo di  quello dell’eidetica. Ora l’essere in senso ontologico è l’es-  sere che è, che esiste in virtù del suo atto esistenziale, l’es-  sere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento assolutò    Concetto di metafisica 193       l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica  l’essere reale, l’essenza esistenzializzata, il cui esserci c'è  per l’atto di esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è  scienza dell’esistere come tale? Non c’è di esso scienza eide-  tica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è oggetto  concettuale; l’esistente in questo senso è inoggettivabile. L’es-  sere in senso ontologico è soggetto (oggetto è il concetto o la  forma o l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti  vato cessa di essere soggetto; come soggetto, è eidetica-  mente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è  « ciò #1 guale è » come un che cosa che è: l’esistere non è  l’insignificante esistenza di nulla, ma il significante esistere  di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema  dell’esistere non va posto come problema della pura esistenza,  ma dell’esistenza di un quid. Dunque «ciò il quale è », è  ed esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esi-  stente che non sia l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.  L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è  l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo senso più pieno,  è sintesi di essenza ed esistenza, è l’essenza concretamente  attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è  particolare e contingente, ma con una sua essenziale strut-  tura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione  cidetica, la quale ne coglie l’essenza desistenzializzata e fa  che il reale sia concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è  la verità del reale, quella che lo definisce nella sua essenza, lo  «raccoglie » nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e dun-  que di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della  metafisica come scienza dell'ente in quanto ente — dove  scienza significa intelligibilità dell’ente stesso o definizione  della sua essenza desistenzializzata — può, su questo punto,  concordare con l’altra platonica della metafisica come scienza  dell'ente in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è  oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione di Aristotele nè  quella di Platone esauriscono il problema della metafisica, in    © 02    194 Filosofia e Metafisica       quanto l’oggetto di essa non è l’essenza, ma l’essenza-esi-  stente, non il concetto oggettivabile, ma il soggetto come  soggetto, cioè come essenza esistente, inoggettivabile in quan-  to esistente, includente l’atto di esistere, fondamento asso-  luto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione di Ari-  stotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sem-  bra interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste,  ma in realtà la sua metafisica si comporta come se il pro-  blema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre.  Naturalista, Aristotele parte dal concreto; metafisico, sembra  dimenticarsi della pluralità degli individui viventi e dive-  nienti e rifugiarsi nell’essenza immutabile, una ed identica  a se stessa. Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità  che non va perduta, comune a Platone e ad Aristotele: una  inclinazione naturale spinge il pensiero a ciò che è puro e  semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità  delle cose, al distacco dall’accidentale diveniente, condizione  per cogliere ed intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è  platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso specu-  lativo che manca o almeno è diverso in Aristotele: inten-  dere ciò che una cosa è, coglierne l’essenza, è penetrare  la sua intimità, la verità definitiva che l’esistenza manifesta.  Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello  del platonismo cristiano di Agostino, in cui la intimità si  traduce nei termini della interiorità e la verità in quelli del  vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora uni-  ficante, il concetto di essenza si arricchisce di un significato  dinamico e, come verità, si traduce nei termini della spi-  ritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale della  sua unità vivente nella sua unità reale.   Ma a questo punto si può domandare: il problema della  metafisica è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il  necessario, l’accidentale e non l’essenziale? Chi formula que-  sta domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni  essere reale e che l’esistente non è solo contingenza ed acci-    Concetto di metafisica 195       dente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si presenta  come insieme di soggetti, cioè di essenze universali deter-  minate in esistenze particolari. L'oggetto della metafisica è  l’esistente nella pienezza dei suoi elementi, di cui l’essenza  è intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci,  possiamo chiamare esistenziale, non può non porsi questo  problema, in quanto il problema dell’eidetica o dell’essenza  porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto  di esistere, per il quale è tutto ciò che è. Questo discorso,  condotto con un uso di termini che riteniamo tecnico, è tut-  tavia bisognoso di ulteriori precisazioni.   Esistere è manifestarsi, esserci, ma è presenza di qualche  cosa, di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza en-  tra nel mondo, si consolida, per dir così, in un hic et nunc, i  cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò,  se è vero che l'esistente o il soggettivo è l’« incarnazione »  di un'essenza, è anche vero che fo non sono il mio corpo,  in quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque  io che esisto, mi manifesto, per il corpo, sono più del mio  corpo, più del mio esistere, perchè sono essenza che esi-  ste. In questo senso l’esistente, non l’esistenza, che è una  notazione universale, si distingue dall’essenza, che è concet-  tuale e non sensibile e a cui si unisce qualcosa che la determi-  na. L’essenza senza esistenza è universale, l'esistente è partico-  lare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è quo quid est: il  nunc diveniente non ci sarebbe senza il nunc permanente, che,  a sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di  esistere. Ciò prova, non solo che il divenire postula l’essere,  ma che il divenire stesso ha un suo essere formale per cui  è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determi-  nato, ma, perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’es-  senza da determinare e perchè l’essenza non sia puro pos-  sibile, è necessaria la determinazione esistenziale. Ciò non  dovrebbe dimenticare nessuna filosofia che si dice esistenzia-  lista od esistenziale (due cose molto diverse) la quale, quando    1% Filosofia e Metafisica       si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla pura  essenza, dovrebbe ricordarsi del nunc permanente che sot-  tostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come onto-  logia e non come pura descrittiva degli elementi esisten-  ziali, quasi che l’esistente sia pura particolarità senza uni-  versalità. Una filosofia del solo esistente, cioè del solo aspetto  particolare dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà de-  scrizione empirica o fenomenistica o anche fenomenologica)  e non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto  astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In questo senso fa  dell’esistente un’astrazione.   L'espressione di Heidegger che l’essenza della realtà uma-  na consiste nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt  in seiner Existenz), intesa nel senso che l’esistenza è priva  di essenza, non ha senso; e non lo ha perchè non si capisce  più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una  pura « possibilità », un’astrazione. Il suo manifestarsi è il  manifestarsi del suo nulla e, come tale, un niente di manife-  stazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli esisten-  zialisti dicono che è pura libertà e temporalità, intesa la pri-  ma come l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esi-  stenza. La libertà, in tal modo, non « appartiene » all’esistente,  lo « costituisce »: è della libertà dare la propria natura a se  stessa e con ciò farsi essenza. Dunque, precede l’essenza: noi  stessi costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo.  Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura possibilità è pura  libertà; ma la libertà come pura possibilità è libertà di nien-  te perchè è il nulla di libertà. Concediamo che sia e che  siamo come noi stessi ci affermiamo. Ebbene, che significa io  « sono » come mi affermo, « mi do un’essenza » ? che sono io  a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi  uomo? Parole senza senso. Se mi potessi liberamente fare  uomo, non mi farei uomo per il semplice fatto che sarei  Dio! E neppure Dio, dato che posso anche farmi « libera-  mente » non-uomo; e Dio non può fare che un uomo non    Concetto di metafisica 197       sia uomo, appunto perchè è libertà autentica e non l’Assur-  do. Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenziali-  smo, sono esistenza assurda e libertà assurda. Inoltre, se « noi  siamo come ci affermiamo » significa che l’esistenza come  possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè  la sua essenza, qui « essenza » evidentemente vuol dire altro  da quel che è il senso tecnico del termine e cioè: l’esistenza  ora si dà una determinazione, ora un’altra essendo infinita  possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il particolare, la de-  terminazione, e l’esistenza, possibilità infinita, l’universale:  si sono cambiate le carte in tavola e si crede di aver vinto la  partita. Ma ogni determinazione è contingente; come tale  non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determi-  nandosi, non si essenzializza e dunque resta vuota; si nega  sempre come esistenza, non esiste perchè non è. E che sia  così appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esi-  stenza e temporalità: il divenire temporale s’identifica con  l’esistenza, che non è altro che il suo processo temporale; dun-  que l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è come dire:  l'essenza dell’esistenza e la sua contingenza, cioè il suo stesso  esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così tornia-  mo sempre allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il  nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain nel suo Court  traité de l’existence et de l’existant (p. 12): se voi « suppri-  mez l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du  méme coup l’existence ou l’esse, ces deux notions sont cor-  rélatives et inséparables, et un tel existentialisme se dévore  lui-méme » ('*). Esasperare l’antinomia di essenza ed esi-  stenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste-    (1) Nella stessa pagina il Maritain distingue tra « esistenzialismo autentico »,  che « affirme la primauté de l’existence, mais comme impliquant et sauvant  les essences ou natures, et comme manifestant une supréme victoire de l’in-  telligence et de l’intelligibilité »; ed «esistenzialiimo apocrifo », quello di  oggi, il quale « affirme la primauté de l'existence, mais comme détruisant ou  supprimant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme défaite  de l’intelligence et de l’intelligibilité ». Un’ontologia completa, osserva il Girson    198 Filosofia e Metafisica       rilizzarle entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kier-  kegaard, a volte, è l’astrazione di un’astrazione.   A chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione  dei termini nel loro rapporto e distinti nel loro uso metafi-  sico e logico.   L'essenza (0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che  è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; lo-  gicamente o concettualmente è l’insieme delle determina-  zioni che definiscono un oggetto di pensiero (Ar., Met., VII,  7, 1032b). Ci sembra evidente che il significato metafisico non  esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto è vero che essa,  così intesa, da alcuni pensatori è posta nell’universale, da  altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il  fondo dell’essere, per ciò stesso, non è tutto l’essere sia  perchè esclude gli accidenti, sia — e questo è più impor-  tante — perchè l’essere metafisico importa l’atto di esi-  stere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il fatto  di essere o esistenza: esiste — altrimenti non potrebbe esi-  stere un solo momento — per l’essere, ma è un fatto di  essere «in quanto è atto di esistere ». Evidentemente l’ente  finito riceve tutto quello che ha di reale e di vero dell’Ens  reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza  implica necessariamente l’esistenza: Ens ex cujus essentia  sequitur existentia, secondo la definizione che il Leibniz ha  dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglis-  simum è l’Ente concreto, essendo gli altri esseri « astratti »  da Lui e postulanti il principio che li fa essere, per cui di  ogni altro ente si può dire: ens ex cujus existentia sequitur  essentia). In breve, non vi è essere reale che non sia esi-  stente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da  altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e nell’altro caso l’essere e    (L'étre et l’essence, Paris, Vrin, 1948, p. 234) non può concepire l'esistenza  come tale, nè eliminarla. « Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sa-  gesse devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui .  de la réalité » (ivi).    Concetto di metafisica 199       l’esistenza sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non  si oppongono. A definir l’esistenza non basta la sua astua-  lità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel pas-  saggio, come abbiamo detto, da «questo ente » a « non-  questo - ente » permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, co-  me il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (co-  me il fatto di essere alla natura dell'essere), ma anche  (nota il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al  nulla, come l’affermazione alla negazione. Infatti, se af-  fermo che un essere è, non posso nello stesso tempo af-  fermare che non è. È, come sappiamo, l’identità, scatu-  riente dagli stessi contrari dell’esperienza.   Da quanto abbiamo detto si conclude: 4) l'esistente non  è il mero particolare, ma è l’essere determinato e, come tale,  reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere  determinato è universale esistente e dunque permanente  nelle sue mutazioni; c) come ente che è, importa l’esistenza,  in sè e da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così con-  cepito (essere esistente o essenza determinata) è l’oggetto  della metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza  o concetto (eidetica), non più come esistente bensì come es-  senza desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che è  all'atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale;  e) di fronte a questo problema, la metafisica non cerca più  di definire il reale, di coglierne l’essenza o il concetto, per  cui il reale è giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma  si sforza di cogliere il reale che è insieme nunc perma-  nente e nunc diveniente, essere esistenziale; f) in quest’ul-  timo punto la metafisica si pone il problema supremo  dell’atto dell’esistere, il problema della « consistenza » del-  l’esistenza ed è metafisica esistenziale, cioè che non si appaga  più della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere  da essa, si sforza di cogliere l’essere come reale, di ri-  spondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a  quelle dell’esistenza concreta, alle istanze che l’essere esi-    200 Filosofia e Metafisica       stente — in quanto essere e in quanto esistente — pone co-  me universalità determinata o come particolare esistere di  un'essenza universale; cioè pone come soggetto integrale,  completo. Può rispondere la metafisica a questo problema?  Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto?  Col problema dell’esistenza, così impostato, in che rapporto  sta quello che oggi si chiama l’esistenzialismo ? Contro quale  concezione dell’esistenza o filosofia esso protesta? Cerchiamo  prima di rispondere a queste ultime domande.    3. — Critica dell’esistenzialismo.    L'’esistenzialismo — quali che siano le sue forme — è  una filosofia dell’esistenza o meglio dell’esistente e vuol essere  una metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non  l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in quanto sog-  getto, singolarità e soggettività; per contro non è una filo-  sofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, ogget-  tiva e concettuale. Esso dunque, contrappone la filosofia  detta « esistenziale » a quella detta « speculativa » o « essen-  zialista » come contrapposizione dell’essenza all’esistente, del-  l’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare con-  creto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia spe-  culativa o concettuale di dare una risposta — se può — alle  istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice  per drammatizzare il problema e colorirlo con il linguaggio  della poesia. Perciò l’esistenzialismo è la rivolta contro la  filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione  cristallina che ordina e sistema forme, contro l’eidetica e qual-  siasi aspetto della realtà spirituale che si presenti nei ter-  mini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti  vamente definiente.   È contro la scienza che, pur definendosi conoscenza del  fatto concreto, prescinde, come pura conoscenza scientifica,  dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere ©    Concetto di metafisica 201       una descrizione scientifica della natura, senza che mai si  ponga, dice Eddington, la questione di attribuire all’universo  fisico quella proprietà misteriosa che si chiama « esistenza »;  d’altra parte, si costruiscono ontologie, senza che il concetto  di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corri-  sponda ad una esigenza naturale e spontanea della ragione  assimilare le essenze e classificarle, eliminare l’esistenza, osta-  colo alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in  poi, ogni filosofia è come se abbia avuto sempre inizio dalla  paura dell’esistenza e riposto la saggezza nella liberazione  da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile  di forme assolute nella dimenticanza totale dell’esistenza  inintelligibile. La filosofia è nata come svalutazione dell’esi-  stente molteplice contingente e rifugio nella contemplazione  dell'essere in sè. L’esistente è il non-essere; l’esistente, per  la ragione, non è. In questo senso, la filosofia si è preoccu-  pata più della felicità della ragione che di quella dell’uomo  pretendendo, nello stesso tempo, di far coincidere perfetta-  mente la felicità di quest’ultimo con quella della prima.  Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle ragioni dell’esi-  stenzialismo) l’ineliminabile problema dell’esistenza s’im-  pone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od arti-  stica, filosofica o religiosa; soprattutto s'impone per la meta-.  fisica, in quanto s'inserisce profondamente nella sua stessa  struttura. La metafisica come eidetica non può non seguire  l'inclinazione naturale della ragione di stabilire, in base al  principio di contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro.  proprietà; non può non desistenzializzare l’essere, renderlo  esistenzialmente neutro al punto che sia indifferente al suo  concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come  ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra parte non può non  tener conto degli esistenti, della relazione tra un esistente e  un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze,  in quanto, nelle questioni di fatto, è possibile il contrario.  senza che implichi contraddizione, a differenza che nelle    202 Filosofia e Metafisica       relazioni tra le idee, .che il solo principio di contraddizione  basta a giustificare; e soprattutto non tener conto del pro-  blema fondamentale dell’esistere per cui l’esistente è tale.  Tra l’essere come pura essenza e l’essere esistenziale non solo  sembra stabilirsi un’opposizione, ma addirittura instaurarsi  un conflitto: l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrat-  tezza di una metafisica come pura eidetica, o di una filo-  sofia che riduce l’essere alla sola esistenza.   Infatti nel primo caso, la metafisica non può definire  nemmeno l’essere come essere. Platone avvertì chiaramente la  difficoltà nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come  nel Parmenide aveva avvertito le aporie del rapporto tra  l’év e i ro), dove rileva che il Medesimo (taòdtov) è an-  che il Diverso (èresov ) in quanto, proprio perchè è il « me-  desimo », è «diverso» da ogni altra cosa. D'altra parte,  «come osserva ancora acutamente il Gilson, «l’étre ne peut  se réduire à l’identique sans se dévolouer lui méme en tant  qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère,  il dépend du ”’ mèéme” comme de sa condition, et, par con-  séquent, il s’y subordonne comme la conséquence au prin-  cipe ». L'essere non è più la nozione prima, ma come prin-  cipio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intel-  ligibile non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là del-  l’essere (come Platone vi aveva posto il Bene), al di sopra  di ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza;  in tal modo l’essere soffre esso stesso della inconcettualiz-  zabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che l’esisten-  zialismo pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere  identico a se stesso.   Tali limiti, fin dalle origini, l’esistenzialismo fece valere  contro la Ragione hegeliana, contro la dialettica dei «tre  stomaci », come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia  trascurato di interessarsi dell’esistenza; anzi il Dasein è per  lui un momento ideale della dialettica, la quarta categoria  della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma-    Concetto di metafisica 203          per Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato  d’origine della hegeliana filosofia speculativa. Niente, per  lo Hegel, è al di sopra o al di fuori della Ragione univer-  sale, la quale adegua interamente e perfettamente il reale.  La conoscenza è la Ragione, che è il Sapere, il frutto del-  l’albero della conoscenza del bene e del male (come scrive  lo stesso Hegel nei Vorlesungen tiber die Geschichte der  Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge  della hegeliana Ragione è quella del serpente, che provocò  la caduta di Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione  non è fatta per servire l’uomo, ma per assoggettarlo, come  la Storia non è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia.  Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo  concetto negatore della persona è stato gelosamente conser-  vato, anzi « umanisticamente » perfezionato. Lo Hegel parla  spesso di esistenza (Dascin) ed anche di esistente (Seiende),  proprio negli stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla  Heidegger, cioè di un essere finito, gettato, abbandonato,  ma gli nega qualunque diritto in sede filosofica: la filosofia  dell’Idea, come tale, non riconosce il « finito come essere  vero ». I lamenti e le grida dell’io sono sterili pianti senti-  mentali, di cui l’Io non può tener conto se non come del  negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi  s’installa dentro, in quanto conquista la sua verità proprio  nell’assoluta negatività, la sua vita inserendosi dentro la « ir-  realità » della morte. Lo Spirito che si colloca nel negativo,  come si legge nelle prime pagine della Phénomenologie des  Geistes « trasforma il nulla in essere ». È precisamente con-  tro questo « potere magico » (Zauderkraft) di risolvere vio-  lentemente — e dunque di dissolverlo — l’esistente-negativo  nello Spirito-Positivo che si ribella la filosofia esistenziale.  Essa protesta che non vi è risoluzione dell’esistente nel Po-  sitivo assoluto, che l’esistente ha il diritto d’interrogare la  filosofia speculativa e di gridarle in faccia le sue sofferenze;  che non vi sono « passaggi » dialettici, ma « salti » scanda-    204 Filosofia e Metafisica       lizzanti la ragione. L’infelicità e il dolore dei personaggi del-  la tragedia greca non sono «intelligibili », come dice lo  Hegel, in quanto la necessità di ciò che loro accade appare co-  me la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra di ogni  razionalità, permangono infelicità e dolore incomprensibili  per la ragione, per essa « non veri », ma non perciò « non  reali ». Di qui la rivolta di Kierkegaard, la rivolta dell’« an-  goscia » contro la « ragione speculativa », il mo dell’esistente  contro il sì assorbente dell’Idea. L’esistente mette in di-  scussione la filosofia e cita in giudizio l’onnicomprensiva  conoscenza razionale, affinchè si rassegni ad ascoltare che  cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’ « immagi-  narsi felice » come richiede la Ragione universale; che non  intende, imaginandosi tale, di diventare un mito; che si  appella, malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fon-  damentale questa dell’esistente: la ragione non si trova sulla  stessa linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uo-  mo, per cui la categoria del pensare risulta diversa da quella  del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed  implorante; per il singolo è un mito la ragione universale  e soddisfatta. È un mito la Ragione — l’Idea o l’Essenza —  o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose e degli uomini?  Una risposta che riconoscesse la miticità di uno di questi  due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un  decreto oscuro e silenzioso di morte.   In questo conflitto tra filosofia speculativa ed esisten-  ziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso non  nasca con la polemica anti-hegeliana di Kierkegaard, ma  abbia natali più vetusti e non meno nobili, almeno nella po-  lemica Abelardo-S. Bernardo — dei dialettici e degli anti-  dialettici — e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto certi  aspetti, nelle altre Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e  Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che  meritano la migliore attenzione, anche perchè esse servono  a riportare in primo piano quella metafisica che sembrava    Concetto di metafisica 205       morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad alcuni superfi-  ciali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare di-  gnità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che  l'immanentismo aveva creduto di aver definitivamente dis-  solto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra filosofia e  religione e a cercare nella morale — che è pratica ed è teoria,  azione e pensiero — la soluzione dei problemi della metafisica  stessa. Perciò noi che abbiamo criticato, a volte anche aspra-  mente e continueremo a criticare certi atteggiamenti sterili,  di maniera, pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la  letteratura esistenzialista, siamo pronti a riconoscere l’impor-  tanza che ha l’esistenzialismo come momento della filosofia  contemporanea; ma prima di accennare al nostro punto di  vista sul tema del nostro discorso, riteniamo necessario pre-  cisare alcuni punti dentro l’esistenzialismo stesso.   Innanzi tutto esso deve decidersi se vuole essere una filo-  sofia dell’esistente o una filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff,  nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza  della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e di Jaspers so-  no filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Chemine-  ments et Carrefours) lamenta che la fenomenologia esisten-  ziale « sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel, d’un Hei-  degger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre   ui lui rend la terre ferme: l’existant s’efface et cède la place  à l’Existence »; più recentemente il Fondane (Le lundi exi-  stentiel et le dimanche de l’histoire) afferma che una filo-  sofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una filo-  sofia esistenziale, «car c’est précisément è l’existant seul  qu'il appartient de faire connaître son point de vue; à lui de  decider ce qui est negatif et ce qui est positif... ». La di-  stinzione è esatta e fondamentale: una filosofia dell’Esi-  stenza non è una filosofia esistenziale, in quanto l’esistenza  è ancora un astratto, una nozione concettuale; una filosofia  esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente.  Resta a vedere fino a che punto essa sia possibile, in quanto    206 Filosofia e Metafisica       filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una « manovra »  insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heideg-  ger e Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla  filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa della « terre fer-  me ». Resta confermato, per ora, che una filosofia esisten-  ziale non può essere che filosofia dell’esistente, ma per-  mane ancora aperto il problema se non sia costretta ad oltre-  passare se stessa.   Già come ausilio alla risposta ci soccorre la seguente consi-  derazione. Filosofia dell’esistente, colto soltanto nella sua  finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così  concepito è ancora il negativo, il nulla? È il niente che « po-  ne » il positivo? In tal caso, si è negata la positività del-  l'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La  stessa obiezione che si può muovere allo Hegel — il Non-  Essere come Non-Essere non può costituire termine di an-  titesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove stabilì la  zoweviz tra l’Essere e il Non-Essere) — si può ritorcere  contro l’esistenzialismo: dell’esistente come negativo non c’è  discorso, per il fatto che è negativo. Di qui la necessità di  tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esi-  stere è l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si  può prescindere, altrimenti si prescinde... dall’esistente stes-  so! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno della  filosofia speculativa, anche se questa non può bastare. Kier-  kegaard alla dialettica hegeliana, la quale conclude al « non  riconoscimento del finito come essere vero », oppone l’ango-  scia e dice che essa precede la logica, il particolare l’uni-  versale, l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia  se la ragion vien dopo o non viene mai o è venuta prima  e non ha saputo rispondere? A chi grida? L’esistente inter-  roga la ragione e dice quel che pensa di essa: benissimo;  ma con che cosa l’esistente interroga la ragione e dice quel  che ne pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione  che interroga se stessa intorno al problema dell’esistente.    Concetto di metafisica 207       x .    Scartata la ragione, la filosofia non è più tenuta a rispon-  dere ed è inutile quanto ingiusto protestare contro di essa.  Non la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esi-  stente sulla ragione, dicono gli esistenzialisti. Per dire che  cosa? Che la ragione non deve sopprimere l’esistente, non  assoggettarlo, non imporgli d’ « imaginarsi felice »? Queste  giuste richieste possono significare solo due cose: @) porre  un limite alla ragione; 5) svalutare fino alla negazione la ra-  gione stessa. Nel primo caso, non c’è da porre un limite  alla ragione, in quanto è essa stessa che riconosce il suo li-  mite esistenziale e tale atto di riconoscimento è sempre ra-  zionale. Dunque, non si tratta di una presa di posizione  contro la ragione, ma di una posizione della ragione di  fronte all’ esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo  e razionale) non autosufficiente. Non reazione dell’ esi-  stente alla ragione, ma presa di posizione originale dell’esi-  stente, che è ancora presa di posizione della ragione di fronte  ad un problema che non le contraddice e reclama risposta.  Nel secondo caso, così frequente in quelle forme di esisten-  zialismo esasperatamente irrazionalista, pronunziato il giu-  dizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare all’esi-  stente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di dispe-  rarsi, perchè niente ha più senso. Si pone come problema  eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti,  tutti del pari eterni ed insolubili; la problematicità assoluta  adegua così l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha  perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (am-  messo e non concesso che all’inizio non sia la verità, oscura  quanto si voglia, per cui è vero, come dice Agostino, che  ogni uomo cerca quel che sa) e alla fine la soluzione, ma  il problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito  come problema, per cui il compito della ricerca è quello di  «concludere » ad un problema che, nella conclusione, è  più problema, più problematico di quanto non lo fosse in  principio. Ma questo è dare il problema per soluzione, con-    208 Filosofia e Metafisica          fondere le lingue, anche se a volte con una perspicacia c  un impegno degni di miglior causa. Così l’ultima parola  della filosofia sarebbe la problematicità per la problema-  ticità, che, ad esser chiari anche se non perspicaci, significa  l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo  per eccellenza, non risparmia alcuna critica rimprovero con-  danna alla « iniqua logica », alla « pigra e vile » ragione, a  quanti si sottomettono alla sua « ontosa schiavitù ». Ma, a  questo punto, la ragione e la logica possono tranquilla-  mente obiettare: «se come voi dite (Exercitia spiritualia)  quel che più importa si ritrova al di là del limite del com-  prensibile e dell’esplicabile, vale a dire al di là dei limiti  di ciò che può essere comunicato con la parola, perchè ci  rimproverate? Quel che voi cercate non ci appartiene; ci  rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri.  Potete farlo, ma solo in quanto la ”’ vile ’’ragione e la ”’ ini-  qua” logica vi autorizzano a ciò »; ma l’esistenzialismo irra-  zionalista respinge proprio questa autorizzazione. Non gli  resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filo-  sofica nè religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posi-  zione speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto  angosciante quanto sterile. Oppure, accettata la frattura fra  il momento morale e quello teoretico, concludere che la  logica non è essenziale alla filosofia, che deve « attraver-  sarla »; che la filosofia è « edificante » e non vi sono di va-  lide che le filosofie edificanti; ma edificano solo le filosofie  edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e  con essa.   Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esi-  stente; dunque non lo rivela, tranne che l’esistente non s’iden-  tifichi col nulla e allora non c’è problema: l'angoscia che  rivela il nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Inter-  rogata, non potrebbe dare altra risposta; interrogante, non  ha senso che interroghi sulla negatività dell’esistente: solo  l'esistente come positivo reclama spiegazione. Quando l’an:    Concetto di metafisica 209       goscia svela il nulla dell’esistente, che la ragione dissi-  mula («l’imaginarsi felice ») non pone un problema o un  limite alla ragione, ma... dà ragione alla ragione di disin-  teressarsi di lui. Il niente esistenziale se si pone come niente  dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che  mai ha neppur tentato alcuna filosofia speculativa. Non al-  lora il nulla dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la  félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente im-  plica la sua positività, allo stesso modo che il male, come  negatività o privazione, è concepibile rispetto a qualcosa  che è. Positivo è l’essere, guesto essere, il cui « nulla »  la privazione di un grado più pieno di realtà; dunque l’esi-  stente è, è un essere, il cui non-essere o nulla è la man-  canza di quel che non ha. Evidentemente la sua insuffi-  cienza gli pone il problema (di qui l’« irrequietezza » e l’« in-  quietudine ») della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esi-  genza naturale essenziale ed universale della sua compiu-  tezza. Questa negatività ha un senso in quanto è l’aspira-  zione di una positività al suo compimento, ad un più di  essere del suo stesso essere — non ad essere un altro essere —  ricerca della consistenza dell’esistente. Non si vede perchè  quest’ultimo, che tale esigenza ha avvertito più o meno  chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba scio-  gliersi in lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti  lai, piuttosto che riflettere seriamente su se stesso secondo le  buone regole del pensiero e della ricerca speculativa: oggi  certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia  filosofica. O forse si vede, ma per motivi che contraddicono  all’esistenzialismo stesso: perchè posto l’esistente come nega-  tivo o votato al destino del nulla, implicitamente l’esisten-  zialismo accetta la posizione hegeliana del non riconosci-  mento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in  un’epoca come la nostra di spiriti decadenti, ha amato com-  promettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se  stesso compromesso e forse ormai di maniera.    210 Filosofia e Metafisica       Ciò non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenziali-  smo di avere richiamato l’attenzione sul problema dell’esi-  stente, interno ed essenziale alla ricerca filosofica. L’ideali-  smo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro Scggetto  trascendentale o nella Storia, dall’altro, pone il soggetto  stesso come principio di spiegazione e non come problema,  ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente.  Alla radice, l’idealismo è una evasione dal limite esisten-  ziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il sog-  getto è sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascen-  dentalità idealistica è essenzialmente mediazione); perciò  l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema del-  l’esistente, posto il soggetto come principio di spiegazione e  non come esso stesso problema, « mostro » direbbe Pascal,  tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il limite della ragione  è soppresso alla radice: tutto è incluso nella trasparenza della  Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è  motivo che il soggetto si trascenda: risolto il problema che  l’uomo è a se stesso, che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora  la natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo).  Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la Scienza, Dio  è la Storia, ecc. Ponete, invece, il soggetto, il singolo, l’esi-  stente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo  come problema e la trascendenza scoppia fuori come la far-  falla dalla crisalide. L’esistenzialismo, contro una tradizione  filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascen-  denza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso non ha dimen-  ticato di essere, malgrado tutto, figlio dell’idealismo trascen-  dentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte di  esso, quella meno direttamente figlia di Agostino, Pascal,  Kierkegaard, Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza,  col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso,  non accorgendosi che così dà per risolto il problema del  soggetto, dell’esistente, e ricade nella stessa posizione dei-    Concetto di metafisica 211       l’hegelismo (?). Recentemente il Camus (Remarque sur la  révolte) ha distinto la sua trascendenza «orizzontale » da  quella « verticale » o di Dio, che egli esclude; vedremo tra  non molto come un esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi  alla trascendenza teologica non abbia significato. Nella ri-  volta contro la Ragione, ammesso per un momento e non  concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia-    (2) Bisogna tener presente che Îla protesta kierkegaardiana in nome del-  l'esistente o del singolo contro la Ragione universale dello Hegel, non restò,  fin d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura (gli  uomini e le cose, gli esistenti particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal  Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose, sono la pro-  testa della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del Feuerbach e  del Marx, mosse da bisogni di ordine naturalistico-economico, in nome di un  umanesimo depotenziato a felicità terrena, sono la protesta del contingente per  un immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le due  forme principali di esistenzialismo — teologico e laico — che oggi si riscontrano  nella filosofia contemporanea si ritrovano alle origini della polemica antihegeliana,  o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello hegelismo in  opposizione ad altri. Hanno in comune l’istanza della rivalutazione dell’esi-  stente o del particolare; si dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè  sul problema della consistenza. Ciò importa fin dalle origini un rapporto equivoco  tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La questione  è complessa e non è qui il luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno,  anche nei limiti del nostro tema, qualche chiarimento.   Porre il problema dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il  soggetto posto di fronte a se stesso come un problema da spiegare, rimanda ad  altro, pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha  assunto due posizioni fondamentali: 4) l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro  (trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio della  religione, ma il limite dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua fini-  tudine (trascendenza esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro  uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo, per Feuerbach, è fine a se stesso  e il suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in quanto  ha un #, un d/tro con cui entra in rapporto acquistando coscienza della pro-  pria umanità: l’io è tanto più se stesso quanto più partecipa, nel rapporto con  l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro dall’io è  l’altro uomo: l’uomo è l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista  francese contemporaneo. La solidarietà dei lavoratori è l'umanità di Marx:  ogni lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla « clas-  se », alla « massa » dei « compagni ». Il « rovesciamento della prassi », con la con-  seguente eliminazione del capitale privato e l'avvento dello Stato socialista, renderà  reale quella condizione di « felicità collettiva » nella quale l’uomo è tutto per l’uo-  mo. La struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta,  per Marx, come è noto, non di intendere il processo storico, ma di cambiarlo  con la «rivoluzione »: la filosofia non deve più limitarsi ad «interpretare il  mondo »; « ora si tratta di cambiarlo ») la nuova società non più afflitta dalle    212 Filosofia e Metafisica       mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella  cui aspirazione l’esistente «consiste », in cui si riassume,  si ricapitola in una presenza totale. Di fronte a questa consa-  pevolezza :/ resto è un niente, che l’esistente può, si sente  di sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto  bb ® . .   c'è il Tutto che chiama. Bisogna vedere le cose alla luce  della morte, come dice Platone; ma la morte non è la notte    sovrastrutture della morale e della religione borghesi. — Nella prima posizione  esistenzialista c'è una trascendenza autentica; nella seconda una pseudo-trascen-  denza; nella posizione marxista l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima  sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza differiscono  in quanto l’una si rifiuta di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di  poter salvare ancora i valori morali e una certa vaga religiosità. Nel loro rap-  porto vi è un duplice equivoco: 4) da parte del marxismo quello di credere di  poter risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esi-  stente-uomo in quanto tale) solo con la « giustizia sociale » identificata con la  struttura economica, senza tener conto dell’infinita ricchezza delle esigenze dello  spirito, per soddisfare una sola delle quali ogni uomo, se veramente posto di  fronte a se stesso, sarebbe disposto ad accettare la più pesante schiavitù econo-  mica; è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto il  cerchio della dialettica hegeliana conservando la pregiudiziale immanentista e di  salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa pregiudiziale.  Indubbiamente il marxismo è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale;  « liberiamo » l’uomo da ogni norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’  evidente che l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a metà:  porta in prima linea il problema dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo  della ricerca fino al punto a cui mette capo, cioè alla trascendenza teologica.  Permane però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i marxisti  integrali e denunziano (vedi la costante polemica nella rivista comunista fran-  cese La Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo, anche  se si proclama ateo, è sempre un forma di misticismo: gli appelli della ‘persona  umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li possa  ricevere; dunque esso non può essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le  alimenta, le « superstizioni » religiose, le evasioni illudenti dal terreno mondo  degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero « umanesimo », anzi è il solo che sia  tale, perchè il solo che punta sull’esistente, lo completa nella legge umana del  lavoro e l’appaga nella felicità terrena.   Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di un marxismo come filosofia  dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette sovrastrutture e  ridotto alla sola struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (im-  miserimento) della persona umana, l’esistente così concepito costituisce un pro-  blema? Perchè l’uomo diventi problema — insieme di problemi — fino al punto  da mettere la ragione in stato d’accusa e di gridare in faccia alla logica che  egli ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle istanze  che lo oltrepassano — che oltrepassano l’uomo in generale — che, dunque, si  pongono al di là e al di sopra della società, della storia, dell'economia, della  terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti nell’ambito del’  soggetto stesso o della classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente    Concetto di metafisica 213       oscura senza fondo solo in quanto la illumina la speranza  dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio « del re-  sto » per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molte-  plice, la garanzia assoluta dalle illusioni deludenti. Nella  negazione «del resto» è implicata l’affermazione di un  Valore assoluto, la trascendenza al soggetto, quella « verti-  cale », la sola per cui trascendo la piccola grande storia della    x    così com’è posto dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato sempre posto  nei suoi remoti o prossimi antecedenti storici. L’economismo e l’immanentismo  marxista sopprimono alla radice il problema della persona e la persona come  problema; tutto vi è risolto come nella dialettica dello Hegel.   Sopprimono la persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra considerazione.  L’esistenzialismo si proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie nella sua nega-  tività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica addirittura col  nulla; esso strappa l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale  per porlo di fronte al suo nulla, mutolo nell’angoscia di un peso enorme di  problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del non-esistente, in  quanto l'esistente è positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo.  Il mondo moderno, così impregnato di umanesimo laico e cristiano, non si ras-  segnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo e in  partenza vi si oppone. Da questo punto di vista l’esistenzialismo è « anti-moder-  no », anche se dopo tante esaltazioni della mondanità e della vita esso sia  stato buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente  avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul momento della riflessione sia pure  smorzata da un permanente stato « poetico ». Il marxismo, da parte sua, filo-  sofia dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla  logica inesorabile del materialismo dialettico, conclude all’annullamento della  persona nella opacità compatta e spessa della « massa » e nell’onnipresenza dello  Stato. Conserva la più rigorosa « mondanità », ma proprio perchè rigorosa, di-  mezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori e al di sopra di questo  mondo. Due filosofie dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che  colgono l’esistente nella sua negatività, nell’involucro esterno e vuoto perchè  mancante del pieno della « consistenza ». « Contemporaneo », invece, il Cristia-  nesimo, non contraddice alle esigenze fondamentali dello spirito: positività questa  vita, positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la sola « mondanità »  significante. Vi è nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia: quel che  conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente non è reale, è il negativo. E’ un  agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza spe-  ranza: non si redime, accetta il suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e pla-  tonismo antiplatonico il marxismo: reale è l'individuo, ma è reale nella com-  pattezza della massa, quale dente della macchina statale o del Partito. La cordi-  zione presente dell’uomo è proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un  futuro immancabile, ma questo futuro e questa felicità non sono in un dltro  mondo. Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le crea-  ture, beni positivi in quanto creature dell'Amore divino e assetate d’amore per  il Creatore. L'alternativa immanentistica, o Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla  o non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è;  io sono innovatore perchè in Lui m’innovo.    214 Filosofia e Metafisica       mia anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza,  dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti e perciò steri-  lizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali mondani  — dell’economia e dell’arte, della storia e della politica —  la «trascendenza » e la «solitudine » esistenzialista sono  state, se non altro, un energico richiamo e un salutare ri-  sveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è  soltanto singolarità, ma anche universalità di essenza, di ra-  gione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è  singolo se non è uomo. La sua verità è anche verità degli  altri, deve esserlo: è la sua responsabilità suprema; e la  verità è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed  umile: accetta i doni e li ricambia. Nella verità, che è mia  perchè di altri, gli uomini realizzano l’unica consistente ed  indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è  mai individuale: chi si sacrifica per esso, si sacrifica per  l'umanità intera. Nell’essenza della singolarità e di essa  costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà me-  tafisiche.    4. — Esistenza e consistenza.    Al punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una  prima conclusione appare evidente: non si tratta di negare  la filosofia — o è anche razionalità o non è — ma di  vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se  e come possa avviare il problema alla sua adeguata solu-  zione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que  ste pagine: il punto di partenza della filosofia non può es-  sere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale della  ragione e dunque dell’uomo cogliere la razionalità del reale;  e la razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’uni-  versale. Basta all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa  la problematica filosofica? No, tranne che per un raziona-  lismo assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal.    Concetto di metafisica 215       lo obiettò a Cartesio (se a torto o a ragione qui non im-  porta stabilire): «il cuore ha delle ragioni, che la ragione  non conosce »; « l’ultimo atto della ragione è di riconoscere  che molte cose la oltrepassano ». Non ho accostati a caso i  due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza  l’altro: la ragione non conosce le ragioni del cuore, ma  conosce (« riconosce ») che ci sono e la oltrepassano. Il pro-  blema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla stessa  ragione, è razionale come problema, anche se la soluzione è  super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contrad-  dicente la ragione. Le pascaliane ragioni del cuore -— prima  che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blon-  deliane — sono le ragioni dell’esistente, del singolo, del sog-  getto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza  che il conoscere razionale possa pienamente rispondere, ma  senza poter fare a meno di esso e sulla base di questo stesso  conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni inse-  gnamento è finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto  della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato  integrale e nel suo destino assoluto si pone al limite della  filosofia e come suo limite, ma non contro la filosofia; si  pone e con sè pone la filosofia come « apertura » alla reli-  gione. Vi è allora una «filosofia esistenziale »? Sì, come  problema dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso;  no, come soluzione integrale, totalitaria e unitaria: filosofia  esistenziale, ma il cui fondamento, iniziale e finale, è teolo-  gico, perchè teologica è la soluzione assoluta del problema  dell’esistente. Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa  e del sapere speculativo, illuminato dall’intelligenza e dalla  ragione, per cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi  nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incompren-  sibili, bensì m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel  senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso,  scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere più profonde  della ragione e dell’intelligenza non mi getta a morire nel    216 Filosofia e Metafisica       nulla, ma mi raccoglie integralmente nella realtà della mia  vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di  approfondire queste anticipate, ma non inaspettate conclu-  sioni.   Io ho quel che sono: l'avere adegua la mia esistenza e  l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non  posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha sarà dato. Signi-  fica che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il mio  essere è fatto da e per l’Essere, che la mia positività limi-  tata, che in questo limite o mancanza è negatività, tende  alla Positività assoluta. È in ciascuno di noi una realtà essen-  ziale; di essa abbiamo coscienza, che è la nostra autoco-  scienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere,  coscienza che siamo una realtà distinta dai nostri atti, che  la persona non è soltanto le sue azioni o le sue cognizioni.  L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non  prova soltanto che il realismo dei due pensatori è tutt'altro  che ingenuo, ma che «intelligiamo » il nostro stesso inzel-  ligere; lo penetriamo così profondamente al punto da com-  prendere che il nostro comprendere (conoscere) non com-  prende (« non conclude ») tutta l’essenzialità del roi e sfocia  nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto ci origina, ci  guida, ci conclude e sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è  censapevolezza del limite, ma come consapevolezza è già  al di là di esso. Il problema di Dio è di diritto quello dell’ul-  timo fine: la scienza è tendenzialmente sapienza: intenzio-  nalmente il problema dell’universo è considerato sempre in  vista del problema della vita. Smarrire il senso del fine è  votarsi al non-senso della fine, è rinunziare alla « consisten-  za » per consegnare l’« esistenza » alla morte. Sed ego co-  nabar ad te et repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere  a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da  Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut saperem mortem,  affinchè conoscessi la morte, perdessi la mia consistenza, fa-  cessi esperienza del nulla del mio esistere una volta privato del    Concetto di metafisica 217       mio consistere, che è durare perenne, durare, senza riposo  o stanchezza, nel tendere all’Essere per cui esisto e sono;  è la libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere to-  tale, il senso assoluto del mio. contingente esistere. L’esi-  stente esiste el tempo, ma non è del tempo: re-siste al giorno  che passa e alla notte che copre le cose del giorno (oppone  il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè  il suo stare è garantito e sorretto da un fine; per cui la tem-  porancità si conserva nella temporalità e il tempo volge alla  eternità intemporale. L’esistente è persistente ed è persona  — questa e non un’altra — perchè persiste; e persiste in  quanto consiste. Il mutamento di «questo ente » in « non  questo ente » è il manifestarsi di un ente, la temporaneità di  una sostanza che dura nella temporalità, la contradditorietà  che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere  permanente. Il durare dell’esistente implica, dunque, suc-  cessione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfetti-  bile, dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua  attuazione. La sua incompiutezza pone il problema del suo  compimento e nello stesso tempo attesta l’Incondizionato  (omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula  che è comune ad Agostino e a Tommaso). L’esistente è in  ogni momento la sua consistenza, ma in ogni momento, n07  è mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infi-  nita, perchè è un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè,  come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, pe-  renne sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nel-  l’Altro. La soggettività profonda non è un dato, ma il rea-  lizzarsi di se stessa, la conquista di sè nell’abbandono a Dio.  La povertà del soggetto, infinitamente arricchentesi ed infi-  nitamente povera, è la sua ricchezza autentica.    5. — L'essere e il problema teologico.    L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là dell’essere, è  tuttavia nella linea dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esi-    218 Filosofia e Metafisica       stere, infatti, è l’«atto proprio » di «ciò che è»; è la ra-  dice dell’essere. « Le nom méme d’essenzia que dérive de  l’esse, traduit le fait que l’essence constitue le point d’effleu-  rement, sur le plan de l’étre objectif et concevable, de l’acte  premier en vertu duquel ce qui est, est, ou existe ». Così  ancora il Gilson da noi seguito su questo punto, che ha  posto bene in luce i limiti esistenziali della filosofia, fa-  cendo, tra l’altro, notare come le nozioni di causa finale ed  anche di causa efficiente si rendono indispensabili allorchè  si pongono i problemi di esistenza. Infatti, in un certo senso,  il punto di vista della finalità resta esteriore all’ordine della  chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte,  il solo che spieghi il senso di un essere e di ogni essere. Si-  milmente nella causalità efficiente, la natura della causa  spiega l’essenza del suo effetto, ma non la sua esistenza.  Il pensiero analitico non può non spiegare da questo esi-  stente l’apparizione di un altro esistente: se l’effetto fosse  identico alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe.  Dalla causa all’effetto vi è sempre una specie di creazione  ex nihilo, « dove qualcosa sembra sorgere spontaneamente  dal nulla ». Problemi interni al pensiero filosofico; problemi  ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le que-  stioni della provenienza (donde viene) e della destinazione  (dove va) dell’uomo.   È necessario che, a questo punto, la filosofia entri in  conflitto con l’esistente che le pone dei problemi non rien-  tranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o ra-  zionale? Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha  negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente ha giudicato  in blocco la filosofia come «non degna di un’ora di fa-  tica ». Conflitto che, in verità, non ha ragione di essere  e porta in sè gli elementi per essere composto. Infatti, nè  l’esistente può fare a meno della filosofia, nè la ragione  speculativa può sopprimere l’esistente, in quanto il soggetto  indomabile sbuca sempre fuori anche dal più fitto tessuto    Concetto di metafisica 219       di sillogismi e dalla più rigorosa ed indifferente analisi di  essenze concettuali. La filosofia non può comportarsi come  se l’esistente non esistesse per i problemi interni che esso  le pone e per gli ostacoli che incontra nell’esplicazione della  nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non  può vivere con la sola filosofia, non può del pari vivere senza  di essa. Le istanze che egli pone alla ragione e gli appelli  che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione  pone a se stessa. Dunque, vani ed ingiustificati i rimpro-  veri rivolti ad una ragione, la quale riconosce i suoi limiti esi-  stenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al punto  limite lo convince a mettersi assieme in cammino per un’al-  tra via, non contraddicente la ragione, ma che la oltrepassa e  segue metodi che non sono più quelli della pura ricerca  razionale. Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra  la ragione e l’esistente, la buona ragione e l'esistente che non  rinuncia al lume che lo costituisce, si uniscono nell’apertura  alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva,  una problematica religiosa; una fenomenologia esistenzialista  è, costitutivamente, di carattere religioso. Pertanto, a nostro  avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta  religiosa che il Cristianesimo dà del problema dell’esistenza, è  senza senso, estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente  a se stesso. Si tenga presente che ogni qual volta la filosofia  speculativa ha cercato o preteso di dare da sola una risposta al-  l'esistente e ai suoi problemi, ha concluso, inesorabile, per la  loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino  ad un certo punto, epicureo, stoico, neoplatonico, spino-  ziano ecc., concludono tutti che è saggezza la liberazione  dall'esistenza: è saggio chi « ascende », dalla zona dell’esi-  stere, all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Ri-  sponde invece diversamente una filosofia della persona la  quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi  problemi, ma autenticandoli.   Essere non è solo l’essenza, anche se il termine è spesso    220 Filosofia e Metafisica       usato per indicare l’essenza; essere è essenza ed esistenza.  Identificare l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’es-  senza, o con la sola essenza esclusiva dell’esistenza, è negarlo.  Una filosofia puramente essenzialista deve concludere che  l'essenza non esiste e dunque negare il reale (è la conclu-  sione di un platonismo spinto agli estremi, alla quale non  sfugge, malgrado tutto, Aristotele); allo stesso modo una  filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una  possibilità vuota, deve concludere con la negazione dell’esi-  stenza stessa. L’originalità del reale o dell'essere è precisa-  mente nella unione di essenza ed esistenza: non il puro con-  cetto nè il puro esistere sono l’equivalente del reale. L’esisten-  zialismo ha fatto ben comprendere l’insufficienza del puro es-  senzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso esistenzialismo ci  ha fatto ancor più avvertiti che non si può prescindere dal-  l’essenza: essenza ed esistenza costituiscono la struttura del  reale. L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che  pertanto va ricavata dall’esse; di qui il primato dell’esistenza  non sull’essere, ma sull'essenza zmell’essere.   Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica,  scienza del concetto o dell’essenza, come tale, riconosce che,  al di là dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualiz-  zabile. Per conseguenza, per cogliere il reale, non si può  partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo,  che è già cogliere il reale immediatamente, cogliere me  reale nell’atto di acquistarne coscienza. L’autocoscienza in  questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sin-  tetico che coglie unitariamente la dualità interna della  struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio  essere, nascere un altro problema: quello dell’esistere del mio  essere. Qui il problema dell’atto di esistere (actus essendi)  si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di  esso, cioè come problema del suo fondamento assoluto. Se  fossi il principio del mio esistere, sarei il creatore del mio  essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe    Concetto di metafisica 221          con l’Atto assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che  è: la mia essenza sarebbe identica alla mia esistenza. Ma  io non sono il creatore di me stesso; dunque l’atto autoco-  sciente con cui colgo immediatamente il mio essere nella  sua struttura di esistenza ed essenza, pone il problema del  principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della  metafisica, il problema teologico o dell’esistenza di Dio, il  supremo Esistente. Il principio della Creazione è indispen-  sabile all’ontologia, che dall’interno è orientata verso la  teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di  S. Tommaso sopravanza infinitamente quella essenzialista di  Aristotele. Bisogna pertanto distinguere il problema degli  esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro  origine primale o della loro costituzione stessa, che è il  problema dell’esistenza di Dio o del principio assoluto  del reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio  l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che l’esistenza sia nel-  l'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo pro-  blema; la metafisica cristiana, in questo senso, è una « rivolu-  zione » rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fonda-  mentale: per una metafisica dell’essenza, il problema del-  l’esistenza del reale non si pone; non ha senso porlo; e  perciò non ha senso porre neppure il problema dell’esi-  stenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di termini, non lo  pone: vedere le idee in Dio rende superfluo il mondo reale.  Questa posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo,  le si oppongono ma da essa derivano: l’esistenza non è per-  fezione e non aggiunge niente all’essenza; dunque, non  solo dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma  Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione kantiana del-  l’agnosticismo metafisico e della pura noumenicità della  Cosa in sè (l’ontologismo critico del Carabellese è la for-  mulazione rigorosa di essa). L’esistenzialismo immanentista,  figlio dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema  metafisico dell’Atto supremo di esistere ed ha considerato    222 Filosofia e Metafisica       l’esistenza come pura possibilità o libertà; così l’ha pri-  vata anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esi-  stenza resta sospesa a se stessa, senza fondamento, vuota  nel vuoto, insignificante nulla. Tali affermazioni assurde  confermano che il problema del reale va posto come pro-  blema del reale autentico che è essenza ed esistenza, il qua-  le pone, per la spiegazione metafisica, il principio del suo  esistere, cioè il problema teologico.   E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filo-  sofia se la trova interna e ad essa essenziale. Metafisica per  definizione — per sua natura — la filosofia non può essere  che scienza dell’essere o della verità, nel senso più esten-  sivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già ac-  cennato col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, del-  l’atto dell’esistere; d’altra parte, è evidente che, senza l’essen-  za, l’esistenza mancherebbe della sua razionalità; dunque, in  una ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile,  il possibile che è per l’atto dell’esistere. (Un esame della dot-  trina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere sa-  rebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia  esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad eccezione di Gabriel  Marcel, non sembra vogliano saperne di ontologia, quan-  tunque facciano molto uso del termine; si fermano al di qua  dell’essere, alla descrizione dell’esistenza e si rifiutano di  obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua  esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai l’esistenzia-  lismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale ri-  conosce il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna  della filosofia e perchè l’esistere stesso possa avere un signi-  ficato comprensibile sia pure come problema, accetta l’es-  senza come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che  rigetta questa conclusione conserva ancora una nozione  negativa dell’esistente e distrugge in partenza il proble-  ma che lo giustifica come posizione di pensiero. L'atto di.  esistere non può essere considerato fuori dell’ordine dell’es-    Concetto di metafisica 223       senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esisten-  ziale, di un universo di atti di esistere, la sola filosofia è in-  sufficiente a risolvere tutti i problemi esistenziali che essa   ne. Una filosofia che reclama questa pretesa è la pseudo-filo-  sofia della ragione non autentica, e tale in quanto si arroga  compiti che la sorpassano; è la filosofia del razionalismo  assoluto, della religione della ragione, cioè una pseudo-reli-  gione. L’esistente nella sua originarietà resta il problema in-  terno della filosofia, quello che la apre alla trascendenza; un  universo di atti di esistere è già, come tale, dipendente dal  supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo visto, importa  sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex mnihilo, il  cui esserci è l’«evidenza sensibile » del Creatore. Filosofia  e religione, come scrive il Masnovo (La filosofia verso la  religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo  stesso termine reale di conoscenza — l’Essere unico, sorgente  di tutte le cose — il cui svolgimento è diverso nella ragione e  nell’atto di fede, senza che l’una contraddica all’altro.    6. — Conclusione.    Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la persona  alla persona. I concetti dell’uomo figlio di Dio, creatura;  della dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo;  del conflitto morale tra il bene e il male, al cui esito è legata  la perdizione o la salvezza; della libertà e del peccato, diedero  un senso dell’esistenza che — se il pensiero greco aveva  in parte preparato — giungeva del tutto nuovo. La vita  come dramma interiore, attrice di una lotta morale impe-  gnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo;  nessuna concezione incentra la riflessione filosofica sull’e-  sistente e i problemi esistenziali quanto quella cristiana.  Tutta la filosofia agostiniana punta diritta sull’esistente e  i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato co-  me Agostino l’esistente e vissuto con tanta intensità il dram-    224 Filosofia e Metafisica          ma interiore dell’uomo. Se in S. Tommaso il senso della in-  teriorità è men vivo, il dramma della persona è vissuto al-  trettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa.  Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due grandi,  ha scoperto nella forma morale dell’essere il punto di  unione dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale  determinato; la morale rosminiana è una soluzione da tener  presente dei problemi dell’ontologia esistenziale, la cui con-  clusione è ancora quella di Agostino e Tommaso. Oggi la  concezione dell’uomo come dramma, del soggetto come pro-  blema da spiegare e non come principio di spiegazione, è  tornata alla ribalta della discussione filosofica; al dramma  si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è ten-  tato risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone  il suo problema e lo risolve da sè; ogni altra soluzione è  fittizia ed illusoria. È la conclusione di ogni forma d’imma-  nentismo, il dogma della filosofia marxista. L’uomo il suo  problema lo risolve da sè: non c’è posto per il superfluo,  l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uo-  mo (individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua  natura sacrificarsi a qualcosa che non sia umano, che lo  trascenda. L’immanentismo, di qualsiasi specie o sottospecie,  si rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qual-  cuno: altrimenti a chi direbbe di no e a chi si ribellerebbe?  Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una  parte cospicua del pensiero moderno, la sua alta protesta con-  tro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribel-  larono a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di  Giove, tanto da tentarne l’offesa e da sperimentare la po-  tenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da meno,  ma siccome si è rivoltato al Dio di Cristo, ha sperimentato  l’infinità del suo Amore. La rivolta contro la metafisica,  portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle  deviazioni acritiche, non può non risolversi che in una con-  sapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è in-    Concetto di metafisica 225       sita al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al  vertice del conoscere razionale, pone ancora il suo proble-  ma, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il co-  noscere razionale che chiede la sua autenticazione in un  sapere che trascende la ragione senza contrastarle. L’esi-  stente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri ri-  manda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato  nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una «contingenza ini-  ziale », come dice il Blondel, che li accompagna nel loro  processo evolutivo e costitutivo. Cercare la loro consistenza in  quel che hanno di fatto in un dato momento è cercarla — per  mai trovarla — nel loro aspetto esterno e non nel loro ordine  interno, nella zorma interna che li trascende, la quale « costi-  tuisce la vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della  loro vera e completa realizzazione » (L'’Etre et les étres). L'es-  sere-persona è capace di autosufficienza, di realizzazione com-  pleta e totale? Può erigersi ad Assoluto come singolo o come  collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e ca-  pace di conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso  come problema; ed è questo l’atto ultimo della ragione, conte-  nente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esi-  stenza dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue  possibilità, al massimo della soddisfazione dei suoi bisogni,  è ancora bisogno, grida, come dice Hello, «io ho bisogno ».  Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Sco-  pre al limite di ogni possibile ricerca, con la convalida e la  garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine  che lo trascende, di tendere ad un perfezionamento che lo  oltrepassa. Il ne varietur della religione costituisce la pedana  di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, per-  chè la fede religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima  romantica. Senza essere «una passione inutile », come lo  definisce banalmente Sartre, l’uomo è amore per l’Esisten-  te, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di essere per  sè è perpetuo progetto di fondarsi da sè ed è perpetuo fal-    226 Filosofia e Metafisica       limento di esso, perchè è progetto contro la consistenza  dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni di se stesso,  della sua vocazione naturale, essenziale ed universale. La  tendenza all’Altro è invincibile ed è tendenza a Dio. L’esi-  stere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine  di ogni soggetto. La consistenza della persona è nel rap-  porto con l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi  stessi è consapevolezza, con tutti noi stessi, di essere inca-  paci da soli di attingerLo; la nostra « generosità » autentica,  « coraggiosa ed insaziabile », come la chiama il Blondel, che  l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà  premiare. Ma dipende da noi farci simili al cristallo, secondo  la magnifica espressione di Caterina Mansfield, affinchè la  luce di Cristo brilli attraverso di noi. « Dio si conosce me-  glio ignorandolo », secondo la formula della teologia mi-  stica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto nella  sua essenza, è da noi conosciuto come e in quanto incognito.   La consistenza degli esseri ci è dunque risultata risie-  dere, seguendo il dinamismo interno del pensiero e senza  rinunziare o condannare il conoscere razionale, nel loro rap-  porto con Dio, al limite dei limiti, in un fine senza fine.  L'ultima parola della ragione è la prima della religione:  l'estremo appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla  ragione, ma, sul fondamento della ragione, a Dio. Dunque,  a rigor di termini, non vi è una «filosofia esistenzialista »,  nel senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filo-  sofia, come tale razionale, che pone il problema dell’esi-  stente a faccia a faccia con la soluzione teistica, che apre  alla fede religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è meta-  fisica. L’esistente, nell’atto stesso d’interrogare la ragione e  problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da  seguire. Non c’è materia per drammatizzare o vilipenderla;  c'è il più saldo fondamento per sperare con il suo assenso.  L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due mo-  tivi: 4) perchè essa indica la strada per la soluzione del pro-    Concetto di metafisica 227       blema dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone la  ragione stessa come problema, dato che la filosofia è per  sua natura imprescindibile razionalità, invano si arrovella  a mettere insieme una «filosofia » esistenziale. (Ecco per-  chè gli esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi  psicologiche — « moralisti» —, ma non di indagini filo-  sofiche vere e proprie). L’esistenzialismo è la «crisi» della  filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro,  che è il Qui, che la ragione stessa riconosce al suo limite;  l'istanza esistenziale ritorna sempre come istanza religiosa.  L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa  a se stessa di fronte al problema esistenziale, il suo « con-  vergere » in Dio; dunque ancora filosofia con soluzione tei-  stica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende  estranea la ragione al problema dell’esistente, la fa convinta  dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con  la natura della ragione stessa. L’esistente « inesistente » nel-  l’ordine del conoscere razionale, ma «esistente » come pro-  blema-limite della ragione, « inesiste » come soluzione nel-  l’ordine teologico, in quanto la spiegazione e la autentica-  zione di ogni atto di esistere è nel supremo Esistente. La  ragione non spiega tutto l’esistente, ma gli spiega come e  dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intel-  ligenza, che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello  ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza mettere il cervello al  servizio della nostra umanità la più profonda ed essenziale (*).    (3) Il P. D'Amore in una breve nota pubblicata nella rivista « Sapienza »  (n. 1, 1948, p. 132), a proposito di queste pagine, mi osserva che, senza riescirvi,  io mi sforzo « di completare la Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’  di esistenzialismo, cioè con il problema posto dagli esistenzialisti, non con la  soluzione che essi danno ». E aggiunge: « Egli crede che il problema dell’esi-  stenza com’è posto e risolto da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura total-  mente astratta e resti nel puro campo dell’astrazione, della essenza o concetto»  dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè delle pure  essenze ». Francamente non riesco a spiegarmi come P. D'Amore, pur sempre  attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi rilievi.  Sarebbe da parte mia uno sforzo davvero inintelligente quello di e completare  la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo », in quanto    228 Filosofia e Metafisica       questo problema non avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scola-  stica per me pone il problema dell’esistenza in termini più veri e speculativa-  mente più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara: l’essere  non è riducibile nè alla pura essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua  struttura è duplice. Inoltre io non dico affatto che quella di S. Tommaso è una  metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una metafisica  dell’esistenza; e su questo punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristo-  telica da quella tomista; o forse P. D'Amore vuole identificare S. Tommaso con  Aristotele, a tutto svantaggio del primo? MICHELE FEDERICO SCIACCA Filosofia e Metafisica VOLUME II MARZORATI - EDITORE - MILANO FILOSOFIA E METAFISICA I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro- fonde che lo Sciacca ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dal- lo «Spiritualismo cristiano» alla «Filosofia dell’integra- lità». In essi si possono leg- gere saggi di rilevante inte- resse teoretico come quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull’esistenza di Dio, che or- mai si allinea tra i testi clas- sici della filosofia contem- poranea. Lo stile avvincente e chia- ro, il vigore del pensiero in- sieme profondo e cristalli- no, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Auto- re di rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistemati- ca senza pesantezza, sta una lettura appassionante e pro- ficua. Zursaran - S. Tommaso visita S. Bo- naventura. OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA Volumi pubblicati: 2. 3. 4. 5. L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120, L. 1000. Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224, L. 1200. Interpretazioni rosminiane, II edizione riveduta e aumentata, pag. 272, L. 2000. L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000. Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata, 8. 9. 10. Il. 12. pag. 980, L. 6000. La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180, L.' 1500. Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160, L. 1300. In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500. Dall Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen- tata, pag. 478, L. 4000. 15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300. 17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000. Volumi in preparazione: 18. Sòren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità. 19. La filosofia italiana, II edizione. 20. 21. Il tempo e la libertà. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia. 22-23. Platone, II edizione. 24. 25. 26. Studi sulla filosofia antica, II edizione. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, INI edizione. 30. Le mense di Cristo. MICHELE FEDERICO SCIACCA FILOSOFIA E METAFISICA Terza edizione riveduta e aumentata Volume II Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI MILANO — via privata Borromei, 1 B/7 Proprietà letteraria riservata © Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano Stampato in Italia - Printed in Italy 1962 Tipo-Lito P. Pasquetto - Miiano L' illustrazione è opera del pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che attraversa le Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. PARTE TERZA ATEISMO E TEISMO SEZIONE PRIMA L’ATEISMO CaprrroLo Î PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA I. — Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine. Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli dicesse chi fosse Dio; Simonide gli chiese un giorno di tem- po per pensarci sopra; l'indomani, a corto di una risposta soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di se- guito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo dei giorni, Simonide rispose che più ci pensava, più il pro- blema gli sembrava oscuro. Le pagine che seguono si propongono di vagliare le ri- sposte di quanti, a differenza di Simonide, affermano in vario modo che «Dio non è», cioè vogliono essere un breve esame storico-critico delle forme più significative di ateismo, un’analisi e valutazione delle dottrine che impli- citamente o apertamente si dicono atee ( #Seos= senza Dio). Problema difficile e complesso, non solo per le sfumature che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano di esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). «Avevo sentito dire molte cose di lui già in passato, e fra (I) Per esempio, il Comre (Système de polit. pos., t. I, p. 48) scrive che l’ateismo è «una cosa rara »; il Renouvier (Derniers Entrétiens, Paris, p. 102) che «il n’y a que très peu d’athées »; lo stesso Le DantEc non si considera ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, p. 56) e aggiunge che la gran maggioranza degli uomini « est imbue de l’idée de Dieu » (p. 19); da parte sua il Blondel afferma che l’ateismo è « une thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction notionnelle, mais non une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire qu'il y a ou des anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il n’y a pas d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir- 8 Filosofia e Metafisica l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto istruito, e mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre a ciò, è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me proprio come a persona del tutto uguale a lui per cultura e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una cosa mi colpì: che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per quanti miscredenti avessi incontrato e per quanti libri del genere avessi letto, mi era sempre sembrato che parlassero e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in apparenza fosse il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nul- la... Senti, Parfén, poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti la mia risposta: l’essenza del sentimento religioso sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c’è in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è in esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che par- leranno eternamente di tutt’altra cosa ». Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non senza una sottile ironia verso il «vero scienziato » « molto istruito » e dall’« educazione rara », il quale crede di negare Dio e parla « di tutt’altra cosa »: la sua « cultura » e « intel- ligenza » hanno come limite l'ignoranza di ciò che negano; conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere vera- mente sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo vol- gare: vi sono atei che filano le prove classiche dell’esistenza di Dio meglio di tanti credenti; le ripetono anche a se stessi, e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insuf- mation au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’» (La querelle de l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la « Société frangaise de Philosophie », nel vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris, Presses Universitaires de France, 1951, pp. 212-213). Anche S. Agostino scrive: « Si tale. hoc hominum genus est, non multos parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, per- pauci sunt, et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est Deus... » (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge: « Dio è così naturalmente pre- sente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel vizio possono ne- garlo » (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr. 106, c. 17, n. 4). L'ateismo 9 ficienza della volontà e al «profitto» o al « piacere» di non convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intel- lettuali, di cui il principale è appunto che, parlando di Dio e negandolo, parlano di un’altra cosa. Similmente, come abbiamo accennato, altri protestano di non essere atei; tut- tavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inade- guata o contrastante la sua essenza. « Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole »; al con- trario, secondo Bayle, è possibile una « società di atei»; ai nostri giorni si parla di « ateismo di massa» e non più di una élite (ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e governi si proclamano « ufficialmente » atei e areligiosi; non manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi nella sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è «razionale » negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha fatto con una pas- sione da « credente senza Dio », spiegabile solo con un sot- terraneo e invincibile sentimento religioso. Problema dun- que complesso, soprattutto se considerato nel pensiero mo- derno e contemporaneo, che va trattato con un interesse pari alla sua importanza, anche se, come vedremo, l’ateismo, sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale perchè intrin- secamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla sua stessa natura (?). 2. — Abuso del termine «ateismo ». E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in senso relativo: nel primo caso si nega Dio in qualsiasi modo lo si concepisce; nel secondo si giudicano atee alcune parti- (2) Ciò è confermato anche dai cosiddetti « fatti » tanto importanti per gli empirici, i materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di reli- gione sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate di corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo perchè c'è il credente, il « positivo », che può stare senza il « negativo », che, invece, non è senza l’altro. 10 Filosofia e Metafisica colari maniere di concepire la divinità, o si dissente su par- ticolari questioni di culto e di carattere religioso-teologico. Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani e per i cri- stiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici i protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII se- colo, s'affanna a provare (*) che tutti gli scolastici sono stati assolutamente atei; da parte sua, il gesuita Hardouin, nel libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo Descartes, Arnauld, Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna reli- gione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da essa disformi. Per conseguenza, secondo alcuni, la defini- zione del termine « ateismo » è puramente verbale, in quanto il contenuto del concetto di ateo varia secondo le diverse concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_ volte basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una determinata epoca, per grossolane ed empie che siano, per essere accusati di ateismo e condannati. Celebri, in questo senso, nell’antichità, il processo e la condanna di Socrate; notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di fronte alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una concezione della divinità più conforme al suo concetto, e credente l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli dèi ogni specie di malefatta e se li rappresenta in maniera empia e volgare in conformità con le credenze popolari ufficialmente accettate (9). Qui vi è un abuso della parola «ateo» dettato quasi sempre da conformismo opportunistico o da una politica di tornaconto, e un’errata impostazione del problema. L’abu- (3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, disp. 2, cap. 2. (4) Opera varia, Amsterdam, 1719. (5) Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., Paris, 1938, vol. I, p. 73. (6) In questi casi, l’« ateo » è il vero credente, colui che protesta contro le concezioni volgari o superstiziose e le pratiche sconvenienti, si mette « contro l'opinione comune » (il « paradossale »), che offende Dio e il suo culto. L'’ateismo (3 so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di varia tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pra- tica religiosa, in questi termini: è ateo chi non è rigida- mente conformista al culto ufficiale di un paese in una de- terminata epoca. Ma qui non si tratta più di un problema teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, per esempio, della Grecia antica, il cui politeismo, privo di dogmi e di una vera e propria teologia, era quasi soltanto culto controllato dallo Stato. Roma, cue per mancanza di autentico spirito religioso e opportunismo politico era tol- lerante con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di ateismo, quando contrastavano con le direttive politiche e l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo teore- tico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico perchè non si vive come se Dio non esistesse; si fa que- stione intorno alla prassi religiosa e per motivi ad essa estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed an- che i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; con l’editto imperiale del 380, invece, furono definite atee tutte le religioni non cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). Altra la questione riguardante il diverso modo di con- cepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si possono dire eterodossi, ma non atei); se della concezione di Dio in generale, bisogna distinguere: a) non sono atee le concezioni primitive e rudimentali in quanto manca la co- scienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo nome un ente che non lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma nei due casi si tratta sempre di « insipienza »; infatti, 1r51- piens — pronunzia la parola e pensa ad altro — non è solo chi nega Dio, ma anche colui che Lo concepisce in modo so- i (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos., Paris, Flammarion, s. a., voce « Athée, Athéisme », pp. 35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. (8) Jos. Frav., Contra Apion., II, 16. 12 Filosofia e Metafisica stanzialmente sconveniente alla sua essenza. Anzi quest’ul- tima forma di ateismo, non soltanto Lo offende, ma ostacola la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’« ateo » ha la funzione benefica, anche se negativa, di demolire gli « dèi falsi e bugiardi ». 4 Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti concludono che il termine ateo non ha alcun significato teo- retico definitivo o definibile, ma solo un eglore storico da determinare caso per caso secondo i diversi culti e le parti- colari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni forma di ateismo — tutto si ridurrebbe a reciproche accuse tra sistemi teologici e culti diversi, a chiamare atee forme di religione rudimentali o meno progredite — ma che teismo ed ateismo, in quanto temi di polemiche religiose, siano pro- blemi appartenenti alle discussioni filosofiche; in altri ter- mini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teo- retico e lo si relega tra le controversie intorno al culto. Af- fermazione insostenibile, storicamente e teoreticamente, la quale non distingue il problema del domma e del culto da quello filosofico vero e proprio. Infatti, dal punto di vista storico è facile constatare che, in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi hanno affron- tato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico il problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi non c’è stata e non c’è filosofia che non si sia posto il pro- blema, così intrinseco alla stessa ricerca da definirsi, secondo la risposta affermativa o negativa, teistica, agnostica, atea, ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre in- trinseca alla ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso filosofico, al punto da far dire che il termine « ateismo » non ha un significato teoretico definitivo, è privo di un suo con- tenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende decisamente a ridurvisi? L'ateismo 13 Dal punto di vista teoretico, come giustamente osserva il Lachelier (9), «ce qui varie est moins le contenu philo- sophique » dell'idea di ateismo « que l’emploi plus ou moins malveillant » che si fa del termine contro una particolare dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto filosofico pressochè invariabile, altro l’uso pratico del ter- mine; dunque, il senso storico o pratico variabile va distinto da quello teoretico immutabile. Chi nega che i termini «ateismo » e « teismo » abbiano un senso speculativo e pre- tende con ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle ri- cerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli soltanto alle controversie religiose, muove da una posizione di pen- siero, da un presupposto che ha già concluso per suo conto che il tema dell’esistenza di Dio è del tutto estraneo alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non costituisce un problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in modo da non far posto all'idea di Dio e, in questo senso, da una filosofia atea. Per conseguenza, la sua affermazione che il termine ateismo non ha un contenuto teoretico defi- nibile ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, senza essere dimostrata, nella sua iniziale posizione filo- sofica che, in partenza e aprioristicamente, esclude dal campo dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo in quello delle questioni religiose, solo in quanto il sistema non ne «tollera » la presenza: ci troviamo di fronte ad uno scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum theazri. Chi dice in partenza, confondendo l’uso pratico del termine atei- smo con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non - esistenza di Dio non è un problema filosofico ha già deciso; per lui, la ragione, come ragione filosofica, è atea o almeno agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione del pro- blema in questione, non un’argomentazione valida per dimo- strare che quello teologico non ha un significato teoretico; (9) Vocabulaire ccc., cit., p. 72. 14 Filosofia e Metafisica anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera o falsa che sia, prova con ciò stesso che il problema appartiene all’in- dagine filosofica e non soltanto alle controversie religiose. Dunque esso va riportato in sede speculativa come quello che, non solo appartiene alla ricerca razionale, ma è il problema primo della metafisica e perciò intrinseco ed essenziale alla filosofia come tale. Ma daccapo: quando l’ateo dice « Dio non esiste », quale Dio nega? Pensa veramente a Dio? Ne nega l’esistenza sen- z’altro, o nega quella di un Dio immaginato in una deter- minata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette l’esistenza di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur non negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo diverso dall’unico per cui ci si possa dire teisti, in quanto il solo concepirlo diversamente ne implica la negazione? Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una valuta- zione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di una «ragione atea »; dunque, ai fini della validità dell’atei- smo stesso la domanda decisiva è una sola: è razionale una ragione atea? CapiroLo II L’ATEISMO PRATICO I. — Di alcune sue forme. L'’ateismo pratico non è autonomo e originario ma dipen- dente e derivato: ogni sua forma ne presuppone una di atei- smo teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è conseguenza della ragione atea. Perciò la sua validità di- pende da quella dell’ateismo teoretico, la cui confutazione implica inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. Vi è un ateismo, scrive Bossuet, « caché dans tous les coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on compte Dieu pour rien » ('). È l’attitudine di quanti vivono e orga- nizzano la propria vita come se Dio non esistesse; e non se ne « preoccupano » (”). Non ne negano in modo esplicito l’esi- stenza; vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano che Dio, esista o no, possa avere una qualsiasi efficacia va- lida sulla nostra condotta e aiutarci nella soluzione dei pro- blemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento sottostà una tacita convinzione: niente nel mondo cambie- (1) Pensées détachées, II. (2) E’ più una questione di indifferenza che d’ignoranza; a volte di pi- grizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale; infatti, di Dio sentono parlare e ne parlano, ma vivono egualmente come se non esistesse. Non si tratta soltanto di essere sopraffatti dalle passioni terrene o dall’urgenza della vita — il la- sciarsene sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi — nè dall’influenza dell'ambiente o dell'educazione: il fatto che se ne lasciano assimilare è prova che mancano di una vera esigenza religiosa ed implica una accettazione che è sempre, almeno implicitamente, frutto di una sia pure ele- mentare riflessione e di un atto volontario sia esso di mera acquiescenza. 16 Filosofia e Metafisica rebbe in bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la morte e tutto il corso dell’umana esistenza non muterebbero di segno: dunque che vale ammetterlo o preoccuparsi di risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragio- na in questo modo, di quale Dio non si preoccupa sa- pere se esista o no ed agisce, in privato ed in pubblico, come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso della vita; che è dire di un Dio che non è tale, anzi che è meno dell’uomo, il quale in un certo modo riesce ad in- fluire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi problemi. È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno teoretico, cioè del concepire Dio come non Dio, che è ne- garne l’esistenza; dunque, affinchè esso possa giustificarsi deve prima provare la validità razionale della negazione teo- retica su cui si fonda e da cui deriva. Vi è una forma di ateismo pratico più radicale ed oggi di moda: la vita non ha senso, è assurda; dunque Dio non esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso presuppone che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio ne- gare ogni senso alla vita e nello stesso tempo ammettere che Dio esiste — in tal caso si pensa ancora all'esistenza di un Dio che non è tale —; come non si può ammettere l’esistenza del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. La negazione non è una conseguenza del fatto che la vita non ha senso, ma la premessa teoretica da cui scaturisce l’atei- smo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce da questa affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice che la vita non ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già negato. « Dio non esiste » è la premessa, anche se taciuta od omessa, dell’altra proposizione «la vita non ha senso», dalla quale non consegue la negazione di Dio; quando la si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si formula solo in quanto si è negato. L'ateismo 17 L’ateismo pratico, anche in questo caso, è conseguenza di quello teoretico; dunque non è valido fino a quando non si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. Del resto, è nota la critica di Sartre all’« ateismo assurdi- sta » del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si autonega, in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie di razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; piuttosto che negare l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. Ma questa critica vale anche contro l’ateismo del Sartre. Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se attraverso il trionfo del giusto si manifestasse la loro giu- stizia; ma nelle cose del mondo avviene proprio il con- trario. Questa forma di ateismo pratico, presente in tutti i tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non credere nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiu- stizia è premiata e il bene sconfitto, dunque non esiste la divinità, o almeno tutto sta a provare il contrario; ammesso che esista, è impotente o malvagia. Questa forma di ateismo pratico è la semplificazione em- pirica di un problema metafisico di grande portata e preci- samente di quello del male e della sua origine: Si Deus est, unde malum? La presenza del male nel mondo è una delle cause principali dell’ateismo, come ci attesta la dolorosa esperienza del nostro e di tutti i tempi. La stessa missione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il Getsemani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte sta- rebbero a testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia sempre sconfitto dal male trionfante. (3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli dèi — tl del pe xopesetv — ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia è più potente della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra, 583). La stessa tesi è sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto i libri I e IM). 18 Filosofia e Metafisica Ma in che senso si dice che il male vince ed è premiato e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed è perseguitato. In altri termini, si esige che la giustizia di- vina si avveri in questa vita, qui si puniscano i cattivi e si premiino i buoni, qui si compia il destino dell’uomo; che questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esi- stenza nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad identificarsi tutta. Ma ciò implica la negazione di un’altra vita, dove si attua la piena giustizia divina, e la identifica- zione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presup- pone la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, del resto superflui una volta che nel mondo può trionfare la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità eterna. Infatti, se si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia as- soluta, è contraddittorio affermare che il male trionfa sem- pre ed è premiato; bisogna dire invece che, anche quel che sembra male è a fin di bene e la giustizia, anche se scon- fitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nel- l’altra; cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto che il male trionfa sulla terra e il giusto vi è perseguitato e punito non autorizza la conclusione negativa dell’esistenza di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica del- l’uomo che acutizza il problema, fa riflettere sul signi- ficato dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. Pertanto, la vera forma del ragionamento ateo non è: «vi è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto, dunque Dio non esiste », ma quest'altra: « Dio non esiste e non vi è una giustizia divina ultramondana, dunque il male è de- finitivamente vittorioso nel mondo e il bene sconfitto ». L’atei- smo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il problema: si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha ne- gato Dio, si pone in questi termini: « ammesso Dio, come si spiega il male?»; per chi Lo ha già negato, in questi al- L'ateismo 19 tri: «se nel mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste ». La conclusione solo in apparenza è tale; in realtà è la pre- messa: « Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e vi trionfa ». Infatti, se si nega un regno ultramondano ed ultraumano, il male è invincibile ed impossibile una giu- stizia perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio! Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha suc- cesso e il bene è perseguitato, è dare eccessiva importanza al giudizio degli uomini e attribuire valore assoluto a quel che il mondo può darci, altrimenti non si potrebbe conclu- dere a quella negazione, contraddittoria con la relatività del- l'umano giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spet- tarci; ma sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e i beni che possono dispensare o interdire, è già negare Dio. Basta convincersi che, meno le essenzialissime, le cose hanno solo l’importanza che attribuiamo loro, per non disperare di fronte al male premiato o al bene perseguitato e per rimettere ogni giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. Invece, la forma di ateismo pratico che stiamo discutendo importa la negazione radicale del cristiano Regnum Dei, della verità delle parole di Cristo: « Il mio Regno non è di questo mondo ». Conseguenza pratica di una posizione teo- retica immanentistica — non vi è un al di là trascendente, l’unica realtà è questo mondo — afferma che v'è solo il regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. Ma è un umanesimo ateo « disincantato »; non crede nella potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di felicità e dalla negazione teoretica di Dio conclude all’in- vincibilità del male e al suo trionfo tra gli uomini. Ciò prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni vali- dità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni con- tingenti, e non abbia più senso nemmeno essere onesti per sentirsi in pace con la coscienza. Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 20 Filosofia Metafisica dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra accennata, del- la vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a provare che il male è assolutamente invincibile e il bene soc- combente e crocifisso, non si sfugge a questa conclusione: Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è Suo Figlio, nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perse- guitato crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, nè Dio, convalida l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, nonostante le cose che ha detto del Padre, è stato un ateo tristissimo e sconsolato! Tali le conseguenze assurde di questo ateismo pratico che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è sem- pre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non esiste. Ma, daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di Dio si conclude che il male vince e il bene perde; altrimenti, se quella negazione non fosse presupposta, dall’insuccesso mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinun- zia, la sofferenza e la sconfitta terrena, quando sfida il mar- tirio, si assicura la vittoria, vince con e nel sacrificio di chi gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece, il male, apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momen- to che uccide il giusto, perchè vince come male, perchè costretto a commettere ingiustizia: è sconfitto proprio per il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come dice Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, nelle sue ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo la sconfitta di Filippi, giudica la virtù «un nome vano » e si uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e ne aveva sempre misurato il valore e il significato dall’even- tuale insuccesso o successo, anzi dal suo personale. (4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle « Opere com- plete ». L'ateismo 21 Vi è in quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia satanica: la pretesa che l’uomo faccia trionfare il bene e la giustizia con la sua opera, come se fosse egli il creatore e il garante dei valori. « Noi facciamo sempre come se aves- simo il compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo solamente quello di combattere per essa» (Pascal). Simil- mente il nostro dovere è di essere giusti al servizio della giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo compito è già ateo: affida a sè il trionfo del bene, non ce la fa, e conclude che se il bene perde e il male vince, non c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un « dunque » apparente perchè non è tale, ma la premessa del- l’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la vittoria o la sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, di pretendere che l’ordine divino si attui nel mondo e si iden- tifichi con quello umano, anzi sia lo stesso nostro ordine. Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto dif- fusa di ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere in Dio e ne negano l’esistenza in ogni loro azione, cioè agi- scono come se non Gli credessero, o non esistesse. Affermano di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il denaro; immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una specie di polizza di assicurazione, pagata con il tributo del culto esteriore, sicuri, con questo supplemento di comodità, di star bene in questa vita e meglio nell’altra. È l’ateismo pratico della Messa della domenica e del segno della Croce, magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pen- sando a qualche « buon affare ». Anche in questo caso, l’atei- smo pratico presuppone quello teoretico, in quanto la « fede » di questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e manca di ogni fondamento razionale; è pura consuetudine alimentata dal timore del « non si sa mai ». Vi è l’angoscia bruciante e tormentata dei « buoni » atei; vi è l’ateismo so- stanziale dei cattivi credenti. 22 Filosofia e Metafisica 2. — Inconsistenza dell’ateismo pratico. Come abbiamo detto, l’ateismo pratico non prova la nega- zione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal mo- mento pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esi- stes in realtà quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel mondo vince il male e perde il bene, dunque Dio non esi- ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e non la premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il male sono inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono inspiegabili appunto perchè Dio si è negato. Leopardi esorta gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare il peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sen- tono la vita come un peso assurdo solo se si presuppone che nessuno si cura di loro, cioè se si è già atei. Vana illu- sione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una comunità di disperati non può dare speranza ad un solo uomo! È evidente il sofisma dell’ateismo pratico: da una valutazione negativa del mondo conclude che Dio non esi- ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della seconda. La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se il mondo è fatto così) è in realtà la premessa di cui l’altra è la conseguenza. D’altra parte, come abbiamo accennato, se il male potesse essere sconfitto definitivamente in questo mondo e l’uomo realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una superiore giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene sarebbe risolto in questa vita e l’esito immanente della lotta, tutto in potere dell’uomo, renderebbe superfluo quello al di là di essa e dipendente da un intervento, che s'inserisce nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto di vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, proprio gli insuccessi del bene e l’incertezza dell’esito defi- nitivo del conflitto, sempre sospeso tra il bene e il male, fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia L'ateismo 23 divina trascendente e di una Provvidenza regolatrice della vita di ogni singolo e dell’ordine universale. L’ateismo pratico, inoltre, arriva a conclusioni opposte, ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione dell’esistenza di Dio e di una giustizia superiore conclude, come alcune odierne forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il male e la vita è miseria, assurdo, nulla; d’altro lato, dalle stesse negazioni, che, proprio liberandosi da quelle « super- stizioni », l’uomo realizza in terra la giustizia e la felicità perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: ab- battere il vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di una esistenza ultraterrena e ricostruire una società nuova, fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che, immancabil- mente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per ogni uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno di Dio si attuerà su questa terra in un futuro immancabile, di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo (5). Il mito illumini- stico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra forma e la spinta di nuovi problemi, come mito della futura « società omogenea », instauratrice del « nuovo » uomo marxista e del «nuovo » umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi- (5) Il d’HotsacH fa consistere la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi la glorificazione: vi sono atei più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi dei più turpi vizi; una società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe su- periore ad una cristiana; anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi mar- tiri. L'Ottocento, a sua volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, sal- dezza e coerenza morale, quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. Essere atei e onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di alte virtù civili — e ciò fino ad un certo punto è vero —, anche di grande nobile coraggio morale, quello di sfidare il nulla della morte e di sapersi reg- gere, torre che non crolla, sulle sole leggi immanenti della coscienza; e ciò non manca del ridicolo che accompagna ogni bravura, oltre che di un buon grado di infantile superbia ed ingenuità, quella di chi crede che, negato Dio, vi possa essere un'assoluta legge morale. Ottimistico ateismo « borghese » che il pessimistico ateismo « antiborghese » del ’900 ha distrutto con spietata coe- renza, anche se è riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. Ma già nell’antichità Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e fe- licità del saggio il liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle preoccupazioni dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esi- stenza degli dèi; li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza a cui l’uomo deve tendere. 24 Filosofia e Metafisica smo, una volta affidato all’uomo il compito di realizzare quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità di tradurre in atto le sue « disumane » aspirazioni, ritorni alla posizione dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di tutte le concezioni edoniste (9), le quali assolutizzano il rela- tivo — il piacere o l’utile economico, — che, come tale, può essere assoluto solo per un’arbitraria ed ingiustificata estra- polazione e per un depauperamento al minimo delle finalità dell’uomo. (6) Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci sbocca in un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il « persuaditor di morte » (merarddvatoc). Alla stessa dialettica ubbidiscono alcune teorie del « pia- cere » e del « dolore » del secolo XVIII. CapitoLo III L’ATEISMO TEORETICO I. — Schema delle sue principali forme. L’ateismo teoretico, presupposto da quello pratico, è un giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; dunque dovrebbe essere la conclusione di un processo raziona- le da certe premesse. Possiamo distinguere: a) ateismo dom- matico o negazione pura e semplice dell’esistenza di Dio; b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo, il quale nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne co- munque l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema del- l’esistenza di Dio, dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà insolubili, come la realtà del male e del dolore, per cui, quando si crede di averlo risolto, non si è risolto niente (!); c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razio- nali dell’esistenza di Dio — la posizione di Kant nella Cri- tica della Ragione pura — che tuttavia non è negata (ateismo attenuato), anzi la si ammette per esigenze morali: forma di fideismo, non religioso, ma come atto di fede razionale; d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, il panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esi- stenza, sono considerate atee per il modo come Lo concepi- scono. Certo, se come sostengono alcuni non può dirsi ateo chi ammette una realtà assoluta comunque concepita, non (1) Réponse aux questions d'un provincial, 1706, t. III, cap. LXXIV. 26 Filosofia e Metafisica vi è forse pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto di Dio risulta puramente verbale, cioè mancante di un con- tenuto proprio e avente quello che ogni filosofia gli attri- buisce. D'altra parte, l’« Assoluto» come è concepito da alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il ter- mine per qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la Materia o l'Energia cosmica intese come principio assoluto? l’hegeliano Assoluto « che si fa », o un Dio limitato? Inoltre, la nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pen- siero filosofico ma anche e soprattutto alla coscienza religiosa, deve soddisfare le esigenze della ragione e della fede. e) Atei- smo come negazione dell’altenazione religiosa o liberazione definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri integrali dell’uomo. 2. — L'’ateismo assoluto o dommatico. L’ateismo assoluto, negazione vera e propria dell’esistenza di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teo- retico. I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi l’ateismo, in questa accezione, è combattuto... proprio dagli atei, come quello che è una mera credenza: «credo ferma- (2) Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo aspetto alcuni so- fisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco Sisyphos, SExT., Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, p. 319 della IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a Teodoro, Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di Apollo- nia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che antichi re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri e pro- pri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici nega- tori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora so- stenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio, muovendo da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla forma dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è ritenuta « im- pensabile », « impossibile »: non si criticano le prove, si passa oltre, come di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo ateismo si può ri- portare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio, di Le Dantec): insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di Dio. Più che di una teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica; perciò di un «caso » da trattare in altra sede e non di un problema da discutere filosoficamente. L'ateismo 27 mente che Dio non esiste ». Di fronte ad una simile affer- mazione dommatica e « fideistica » non c’è che da scrollare le spalle fino a quando non venga trasformata in problema, in un interrogativo su cui portare la discussione. Le si può contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, quella del teista dommatico: «La mia impossibilità di provare che non c’è Dio, mi svela la sua esistenza» (La Bruyère). Per Voltaire questo ateismo è una forma di dommatismo «quasi sempre fatale alla virtù » al pari del fanatismo (*). In questo senso, ha a suo modo un'anima religiosa, quella propria dell’ateo che vive intensamente il suo problema reli- gioso, antitesi dell’« indifferente », che appartiene ad altra forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, di nuovo protestante e difensore dell’ateismo: il problema religioso lo interessò sempre profondamente. Come dice il Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia, c'è « maggiore affinità di spirito fra un religioso fervente e un ateo il quale viva appassionatamente la sua negazione o rassegnata o di- sperata, che non tra il primo e un credente per consuetu- dine...» (‘); lo stesso autore si considera ateo «per religione» : «...solo l’ateismo è puro e pio, solo l’ateismo è la grande vera religione » (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico che si spinge fino alla negazione di Dio (°). Come tale, a parte quanto vi può essere di positivo in un’anima sincera- mente tormentata, non è una posizione filosofica da discutere, ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il quale, più che essere confutato, va « smontato » come ogni « passione », dimostrando razionalmente vera la tesi teistica, che è ripor- tare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli non dimo- (3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., p. 45. (4) Rensi, Apologia dell’ateismo, p. 98. (5) Ivi, p. 101. (6) Anche nell’India moderna (prima metà del sec. XIX) abbiamo un esem- pio di ateismo assoluto, quello di BakHravar, autore del Sunisar (« Essenza del vuoto »), dove è esposta la « dottrina del vuoto » (sinyavada) o del Nulla. 28 Filosofia e Metafisica stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo A gr: ì puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. Intatti, chi crede nel proprio ateismo finisce sempre per ado- rare e temere qualche altra cosa, una forza della natura o la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato, lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo il sentimento religioso può deviare ma non si può estirpare e come, più che sull'esistenza di Dio, vi sia questione sul modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza contraddi- zione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. C'è una forma di ateismo assoluto non nuova, ma oggi di moda a causa della fortuna di un certo esistenzialismo che offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo ac- cennato, ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue sottilmente dall’ateismo assurdista del Camus. Il mondo è assurdo; se si potesse provare che Dio esiste, avrebbe un senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. Ateismo dommatico: muove dal presupposto che il mondo è assurdo e pretende contraddittoriamente che solo l’esistenza di Dio potrebbe dargli un senso; senza badare che quel pre- supposto implica, comporta e presuppone la sua negazione. Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di non concepirLo come l’Assurdo, che è parlare non di Lui ma di un’altra cosa, cioè avere una concezione assurda di (7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della religione: gli atei, i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una fantasticheria da donnicciuole, la dommatica un prodotto dell’immaginazione « fabulatrice » di menti bambine e immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura che il gatto nero che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella coscienza primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e perciò anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il con- tenuto, resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addot- trinato. Nel primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla co- scienza primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo svi- luppo mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dal- l’ateismo, trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la fede cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che sono anche le sue. L’ateismo 29 Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è assurdo, come si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche essa bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sa- rebbe. Ma evidentemente chi dice che, se si potesse provare l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe assurdo, ammette almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, altrimenti non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò stesso, che il mondo è assurdo. Ma tant'è, l’esistenzialista ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi si crogiola dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; si perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 3. — L’'agnosticismo. Nel pensiero moderno, specie con il positivismo e attra- verso le interpretazioni empiristiche e positiviste di Kant, l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley nel 1869 e di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò l’apologia (An Agnostic’ Apology) (*) è una delle forme più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine in opposi- zione a gnosi: « non saper nulla » intorno ad un argomento e trovarsi di fronte ad un problema insolubile. Più esplici- tamente lo Stephen: la conoscenza umana ha dei limiti e quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei limiti dell’umana conoscenza; dunque è un tessuto di chi- mere. Ma è necessario precisare quali sono questi limiti — per un positivista sono diversi da quelli segnati da un idea- lista e i limiti di entrambi differenti da quelli di uno scet- tico —; se la negazione o l’affermazione dell’esistenza di Dio cade dentro o al di fuori di essi; che cosa s'intende con la parola « teologia », dato che ve n’è una naturale o razio- nale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra (8) Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora: « quanto agli dèi, ignoro se sono o se non sono e quale aspetto abbiano » (Dros., IX, 51). 30 Filosofia e Metafisica fare queste distinzioni e perciò confonde ordine religioso ed ordine filosofico. Nessun filosofo teista ha contestato i limiti della cono- scenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della essenza di Dio; ma il problema che qui si discute non è quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua esistenza che non è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude che tale problema sia razionalmente solubile perchè muove da un suo modo di concepire i limiti della conoscenza; dunque la sua conclusione agnostica è un idolum theatri ine- rente al suo «sistema»: il problema dell’esistenza di Dio non è insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo è solo rispetto alla sua teoria della conoscenza, cioè è una questione interna della sua filosofia. Perciò è arbitrario dalla proposizione, « la conoscenza umana ha dei limiti », dedurre la conseguenza, « dunque non sappiamo se Dio esiste », in quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei suoi stessi limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei fenomeni sensibili; 2) si fa dell’esistenza di Dio un problema di pura fede; 3) si nega la possibilità di una conoscenza diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico, morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, di un sapere filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la negazione della stessa filosofia che, depauperata e depoten- ziata, è ridotta alla pura conoscenza scientifica o dei fatti fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti umani. Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Ha- milton, Mansel, ecc., fondatori di quello moderno, non si possono dire atei), molti che si dicono agnostici lo sono, come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile da esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini. L'affermazione, « al di là dei dati della nostra esperienza non sappiamo nulla », può trasformarsi facilmente, anche se L’ateismo 3 si dice cosa molta diversa, nell’altra; « al di là dei fatti della nostra esperienza ron esiste nulla » ("). In tal caso l’agno- sticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, in quanto, negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla conoscenza umana e si spinge ad un’affermazione ripugnante alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza contraddirsi, alla sua negazione esplicita ('°). D'altra parte, egli non può, proprio perchè agnostico, controbattere le critiche di quanti pretendono dimostrare la contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rap- porto con la concezione che se ne ha; per esempio, non può opporre nulla a chi sostiene (Strauss) che se Dio è infi- nito non può essere personale, perchè infinità e personalità si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se fosse onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi dice (Vacherot) che i due concetti di infinità e perfezione escludono l’esistenza, la quale non si addice a Dio, che è solo (9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris, 1900, p. 85. (10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy (Essay, London, 1898, t. I, p. 245) sarebbe «il peggio, se non fosse sorpas- sato dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che Dio non esiste ». La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè negare o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto l’ateo « n'est point un esprit véritablement émancipé; c'est encore, à sa ma- nière, un théologien; il a son explication sur l’essence des choses... » (E. Lit- tré, Paroles de philosophie positive, pp. 31-32). L’agnosticismo ha la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L. , per il quale Dio non è assolutamente concepibile come assoluto e infi- nito, in quanto l’« Assoluto non può essere concepito né come cosciente, né come incosciente, né come complesso né come semplice; non può essere definito né per mezzo di differenze, né per mezzo della loro assenza; non può essere iden- tificato con l’universo, né può essere distinto » (The Limits of rel. Thougt, p. 30). Ma tutto ciò riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel ag- giunge, per influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del no- stro spirito ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale credenza, oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dal- l’inconoscibilità dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due pro- blemi diversi; il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della ragione e fideismo puro; in definitiva, ateismo. 32 Filosofia e Metafisica un’Idea ("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai nostri giorni dal Carabellese, che identifica Dio con l’Og- getto puro della coscienza e taccia di ateismo coloro che lo considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad usi errati del termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è disarmato ed il suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur razionalmente agnostico, ha fede nell’esistenza di Dio viene a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere nell’Essere di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica con- traddizione: come fa a credere ancora stando in questo dubbio, quasi contro la ragione, o almeno senza che questa porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede, il pro- blema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano in- differenti e tacitamente opera dentro di sè il « salto» dog- matico dal « non so nulla » al « non esiste nulla » al di là dei dati dell’esperienza, spingendosi a un tacito ateismo teoretico e a un manifesto ateismo pratico. Sono possibili anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un (11) «Il perfetto non esiste »; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La métaphysique et la science (Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evo- lutivo di derivazione hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexan- drie del 46: l'evoluzione di Dio nel mondo è « progrès. continu de l’étre infime dà l'étre par excellence, de la matière è l’esprit pur, à l’intelligence » (t. III, p. 328). Ne La métaphysique et la science egli mette la teologia di fronte a un aut-aut perentorio: 0 un « Dieu parfait », 0 un «Dieu réel». « Le Dieu parfait n’est qu’un idéal; mais c'est encore, comme tel, le plus digne objet de la théologie: car, qui dit idéal, dit la plus haute et la plus pure vérité. Quant à Dieu réel, il vit, il se développe dans l’immensité de l'espace et dans l’éternité du temps; il nous apparaît sous la variété infinie des formes qui le manifestent: c'est le Cosmos » (t. II, p. 544). Successivamente (Nouveau spiritualisme, Paris, 1884) ammette un solo Dio reale, Essere universale e ne- cessario, Causa prima e Fine ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non perfetto, in quanto perfezione e realtà implicano contraddizione: l’idea del- l’Essere perfetto è solo un'idea, la più alta della mente umana. Ma il Vacherot non è mai riescito a dimostrare la contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, mentre è facile provare che proprio questa presunta contraddittorietà contraddice alla ragione. Infatti, egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di esperienza che tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere diversamente quando identifica « toute réalité » o tutto ciò che esiste con il « phénomène qui passe »? Dà una definizione empirica dell’esistenza in ogni ac- <ezione e poi trova che è incompatibile con la perfezione di Dio! L'ateismo 33 agnosticismo teoretico e, diciamo così, un teismo pratico: non so se Dio esiste, ma vivo come se esistesse. Quest'ultimo è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce in con- seguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in alcuni valori morali, a cui uniforma la sua condotta, affer- mati oggettivamente validi (rigorismo morale dogmatico e ateo), o rigorosamente rispettati pur nel convincimento che la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con rigorosa eticità laica) (12). Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo crede nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, alla quale però dà soltanto un valore prammatistico o rego- lativo, come alcuni modernisti, per esempio il Le Roy. L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui; d’altra parte legge che Dio « vuole » che si creda che è Padre onnipotente, Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto ciò. Evidente contraddizione: l’agnostico dice di non sapere niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è « volontà », cioè persona; quando afferma «Dio vuole che...» non è più agnostico tranne che non ammetta anche questo per pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non ad altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione può dire di Dio, il contenuto di qualsiasi formula teologica gli dovrebbe essere indifferente; se invece crede in una pro- posizione piuttosto che in un’altra, significa che una delle due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnostici- smo, in quanto ammette un fondamento razionale della fede. Più coerente Kant (La religione dentro i limiti della sola ragione) che non accetta la rivelazione e dà delle sue for- mule un’interpretazione puramente morale. L’agnostico, che afferma di non sapere niente di Dio — se esiste, o se non esiste — e nello stesso tempo Gli crede per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e (12) Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 34 Filosofia e Metafisica la religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. Ma non c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera reli- giosità può riempirsi indifferentemente di qualsiasi conte- nuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se non vuol con- traddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano: negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere ad una piuttosto che a un’altra, non gli resta che il fatto soggettivo del credere. D'altra parte, non può tener ferma neanche questa posizione ed è costretto a contraddirsi. Infatti, implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere chi è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea di Dio; ma se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qual- cosa di Lui in contraddizione con il suo agnosticismo. Anzi, stranamente, non è più agnostico circa il problema del « che cosa è » Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa l’altro del «se è» (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare così: « Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei. razional- mente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. », cioè ad am- mettere che ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire che non sa niente di Lui e della sua esistenza! Il solo pen- sarLo è già non essere agnostici; una volta pensato (l’agno- stico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, nei termini della Rivelazione), la questione non è se sia impossibile o contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, ma se sia contraddittorio pensarLo senza ammetterLo esi- stente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia già prova della sua esistenza per necessità razionale. A questo punto e prima di proseguire è opportuno pre- cisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1) impossibile provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 2) a fortiori nulla si può dire intorno alla Sua natura intrin- seca; 3) dunque i problemi dell’esistenza e natura di Dio, dato che Egli non è un fatto fisico nè un personaggio sto- L'ateismo 35 rico, non sono oggetto della scienza e della storia, che si occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non ha un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della pura fede, il cui contenuto ha solo una validità pratica o regolativa. Ma escludere Dio dalla scienza e dalla storia, da ogni atti- vità umana, significa pretendere che l’uomo possa attuare se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno di Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricor- rere a questa «ipotesi », sicuro di realizzare il suo ordine fino al compimento perfetto. Ma così l’agnosticismo con- traddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei limiti. Una delle due: o ha questi limiti e perciò stesso, insufficiente ad appagare l’uomo e le esigenze intrinseche «al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, tanto da estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta uma- na, e resta contraddetta la posizione dell’agnosticismo. Per- tanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può arrivare alla conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana ha dei limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. Infatti, se fosse perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti impediscono di provare la Sua esistenza, in quanto non so- no affatto segnati dall’esperienza sensoriale come l’agnosti- cismo pretende. D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano co- noscere e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quan- to il tentativo di costruire una scienza senza Dio Lo esclude fin dall’inizio: ateismo dommatico anche se mascherato. Più coerenti coloro che, come il Croce e il Brunschvicg, escluso Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è un pseudo-problema e la religione frutto dell’« immaginazio- ne », anche se il loro ateismo iniziale è solo presupposto e non dimostrato. 3% Filosofia e Metafisica In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè il principio su cui fonda il sapere non gli consente di ammetterLo se non come qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente che è solo oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una qual- che rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei fenomeni e delle loro leggi? Può identificarsi con essa tutto il sapere, anche quello filosofico? La fisica o altra scienza naturale hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi, ma ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza — mo- rale, artistica, filosofica — debba ridursi a questo modello, secondo l’affermazione arbitraria del positivismo e dello scientismo. L’agnosticismo metafisico e religioso è una con- seguenza del metodo e del sistema scientista: la scienza positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le loro leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio non è qualcosa di cui si possa avere esperienza positiva; dun- que niente si può dire di Lui, nè che è nè che non è, nè che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere alla conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, al- meno fino a quando non si sarà dimostrata la verità del sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ido- lum theatri: il sistema non consente che si ponga il pro- blema di Dio, dunque non si può porre. Sì, in quel sistema e relativamente ad esso; no, in un altro che riconosce i di- ritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si rifiuta di identificare l’essere con i fenomeni di esperienza senso- riale. L’agnostico, in questo caso positivista — nel dupli- ce senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di positivismo storicista o dei fatti umani — non riconosce i limiti del sistema; vittima del suo amor per esso, che non gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di Dio ed averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica o immaginaria, conclude che la sua esistenza è indimo- strabile e Dio l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha di- mostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo che qual-. L’ateismo 37 cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più agnosticismo! Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo positivista — senza o con il « neo» — è ateismo vero e proprio, almeno in pratica. Dall’« ignorare » se Dio esiste ricava la norma: « agisci come se non esistesse ». Dio è inconoscibile e inve- rificabile « scientificamente »; alla sua idea non corrisponde alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente natu- rale e sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, perchè il suo «accantonamento » non arreca impedimento alcuno all’« organizzazione » della nostra vita nel mondo — anzi la facilita — per la quale valgono solo « strumenti » e «tecniche », non interessa neppure se vere (altro pro- blema questo della verità da mettere da parte), purchè più valide rispetto ad altre, più efficacemente « operative » e ido- nee ad una vita sempre più tecnicamente organizzata, so- cialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola la tua vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come se Dio non esistesse, senza pensarvi. In breve: «ometti l’idea di Dio ». Per Comte, l’idea di « Umanità » col tem- po eliminerà « irrevocabilmente » quella di Dio: per altri tale eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progres- so, dalla futura « società comunista » ecc.; naturalmente, sempre e in ogni caso, con gran vantaggio degli uomini, che conseguiranno la vera felicità sulla terra. Ma quello teologico non è problema di felicità terrena; Dio non è chiamato a soddisfare bisogni materiali, ma ad appagare profonde esigenze spirituali; il suo problema si pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i pos- sibili bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffo- carlo si è costretti a sostenere che non ha importanza sa- pere se vi è una verità che dà senso alla vita dell’uomo e merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo mon- dani, economici, sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 38 Filosofia e Metafisica misura in cui è una tecnica, tante « tecniche » capaci di or- ganizzare fenomeni psicologici, sociali, giuridici, senza preoc- cuparsi se vi è un’anima personale, una verità comune acco- munante, un diritto perenne, ecc. D'altra parte, si afferma che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della no- stra maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in termini « antropologici » e «scientifici » i « miti» di Dio e di una beatitudine celeste. Dunque, da un lato, più che abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dal- l’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la umana esigenza religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insop- primibilità di quest’ultima e si creano «idoli» e «miti», si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo, intran- sigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si presenta come idolatria e mitologia dell'Umanità, della Scienza, del Progresso, della « Società » sempre migliore con questa o quella « democrazia »; alla teologia sostituisce un deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio discuterlo. Persino Bayle, il formulatore del « paradoxe », così lo chiama Voltaire ('*), che può esistere una società di atei, crede con Plutarco che è meglio non avere alcuna opi- nione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, non c’è peggiore « religione » di quella che divinizza valori mondani per fini terreni, in quanto si risolve sempre in una diabolica e rovinosa divinizzazione dell’umano o dell’infra- umano e scatena il fanatismo. 4. — Il fideismo come forma di agnosticismo. Non vi sono prove razionali od oggettive dell’esistenza di Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il fideismo, forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del (13) VoLtAIRE, op. cit., p. 39. (14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è l’occasion de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $ 118 della. Continuation. L'ateismo 39 protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di più di un secolo di agnosticismo filosofico e del convinci- mento che non è possibile una metafisica come scienza ra- zionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione non può dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la negazione; in quest’ultimo caso continua a credere contro, nonostante la ragione dica il contrario! Fideismo disperato, fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di Dio, mal- grado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello di molte pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo barocco e antipascaliano, razionalmente infondato almeno quanto l’ateismo dove rischia di sboccare, perchè è molto difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se la si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di essa, non soltanto si cessa di essere cristiani, ma si diventa senz'altro atei. Il fideista confonde due questioni che vanno tenute ben distinte: le ragioni o le prove razionali dell’esistenza di Dio e la fede propriamente detta, cioè l’adesione intellettuale e libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando addirittura non gliela contrappone quale nemica, come per esempio il Chestov) da non poter dare alla prima alcun fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario alla sua stessa essenza, come non è razionale ridurre tutto alla ragione: fideismo assoluto e assoluto razionalismo sono antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che è con- traddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, l’una e l’altra negazione della natura dell’uomo e dei suoi po- teri conoscitivi: l’ordine della fede è assicurato solo se « l’or- dine della ragione è conservato » (9). Il fideismo si dibatte in (15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, p. 30. 40 Filosofia e Metafisica una contraddizione teoretica, e anche vitale: è ateismo teo- retico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. Vi è ancora un fideismo non propriamente di carattere religioso (non fa dell’esistenza di Dio un atto di fede), non laico, nè riducibile senz’altro all’agnosticismo. Esso si fonda su una specie di «senso interiore» di Dio, tanto forte, universale e naturale da costituire una prova della sua esi- stenza, superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razio- nali, che sono pressochè superflue esercitazioni logiche; per questo « senso » l’uomo è chiamato irresistibilmente a Dio. « Io sento che Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. Tanto mi basta; ogni ragionamento è superfluo. Concludo che Dio esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia natura » (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo il quale Dio è una presenza, un’evidenza: « ...l’esistenza di Dio l’ho approfondita; non posso essere ateo, e perciò sono ri- condotto e trascinato nella mia religione, irrecusabil- mente » (!?). Tesi d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma non di Agostino e neppure di Pascal, in quanto nel primo vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso inte- riore di Dio è estremamente indicativo e attesta una disposi- zione ontologica, e non puramente psicologica, dell’uomo verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo, nè rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per la sua forza. In altri termini, non basta il senso interiore di Dio per provarne oggettivamente l’esistenza, in quanto da solo resta un dato soggettivo; è necessario approfondire la natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un elemento oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine di quel sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata oggettivamente, non dal senso di Dio stesso, ma da quell’ele- (16) Moralisti francesi, Milano, 1943, p. 67. Questa forma di fideismo ha avuto le sue espressioni più significative nel pensiero filosofico-religioso francese. (17) Ivi, p. 69. L’ateismo 4} mento oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua volta, non è un puro dato nozionale, ma un’Idea, direi, vita- lizzata, vissuta nell’interiorità di quel senso interiore, da essa illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che, per una esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza della ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’inte- riorismo che, forte del senso interno, vuol fare a meno della forza del ragionamento. Invece, è autenticamente agostiniana, perfettamente rispondente a quella del Rosmini e, dentro certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posi- zione che esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spi- rituale e illumina questa nella luce dell’Idea. Ma, anche presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio come evidenza dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non degeneri nell’ontologismo o nel panteismo. Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinun- ziare, è più pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che am- mette l’esistenza di Dio, razionalmente indimostrabile, per pure esigenze della volontà: la ragione teoretica è agnostica;. tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se Dio esi- stesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri termini: l’esistenza di Dio è un atto «soggettivo» della volontà rispondente alle sue esigenze profonde, ma non è una verità « oggettivamente » valida. Questa posizione kan- tiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai valori morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, mette in pericolo anche i valori spirituali (19). 5. — Il deismo. « Un deista è un uomo che non ha avuto ancora il tempo- di diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un certo (18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione kantiana, come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza, Sezione II di quest'opera. 42 Filosofia e Metafisica punto ha ragione, perchè il deista, in fondo, è un ateo che non vuol dirsi tale. D'origine italiana, il deismo, dopo essere passato in Fran- cia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò il clima che gli si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può chiamare deista, attraverso le forme molteplici che il deismo presenta nella storia del pensiero, la dottrina che nega ogni religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro ente di ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura o con la Natura stessa (in questo caso non si distingue dal panteismo), con il Principio o la Causa che regge e governa il mondo. In tal senso, si possono dire deisti nell’antichità Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Her- bert di Chirbury, Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il deismo è la manife- stazione più significativa, anche se non la più audace, dello spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onni- potente ragione; infatti, polemizza contro ogni religione positiva (cattolica, protestante, ebraica), contro ogni forma di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato anche «religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) am- mette solo quelle verità che si possono attingere e dimostrare con la sola ragione (esistenza di Dio, immortalità dell'anima, ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna, dove tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene ad identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea, istin- tiva, senza costrizioni e comandamenti. Religione, in un certo senso, facile, a cui la ragione aderisce senza sforzo, senza un superiore atto di fede, culti speciali, mortifica- zioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la (19) P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino, 1946, pp. 269-70. . L'ateismo 43 propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che Dio, pur così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel corso delle cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, liberatrice dall’ inquietudine del peccato, dall’ attesa della grazia, dall’incertezza della salvezza, da un giudizio divino. In breve, la religione deistica è la negazione del Cristiane- simo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarna- zione, del riscatto. Religione di un Dio lontano, che inter- viene raramente, fa comodo alla ragione, a cui serve per meglio assicurare la libertà e la potenza senza esserle mai d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio della fede: «attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il Bayle; « la differenza tra gli atei e deisti è quasi nulla » (?9). Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione di ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII e XVIII, allo scopo di liberare l’uomo dalla soggezione della Verità rivelata e della Chiesa. La scienza con Galilei e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il giu- snaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, l’empirismo e Kant, si costituiscono separate dalla religione, tenuta lontana da ogni forma di attività umana, che si pone autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si viene a negare la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione, soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’au- tonomia dell’uomo, anzi la conferma e completa: liberare la religione dalla religione, che comporta o la sua negazione, o la sua affermazione... contraddittoria (7). (20) P. Hazarp, op. cit., pp. 274; 275. (21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto, concorsero al nascere e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: «) la già detta tendenza di eman- cipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla Chiesa; 4) la reazione al gianseni- smo che assoggettava, fino a negarla, la volontà umana, colpita dal peccato e decaduta, alla grazia soprannaturale, imponeva un rigorismo esagerato e la rinun- zia al mondo, una concezione cupa della vita: c) il desiderio di far cessare le lotte religiose, che avevano insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro contenuto religioso) poteva dividere ed armare l'una contro l’altra le varie con- fessioni, donde il farsi strada del nuovo concetto di « tolleranza » e la polemica contro il « fanatismo » (il VoLtarrE, op. cit., p. 45, lo considera più funesto dell’ateismo); d) motivi politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi- 44 Filosofia e Metafisica Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla concezione che della Natura e della Legge universale ebbero la scienza e la filosofia dei secoli XVII e XVIII: Dio - Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e regge, Dio- Ordine della Natura sostituiscono il Dio cri- stiano rivelato, Padre, Creatore, Amore. La natura so- stituisce anche Cristo; è la « mediatrice » che, con la sua bontà, le sue provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela Dio agli uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, questa si autorivela attraverso l’uomo, quello del raziona- lismo moderno e dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che di essa scopre le leggi, l’ordine e le provvidenze, rapisce i segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di felicità, tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo si trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Na- tura), che, in ultima analisi, è divinizzazione dell’uomo, rivelatore dell’ordine e delle leggi che governano la Natura stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola, s’impossessa per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del Regnum hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. Una religione senza misteri per un'esistenza senza enig- mi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non è nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del Principe. Non è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività politica della Chiesa. come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed anche di ateismo. Vanno aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che, facendo conoscere nuovi costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità di alcune credenze e generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi, ai climi. Si imma- ginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è assurdo; si esaltano: repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di provare con il calcolo che la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così si dubita di tutto, meno di quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo del Locke è il sistema adatto. alla bisogna (cfr. P. Hazarp, op. cit., pp. 1} e sgg.; 21 e sgg.). Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo cristiano, ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano all’umano. sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che oltrepassa i dati dell'esperienza sensoriale (« affinchè io creda nell’esistenza di Dio, lasciatemi toc- carlo!» dice Diderot); l'elemento primario del reale è la materia e la coscienza uno. secondario da essa derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. far conoscere la natura e i suoi fenomeni. L'ateismo 45 tale, ma è filosofia atea al servizio di una vita facile, arbi- tra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non porsi problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive preoccupazioni religiose, di essere felice in questo mondo. Il deismo, in fondo, è più ateo dell’ateismo dichiarato: lo ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette per identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il sapere umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, mistero, dolore e male inspiegabili, il deista per ogni dove vede chiarezza ed evidenza razionali, felicità e bene; l’ateo è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è un con- tento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sa- pienza divina: quel che può sembrare un mistero, per lui, è soltanto una difficoltà provvisoria, che il progresso irre- sistibile della scienza supererà. Deisti ante litteram furono i « libertini », sempre pronti ad assimilare posizioni filosofiche anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali, ribelli, epi- curei, fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente edo- nisti, privi di senso metafisico, pronti a non prendere in considerazione i problemi difficili, ostici per la loro cultura da raffinati. Diventati deisti, «si chiamano per eccellenza gli esprits forts » (?), ma non cessano di essere superficiali, anche se alimentati ed incoraggiati dall’« ateismo », di ben altra tempra, dello Spinoza (*). Il Settecento deista e « razionale » è ingenuamente con- vinto che ilpassato sia un cumulo di assurdità e compito del nuovo secolo dei lumi quello di « scoprirne gli errori »; (22) Bavyce Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. (23) Esempio vistoso della fatuità di pensiero di alcuni tra i più rinomati deisti è John Toland, sul quale cfr. le belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp nell’op. cit., pp. 154-159; la superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata egregiamente dimostrata da M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: La vita, le opere e i tempi di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. Ci sembrano opportune e da meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca al vecchio Karamàzov: « sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per frivolezza che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... » (I fratelli Karamdzov, Milano, Corticelli, 1944, p. 147). 46 Filosofia e Metafisica errore principe da denunziare e abolire la religione cristiana e il suo Dio, sostegno della tirannide e strumento di op- pressione dei popoli, « superstizione » che ha impedito allo uomo di conoscere e mettere in opera le sue immense possi- bilità per il progresso individuale e sociale. Deisti e « liberi pensatori » non si domandano mai perchè per secoli e se- coli gli uomini abbiano creduto e la filosofia si sia sforzata di attingere una verità razionale non disforme da quella religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione. Orgogliosi, i « razionali » disprezzano i «religionari» (i due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non vi è rivelazione e non ve n’è bisogno; che nessuna fede religiosa è veritiera e necessaria; che Dio è lo stesso ordine della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in certo qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto la verità totale, costruito la scienza perfetta, dispensatrice agli uomini di felicità e liberatrice da ogni oscurità ed er- rore, dalle imposture dei frati. Così negano Dio senza nem- meno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo: « seguendo la ragione » — scrive uno dei «razionali» — «noi dipendiamo soltanto da noi stessi e diventiamo così in qualche modo degli dèi» (?); con la ragione e l’espe- rienza si scopre il « meccanismo » della natura e ci s’impos- sessa d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). Questi «liberi pensatori », incapaci di essere uomini che pensano in altezza e in profondità, si credono dèi. (24) Il Votare (0p. cit., p. 45), che pur riconosce alla religione positiva un valore sociale, la considera adatta per i bambini: «un catéchiste annonce Dieu aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». (25) Giusert, Histoire de Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da P. Hazarp, op. cit., p. 161). (26) Una pagina del Maritain (I/ significato dell’ateismo contemporanco, Brescia, Morcelliana, 1950, pp. 26-27) ben chiarisce il concetto di Dio del deismo, molto affine al panteismo: « Supponete ora una nozione puramente naturale di Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria, negasse l'abisso di libertà signi- . L’ateismo 47 Il deismo, frutto di un atteggiamento mentale spietata- mente spregiudicato e scettico tanto da mettere in dubbio tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del più acri- tico dommatismo razionale, della superficialità sistematica, della più ingenua fiducia nei poteri della conoscenza umana e nelle possibilità assolute della scienza. « Età barbara della filosofia », l’ Illuminismo non ebbe in generale sensibilità per i problemi religiosi e per la filosofia intesa come inda- gine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una volta che tutto il sapere è limitato a quello scientifico e i problemi essenziali messi da parte; formula un concetto mitico della « libertà » e si crea la superstizione della scien- za (?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illu- ficato dalla sua trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; supponete una nozione puramente razionale — e buffa — di Dio, che sia chiusa al soprannaturale e che renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, nella sua libertà e nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato al- ordine della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione di questo ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redi- merlo, e la cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si compiaccia e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del mondo, a tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano nella natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacri- fichi l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli innocenti faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei cieli eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cam- biato in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il grande Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria ter- restre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della nostra filo- sofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza, sicuramente il Dio di Hegel ». (27) Il deismo, strettamente legato alla massoneria per il suo atteggiamento anticlericale, antichiesastico e individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili il principio del libero pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della tradizione e da ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della vita (ateismo pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, d'altra parte, le « ragioni » individuali sono spesso discordi, la verità di un punto di vista va stabilita ed accettata secondo il parere della maggioranza. Democrazia e « sacra » libertà della coscienza governata dall’intelligenza, che è « sacrilegio » anche limitare, « culto della ragione umana » che s’inchina solo a se stessa, questa 48 Filosofia e Metafisica minismo pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, più grossolano di quello settecentesco; neo-positivismo di diverse tendenze, marxismo ortodosso e eretico, neo-empi- rismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, ne rinnovano la barbarie filosofica in un mondo che va verso la « civilizzazione » assoluta dell’uomo senza « umanità » e, dunque, senza « cultura ». 6. — Monismo e panteismo. a) Il monismo. - La forma di ateismo più dotta, filoso- fica e fino ad un certo punto più critica è il panteismo, dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo la nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il « razionalismo » del Settecento e poi per il laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione è Dio, la libertà dell’uomo un assioma; è « obbligatoria » (l’uomo ha il dovere di essere libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che non s’inchina a dogmi o a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se essa stessa ne riconosce la convenienza o la verità: salvare il postulato dell’assoluta libertà dell’assoluta ragione (e dire che i positivisti erano quasi tutti deterministi!) anche contro la ragione e l'evidenza. Per il laicismo massonico-positivista, di origini deiste e illu- ministe, « le bien inestimable » da custodire, conquistato dall'uomo contro i pre- giudizi e attraverso sofferenze e lotte, « c'est cette idée qu'il n'y a pas de vérité sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est que ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de l'esprit... c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un mensonge... ». Anche se si facesse visibile, « si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et de le considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que l'on subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in Diction. Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 1781-1782). La letteratura e i discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla religione della ragione abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità acritica e afilosofica veramente scoraggiante. Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non per l’ Essere assoluto trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne fa: essa merita rispetto come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale, ospitando Dio nel santuario della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La nuova «religione laica » è la « religione dell’irreligione », secondo una felice espressione del Guyau. Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto « monismo umanitario », a cui abbiamo accennato a proposito della « religion de l’humanité » del Comte (e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che dovrebbe sosti- tuire l'adorazione del Dio personale; e il « monismo sociologico » del Durkheim. L'’ateismo 49 uso del termine siano relativamente recenti (28). Non è facile distinguere il panteismo dal monismo; tuttavia, nei limiti del nostro argomento, li trattiamo distintamente. Il panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @) riduzione di Dio al mondo, il solo reale: Dio è l’unità di ciò che esiste, la somma delle parti; £) del mondo a Dio, del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di ema- nazioni senza realtà permanente, mancanti di una loro so- stanza distinta da quella divina. Nel primo caso, si nega Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il primo possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materia- lismo; il secondo acosmismo, che può essere intellettualista (Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.; il primo può identifi- carsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e pro- prio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno e l’altro rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre tutti gli esseri all'identità assoluta non solo logica ma anche ontologica; oppure: riportare la molteplicità degli enti alla unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due realtà di diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo è identico all’essere di Dio. Così l’esigenza legittima di uni- ficare il molteplice riportandolo a un unico principio, spinta oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose, per cui la molteplicità forma un «cosmo», conclude all’unità sostanziale delle cose stesse e del loro principio, senza più distinguere tra identità e analogia. Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà è l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche se è detto spirito, lo è come spirito del mondo, energia vitale o animata e perciò sempre di natura materiale. Tale panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama (28) Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola Panteist; il Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini «pan- teismo », « monismo » (coniato dal Wolff), « agnosticismo » appartengono tutti al vocabolario filosofico moderno. 50 Filosofia e Metafisica Dio lo stesso universo, s’identifica con il monismo natura- lista o materialista ed è senz’altro ateismo; infatti, dire che Dio è l’universo materiale è negare che esista e continuare ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chia- mare una realtà con un nome che ne significa un’altra. Nell’antichità è monismo materialista il panteismo stoico (?°) e nei tempi moderni, sotto l’influsso della teoria dell’evolu- zione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner e, più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si può chiamare quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Rey- mond, Spencer, Ardigò ecc. Per il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mon- do ed è il vero monismo assolutamente ateo, l’unica realtà è la natura o universo, per se stesso esistente e avente in sè la ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di ogni ente particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il mondo, ma vi è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si svolge e si spiega da, in e per se stesso; si fa Dio, è esso stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non significa nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la materia o qualcosa di materiale, originario e dotato di ener- gia vitale, che evolve da se stesso e per leggi proprie. Atei- smo puro che ha la pretesa di essere scientifico e, in realtà, non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno filosofico. Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui per evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una certa distinzione tra le cose e il loro principio unico, ma solo fenomenica e non di sostanza; 5) la sostanza o natura delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del- (29) Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, di natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le parti e la loro somma. Per Zenone, « l’universo ha due principi: uno passivo, la sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo pe- netra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose » (1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari, Laterza, 1932, p. 80). i L'ateismo 51 l’esistenza, del significato del processo e della diversità delle cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle leggi che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è po- sto e non vi è traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontolo- gicamente uno e si svolge per evoluzione progressiva. Ma che cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un embrione informe del mondo, una specie di materia-madre che i monisti chiamano in vari modi: «omogeneo» (Spencer), «indistinto » (Ardigò), «sostanza primitiva» (Haeckel); ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non accerta- bili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo materialista, come quello dello Haeckel, è una contamina- zione grossolana di materialismo evoluzionista e di spino- zismo. Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista: la nostra coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze in- telligenti sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il plu- ralismo degli enti non è solo fenomenico, ma sostanziale. Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità ontologica dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi è una realtà primitiva materiale da cui tutto procede per evo- luzione; 5) che, rivelatasi inesistente tale realtà primitiva, re- sta aperta la possibilità di provare razionalmente che il mon- do è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere è di altra natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per con- seguenza, non c'è un’unica realtà, ma due di diversa na- tura, la creata dipendente dalla creante: l’essere di Dio e quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la creazione, a differenza dell’ipotesi monista, si possono provare razional- mente; dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il mo- nismo risulta un'ipotesi falsa, nata da un passaggio erroneo: dall’esigenza legittima di ridurre la molteplicità delle cose all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente all’unità 52 Filosofia e Metafisica ontologica dell’essere reale (*°). D'altra parte, il materialismo o il naturalismo evoluzionista non possono e non potranno mai spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mi- stero inspiegabile. Dire che derivano per evoluzione dalla materia o che sono suoi epifenomeni (Marx) è non dir nien- te, è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione! Non per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno gros- solanamente acritico del monismo materialista, ateo per af- fermazione dommatica e, nello stesso tempo, incapace di dare al suo ateismo un fondamento scientifico e una spiegazione razionale. Dopo il tanto rumore della seconda metà del se- colo XIX e dei primi anni del nostro e la diffusione at- traverso la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è consi- derato definitivamente morto anche da scienziati e filosofi che non hanno preoccupazioni religiose. Morto come istanza filosofica, è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le masse attraverso il comunismo, non perchè abbia una ben- chè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i pro- blemi di ordine economico-sociale ai quali viene agganciato. In altri termini, è soltanto l’aspetto sociale del marxismo che conferisce forza ed attualità alle sue grossolane teorie « filo- sofiche ». Da ultimo, l’espressione « tutto è Dio » non ha più senso quando si ammette, come nel caso del monismo materialista e naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di un es- sere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il panteismo, per il significato essenziale del termine, importa sì l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito o Ragione, an- che se privo di coscienza ed impersonale, tanto è vero che fa del pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, pur non essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo- (30) Cfr. Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol. IMI, pp. 918-922. L'ateismo 53 re, sia anche solo «intellettuale »; dà l’ebrezza del divino immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo ma- terialista o naturalista, dove Dio è una pura espressione ver- bale: « tutto è Dio » viene ad identificarsi, perdendo il suo sostanziale significato, con l’espressione « tutto è materia » (5). b) Il panteismo e le sue forme. Vi è una forma anti- chissima di panteismo ricorrente e presente in tutte le epo- che e presso tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo pre- filosofico, primitivo, proprio di popoli agli inizi della spe- culazione, o di nature poetiche e mistiche abbandonate al fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed elaborazione critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso panteista: le forze cosmiche sono divinizzate, fatte oggetto di culto; nel politeismo già evoluto di Eschilo, Sofocle, Pin- (31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro dell’evoluzionismo e del dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e panteismo subiscono una trasfor- mazione profonda al punto che non vi sono reperibili. Infatti, il materialismo dialettico nega che vi sia comunque un'essenza di uomo o di altro, un ordine immutabile, una « materia » nel senso tradizionale: tutto è il risultato di situa- zioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto nel futuro potrà essere diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza del panteismo l'unificazione del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico e, in comune con il monismo, l’unità sostanziale degli enti. Pertanto, rigettato il concetto di ente e quelli di sostanzialità ed ordine, l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè monista nè panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in questo senso, è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. Per meglio far risaltare come nel monismo materialista, negati Dio e ogni realtà spirituale, la vita perda ogni significato che non sia quello biologico o economico, tutti i valori umani siano negati e l’esistenza diventi assurda, ripor- tiamo l’efficace descrizione che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa dei funerali del « filosofo » Spencer. « Ecco: io dico quel che ho letto. Morto lui, il suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al set- tentrione di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino di dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì ad aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e la cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro leva la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui, delle opere di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè negò nulla. Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per un’aperta di muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse ». 54 Filosofia e Metafisica daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità, identificate con le forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è gerarchizza- ta e unificata in un Dio supremo (Zeus « testa del mondo »). L’orfismo, con i suoi culti, le sue credenze nell’oltretomba e nella metempsicosi, è anch’esso una forma di panteismo pri- mitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dal- la divinità, attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così posseduto dal Dio da immedesimarsi con lui. Le forze vi- tali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura di- ventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione an- cora debole e fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da propiziarsi con riti, culti, preghiere, sacrifici. L'unità onto- logica del tutto, vissuta immediatamente e con sentimento spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o del- l'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della immedesimazione con le sue forze è ebrezza del divino, sen- timento vitale di comunione dell’uomo con la divinità e del- la divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che non è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le sue espressioni più spontanee e turgide nel primitivismo di popoli non ancora intellettualmente evoluti, o in quello di forti temperamenti mistici e poetici, che hanno esuberante il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi non cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanti- cismo germanico, alcuni scrittori contemporanei, soprattutto modernissimi, vibrano di potenti accenti panteistici, si sen- tono come immersi nella natura divinizzata. È quello che possiamo chiamare panteismo estetico: culto della « gran ma- dre Natura », che è «bella» anche quando è «orrida », Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora maestosamente rasserenatore in una pace solenne, infinita, immobile (il cielo stellato, l'orizzonte immenso e limpido . L'ateismo 55 da una vetta alpina ecc.). Ma questo panteismo, appunto perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o solamente poe- tico, non può essere oggetto del nostro discorso. Il panteismo che riconduce la natura a Dio non parte dal mondo, ma dall’Essere uno e necessario, che chiama Dio, Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazio- ne (Plotino), per deduzione necessaria e razionale (Spinoza), per posizione (Fichte), per movimento dialettico (Hegel), ecc. In tutte queste teorie, il mondo è identificato con Dio, per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso è una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; meglio, dovrebbe esserlo, se il panteista non avvertisse tale difficoltà e le contraddizioni insite nel sistema. Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due tesi che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità degli esseri all’unità ontologica di un unico ed identico Es- sere, per cui l’essere del mondo, emanante o procedente da Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è dunque « incate- nato » al mondo, il solo possibile, che da lui emana eterna- mente e necessariamente e a lui torna per identificarvisi, co- me le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella suc- cessiva (3°). Il mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; dunque l’essere del mondo è lo stesso di quello divino; d’al- (32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero: fusto, rami, foglie tutto trae vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che si rinnova identica a se stessa nell’unità della sostanza dal seme ai frutti. Essa è frequente nelle Enneadi ed ha avuto fortuna nella poesia romantica di Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.: « S'im- magini la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle radici » (Ern., I ,8, 10). 56 Filosofia e Metafisica tra parte, il panteismo non nega che il mondo è anche ma- teria o qualcosa che, non essendo spirito, non è della stessa natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il prin- cipio della identità del mondo con Dio, bisogna affermare l’identità dei contrari, che logicamente è non affermare nul- la. È la difficoltà in cui sembra incorrere il panteismo dello Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono due degli attributi dell’ «rica Sostanza o Dio o Natura; se la dualità è anche in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la Sostanza), ma due, irriducibili all’unità della Sostanza stes- sa; se questa è una, materia e spirito vi s'identificano e si afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà del- l’uno e dell’altro. Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; Plotino identifica la materia con il « non-essere », cioè con la zona oscura dove si spenge l’emanazione dell’Uno), con- sapevoli della difficoltà, distinguono tra natura emanata o posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito ema- nante o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e il mondo sono realmente distinti, due realtà, due nature, e non c’è panteismo; 2) o il mondo non si distingue real- mente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri ter- mini, o la distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’es- sere) e bisogna abbandonare la dottrina dell'Essere unico in cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione non è reale (univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo è pura apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo grado di realtà — concessione necessaria in ogni sistema panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio —, dato che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo ca- rattere materiale con quello spirituale di Dio, cioè due con- trari, identificazione che, oltre al resto, riesce ugualmente L’ateismo 57 alla negazione della realtà del mondo (*). Ma cerchiamo di approfondire meglio l’argomento (#). Posta la tesi fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere im- rta la unicità dell’Essere stesso, consegue che il molte- plice (gli enti particolari e finiti) o è l’Essere, o non è; dun- que, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si distin- gue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come di- stinto da esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta ed estrema del problema: «l’Essere è, il Non-essere [il molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evi- denza le insolubili aporie cui va incontro una dottrina del- l’Uno che nega i Molti, come quelle della tesi opposta dei Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro la tesi pan- teista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Es- sere senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è af- fermare senza dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; al contrario si dimostra, contro il panteismo, che tra l’Es- sere e il Non-essere è possibile la realtà di enti molteplici particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti non sono l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza (33) Tipico il panteismo dello Spinoza. L'unica sostanza — Dio-Natura — consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed infinita. Come la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero ed estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi in- finiti; perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le cose sono in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza universale del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua essenza si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. Questo il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma sua derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio non è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è con- cepito dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conse- guenza. Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso nè per la libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema dell'anima (amor Dei intellectualis). (34) Questa e altre tesi panteiste sono esaminate con fine acutezza da A. Va- LENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol., vol. III, pp. 1332 c ss., che in qualche punto teniamo presente. 55 Filosofia e Metafisica che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea dell’essere. Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora i panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, è alterità, il distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; dunque il mondo è necessario a Dio, il quale si fa, diviene, si rivela a se stesso, prende coscienza di sè attraverso di esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tede- sco, trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa (il Got im Werden dello Hegel) non è Dio, non è Spi- rito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si chiama col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista af- ferma che Dio senza il mondo sarebbe incosciente perchè la coscienza per cogliersi ha bisogno dell’altro da sè, non parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza finita dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, co- me tale, è sempre Coscienza in atto e perciò non neces- sita dell’altro. Similmente Egli è spirito perfetto senza bi- sogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe sempre spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non è mai Dio in nessun momento del suo divenire e dunque non esisterà come Dio; perciò è come dire che non è. È la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo passo della Gaia Scienza: « Dov'è Dio? Voglio dirvelo! L’abbia- mo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto! E noi l’abbiamo ucciso... ». Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando si argomenta che, se è infinito, non può essere che imperso- nale: chi dice persona dice limite e finitezza, ma Dio è infinito e senza limiti; dunque Dio è impersonale. Osser- viamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità; semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è un’astrazione (la Natura, l’Umanità ecc.). D'altra parte, la premessa è esatta se s'intende la persona finita, ma il con- L'’ateismo 59 cetto di persona umana non è l’unico possibile : Dio è per- sona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in modo analogo al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua tesi il panteismo considera l’infinità di Dio in un senso che Gli si addice veramente; infatti, concependo la persona solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa esserlo. Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza alcuna limitazione, e cadono le due prime tesi panteiste del Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per acquistare coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e infinito in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autori- velarsi a se stesso; o Dio non è infinito e perfetto in atto e allora, se tale, anche secondo l’uso ristretto che il pantei- smo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi pan- teista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo non in contraddizione con se stesso e dunque sostenibile razionalmente, è necessario mantenere e giustificare tutte e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito in atto e non Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e con ciò vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il mondo è Dio e Gli è necessario); o non è l’Infinito in atto e allora, anche nell’accezione panteista, si può concepirLo esistente come persona, e vien meno l’altra tesi essenziale al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, il panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; co- me tale, è razionalmente insostenibile (*). (35) Invece, così ragionano quanti negano a Dio la personalità: voi chia- mate personalità e coscienza ciò che avete imparato a conoscere in voi stessi con questi nomi; ma sapete anche che non vi è personalità e coscienza senza limitazione e finitudine; perciò attribuendo a Dio quei predicati, fate di lui un essere finito, uguale a voi e non avete pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi nel pensiero. Questo ragionamento del Fichte, il quale riduce il teismo ad antro- pomorfismo, critica un modo di chiamare Dio personale diverso da quello del testa; perciò non interessa il vero teismo e non ha alcuna validità contro di esso. (36) Osserviamo ancora che, anche ad accettarla per un momento, la tesi panteista che il mondo è necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. Se il mondo è necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 60 Filosofia e Metafisica 7. — L’umanesimo ateo. Con l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filo- sofie che si dicono atee perchè umaniste, entriamo nel vivo dell’ateismo contemporaneo nelle sue molteplici forme di de- rivazione materialista, illuminista e idealista, soprattutto hege- liana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli ta perdere il possesso di ciò che gli appartiene, gli impone un Altro; un maestro che gli insegna, o un rivale che gli contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio è la ne- gazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, frutto della sua immaginazione condizionata da situazioni storiche, aliena in lui quel che invece gli appartiene. Pertanto un umanesimo integrale ed autentico è possibile solo se l'uomo cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi diritti e poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il mo- mento religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attri- buisce a Dio. Questa forma di ateismo non è una novità del marxismo; apparenza, è assurdo dire che Dio esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; infatti, se il mondo è apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio è apparenza! Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non diversa però da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità dell'essere e con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csi- stere la realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per esistere Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è neces- saria la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto, « materia ». Come nasce la coscienza? Si riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del monismo materialista. Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo, emana- zionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè scienza, per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più noti, infatti, sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono quelle già da noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è antropomorfico); in realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente, ecc. (The Key to Theo- sophy, London, 1893, p. 44), ma solo Dio sa, se è tale, come può dirsi im- personale; 5) « Dio è tutto e tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a theosophist, London, 1891, p. 18) confondendo le due forme di panteismo, che noi, meno frettolosi, abbiamo distinto e discusso separatamente, i L'ateismo 61 già matura nell’Illuminismo, rappresenta solo una fase di quel processo di divinizzazione dell’umano, proprio del pensiero moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso l’alie- nazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e l’evoluzione storica dell'umanità risiedono precisamente nella graduale liberazione dalla « superstizione » religiosa, infanzia della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che noi acquistiamo dei nostri poteri. Per l’idealismo trascen- dentale, da Fichte a Gentile, l’uomo realizza la sua umanità piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che gli è immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del mo- mento religioso in quello filosofico e all’attuazione di quella assolutezza dalla religione attribuita a Dio e che, invece, è il pensiero stesso nel suo perenne divenire, nella conquistata consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il mate- rialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione dell’« umanità » sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo ateo assume uno spiccato carattere sociale: l’uomo acquista coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come vincolo di « fraternità », strumento di dominio della natura, potenziato dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia l’uomo rea- lizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. Al contrario, secondo un’altra forma di umanesimo ateo antisociale anarchico individualista, ma di un individuali- smo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua ma- turità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe e tiranno, crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio e tutto è sua « proprietà ». L’umanità esprime la sua po- tenza intera nell’« unico » (Stirner) o nel «superuomo » (Nietzsche), cioè quando oltrepassa se stessa, si pone al di là della « mediocrità » delle leggi, dello Stato, della morale ecc.; la pienezza dell’uomo è nella negazione dell’umano nel superumano del superuomo, usurpatore di tutto, con- 62 Filosofia e Metafisica quistatore dei suoi supremi diritti contro Dio, di cui de- creta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione re- ligiosa, vergogna del « gregge » dei deboli. Queste forme di ateismo, imperniate sul concetto di alienazione, nonostante le differenze a volte rilevanti, hanno in comune alcuni pre- supposti dogmaticamente assunti: 4) la religione è un gra- do, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione dell’uma- nità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha an- cora piena coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello che gli appartiene e attuerà in una fase più progredita del- la sua evoluzione; è) essa, per conseguenza, grado transi- torio del divenire storico, è destinata a scomparire quando tutti gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno ac- quistato consapevolezza di sè, cioè quando vi sarà un’uma- nità o una società nella piena maturità della sua evoluzione; c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che l’ideale umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori di sè ed entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà realizzato in se stesso con e nella sua opera; 4) fino a quando egli adora un Dio e si aliena in lui, è indizio che l’evolu- zione storica non ha raggiunto la sua completa attuazione e ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. Sul fondo comune della divinizzazione dell’umano — l’uomo al posto di Dio, l’« usurpatore » temporaneo desti- nato ad essere spodestato — l’umanesimo ateo si differenzia in forme diverse quando si tratta di stabilire in quale del- le sue attività l’uomo realizza il suo compimento: il Pro- gresso, la Scienza, la Filosofia, l’Umanità, la Società omo- genea, ecc. a volta a volta sono state additate come le nuove divinità della nuova «religione umanistica », la cui realizzazione farà sparire, relitto del passato, la « religione teologica ». La forma più vistosa, anche se teoreticamente me- no consistente, è quella marxista, sulla quale insistiamo in modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione L’ateismo 63 di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se stesso, sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro Dio e di rivoluzionare dalle fondamenta la scala dei valori. Mai ateismo è stato più negativo ed assoluto, apocalittico e messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma di vita. La cosidetta « sinistra hegeliana », pur accettando il dia- lettismo, opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non sono un’estrinsecazione dell’Idea, ma la sola e vera realtà, di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è l’uomo non come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo è un «corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, in- sieme di bisogni, che vuol soddisfare per realizzare la pro- pria felicità. Nel rapporto sociale egli acquista coscienza della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua questa coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esi- genza religiosa? Questa la domanda alla quale Feuerbach risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841). Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uo- mo infinitizzato; dunque, quando parla di Dio, parla del- l’uomo; basta scrivere «uomo» dove scrive « Dio» per restituire all'uomo stesso il suo autentico essere; pertanto, « il problema di Dio è il problema dell’uomo »; «il segreto della teologia è l’antropologia ». Così Feuerbach opera la « trasformazione del sacro » già implicita nel pensiero illu- minista e quasi esplicita nel Fichte e nello Hegel. La religione è un prodotto puramente umano: non po- tendo l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal bisogno, postula o pone un Essere illusorio, proiezione di se stesso come vorrebbe essere. La teologia non è che antro- pologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione del- l'immaginazione, è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 64 Filosofia e Metafisica Così nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad un altro la realizzazione dei valori, di scaricarsi di un com- pito. Se l’uomo acquista coscienza che quando pensa l’Infi- nito pensa e attesta l’infinito del suo pensiero, e quando lo sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se si fa consapevole che « nell’essere e nella coscienza della reli- gione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel suo essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che «egli inconsapevolmente e involontariamente crea Dio se- condo la propria immagine », si riprende quel che ha alienato e acquista coscienza che tutto il discorso su Dio non è che discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e so- miglianza. In altri termini: se il fatto religioso dipende da una particolare situazione umana e dura fino a quando essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di pensare a Dio e di essere religioso. Feuerbach, nonostante tutto, resta legato al vecchio ma- terialismo; il reale per lui è ancora l’« oggetto » sensibile, come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al suo predecessore. In breve, conserva residui intellettualistici, che Marx elimina con la riduzione del reale all’« attività sensibile umana » intesa come prassi: il rapporto uomo-na- tura è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo sensibile-realtà sensibile in funzione del lavoro umano; per- tanto, la dialettica deve scendere dal piano teoretico-idei- stico (Hegel) a quello pratico o « economico », anzi l’« eco- nomico », il « materiale », è l’unica « struttura » del processo, di cui le altre (morale, religione, arte, ecc.) sono solo « so- prastrutture ». La proprietà privata, autoalienazione dell’uo- mo, è una usurpazione o appropriazione della sua essenza da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, da un lato, con la soppressione positiva della vita umana alienata e di ogni altra alienazione conseguenza della pri- ma come la religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il di- L'’ateismo 65 ritto, ecc.j dall’altro, con il ritorno all’uomo come «essere sociale », con la riconquista del suo vero essere originario: l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha es- senza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto nella società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. In quest’ultima si compie l’integrale naturalismo dell’uomo e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hege- liana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quel- lo della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la dia- lettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società so- cialista. Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in rap- porto dialettico e la religione appartiene al momento del- l’alienazione o della proprietà privata, realizzata l’unità del- l’uomo con la natura nella società ed eliminata l’alienazione, la religione scompare da sola: l’ateismo è una constatazione, è o sarà un « fatto » della nuova società socialista. Amano a mano che l’uomo andrà costruendola e conquistando la sua libertà, sua opera esclusiva perchè la storia è soltanto opera dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà sparendo, anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, soprastruttura dell’alienazione. « Dal momento che la es- senzialità dell’uomo e della natura diventa praticamente sen- sibile » nel rapporto dialettico uomo-natura, diventa prati- camente impossibile anche il problema di un'essenza estra- nea superiore alla natura e all’uomo implicante l’ammissione della loro inessenzialità. « L’ateismo come negazione di que- sta inessenzialità non ha alcun senso, poichè esso è una ne- gazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dun- que, non c’è più bisogno della negazione di Dio e della reli- gione, l’ateismo diventa superfluo: l’autocoscienza positiva acquistata dall’uomo nella società socialista è la negazione 66 Filosofia e Metafisica della negazione, cioè dell’ateismo: non si tratta di soppri- mere la religione, perchè è già sparita, come non si tratta di sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri ter- mini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappre- sentano solo un momento necessario del processo di emanci- pazione dell’uomo alienato, della conquista della sua libertà, ma non il fine della società umana, che è l’attuazione della libertà dell’umanità. Questi e altri discorsi poggiano sul presupposto domma- tico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a cui Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva allo spirito. Così Marx riforma contemporaneamente la dia- lettica hegeliana e il concetto feuerbachiano di materia, ma la duplice operazione lascia intatto il presupposto materia- listico, anche se egli identifica la materia con la realtà eco- nomica, cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica zione alcuna, allo spirito. Certo, l’economia, come ogni altra attività umana è dialettica, ma è tale in quanto attività spirituale che, pur interessando il corpo, risponde sem- pre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dun- que interessa la persona nella sua integralità spirituale e cor- porea. Ma, a parte ciò, da un lato resta da dimostrare che la materia o l’economico sia il primum o il principioas- soluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata da un altro principio, altrimenti si fa un’affermazione dom- matica, come tale gratuita e filosoficamente ingiustificata; dall’altro, è da vedere come il marxismo intende lo spirito, il pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i neomar- xisti russi o di loro ispirazione, « materia » non è soltanto la realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; di essa, dato oggettivo indipendente dalla coscienza, que- st'ultima è solo «un elemento secondario derivato »; il pen- siero è un prodotto del cervello, che a sua volta lo è dell’evo- luzione della materia, per cui la dualità materia-spirito è una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività econo- L'ateismo 67 mica, primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente mate- riale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un elemento secondario derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e di tutta la realtà naturale; dunque, monismo materialista in edizione aggiornata, ma più scorretta di quella del vecchio materialismo, in quanto il neo-materialismo pretende di es- sere « dialettico », ragione di quello «storico », come se si potesse parlare di « dialettica» dove tutto è materia e niente spirito. L'espressione « materialismo dialettico » è una contraddizione nei termini e non è ragione di alcun « ma- terialismo storico », per il motivo inconfutabile che non c’è dialettica dove non c’è spirito e dove esso è concepito come un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo que- st’ultima che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, l’ateismo in una concezione monistica diventa una consta- tazione di fatto, ma non per le ragioni che adduce Marx, bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro, nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non c'è l’uomo nè Dio, non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa un dato inspiegato ed inspiegabile, gratuito; non resta che riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo ini- ziale monismo materialistico. D'altra parte, che senso ha parlare di uguaglianza e fra- ternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona è un puro prodotto naturale della materia, la risultante del- l'evoluzione materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, senza diritti extrasociali o anteriori alla società stessa? Marx ammazza la persona tre volte: nella materia, nella realtà economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta che non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha « alienato » la persona nella materia, negato lo spirito nella realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uo- mo dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire che l’idea di Dio e la religione sono la conseguenza della 68 Filosofia e Metafisica proprietà privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scom- parire, incubo plurimillenario, con la cessazione della causa «materiale » che le ha prodotte? Ma che aveva in testa l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? Superfluo insistere nel criticare una dottrina che, sotto l’aspetto filosofico — a parte la questione sociale — è così puerile e grossolana da non potersi chiamare nemmeno as- surda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei cavalli del Re d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo quando sostiene che gli uomini pensano a Dio perchè defrau- dati da una parte di quanto producono con il loro lavoro e che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la proprietà privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà pienamente realizzata la libertà dal bisogno, l’ideale perse- guito dall’inizio dei tempi e proiettato in un immaginario Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto marxista, come quello che si fonda sull’autosufficienza uma- na, rientra nel quadro più vasto del pensiero moderno lai- cista; non per nulla è figlio dello Hegel. Variano i modi di divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del marxismo non sfigura gran che al confronto di quella di altre dottrine. Solo che esso, invece di affidare il compito di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività nobili o dotte, lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri ateismi o laicismi non hanno da protestare contro il mar- xismo e da darsi una superiorità che è solo sciocca arro- ganza. Non è il caso d’insistere, perchè già incluse nella nostra esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, su quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio L'ateismo 69 aliena se stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non può non essere ateo. Nietzsche vien subito alla mente, ma le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per esempio, il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale del pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pen- siero in atto (Dio), bensì quello che è infinito progresso creativo; Dio s’identifica con la Ragione immanente. Se, in- vece, l’uomo ammette con la pura « immaginazione » un Dio trascendente aliena in Lui i poteri del pensiero, che è l’As- soluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè è assurdo: l’idea di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico di fare coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’en- Soi); è precisamente l’impossibile tentativo o di annullare l'oggetto nel puro soggetto o il soggetto nella pura oggetti- vità. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai esserlo per- chè Dio è assurdo; l’uomo è « una passione inutile ». Queste teorie concepiscono Dio come negazione dell’uo- mo; ma Dio non nega, eleva la natura umana ad un destino soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la sua idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alie- nazione religiosa « s’immaginano » un Dio alienante e poi concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, in definitiva, cosa aliena? Quello che compete alla sua na- tura, o quel che non gli appartiene? Secondo i teorici del- l'alienazione, proprio quello che non gli appartiene, essere Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che spetta a Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... ma come Dio, non come uomo. Non vi è, dunque, aliena- zione religiosa nè l’esistenza di Dio la comporta, se l’uo- mo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e non quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, lo aliena, lo fa escire fuori di sè, lo rende ridicolo, cari- catura di se stesso. CapitoLo V CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE La breve indagine storico-critica sull’ateismo e le sue forme fondamentali, condotta con animo aperto e dal punto di vista più favorevole, ci porta a concludere che, sia quello vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente tale o non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni dommatiche o razionalmente contraddittorie. Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende ad un qualche significato filosofico, esprime la fiducia che la ragione umana abbia la capacità di provare la sua affer- mazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato una simile prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il pro- blema pregiudiziale se la ragione abbia il potere di dimo- strare vero il suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si chiede neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni una simile negazione proprio in quanto è naturalmente indiriz- zata all’Essere, origine e fondamento di ogni verità e dello stesso lume razionale; l’ateismo dommatico, in questo senso, è contro la natura dell’uomo, contro la ragione. Per con- seguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla « passione »; è lo stato dell’insipiens, di colui che non sa L'ateismo ZI quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in cattività (1); condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e dunque filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non trova aiuti o sostegni nella scienza che non oltrepassa arbi- trariamente i suoi limiti — ma in tal caso gli aiuti sono ap- parenti perchè forniti da una scienza « apparente» — in quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche quella del Dio personale. Nessuna psicologia scientifica può distruggere la superiorità della coscienza e del pensiero e la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di Dio-Vo- lontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi pro- prio la scienza, se non «premeditata » e consapevole del suo oggetto e dei suoi limiti, può riconoscere la convenienza razionale del Dio-Persona. In conclusione, una ragione atea non è razionale nè ragionevole. Ma proprio quella convenienza nega l’agnostico, il quale dà torto all’ateo che pretende di « sapere » che Dio non esi- ste, ma lo dà anche al teista che presume di provarne l’esi- stenza; egli così non incorre nè nel possibile errore del primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo agnostico non nega e non afferma l’esistenza di Dio; /a ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone non hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se applicati a ciò di cui l’uomo può avere esperienza; ma dello Essere in sè non c’è esperienza e v'è solo « pensabilità »; dunque non c’è possibilità di pronunziarsi con un certo fondamento razionale sulla sua esistenza. Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è legata a quella del sistema, il quale non comporta che si affermi o si neghi l’esistenza di Dio; ma è vero il sistema? (I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la sottomette al suo ateismo, meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non lo convincono ma l’ateismo gli è comodo: « vuole » essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 72 Filosofia e Metafisica E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana è limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma per- chè, in partenza, si assegna alla filosofia come suo oggetto proprio il fenomeno o il fatto e non il valore e l’atto; si riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale igno- rando che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, quando non s’identifica superficialmente con i fenomeni psi- chici, attinge profondità metafisiche che danno evidenza razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma asse- gnare alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, è negare che ne abbia uno proprio, ridurla alla scienza o alla storia, di cui diventa una metodologia; dunque, si nega che l’esistenza di Dio è problema filosofico, perchè si nega che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In altri termini, il sistema che limita la conoscibilità al fatto e al fenomeno è una «filosofia » che si ferma «al di qua» della filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a filosofare sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! «Non nego e non affermo; ignoro se Dio esiste ». Lo agnostico che dice di « ignorare » Dio è ateo — di fatto lo è chi lo ignora — ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige di fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si ferma ad un certo punto. L’agnosticismo ateo è la rinunzia a pensare fino in fondo, il fermarsi alle cause penultime (scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica). Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente (2) Per citare un esempio recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, il Rensi, nella citata Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione su una concezione materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpre- tazione materialistica di Kant: « è soltanto ciò che può essere visto, toccato, per- cepito » (p. 15); Dio non può essere visto, toccato, percepito; Dio non è e pen- sare diversamente è « alienazione mentale » (p. 35). (3) In chi nega Dio o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una in- fluenza decisiva un motivo psicologico di ordine pratico: giustificare la propria condotta di vita. Gli « spiriti forti » sono spesso di una estrema debolezza: « fan- no i bravi con Dio », secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libe- L'ateismo 73 è il non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinun- zia alla bellezza del « rischio » metafisico; è un « fermarsi », in contraddizione con la «spinta » della ragione e perciò non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal al non pensare fino in fondo — « Athéisme. marque de force d’esprit, mais jusqu’à un certain degré seulement » (*) — a metà: «Les athées doivent dire des choses parfaitement claires » (*). Ma proprio di chiarezza mancano: presentano come chiara una conclusione che non lo è, per esaurito e definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di convincersi dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche difficoltà per persuadersi del contrario ("). La ragione può rifiutarsi di andare fino in fondo solo facendo violenza a se stessa, facendosi schiava di interessi non razionali, misti- ficandosi, autocontraddicendosi (°). Tuttavia, a parte queste obiezioni, resta valida la pre- giudiziale « critica » sulla capacità della ragione di fondare rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi spirituali, della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si nasconde l’attacca- mento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la ragione a servizio di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e scuse fino a quando non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e l’agnosticismo ateo (« si vuole » ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono da un fondo di immoralità. Certo non sono mancati e non mancano atei onesti e modelli di virtù morali; ma non di rado l’onestà di questi « galantuomini » dai costumi impeccabili è sata- nica: virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i valori con la loro stessa persona, ne fanno una « posizione dell’io » da mantenere e rispettare anche fino al sacrificio di sè... a se stessi. (4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5; « Certissimum est, atque experientia comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in atheismum, sed pleniores haustus ad religionem reducere ». (5) Pensées, Sect. III, 225, ed. Brunschvicg.(6) Ivi, Sect. HI, 221. (7) Come è stato osservato (Piar, in « Revue pratique d’apologétique », 15 gennaio 1907, p. 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia spesa per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, precisa e solida delle teodicee. (8) VoLtaire (op. cit., p. 43), non certo sospetto di eccessiva pietà religiosa, scrive: « les athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e gli « ambiziosi », i « voluptueux », aggiunge argutamente, « n’ont guére le temps de raisonner... ». 74 Filosofia e Metafisica una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma farla valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha il diritto di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare che questa esperienza, alla quale la si vuol costringere e limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla. Tale istanza non può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo, ap- punto perchè spinge la «critica » al limite del suo sviluppo più esigente. Ma ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non im- plica di necessità concepirlo come l’Essere trascendente e personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo già di- scusso e confutato le dottrine che concepiscono Dio come Ente impersonale e dimostrato la loro contraddittorietà : hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è, ma è « Forza », « Causa », « Legge naturale », « Natura » : in que- sti casi Dio è una parola senza contenuto, o con uno diverso. Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo e il pan- teismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e ateismo sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, o si nega Dio e si abbia la franchezza di dirlo accettando l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega e allora si parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea, Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è Dio, « ma solo una parola mal adoperata, un non-concetto, una contradictio in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si riconosce la ne- cessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo Essere intelligente e volente, Persona, con cui gli enti creati sono in rapporto di analogia e non di univocità o iden- tità. Questo indica il termine; qualsiasi altro uso è spurio e fa che il teismo diventi puramente verbale. Da ultimo, notiamo che Dio, oltre che una verità razio- nale, è innanzi tutto una verità religiosa, rispondente a una esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la ragione è chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto L'ateismo 75 o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e personale. Dire che Dio è verità razionale non deve signi- ficare depauperazione della Sua idea al punto di farne una pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la ragione è chiamata a dare fondamento razio- nale al Dio della religione, non a dimostrare l’esistenza di un ente, che soddisfa solo pure esigenze intellettuali della ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle reli- giose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, dallo stato ingenuo o d’immaginazione, vengono elevate a quello critico o di scientificità. Visto così il problema, quanti dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso morale o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, adorano, amano. D'altra parte, se diamo a quello che chia- mano Dio il senso vero che ha la parola, con tutto il ri- spetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a pensare che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, ecc.; scoppia perchè si fa rappresentare a questi concetti una parte che non si addice loro, e al tempo stesso si rifiuta la religione per accettare l’idolatria. Non è stato forse ridi- colo il Comte con la sua «religione dell'Umanità »; chi si è fatto sacerdote della «religione della libertà »; quel tale adoratore della Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione dell’ 89 dichiarò di essere «l’ennemi personnel de Jesus Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che «la verità è il Partito» e basti realizzare una società socialmente ed economicamente perfetta perchè si estingua nel cuore dello uomo l’esigenza religiosa nella riconquistata coscienza che Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo aperto o mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 76 Filosofia e Metafisica grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non hanno il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione sincera, che meritano comprensione e rispetto (7). (9) Nota bibliografica: P. Bayle, Pensées diverses écrites è un docteur de Sorbonne è l’occa- sion de la comète qui part au moins de décembre 1680, Rotterdam, 1721, voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., pp. 35-45; L. SrerHen, An Agnostic’s Apology, London, 1876; Huxrey, Essays, London, 1898; F. Le Dantec, L’Athéisme, Paris, 1907; F. MANTHNER, Der Atheismus und seine Geschichte in Abendlande, Stoccarda e Berlino, 1922-23, voll. 4; G. Richarp, L’athéisme dogmatique, Paris, 1923; R. Fuint, Antitheistic Theories, Edimburgo, 1917, IX ediz.; A. B. DrocHmann, Atheism in Pagan Antiquity, London, 1922; G. Rensi, Apologia dell’ateismo, Roma, Formiggini, 1925; P. CaraseLLEsE, I/ problema teologico come filosofia, Roma, Bardi, 1931; P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, traduz. ital., Torino, Einaudi, 1946; J. P. SARTRE, L’Etre et le Néant, Paris, 1943; H. DE Lusac, I/ dramma dell’uma- nesimo ateo, trad. ital., Brescia, Morcelliana, 1949; M. F. Sciacca, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia, Morcelliana, 3* ediz., 1953; Interiorità oggettiva, Milano, Marzorati, 2* ediz., 1961; Atto e essere, ivi, 3* ediz., 1961; L. BrunscHvice, De /a vraie et de la fausse conversion, suivi de la querelle de l’athéisme, Paris, Presses Univer. de France, 1951; J. MARITAIN, /l significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia, Morcelliana,, 1950; H. Dumfry, De /’athéisme contemporain, «Nouvelle Revue théolo- gique », n. 4, 1949, pp. 367-374; E. Ripeau, Paganisme ou christianisme? Etude sur l’athéisme moderne, Paris-Tournai, 1953; F. LomsarpIi, L. Fewerbach, Firenze, La Nuova Italia, 1935; H. Arvon, L. Feuerbach ou la transformation du sacré, Paris, Presses Univ. de France, 1957; F. N. OLESscHISscHUK, Atheismus, Berlino, 1955; J. Y. Carvez, La pensée de K. Marx, Paris, Éditions du Seuil, 1956; L’athéisme contemporain, Genève, Éditions Labor et Fides, 1956; M. Buser,. L'eclissi di Dio, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; E. Borne, Diew n'est pas mort. Essas sur l’athéisme contemporain, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1956. Inoltre: Athdism di vari Autori; Hastincs, Encyclopaedia of Religion and Ethics, vol. I; Athéisme, « Vocabulaire technique et critique de la philosophie » a cura di A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I; Francx, Dictionnaire des scien- ces philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, « Enciclopedia italiana », vol. II; Agnosti- cisme, Athéisme, Panthéisme, « Dictionnaire apologétique de la foi catholique »,. Paris, Beauchesne, 1925, vol. I e vol. II. Parte TERZA ATEISMO E TEISMO SEZIONE SECONDA L’ESISTENZA DI DIO CaritoLo I POSIZIONE DEL PROBLEMA E I «DATI REALI» DELL'IPOTESI «DIO » I. — Definizione nominale di Dio e fondamento razionale dell’ipotesi. Assumiamo l’esistenza di Dio come un'ipotesi, ma, anche a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razio- nalmente fondata l’ipotesi (1). Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, per- chè tale, esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, quando gli uomini pensano pronunziano scrivono il termine «Dio» gli danno un certo significato, anche se con sfu- mature diverse e con un senso ammettiamo pure non sem- pre univoco. Tuttavia, quale che sia il grado di equivocità (1) Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema sconcerterà quan- ti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede, contestano che si possa persino parlare di « problema » dell’esistenza di Dio, tanto per loro tale verità è fuori discussione. Osservo: 4) non tutti gli uomini si trovano in questa condizione; 5) l’esistenza di Dio per noi non è, di primo acchito, un’evidenza; c) la fede non è «del tutto » oggettivabile, vale per chi la possiede, ma da sola non è un argomento per convincere chi ne è privo che Dio esiste; pertanto, a chi non crede nella Sua esistenza è necessario, anche se non sufficiente, provare che l'affermazione « Dio esiste » è una verità, cioè una proposizione valida per ogni essere razionale. D'altra parte, come ho accennato sopra, la fede ha un grado non trascurabile di oggettivabilità; infatti, chi ha fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed intensa vita religiosa, è portatore — agito ed agente ad un tempo — di questa verità; in tal senso, con il suo pensiero e la sua azione, con la « parola » e le opere, ne è la « testimonianza ». La potenza penetrante del suo « esempio », che incarna una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e comunica- 80 Filosofia e Metafisica nell’uso del termine, chi afferma o chi nega che esiste Dio, come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che cosa afferma, nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la for- mulazione di un'ipotesi è possibile sulla base di alcuni dati reali che si cerca di spiegare, ma che non lo sono ancora: appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se pro- vata, si assume come verità oggettivamente valida. Quali sono i dati reali che autorizzano l’essere razionale a porre l’ipotesi « Dio »? L’uomo e il mondo, la realtà esi- stente, in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto la riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto inserito in un universo di altri enti materiali, di organismi fisici; di altri enti che, come me, oltre alla vita organica, ne hanno una morale, cioè la libertà di orientare con responsabilità la propria condotta; dunque, sul piano fisico e su quello morale, mi avverto in relazione con tutti gli enti dell’uni- verso, da essi influenzato e su di essi influente. Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un gro- viglio di problemi essenziali. So di non essere sempre esi- stito, almeno nel modo in cui esisto e posso esistere nel mon- do; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa in esso esistente; dunque, tutte le cose che sono non sono sem- pre state, nè saranno sempre: domani non sarò, tutti gli es- tiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione, suscitare il problema, sbloc- care il pensiero, mettere in moto la volontà e attizzarne lo slancio, spingere la ragione a realizzare tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’« altezza » di dimostrare. Non dà convincimento razionale, ma genera una condizione psico- logica, che è più di una semplice « situazione »: stimola a chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella « forza » che « dà forza » alla ragione, o meglio la mette nella condizione di sviluppare la sua forza totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al problema non significa che esso sia puramente di tale natura, ma soltanto che vogliamo concedere il massimo all’istanza critica; anche lo stesso termine « problema » è da noi inteso in un senso particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che non c'è ragione al livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è fede senza ragione; dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto senza la ragione non si salva la fede, che, come fede di un essere razionale, non può essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare. L'esistenza di Dio 81 seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna cosa ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La con- tingenza e la temporalità della mia esistenza e di ogni esi- stente in questo mondo è un fatto di esperienza; inizio e limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E allora, donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; dove vado? Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? o «passo» soltanto, transito, per una destinazione che è la finalità suprema della mia esistenza? Sono contingenza e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo mi fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche se mi eleva, non fa che sia esente da miseria e dolore. D'altra parte, proprio l’essere un ente cosciente, pen- sante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, donde la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere principio di quel che materia non è e di cui essa è priva, nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua evoluzione, per- chè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mon- do? Se penso, penso pure qualcosa, oggetto del mio pen- siero; dunque penso qualcosa che è vero, in quanto pen- siero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son io, contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era prima che entrassi nel mondo e lo sarà anche quando ne sarò escito? Nella natura vi è un ordine intrinseco cui ubbi- disce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; vi è come un segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. Nè la mia volontà è arbitrio cieco: mi conduco nella vita secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad esse mi sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? Della mia condotta mi sento responsabile, anche quando sem- bra che l’ambiente mi domini fino al punto da fare appa- rire la mia azione la risultante necessaria della sua influenza 82 Filosofia e Metafisica determinante; responsabile appunto di non avere saputo rea- gire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ? In breve, l’esistente contingente limitato finito è consa- pevole, in quanto essere razionale, che vi è nel mondo natu- rale un ordine che lo governa e in lui un ordine di pen- siero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e non precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua esistenza; dunque, io contingente e finito — ed ogni cosa — «esisto » in quanto partecipo dell’« essere », perchè « sono » in questa partecipazione, altrimenti non sarei affatto. A_ que- sto punto: 4) ogni esistente contingente e finito non è il « principio » di se stesso, quantunque sia la « causa » di ogni atto della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-con- tingente in lui contingente, quantunque sia la causa di quanto pensi ed operi in conformità di esso. Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente ipotesi: esiste un Essere o un Principio intelligente — altri- menti non potrebbe essere principio di me « persona », sog- getto intelligente e volente e di quante persone sono state, sono e saranno —; trascendente — se no sarebbe natura ocosmo —; esistente da sè — altrimenti sarebbe un ente con- tingente, 46 aglio —, cioè ipsum esse subsistens, e perciò per- fettissimo, Principio assoluto di tutte le cose, dell’ordine del pensiero e della volontà come di quello della natura, sor- gente di ogni esistenza e Provvidenza governante quanto fa esistere? È l'ipotesi Dio. Vi è dunque una reale condizione umana, e del mondo su cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza del- l’Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e provvi- dente, a cui si dà il nome di Dio; eliminabile solo nel caso che fosse possibile dimostrare la non-contingenza di ogni singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità, dare una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e fisica da renderla « superflua »; in altri termini, solo se si L'esistenza di Dio 83 dimostra razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, è autosufficiente, metafisicamente autonomo ed indipenden- te, fondamento assoluto di sè a se stesso. Ma se così fosse — il fatto che dei filosofi lo abbiano «immaginato » non è una soluzione razionalmente valida — l’ipotesi « Dio» non sarebbe mai nata (?). Si può anche « sospendere » 0 met- terla da parte assieme ai problemi che sempre la fanno e la faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia alla suprema conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei pro- blemi radicali non solo della filosofia, ma anche della più ingenua coscienza umana e direi del più elementare senso comune, dove pure quei problemi sono presenti. Posizione, dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilo- sofica, quale è quella di un sapere puramente empirico ed anche scientifico nel senso delle scienze naturali; positivismo, quali che siano le sue sfumature o camuffamenti, anche quando si chiama « filosofia dello spirito » 0 « storicismo », pretesa risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scien- ze, del «valore» nei « fatti» o nelle «opere », del « per- chè » nel «come ». Ma la ricerca speculativa comincia pre- cisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi del sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, sono ben lungi dal poter risolvere in sè la filosofia, che li oltrepassa e nella quale, da ultimo, trova fondamento la (2) Risulta senza fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa esistente è contingente e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità è necessario ed eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € sempre sarà così com'è, pur divenendo — nascono, crescono e muoiono — gli esseri particolari. Chi così pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una metafisica puramente naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il problema « primo » della « filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le « cause del divenire », ma non si pone la questione del suo « principio » e delle sue stesse cause immanenti; oppure confonde la « sufficienza » del mondo — ha in se stesso le cause che lo governano — con la sua « autosufficienza »: ha in sè il principio da cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi « Dio » diventa super- flua; ma tale « irreale » assolutizzazione è un'estrapolazione arbitraria del concetto di sufficienza del mondo, o una limitazione del problema al naturalistico e scien- tifico «come », che non è ancora il problema metafisico e filosofico del « perchè ». 84 Filosofia e Metafisica loro stessa validità conosativa (*). Per conseguenza, anche la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipo- tesi « Dio », che pertanto risulta ineliminabile e razional- mente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che ra- zionalmente provata. Se l’ipotesi « Dio » non è eliminabile, in quanto ogni ente e il mondo nella sua totalità non risultano metafisica- mente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscien- za dei nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che nasca dalla « mancanza », da ciò che « non siamo », quasi dal nostro « non-essere », in quanto ciò che non è non è e non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro « essere », cioè dalla nostra realtà relativa e contingente, ma sempre « realtà »; dalla nostra condizione di esseri reali, sufficienti nei limiti del nostro essere umano, ma non auto- sufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di dipen- denza di una realtà — noi e il mondo — da un'altra Realtà « possibile » fino a quando siamo ancora nell’ipotesi; in bre- ve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di partecipare dell’essere. Una « filosofia dell’esistenza », nel- la quale quest’ultima è una « possibilità » fuori dell’essere, è semplicemente una filosofia del nulla e il nulla della filo- sofia. 2. — Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando si pone l'ipotesi « Dio ». Non di un essere « qualunque », in quanto i dati reali da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione dell’esistenza di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: (3) Sospendere l’ipotesi « Dio », come vedremo a suo luogo, è proiettare ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori dell'essere, gettarli nella pura empiricità, privarli della loro onticità; è fermarsi al mero fenomenico, alla esi- stenzialità priva di essere, che è il nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, im- plica l’essere, senza di cui non è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non esterno, all’ente pensante; anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, di più. L'esistenza di Dio 85 a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, es- senza dell’uomo, e dunque dell’ordine di verità e di bene che è in lui e lo rende capace di conoscere e volere, di pen- sare il vero e di agire secondo una legge morale, di libertà e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. Meraviglia e stupore l’ordine dell’universo, che non riescia- mo interamente a « comprendere » nell’orizzonte della no- stra mente; stupore una mente che pensa, la complessità del- la più semplice sensazione, la capacità di scoprire una ve- rità, di agire liberamente secondo una legge; meraviglia e stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il « mostro » uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere che poniamo come ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore a quanto è chiamato a spiegare, altrimenti apparterrebbe al- l’ordine umano e naturale, sarebbe una realtà da spiegare come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltre- passano per la loro enigmaticità il mondo umano e quello naturale, che pur non bastano a se stessi e dunque mancano di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa infinitamente l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto e che non può non essere di ordine diverso. Di un ordine appunto trascendente e soprannaturale e perciò impossibile, per la nostra mente, nell’ordine naturale, a penetrarsi nella sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mez- zo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa cono- scere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale ed umano rimanda al Mistero Divino. D'altra parte, la definizione no- minale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esi- stente da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acqui- stare una più netta coscienza della finitezza nostra e di ogni cosa, dei nostri limiti e della nostra insufficienza; in breve, della nostra dipendenza essenziale dall’Essere per ora ipote- 86 Filosofia e Metafisica ticamente posto. Di fronte a Dio, infatti, la creatura si sente « niente »; l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad anni- chilirsi, senza che tuttavia perda la consapevolezza inequi- vocabile che anch’essa è essere che vive, sente, pensa e vuole nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto dell’Essere, secondo un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte centu- plicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi nell'azione operosa e molteplice. Appare evidente che il « problema umano » di una pos- sibile esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di « pro- blema filosofico » nascente dalla riflessione sulla condizione dell’uomo e del mondo, non discordano da quelli in cui si esprime la « coscienza religiosa » quando onora, prega, ado- ra Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente diversi, nell’unico dato alla parola « Dio », che univocamente esprime la posizione umana del problema, la riflessione filo- sofica su di esso e l’esperienza o la vita religiosa. Pertanto la. dimostrazione razionale, se possibile, dell’ipotesi « Dio », de- ve tener conto della realtà umano-naturale, dei suoi pro- blemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e dell’esperienza religiosa di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà tale, cioè, che dimostri realmente quello che s'intende con la parola Dio. In breve: la riflessione filosofica, chiamata a preci- sare le formule e a dare possibilmente la giustificazione ra- zionale dell’ipotesi dimostrandola verità universalmente e ne- cessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua to- talità e, per conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a cui appartiene in proprio il termine Dio. Oltre a ciò, la forza normale della dimostrazione si misura sull’uso del termine Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine del discorso, pur dicendo di avere o no provato la verità del- l'ipotesi, si è in effetti provata o non provata altra cosa. L'esistenza di Dio 87 La risposta filosofica, chiamata ad adeguare la integralità della realtà da cui sorge l’ipotesi « Dio », deve essere soluzio- ne integrale della filosofia integrale. L’ipotesi va posta in di- scussione, così come essa è, affinchè la filosofia indaghi se sia possibile dimostrarla razionalmente così come essa è, se « ra- zionale » e « ragionevole »; in caso affermativo, la realtà ha la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del fondamento razionale (“). L’ipotesi « Dio» nasce da una reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a confermarla o a smentirla, a dire se e fino a che punto l’esi- stenza dell’Essere intelligente e trascendente, creatore e prov- vidente, sia verità razionalmente provata e perciò oggettiva- mente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus vocis. 3. — L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos ». Come abbiamo detto, l’ipotesi « Dio » nasce dall’esistenza degli enti contingenti e finiti, come tali non principio di se stessi; per conseguenza la prova della verità, o non, del- l'ipotesi non può avere altro punto di partenza che il mon- do :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la religione cristiana, è di ordine soprannaturale e non possi- bile per sua natura ad un'intelligenza finita quale quella uma- na, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati. Dun- que, la mente — supposta la dimostrazione della ipotesi — non può conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi- (4) La definizione nominale del termine Dio, necessaria per sapere di che cosa si vuol dimostrare l’esistenza e se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non pregiudica in alcun modo la soluzione del problema. Si tratta di una semplice ipotesi di lavoro: la risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o positiva, come potrà anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o respingere alcuni di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema dell’esistenza di Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche punto lo studio di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existen- ce de Dieu, « Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 88 Filosofia e Metafisica tuisce (quidditative), ma solo indirettamente per cognizione mediata ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota quoad nos (6) non vi sarebbe problema nè bisogno di dimo- strazione razionale, ma solo una verità evidente per se stes- sa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno fede non sentono necessità di alcuna dimostrazione tanta è la forza del loro credo, anche se il problema si chiarisse, poi, come esplicitazione di un implicito originario e la dimostra- zione come consapevolezza di una presenza. Ma evidente- mente, altro è l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione razionale, anche se quest’ultima non può e non deve elimi- nare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come de- ve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità della dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto a noi; ma necessità anche di far convergere ed operare in essa quanti elementi legittimi in noi e nelle cose possano concorrere a renderla più efficace e completa. In altri ter- mini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a no- stra disposizione e il cui uso è razionalmente consentito. 4. — Da quale dato reale è conveniente partire per pro- vare la verità dell'ipotesi « Dio ». È vero che di Dio non vi è intuizione immediata e vi è problema della sua esistenza, e possibile dimostrazione il cui punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale, og- getto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione « realtà naturale » non comporta, anzi esclude, un significato restrittivo quale quello di cose materiali od oggetti del mondo esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale vi è anche l’uomo, realtà spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un or- dine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di rego- lare il pensiero e l’azione. La mente umana, nella sua condi- (5) S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a. 4. (6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 L'esistenza di Dio 89 zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine na- turale, ma, da un lato, ha una naturale aspirazione all’in-finito e all’immutabile che non potrebbe avere se, in qual- che modo, non avesse di esso una certa nozione, sia pure oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di verità intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî neces- sario ed immutabile, dato che son questi gli attributi con- venienti all’essenza della verità; che, se è, non può essere contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui l’uomo è capace e la sua mente scopre non è la Verità in sè, bensì quella confacente alla natura dell’uomo, ma essa: a) non è contingente e mutevole; 5) è fecondatrice della mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è ve- rità, sono dunque dati reali diversi dagli altri; se sono su- periori ad ogni altro dell’ordine naturale, sono le massime condizioni reali che danno origine all’ipotesi « Dio ». In- fatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali se- condo cui giudica e i princìpi morali secondo cui libera- mente agisce, non sarebbe più finito e contingente, nè la sua mente mutevole e limitata; dunque, è contradditto- rio che un essere siffatto sia autore di principî neces- sari e universali quali appunto quelli del pensiero e del- l’azione. Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana in generale) è autore dell'ordine della verità e della legislazione morale, sarebbe egli l’essere infinito, necessario e assoluto; l'ipotesi « Dio » non si affaccerebbe alla nostra mente, venute meno le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa che: 4) non è il principio che fa esistere le cose naturali e le governa secondo un ordine; 5) non è principio di se stesso, della vita organica e spirituale, della sua intelligenza e vo- lontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che egli e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e neces- sario è capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato 90 Filosofia e Metafisica reale; son proprio questi dati che pongono il problema del loro principio, cioè fanno nascere l’ipotesi « Dio » nel senso sopra definito. Dunque, se il punto di partenza è dai dati reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci sembra opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per la prova dell’ipotesi, che, presentando maggiore ricchezza e comples- sità, accrescerà la forza della dimostrazione; £) senza esclu- dere gli altri possibili punti di partenza, in modo che le eventuali prove si potenzino reciprocamente e conferiscano alla dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, se dei dati reali scelgo come punto di partenza le cose ma- teriali è evidente che, perchè nasca il problema della loro contingenza ed origine e da esso l’ipotesi « Dio », è neces- sario che «rifletta » su di esse, mi ponga il problema della loro ragion d’essere e significato, cioè che trascriva il mondo esterno in termini mentali o di pensiero; ma porselo come problema è già trascriverlo in questi termini. Pertanto non sono le cose come tali che pongono il problema della loro origine e spiegazione e con esso l’ipotesi « Dio », ma il mondo esterno fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la prova non può non passare dal pensiero, come meglio sarà chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo anche accettare la nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a poste- riori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. Se 4 posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed immediata di Dio, concordiamo perfettamente che la Sua esi- stenza va provata 4 posteriori e che di Dio c’è solo cono- scenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bi- sogna partire dalla natura fisica per scoprire la causa non causata del suo esistere e che non vi è nessun dato nell’uomo, nella vita dello spirito e la stessa vita dello spirito, da cui è possibile partire, anche prescindendo dal mondo esterno, respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto L'esistenza di Dio 9I di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ra- gione umana lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una ricchezza di elementi da esso inadeguabili. Non si tratta solo di dimostrare se il mondo abbia un Architetto, una Causa prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad esprimere quanto è incluso nella definizione nominale di Dio. Inadeguati anche i concetti di « Essere supremo » e di « Ente realissimo », che, pur entrando nella definizione e nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene intesi, indicano solo un Ente che può essere l’« Atto puro e immutabile » di Aristotele, la « Sostanza unica e infinita » di Spinoza, il « Legislatore dell’universo » degli Illuministi ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di quel che s'intende quando si dice « Dio », la cui esistenza qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo in- dica come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè con- tiene quegli attributi che la coscienza religiosa od anche la semplice condizione umana gli attribuiscono. Ora, come so- pra abbiamo chiarito, l’ipotesi « Dio » nasce proprio dalla condizione umana, che Dio definisce in termini non dissi- mili da quelli della coscienza religiosa, ed è proposta alla ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto. Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi tutta la problematica della realtà umana — della vita spi- rituale e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza reli- giosa — oltre a quella della realtà fisica. Non si può mo- nopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario che la dimostrazione sia tentata con la presenza operante di tutti gli elementi e di tutti gli strumenti possibili, affinchè abbia tutta la sua forza e, nello stesso tempo, soddisfi tutti i problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata. Si tratta di un problema che interessa il fondamento assoluto della realtà: come totale è la sua portata, così totale devono essere l’im- pegno e la possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo- 92 Filosofia e Metafisica gica; ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia presente e tutti i sensi del problema vi si trovino concorrenti e solidali nella loro concretezza, è la logica dell’« integra- zione », di cui quella dell’« esclusione » è solo un momento nella prima contenuto. 5. — Importanza dei « dati » psicologici nella dimostrazione dell’ipotesi « Dio ». Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i preliminari: le « disposizioni » dello spirito nel loro insieme fanno parte dei « prolegomeni » di una dimostrazione con- creta dell’ipotesi « Dio». Evidentemente non si tratta di « metterle al posto » dell’argomentazione razionale, ma di giovarsi delle migliori o più favorevoli condizioni perchè la stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua capa- cità. Per esempio, liberarsi da alcuni pregiudizi — e il pre- giudizio è di natura psicologica — è una specie di purifi- cazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere che alcuni impedimenti sono apparenti o illogici — quali la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo da coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o che la metafisica possa sottostare al metodo sperimentale, ecc. — è già un buon avvio. Così pure acquistar coscienza dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che dalla risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, il valore e il significato della nostra come di ogni altra esi- stenza, è una disposizione non accessoria, in quanto rende cautissimi nell’argomentare e concludere, estremamente vi- gili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento tutte le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa attentissima, intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno un valore più che psicologico: comportano la rettitudine della coscienza. Nè è da trascurare — anche se non deve so- L'esistenza di Dio 93 stituire la dimostrazione — l’esperienza religiosa sia comu- ne che privilegiata, quella delle grandi umili anime misti- che e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione operante esigita da una questione della portata di quella che qui si discute. Son tutte forze concorrenti, anche se non determinanti in sede filosofica, alla realizzazione di quel «clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confa- cente ad un problema quale è quello dell’esistenza di Dio. In breve, crediamo che, per scoprire e penetrare tutta la verità della prova e poterle aderire, sia necessario conquistare la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò non significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla nostra accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa fosse priva di verità « attraente », ma che tale condizione è elemento essenziale per cogliere tutta la sua forza razionale. Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia essere la verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla mente e contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità. Sempre dal punto di vista dei dati psicologici, l’odierno «clima esistenzialista », quando non è deteriore retorica o decadentismo e maniera, come presa di coscienza della « con- dizione » umana, senso dell’indigenza, del peccato, della morte ecc. ha la sua importanza in sede di preparazione alla prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quan- to l’aspetto essenziale di tale preparazione è proprio il sen- so della positività del nostro essere, senza della quale «la (7) L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della discussione, anche se spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contri- buito a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche modo, anche se entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come « smon- «danizzato », esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teolo- gico. Ciò spiega, perchè i cosidetti sostenitori del « nuovo razionalismo » marxista e di tanti « nuovi umanesimi assoluti » combattono anche le forme atee di esi- stenzialismo, preoccupati che questo « stato d’animo », per sua natura, alimenti sotto le ceneri del « finito » un’esigenza religiosa e trascendentistica. Spiega ancora perchè qualche inguaribile cultore di « scienze mondane » abbia sprezzantemente qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di « praefatio ad missam ». 94 Filosofia e Metafisica condizione » umana sarebbe pura possibilità, illusione, nien- te: non vi sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, nè di Dio (*). Ma anche nella sua pienezza, la preparazione psicologica non è la soluzione del problema, non data esclu- sivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella religiosa, come sostiene il Bergson; è come dire che non vi è prova razionale oggettivamente valida dell’esistenza di Dio. D'altra parte, come ancora dice il Bergson, con un significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va posta ed affrontata « sperimentalmente », cioè tenendo conto di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in quanto la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data alla nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici non debbono escludere od ostacolare metodi e dati razionali, allo stesso modo questi ultimi non debbono fare a meno dei primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse una questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geo- metrica razionalità e fosse possibile operare un’astrazione dell’uomo concreto, quando, come abbiamo visto, dalla sua vita integrale nasce l’ipotesi « Dio ». Non comprendiamo perchè nessuno pretende di « liberare » il poeta, l’artista, lo scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono la risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere (8) L'esistenza come pura « possibilità » non è, è la non esistenza, cioè un non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto fin dall’inizio ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è perduta in partenza, dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista s’inebria del nulla e del- l’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la catastrofe è scontata in anticipo; la tragedia, nel suo stesso porsi, si tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del dialettismo dello Hegel; l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa del reale e del pensiero, « divora » l'essere dall'interno e divorandolo lo ali- menta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella della Ragione, s’iden- tifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio eterno. Tutto il senso tragico dell’antinomismo svanisce una volta che il male e l'errore, le cadute e le colpe sono necessarie alla vita della Ragione assoluta e al suo perenne conquistarsi: tutto è perfettamente ordinato, pacifico. Una volta che il nulla e la contraddi- zione si assumono al posto dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più problema nè dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ l'assurdo all'inizio e alla fine. L'esistenza di Dio 95 che il filosofo, il quale si accinge a provare, con le armi del- la ragione la più rigorosa ed intransigente, l’ipotesi « Dio » nascente dalla totalità del reale che da questa soluzione aspet- ta intelligibilità profonda, abbia a prescindere da tutti quei dati psicologici che fanno parte della concreta vita spirituale, la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere se i dati reali della nostra esperienza siano o no metafisica- mente intelligibili, in quanto tale intelligibilità dipende ap- punto dall’esistenza, o non, dell'Essere personale e trascen- dente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 6. — La pregiudiziale critica da cui muove il problema del- l’esistenza di Dio. Notiamo a questo punto che il problema dell’esistenza di Dio e della metafisica in generale muove da una pregiudi- ziale critica, non da quella, propria di Kant, di saggiare, prima di affrontare il problema, le capacità della ragione — farla giudice di se stessa: imputata e giudice insieme — per accertare se abbia o no il diritto di oltrepassare l’esperien- za, bensì dall’altra che l’esperienza stessa e quanto in essa è dato, approfonditi criticamente, restano metafisicamente inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve. Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce alla radice stessa del problema critico. Ma ciò non deve in- durci, senza sufficienti prove razionali, ad ammettere ugual- mente che Dio esiste (conclusione « edificante », ma non fi- losofica) per il timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligi- bile. D'altra parte, proprio l’esperienza della nostra finitezza e di ogni cosa esistente, tutta l’esperienza non bastante a sè stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone il problema della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi « Dio » come possibile soluzione: il finito come tale esige il che % Filosofia e Metafisica cosa lo spieghi e giustifichi. Che non può essere pure un finito, in quanto ancora problema e non soluzione; dunque, se è, dev'essere « qualcosa che esiste da sè », che, principio di se stesso, può rendere conto definitivo ed ultimo di quan- te cose esistono « non da sè ». Non è neppure un qualcosa ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere il Prin- cipio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza suprema. È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 7. — La realtà spirituale punto di partenza della dimostra- zione dell'ipotesi Dio”. Prima di procedere fissiamo qualche conclusione utile a precisare i termini della questione: 4) il problema dell’esi- stenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale finito del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, non può avere in se stesso il suo principio e pone il pro- blema della sua origine e della sua suprema intelligibilità; c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della ipotesi « Dio », non può non partire dalla realtà finita che la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza di esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il principio di se stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a saggiarne in seguito la validità e a recuperare il recupera- bile, la prova che muovendo dall’Idea di Dio, 4 priori, at- traverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce l’esistenza. Accettato come punto di partenza il reale contingente fi- nito, ci sembra quanto mai conveniente ed anche necessario muovere da quell’ente che presenta una maggiore comples- sità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più alto, tanto da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come il centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento della vita spirituale di un solo uomo trascende l’universo intero. L’uomo non è soltanto un reale finito, ma è il solo L'esistenza di Dio 97 dotato di pensiero, capace di volere e conoscere razionalmen- te, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli enti finiti di cui ab- biamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità me- tafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi « Dio ». D'altra parte, anche se scegliamo come punto di partenza quel reale finito che è il mondo detto materiale, o un suo particolare aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo come oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha di intelligibile: perciò l’oggetto del nostro pensiero non è il mondo materiale come tale, ma i suoi elementi concettuali. Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre l’uomo soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono i dati mentali che non sono le cose materiali, ma il risultato della riflessione su di esse. D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse e non vivesse, se non fosse un essere vivente, ma l’essere e il vivere non implicano necessariamente il pensare. Infatti, si può essere senza vivere e pensare (una pietra), ma non si può vivere senza essere (il vivere importa necessariamente l’es- sere); però si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), mentre non si può pensare senza essere e vivere, almeno nella condizione terrena degli esseri pensanti: dunque il pen- sare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza es- sere e vivere, ma il pensare non è attributo essenziale di ogni essere e di ogni vivente, bensì di una specie di esseri viventi e dunque è è più del puro essere e del puro vivere in quanto coscienza di essere e di vivere e, posto, implica gli altri due; 5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine na- turale l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua in- terezza di organismo e pensiero, di materia e spirito, è ciò che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza, pos- (9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 98 Filosofia e Metafisica siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della real- tà finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi «Dio » dai reali finiti, mi pare estremamente conveniente scegliere come punto di partenza quello che è (come sono tut- ti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e pensa (come solo a lui è concesso); che dunque assomma in sè tutte le categorie essenziali del reale. Ma è solo conve- niente, o anche necessario? Abbiamo detto che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi «Dio» nasce nell’uomo, sia dalla riflessione sul mondo fisico come indica la semplice domanda: «chi ha mai fatto tutte que- ste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne quanti elementi preliminari ci è consentito dal rigore della ricerca e dall'obbligo di non pregiudicare la dimostrazione. Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza della sua finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto con- sapevolezza di essere, della miseria del dolore e della morte, di quanto lo fa consapevole che non basta a se stesso, 20 è da sè. La consapevolezza di tale condizione è propria del- l’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, l’ipotesi « Dio » è posta e la sua dimostrazione richiesta dal- l’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione af- finchè tenti di capire veramente qualcosa di essenziale e de- finitivo della propria esistenza e del suo significato. In altri termini, l'ipotesi « Dio » non nasce dal dato contingente co- me tale, pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consape- volezza della sua contingenza, cioè da un elemento spiritua- le; non dal puro fatto — a cui si ferma la mentalità positi- vista, che perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il pro- blema dell’intelligibilità metafisica del reale — ma dalla co- scienza del fatto, che importa già una valutazione di esso e un passaggio dal piano empirico a quello ontico o dell’essere. L'esistenza di Dio 99 del dato stesso. Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi « Dio » e da cui bisogna partire. Abbiamo anche accennato all’aspetto religioso del proble- ma: alla essenzialità di Dio per l’esperienza religiosa, all’im- portanza che essa ha per una possibile dimostrazione raziona- le (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico dell’esi- stenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al termine così come è definito sulla base della condizione uma- na e creduto dalla fede religiosa; alla ragione si chiede di dimostrare la verità di quel che si crede affinchè l’uomo « sappia » che è vero quello che «crede ». Chi rinunzia a partire dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana e religiosa, a cui il problema appartiene e che lo presenta al- l’esame della ragione, lo depaupera, quasi lo appiattisce. Dal filo d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio dell’espe- rienza umana in tutta la sua pienezza e della coscienza reli- giosa; d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dal- la sua condizione. Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, cioè che la sua vita si esplichi attraverso mezzi necessari di- sposti e combinati in modo da raggiungere il fine che le è proprio e precede e domina la disposizione e la combinazione dei mezzi stessi (!!). E’ evidente che esso: 2) non ha la cono- scenza del fine; 3) non si da sè la capacità di disporre e com- binare i mezzi per il suo raggiungimento; dunque, con- clude, la finalità naturale presuppone un’Intelligenza che non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò im- (10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu, Éditions du Temoignage chretien, 1941, p. 54) che la nostra epoca ha perduto, almeno temporaneamente, « il gusto di Dio »; se questo gusto tornasse, le prove riapparirebbero « plus claires que le jour ». (11) Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza una finalità degli orga- nismi viventi, una specie di loro « pensiero » embrionale o di orientamento delle forme della loro attività vitale verso una unità di realizzazione quasi che tale attività sia dotata di una specie di « potere sintetico ». 100 Filosofia e Metafisicaporta: ) dell’intelligenza che il mondo fisico presuppone c'è conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata di essa in quanto ne è dotato, egli stesso « fatto » sperimentale della presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consa- pevolezza del fine a cui sono ordinate, nè sanno che il loro ordine presuppone un'intelligenza, mentre l’uomo ha consa- pevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè l’in- telligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; dunque sa che il suo essere ente intelligente pone il problema della sua origine come tale. In breve, il problema del riman- do dalla finalità delle cose all’Intelligenza da cui sono state ordinate non nasce direttamente e direi spontaneamente co- me quello del rimando dall’uomo-ente intelligente all’Intelli- genza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo ha di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta efficace sicura la via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle cose (in questo caso dalla loro finalità) è indiretta e si conside- ra in un secondo tempo. Senza dire che la vita dell’ente in- telligente comporta tale ricchezza di esperienza e di valori co- ‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera cosa la finalità inconsapevole del mondo fisico. Un'altra considerazione ci sembra decisiva per accettare il reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa esistenza all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quan- to conosce e bene di quanto vuole, cioè se è capace di cono- scere la verità a cui è obbligato ad uniformare la propria condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di giu- dizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe neppure; se ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme che considera vere, cioè oggettivamente valide e tali da ga- rantire la veridicità dei suoi giudizi e delle sue dimostrazioni. Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua condizione, con- sidera l’ipotesi « Dio » e ne tenta la dimostrazione, si consi- L'esistenza di Dio 101 dera già in possesso di alcune verità che rendono validi i suoi giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento metafisico della conoscenza: le verità fondamentali e prima- li, senza cui non vi sarebbe discorso e dimostrazione, sono il prodotto della mente, «poste » da essa, o sono alla mente « presenti » e da essa soltanto « scoperte »? Nel primo caso la loro validità si presenta notevolmente sospetta, in quanto il prodotto della mente mutevole, capace di errore, di un esse- re finito e contingente non dà alcuna garanzia di universali- tà, immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa contingen- za e finitezza ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi i « creatori » della verità; se non altro lascia in dubbio e in- duce a pensare che se mai siamo « portatori » attivi di essa, che in questo caso è «oggetto » della nostra mente e, co- me tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma se è così, la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa cono- sciuta o scoperta, pone il problema della sua origine e del come ne siamo in possesso, cioè del da dove sia entrata in noi. Problema che l’uomo non può lasciare sospeso o trascurare, in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di quel- l’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed agisce, attua la sua vita spirituale; è il problema della intelli- gibilità profonda del reale non solo umano ma anche naturale, in quanto le cose sono intelligibili per il loro ordine, da cui, come sappiamo, nasce, quale eventuale soluzione, l’ipotesi « Dio ». Ammettiamo pure provvisoriamente che sia conveniente e necessario partire dalle cose del mondo esterno invece che dalla realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto della vita spirituale mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidente- mente la dimostrazione o la catena dei ragionamenti si ser- ve di norme o principî che considera veri, cioè oggettiva- mente validi (per esempio, il principio di causalità), tali da 102 Filosofia e Metafisica garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di essi im- rta già avere risolto il problema, da noi posto sopra, del- l'origine della verità di cui la mente umana è capace, se suo prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso, del come ne sia in possesso. Dunque il punto di partenza dalle cose ma- teriali presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, il solo capace di un ordine di verità, ed in esso resta incluso. Se si dice che nell’uomo non vi è nulla di necessario e immu- tabile, in tal caso: @) si nega che egli possieda verità e con ciò stesso che possa provare l’ipotesi « Dio »; 5) non si spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella delle altre cose, avvertibili solo se ha una certa nozione di ciò che è necessario e infinito, cioè se sa cosa significhi la parola « verità ». Ma il solo sapere che è verità è già una verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le cose finite sono contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa condizione di un contingente in cui è in certo modo presente un che di immutabile, infinito e necessario pone il problema della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi « Dio ». Da qualunque punto di vista si consideri la questione, il pro- blema dell’esistenza di Dio si presenta come essenzialmente antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non pro- blema posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle cose materiali, ma che interessa la realtà umana integrale, considerata nella sintesi dinamica e nella compresenzialità di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa d’intelli- gibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al pos- sesso della suprema verità metafisica, fondamento e prin- cipio dell’intelligibilità della vita spirituale. L'ipotesi « Dio » è suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale finito, dall’urgenza di sapere se gli esseri contingenti abbia- no o no un senso assoluto. Si tratta di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. L'esistenza di Dio 103 concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che essa, non dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel nostro caso, indica una condizione reale della vita dello spi- rito e precisamente quella di conoscere la verità della sua verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e po- vera, ha sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita con- sapevolezza, di acquistare una maggiore conoscenza della verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente, cer- care è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligi- bilità metafisica; ma è questo il problema donde nasce l’ipo- tesi « Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indiret- tamente, il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere perso- nale e trascendente. Vi è nello spirito, per il fatto che si av- verte finito, un senso immanente dell’Essere che l’oltrepas- sa (!); c'è una nozione oscura, implicito originario, di quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa co- me Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psico- logico-antropologico, è intimamente legato al problema del- l’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche l’altro. Le realtà psicologiche pongono l’ipotesi « Dio » (psicologismo che non è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro significato totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentri- smo). Reali, dunque, i dati da spiegare, realista il metodo della ricerca; la finitezza dell’ente contingente e aspirante a sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la sua aspi- razione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ulti- ma se nello spirito finito non fosse presente una certa nozio- ne dell’assoluto infinito, oscura e confusa quanto si voglia. (12) Non si fraintenda: non immanenza della trascendenza nell’ente finito come quella che è « posta » dallo stesso ente finito, per cui la trascendenza si risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una condizione dell’esistente — pseudo-trascendenza di alcune forme di idealismo immanentista e di esistenzia- lismo — ma presenza della trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere che l’uomo non pone e dal quale è posto e oltrepassato. 104 Filosofia e Metafisica Il dato uomo è costituito da un insieme di dati, di cui deve tener conto, proprio per rigore e scientificità d’indagine, qua- lunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi « Dio» per saggiarne l’importanza, la portata e quel che significa o in- dica la loro presenza. Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spie- gano da se stessi non essendo assoluti ed infiniti. La celebre formula cartesiana, che qui non discutiamo, non dà dun- que la soluzione del problema di me ente finito, bensì indica solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio questa condizione pone il problema di se stessa o se stessa come pro- blema; pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque il mio essere come il mio pensiero sono dati; ma donde sono essere e pen- siero o n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo sum suscita il problema del da chi sono stato pensato e sono pensato per esistere come essere finito pensante. Fino a quan- do non l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità piena del mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e conoscere. Qual’è il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipo- tesi « Dio ». Nel caso che riescirò a provarla, concluderò che l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere un ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, ma in maniera completa e più vera: Cogitatus sum et cogitor, ergo sum ens cogitans. Questa formula non esprime più sol- tanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia real- tà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in pri- mo'luogo, la intelligibilità radicale e profonda di me. Per la soluzione del problema metafisico che comporta, essa fa che io contingente e finito mi avverta ormai bastevole a me stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere, del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giu- stificazione del senso assoluto della mia esistenza e della mia vita, del mio conoscere e volere. Non è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazio- L'esistenza di Dio 105 ni errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: in sè assurdo, il quale acquista senso intelligibile solo se si ammette l’esistenza di Dio. Infatti l'affermazione, « l’univer- so è in sè assurdo », non comporta neppure la formulazione dell’ipotesi, che non ha senso quando si è già concluso che l’universo è assurdo; anzi si può pensare assurdo solo per- chè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione è conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. l’esistenza di Dio l’universo acquista un senso. Pertanto, per il fatto stesso che l’ente pensante si pone il problema del- l’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori che l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso la tesi di un fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, ma «ciononostante » ammetto l’esistenza di Dio e dunque tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che esista Dio, se l’universo è assurdo. « Non è Dio che non accetto, com- prendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, « ma il mondo da lui creato; è il mondo di Dio che non accetto e non posso ri- solvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o tutto negativo; dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida an- che un sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche assurda l’affermazione che tutto è assurdo, ma chi con- clude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene vera, non assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in quanto ammettere che una cosa è vera è ammettere un pen- siero capace di verità. Qui appunto nasce il problema: per- chè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io che penso? donde sono? Ciò pone l’ipotesi « Dio » e fa che sia « ragio- nevole », conveniente senza limitazioni alla ragione, e sia « assurdo » il non porla o rigettarla senza previa discussione impegnatissima. Da ciò consegue che il senso assoluto del reale che cer- chiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi « Dio » in quanto. l'oggetto della mia ricerca continuerebbe ad essere la realtà 106 Filosofia e Metafisica mondana; dunque, il solo porre l’ipotesi già orienta in altra direzione, in quella dell’esistenza dell'Essere « trascendente ». Per conseguenza la posizione razionale del problema sem- bra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita e contingente; 5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esi- stente da sè non posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno dei quali è assoluto ed incondizionato, e neppure nell’unità o totalità (nel « mondo ») degli enti finiti — Dio come unità impersonale è la più povera ed inerte delle finzioni —; d) i quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza comune. Provare la verità dell’ipotesi « Dio» significa scoprire se esiste l’Essere incondizionato autosufficiente da cui tutto di- pende e a cui tutto tende, consapevolmente o inconsapevol- mente. Carrroro II LA DIMOSTRAZIONE DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: A) DALLA VERITA’ 1. — Impostazione dei termini del problema. Da quanto abbiamo detto risulta che la nostra integra- zione del Cogito cartesiano è di fondamentale importanza. Essa porta implicita questa affermazione: io sono coscienza pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi ha fatto e mi fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò signi- fica che il mio pensiero — come quello di ogni ente pen- sante e di tutti, il pensiero umano o dell’ordine naturale in generale -— non è principio di se stesso, non il Primo meta- fisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al suo Prin- cipio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante per- chè è stato pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra l’idealismo trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo ed egotismo anche quando è etica del dovere; scettici smo, anche quando è panlogismo o sistema della scienza assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce e si compie nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero uma- no o naturale — tutto immanente al « mondo » con cui si identifica e perciò cosmico o cosmologico e non vera vita spirituale — assolutizzato con un atto irrazionale, che, fa- cendone il Primo metafisico, lo chiude in se stesso, lo re- 108 Filosofia e Metafisica cide, appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fon- te di ogni pensiero, all’Essere da cui deriva il suo essere, per farne il Tutto, la cui condanna è il suo nulla, il Nulla. Il dilemma dei due idealismi è il dilemma dell’uomo, della realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, la ragione naturale, il mondo e le verità umane sono essi stessi l'Assoluto, il Primo, e questo tutto, fatto irragionevol- mente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O l’idealismo del Pen- siero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et cogitor, o l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e perciò si autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da Cartesio, gradualmente, ha penetrato il pensiero moderno e si è sviluppato fino a culminare nello Hegel; dopo lo He- gel, precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzia- lità, nelle odierne filosofie del « Nulla », del « problema », delle « convenzioni », della pura « metodologia ». Era neces- sario, affinchè fosse chiara la posizione dei due idealismi, anticipare queste affermazioni, che il seguito del nostro di- scorso cercherà di approfondire. Il problema che poniamo è quello della verità della mia esistenza e di quella di ogni ente finito. In altri termini: io sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della veri- tà o dell’essere di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del reale o del senso assoluto dell’ente finito. Indagare se Dio esiste è sondare se vi è la verità della verità di ogni ente crea- to e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il pro- blema è quello della verità degli enti, ancora una volta ri- sulta necessario muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, che concepisce il suo esistere in termini di verità o d'’intelli- gibilità. Infatti, non la pura sensazione immediata fa sor- gere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la riflessione sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma L'esistenza di Dio 109 non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di principi in base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono do- tate di movimento, si argomenta intorno all’esistenza di Dio, si fa uso di alcuni principi, per esempio di quello di cau- salità. In tal caso, l’argomentazione a favore dell’esistenza di Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema pri- mo è di sapere se la mente umana sia capace di verità, come si trovino in essa o in qual modo le acquisti. Senza verità universalmente valida nessun giudizio e nessuna argomen- tazione oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il problema dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamen- te della nozione di una realtà non contingente e assoluta, se non fosse in noi una presenza oscura ed operante di quel che cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, cioè se non ne partecipassimo analogicamente; dalla totale contingenza e relatività non nasce il problema del necessa- rio e dell’assoluto. La dimostrazione dell’esistenza di Dio non può partire che dalla verità; ma essa è per sua natura intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non può partire, tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dal- l’ente che è mente, pensiero, spirito: dall'uomo o dalla vita spirituale. La posizione del problema si va sempre più precisando: a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi che sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla verità non contingente e non finita di cui sono capaci, dato che la verità non può essere che oggetto o contenuto di una mente. Se si prova che la mente finita è capace di verità e dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio, l’argo- mentazione può muovere anche partendo dalle cose mate- riali, in quanto sappiamo che c’è verità e siamo capaci di 110 Filosofia e Metafisica conoscerla, che la validità dei nostri giudizi è garantita dal- la oggettività di alcuni principi; non è una nuova dimostra- zione, bensì un’applicazione di quella dalla vita dello spi- rito, giacchè la verità della seconda prova è condizionata, dipendente, da quella della prima, che la include, come in- clude le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere l’uni- ca prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. Così impostata, la questione si presenta sotto forma di dilemma: o vi è verità e la mente umana ne partecipa, e vi è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non vi è problema nè dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, l’agnosticismo, il relativismo assoluti, negando che vi è o si possa conoscere una verità necessaria universale immutabile, negano con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio: per loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da dimostrare però che non vi è verità e, se vi è, la mente umana non ne partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma tutta umana, del solo ordine naturale o della sola universale ragione e ad essa immanente, perchè se la ragione si fa crea- trice di verità assoluta, si divinizza contro ragione: mute- vole e finita, è capace di « scoprire » verità assolute e non di «crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità, non si può ammettere nè dimostrare — ragionevolmente ammet- tere e razionalmente dimostrare — che la ragione conosca verità assolute, per il semplice fatto che si è negata la ve- rità nel momento stesso che la si fa figlia della ragione na- turale finita e mutevole: o verità non è, ma se è, la ragione oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa posta. In altri termini: o non è verità e si arriva alla conclusione assurda e contraddittoria che « è vero che niente è vero »; 0 è verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, c’è il niente di verità. L'esistenza di Dio 116 2. — Gli element: del giudizio e il problema della sua vals- dità. Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un sog- getto razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudi- care; c) delle norme o principi in base a cui giudica. Atti- vità giudicante, nell’ordine della natura, è soltanto l’uomo; in quanto ente razionale giudica, gli altri enti sono giudi- cati. Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giu- dizio, non solo le cose, ma anche se stesso e gli altri enti pensanti, e ogni singolo ente pensante se stesso e gli altri. Da ciò consegue che, per quanto poco conto possa fare delle umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella sua pura empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quel- la concettuale. Infatti, anche quando giudicassi che nessun concetto o giudizio è vero e che la verità è nella sola e pura sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui con- sidero vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio con cui giudico vera la sensazione non è dovuto alla mia atti- vità sensitiva nè da essa derivato, bensì alla mia attività ra- zionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di erroneità di quella concettuale; ma il giudizio con cui giu- dico vera la prima e falsa la seconda è una conoscenza con- cettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui, contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. Ora è evidente: se la ragione giudica la sensazione non può essere da essa giudicata; ma la giudica in quanto fa uso di principî, senza di cui non potrebbe formulare giudizi. Per conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudican- te secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio non risiede nel soggetto giudicante contingente e finito — o nella ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole — nè nella cosa sottoposta a giudizio, anch’essa contingente, finita 112 Filosofia e Metafisica ed inferiore allo stesso soggetto pensante per il fatto che è giudicata e incapace di giudicare e giudicarsi, ma nei prin- «pi secondo cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giu- dizio vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel giudicare si serve di regole, di principî necessari, immutabili, universali, assolutamente validi. Non sono pure « condizio- ni» del conoscere in sè vuote come le « forme a priori » kantiane, ma conoscenze primali, originarie, fondamento di ogni conoscenza vera. Che l’uomo sia capace di giudizi veri ci risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna forma di scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scet- tico, può negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta che egli lo sia anche di una sola, perchè consegua: 4) che è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti alla sua mente alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni giudi- zio vero. Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro che dubita ed esiste come ente che dubita e s’inganna (si fallor, sum). Ma, come rileva Agostino (De vera religione, c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la verità, dato che « tutto ciò che è vero, è vero per la verità ». La profondità di questa argomentazione non risiede nel pro- vare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso come dubi- tante ed ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in noi di un solo vero sarebbe impossibile senza la presenza del lume della verità: se siamo capaci di una sola verità, c’è in noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità, com- presa quella della coscienza che ogni singolo ha di esistere, presuppone — altrimenti non sarebbe — una verità primale, (1) Un giudizio può essere « formalmente » corretto e sostanzialmente erro- neo. Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erro- nei, in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione che enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i prin- cìpi sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre gli stessi princìpi. L'esistenza di Dio 113 di cui è una determinazione; 5) l’uomo è l’artefice di tutte le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della verità che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specifica- zione; c) le verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in lui la verità che fa la mente capace di conoscenze vere, ma la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè, anche se ogni umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, cogito, ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di cui sono artefice, ma non è la verità prima, della quale la coscienza di me è solo la prima determinazione, ma la verità prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque, il sog- getto pensante — ma solo esso e non le verità che egli for- mula sul fondamento di essa — le è necessario senza che ciò implichi che ne è il creatore: il lume di verità è oggetto in- teriore della mente; f) per conseguenza, la coscienza di me, il Cogito, prima verità di cui sono l’artefice, non s’identifica con la verità prima, che la rende possibile e che, interiore alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, appartenenza dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni umana verità compresa quella dell’autocoscienza, non è uma- na, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo di verità attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di ve- rità, ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, in lui, ma non da lui, pone il problema di se stessa: prin- cipio di ogni vero del quale l’uomo è artefice, pone il pro- blema del suo principio, che è il problema del Principio pri- mo, della Verità o dell’Essere. Identificare il problema del conoscere o gnoseologico con quello del suo fondamento o principio — problema ontologi- co-metafisico — e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La capacità umana di formulare giudizi veri — verità prodotta dall'uomo — è soluzione del problema gnoseologico, ma è essa stessa problema, che porta implicito l’altro del prin- 114 Filosofia e Metafisica cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il problema del principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto è problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità oggetto della mente e non suo prodotto; come tale, di ordine «ontologico », non « gnoseologico ». È essa che fa nascere il problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; dunque l’ontologicità della verità — la verità è l’essere — pone il problema metafisico del Principio: gnoseologia o dot- trina del giudizio; ontologia o dottrina della verità prima in- teriore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uo- mo e dall’uomo a Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una verità ontologica anteriore ad ogni particolare conoscenza ve- ra; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà la prima verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la pre- senza di un lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza è solo una determinazione, anche se la prima e la sola essen- ziale. Dunque, verità primale e fondante in interiore homine, come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come tale; la mente non adegua il suo lume di verità, l’autoco- scienza non esaurisce l’interiorità; la verità in inzeriore ho- mine per la sua stessa presenza, stimola, slancia, obbliga l’uo- mo a trascendere ez se ipsum. Autocoscienza è coscienza di sè e di altro da sè; come au- tocoscienza pura, l’« altro da sè » è l’oggetto o Idea, la ve- rità interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza di sè come ente pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha coscienza dell’altro, l’oggetto interiore o il lume di verità, che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto stesso. L’inte- riorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma l’autocoscienza come atto primo o prima specificazione del- l’interiore verità pone il problema dell’esistenza di Dio, nè. L'esistenza di Dio 15 può non porlo; le è necessariamente intrinseco: in quanto partecipe dell’infinito della verità non può non porsi il pro- blema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e qual- siasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa proble- matica, nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che si rifiutano di riceverli fino a quando si ostinano a fare filo- sofia della natura etichettata fraudolentemente per filosofia dello spirito. 3. — I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione, nè indotti dall'esperienza esterna. In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente risol- ta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei princìpi del giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed immutabili con cui la ragione giudica ogni cosa, consegue: 1) la ragione non può sottoporre le norme a giudizio, in quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, ces- serebbe di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o quelle che la giudicano: o la norma è norma di giudizio e allora essa che giudica tutto non può essere da nulla giu- dicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma di giudizio, bensì quella che la giudica. 2) Se la ragione non può giudicare le norme secondo cui giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato, con- seguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto per tale e corretto in base alle norme con cui la ragione giu- dica; dunque sono esse che giudicano l’operato della ra- gione, se i giudizi che essa formula siano veri od erronei. 3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla ragione, da essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, superiori, in quanto, secondo una celebre espressione di Ago- stino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo sudicat esse 116 Filosofia e Metafisica meltorem (*). In breve, ie norme del giudizio o le verità che lo fondano non sono un prodotto dell’attività razionale, in quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sareb- bero anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che ren- dono possibili i giudizi e l’attività della ragione e non vice- versa: non vi sono norme vere perchè vi sono giudizi veri, ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre di norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa giudicata. La ragione non è madre ma figlia della verità, e, perchè tale, madre a sua volta di verità; dunque l’origine delle verità che la fanno vera non è da cercare in essa. Per- tanto altro è il problema della verità, altro il problema del conoscere razionale. Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di ridurre la metafisica a gnoseologia, identificando il proble- ma metafisico con quello gnoseologico e dissolvendo quello del principio-fondamento del conoscere nell’altro del cono- scere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, asso- lutizzato, si chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, consumando la soppressione violenta ed arbitraria del pro- blema della verità o della intelligibilità metafisica del cono- scere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, fondata dalla verità, si pone come fondante la verità stessa. La distinzione, in seno all’idealismo di Hegel e all’hegeli- smo, rinasce nella forma della dualità dialettica del pen- siero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo del- l’autoposizione e dell’autonegazione del pensiero; e non può non rinascere in quanto il conoscere razionale va in cerca del suo fondamento, del suo principio che è la verità. Dissolto il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema nella dialettica del pensiero, il problema del fondamento del (2) Il lettore si sarà già accorto come l’argomentazione dalla verità, che stiamo svolgendo per provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: Il testo più completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. L'esistenza di Dio 117 conoscere rinasce imperiosamente e si pone come problema ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, e il pensare come tale, e come problema metafisico del Prin- cipio assoluto, cioè della intelligibilità della verità dello stes- so conoscere razionale e del senso e del fine dell’uomo nella sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio non nasce nè può nascere in una filosofia come «sistema dell’asso- luta scienza razionale » in quanto in essa è dissolto il pro- blema della verità; nasce invece all’interno della ricerca del fondamento assoluto o del Principio primo della veridicità delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // pro- blema dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è l’oggetto primo ed interno della filosofia; prima di essere problema della ragione o del giudizio sulle cose, è problema della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della verità, lume della ragione. 4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla ragione secondo i princìpi del giudizio, non possono esse — contin- genti, mutevoli, finite e inferiori alla stessa ragione — essere produttrici di tali verità; le cose posseggono un grado di ve- rità o di essere (sono, per es., più o meno belle), ma non la norma universale, con cui la ragione giudica del loro grado di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione pronunzia sulle cose. Voler ricavare dall’esperienza senso- riale i princìpi del giudizio è rischiare, senza venire a capo della questione, conclusioni scettiche, a cui, prima o poi, ar- riva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente non può essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado di verità che riscontriamo nelle cose contingenti non solo non adegua la verità conosciuta con la mente, ma è cono- sciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immuta- bili, fondanti la veridicità dei giudizi, non sono deducibili 118 Filosofia e Metafisica a priori dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della sua attività; non inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti enucleati da una forma qualsiasi di esperienza sensoriale. Donde, allora, questi princìpi? 4. — Ragione ed intelligenza: l'intuito fondamentale dei principi del giudizio. Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno chia- rire un altro aspetto della questione. I princìpi del giudizio sono noti alla ragione, che di essi si giova per giudicare; la sua attività è discorsiva: stabilisce nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il discorso. La ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha co- noscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intel- ligenza e applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività intuente i princìpi è quella, diciamo così, che li adopera (*). Per conseguenza le verità sono oggetto della intelligenza, ad essa presenti; la mente le vede in se stessa, le scopre dentro di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno la visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla mente presente nell’ordine naturale; per la ragione sono, sì il suo lume, ma lume giudicante, ne mettono in moto la capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza me- diata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’ori- gine di queste verità, ma soltanto dimostrato che non le produce la mente umana che pur ne è illuminata e costituita, nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare, nè deri- vano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap- (3) Si può osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono ap- plicati, non prima nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che ciò non mette in questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’espe- rienza e i giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, presenti nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presup- pone. D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nel- l’unità concreta della vita spirituale. ” L'esistenza di Dio 119 plica: constatiamo che sono in not, presenti alla nostra men- te, da essa direttamente intuite, suo oggetto intelligibile. Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo pla- tonico, ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza illuminante ed operante della verità in interiore homine; pre- senti anche quando la ragione erra, perchè non è la verità che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi assurda, la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo sarebbe incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche come corpo, sarebbe annientato. Questa presenza enigmatica della verità in noi, non proveniente da noi nè dalle cose, e di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua origine; dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi « Dio » come possi- bile soluzione del problema dell'origine della verità dalla no- stra mente intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esi- stente. Meraviglioso già che enti finiti e contingenti siano capaci di verità immutabile e necessaria; che le cose abbia- no un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine che non passa, le regola e orienta. Qualcuno potrebbe osservare: i principî, come dite, giu- dicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; dunque, sia pure per dire che son veri, essa li giudica. Esat- to, ma l’atto con cui la ragione dice che i princìpi son veri non è un giudizio, bensì una constatazione: la ragione, giu- dicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra parte, i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, ma della mente a cui sono presenti. In altri termini, il cosid- detto giudizio con cui la ragione riconosce la verità dei prin- cìpi non fonda la validità dei princìpi stessi, ma è l’atto con cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul fondamento della loro verità fondante. 120 Filosofia e Metafisica 5. — Il problema dell'origine dei princìpi del giudizio: tre risposte fondamentali. Degli elementi che compongono il giudizio — il sogget- to pensante, un dato da giudicare e le norme in base a cui la ragione giudica — c’interessa quest’ultimo come quello che pone il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo cui la ragione giudica. Il problema del conoscere è fondamen- talmente quello della formazione dei concetti; il problema della verità quello della origine dei princìpi, la cui « profon- dità »:è tale da convincere che essa oltrepassa le possibilità dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte, corri- spondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologi- che: in esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. Prima risposta. - Non vi sono nella mente umana prin- cìpi del giudizio, in quanto tutto nella conoscenza deriva dal- l’esperienza sensoriale. È la risposta dell’empirismo la quale, a rigore, non è tale per il semplice motivo che non risolve ma sopprime il pro- blema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo in- durre alcun principio assoluto e universalmente valido. Non per nulla l’empirismo, dalle sue origini occamiste a Locke, Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista, agnostico, scet- tico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler deri- vare dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione giudica l’esperienza stessa, è come dire che i princìpi sono anch'essi « cose ». Ma i princìpi del giudizio non son cose — e come non-cose sono ininduttibili dall’esperienza sensoriale — nè, d’altra parte, sono conoscenze @ priori; consegue che l’empirismo è costretto a negare la validità oggettiva dei princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con ciò nega la verità ed il problema della verità del conoscere razionale rchè inizialmente, anche se implicitamente, fa della ve- rità, realtà intelligibile, « cosa » tra cose. Assimilati alle quali . L'esistenza di Dio 121 MERE i pira : : i princìpi del giudizio, l’empirismo ne riduce a due gli ele- menti; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. Seconda risposta. - I princìpi del giudizio sono a priori: innati nella mente umana (Razionalismo cartesiano-leibnizia- no) o prodotti dall'attività del soggetto pensante (Criticismo e Idealismo trascendentale). Nel primo caso sono conoscenze assolute, nel secondo sol- tanto « condizioni » assolute del conoscere. Il razionalismo innatista già comincia a non distinguere tra problema della verità e problema del conoscere razionale. Di qui il suo an- dare ai due estremi: da un lato, ammessa l’intuizione diretta dell'essere, nega il conoscere razionale e, per conseguenza non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebran- che); dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la cono- scenza alla pura razionalità con uguale conseguente nega- zione del mondo (panteismo acosmico dello Spinoza). Ad eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde a poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità e instaura l’autonomia della ragione senza distinguere tra problema della conoscenza e problema del fondamento del conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo illuminista che non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente il problema filosofico da quello teologico. Così è preparato il terreno al Criticismo e all’Idealismo trascendentale, che segnano il passaggio dall’« innatismo » all’«immanentismo » della verità: i princìpi del giudizio sono forme 4 priori immanenti dell’attività del soggetto pen- sante. Per conseguenza il problema della verità s’identifica con quello del conoscere razionale: non vi è un principio della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il reale e il reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelli- gibilità metafisica della conoscenza non può avere più posto nell’idealismo trascendentale, in quanto il sapere razionale 122 Filosofia e Metafisica è tutta l’intelligibilità metafisica: la gnoseologia è essa la metafisica, la sola possibile. Il problema dell'essere della verità del giudizio è risolto nell’altro della verità immanente allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri ter- mini, il pensiero stesso è verità, padre e fondamento della ve- ridicità di ogni conoscenza vera o razionale, con cui s’identi- ficano pensiero e reale. Anche questa volta i tre elementi del giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, nep- pure a due. Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale ed ogni ente nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se stesso; anzi — con il Gentile — nell’Azto del pensare o nel Pensiero pensante, unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso modo l’empirismo, diventato positivismo, risolve il reale ed ogni ente nella Cose unica, alla quale assimila il pensiero, che ne è un epifenomeno, « cosa » dalle stesse leggi delle cose governata. Ma il positivismo non è solo sviluppo dell’empiri- smo, bensì risultato della collusione di quest’ultimo e del- l’idealismo trascendentale attraverso il criticismo di Kant: se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è tutta immanente al mondo ed il processo dell’uno è quello dell’altra; se vi è adeguazione perfetta tra reale-cosmo e ra- zionale, consegue che assoluto filosofare è assoluto scientiz- zare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica; lo Assoluto è la Scienza, la filosofia ne è la « metodologia ». La metafisica cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad Hegel ha nel positivismo uno dei suoi sviluppi coerenti: po- sto il conoscere razionale come fondante se stesso; negato il problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza una verità oggetto della mente; identificato il sistema del « sapere » con quello del « mondo », consegue che tutto il pensiero è ragione, che l’oggetto unico della ragione sono le cose e i princìpi del conoscere, cose essi stessi, o schemi, L'esistenza di Dio 123 categorie in cui ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i princìpi, ma « divino » è il fatto, come dice l’Ardigò, quasi i fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il pro- dotto dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio stesso, è il Pensiero e non più la verità che lo illumina; ma siccome il Pensiero è tutto immanente nelle cose e nel mondo — dire che il mondo è immanente al Pensiero è dire la stessissima cosa che il mondo adegua, immanentisticamente, il Pensiero stesso — la divinità di quest'ultimo è divinità delle cose. Perciò a un epigono di un Hegel pensato, o meglio spen- sato, con mentalità afilosofica è stato facile ridurre la filosofia a « metodologia della storia », cioè dei fatti umani, forma di positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da quello naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia delle scienze o dei fatti naturali. Infatti, se questo positivismo assolutizza la scienza, l’altro assolutizza la storia. Così la Ra- gione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi sia opposi- zione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio. « Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue che se Dio non è razionale, non riducibile alla Ragione im- manente, se non è la stessa Ragione immanente, non è reale. Ma Dio identificato con la Ragione immanente non è più Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. In conclusione: 4) il problema della verità, fondante la veridicità del conoscere, risulta soppresso e con esso la ve- rità, la luce che fa intelligente la mente e la ragione capace di conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri sen- za l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi cessano di essere oggettivi nel momento stesso che si riducono a « fun- zioni » trascendentali del Pensiero o della Trascendentalità, principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante da sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e l’assoluto sapere; c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, tutto il sapere è sapere le cose, e niente le oltrepassa; 124 Filosofia e Metafisica d) tutto è cosa: cose spirituali o umane, ma sempre co- se o fatti: idealisti, spiritualisti, positivisti o come si chia- mano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre mate- rialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescin- dere dalle contingenze politico-sociali); e) così come sono negatori della essenza della filosofia, fatta necessariamente pura metodologia, in quanto le si nega l’oggetto interno — il problema della verità — quello che la costituisce autono- ma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della verità che è l'essere. Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello razio- nale o « mondano » — giudizio sulle cose per stabilire nessi e rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale — sapere asso- luto in quanto ha il suo fondamento in se stesso, consegue che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa prin- cipio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di fondamento: la filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, pro- cesso di « sfasciamento » del sistema della Ragione. Essa ha accolto dapprima la conclusione del criticismo kantiano, con- vergenza del razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è « funzione » del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per conseguenza non è razionalmente dimostrabile; e successiva- mente l’altra, che la Trascendentalità è essa stessa l’essere tutto e che non c’è problema dell’esistenza di Dio perchè Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno divenire dia- lettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta fino a negare la « teologicità » della Ragione hegeliana e a concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più senso e tutto è assurdo. La filosofia moderna, come filosofia della sola « ra- gione », è filosofia senza «intelligenza »; perciò ha perduto Dio e l’uomo. Terza risposta. — I princìpi del giudizio sono presenti alla mente, che ne ha l'intuizione. L'esistenza di Dio 125 Questa l’inzelligenza costituita dalla verità interiore, luce che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce sulle co- se, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità o loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascen- dentista, di derivazione e tradizione platonica, il solo idea- lismo autentico e, come tale, il solo vero realismo. I due idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi del giudizio, ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’ideali- smo trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodot- to del pensiero naturale e le condizioni categoriali della co- noscenza, identificando, come già detto, il problema della ve- rità come quello del conoscere razionale; l’idealismo trascen- dentista, invece, distingue tra «sapere » intuitivo e « cono- scere » razionale, tra presenza immediata della verità a//a mente e presenza riflessa della verità nella ragione; pertanto, per esso, i princìpi del giudizio sono verità interiori alla men- te, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelli- gentia è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, la luce con cui, giudicando, illumina le cose e le conosce: le « conosce » in quanto le « vede » nella luce della verità alla mente presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla mente, appunto perchè interiorità, esclude l'’immanenza del- la verità stessa ed importa la sua trascendenza rispetto alla mente. La verità, presente alla mente, è più di essa: nel mio pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di me. Per essa son vere tutte le cose vere, ogni ente è verità, il pensiero capace di verità e la ragion di giudizio vero; ma essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il mio pensiero, nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li tra- scende. Per conseguenza, la presenza della verità alla mente è insieme trascendenza, in quanto alla mente è presente qual- cosa che non è prodotto da essa. Donde questa presenza? Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia 126 Filosofia e Metafisica mente, per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il pro- blema dell’intelligibilità metafisica del conoscere ed è appun- to il problema dell’esistenza di Dio. 6. — Indubitabilità ed indistruttibilità della verità dei prin- cìpi del giudizio. Irrazionale e ridevole qualsiasi tentativo di mettere in dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti, esso si con- figura come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del giudizio sono « al di là» del dubbio, consegue che l’intelli- genza che li intuisce è « fuori » del dubbio e dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere razionale non della intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rap- porti che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non nei princìpi del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. L'intelligenza o intuito della verità è sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana, in questo senso, è la libera prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse scacciarla non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche il pazzo perde la verità, che resta presente alla sua intelli- genza. Infatti, il pazzo è uno « sconnesso », ragiona male o non ragiona affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi mal combinati, ma non potrebbe sragionare o sconnettere, senza i principi del giudizio presenti alla sua mente: se ne fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dun- ue anche nel pazzo c’è l’uomo essenziale e profondo, la presenza della verità: la ragione sopraffatta lo ha abbando- nato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia sempre uomo, soggetto spirituale. D’altra parte, anche ammesso, a detta di alcune teste scien- tifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere ra- zionale sia « convenzionale » nel metodo, nelle premesse e L'esistenza di Dio 127 nelle conclusioni, ciò non scalfisce minimamente il nostro discorso: è possibile il convenzionalismo della conoscenza ra- zionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali che lo rendono possibile. Dire che anche essi sono conven- zionali è giudicare i princìpi in base a cui si giudica e che non possono essere giudicati. Domando: in base a quali altri princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle due: o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; o ve ne sono altri, e allora sono essi i principi non conven- zionali. Anche se tutto il conoscere fosse convenzionale non potrebbero essere convenzionali i princìpi in base a cui giu- dico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal caso niente sarebbe convenzionale. Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la verità; se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con cui pretendessi distruggerla! Non posso annientare la mia mente, l’uomo profondo in me, anche se posso distruggere la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la sce- menza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se scon- volgono o annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. perenne, immortale —- come perenne ed eterna è la verità — non è l’io razionale propriamente detto, ma l’io intelli- gente, che è oltre la ragione e perciò oltre la scienza, la paz- zia, la morte. Anche nel naufragio totale di un’anima, super- stite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di affermazioni vere, di slanci di bene; le profondità del suo essere restano sempre orientate verso Dio. Se i sotterranei della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono rischiarati consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può es- sere decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto può diventare lume di verità e fuoco di carità, potenza di santità. La verità, ogni verità, per piccola che sia, è eterna; perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina; in questo 128 Filosofia e Metafisica senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e ogni cosa per il suo grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed amato: avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, in lui abita ancora e sempre la verità, che è divina (‘). Essa, non privilegio di alcuni ma bene a tutti comune, inerisce alla natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume del- l’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del ricco, del venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la rifles- sione scientifica o tecnica, la elaborazione dotta e concettuale che è solo di alcuni uomini; ma l’uomo essenziale, radicale, è nell’intelligenza della verità primale, fondamento di ogni elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa e sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo la verità e dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è un’operazione somigliante a quella di un assassino che, do- po aver ucciso, adorna splendidamente con meticolosa cura il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sem- pre arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio che fonda la veridicità di ogni conoscere. Non è divino il pensiero (idealismo trascendentale), non il fatto o la cosa (em- pirismo e positivismo), è divina la verità in noi, madre di ogni verità razionale e figlia della Verità che la oltrepassa e ci oltrepassa immensurabilmente. 7. — Elementi e formulazione della prova « dalla verità ». Dopo questo lungo discorso necessario e chiaritivo dell’es- senza della prova, raccogliamo tutti gli elementi che la ricer- ca ha messo a nostra disposizione. (4) Quanto sopra è detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta dello spirito non è solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale «dialetticità che si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, la vita spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. L'esistenza di Dio 129 1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pen- siero o di una intelligenza: non vi è verità senza un pen- siero che la pensa, un'intelligenza che la intellige. Nel caso della mente umana finita, ciò non significa che la mente fac- cia essere la verità, «la ponga», ma solo che la scopre in sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce è da essa indipendente. D'altra parte, come verità non di ieri o di oggi, ma di sempre, è necessaria, eterna; era verità prima che mente umana la pensasse e lo sarà anche se nes- suna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intel- ligenza, non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè può non essere, appunto perchè eterna; dunque vi è la Men- te o il Pensiero che la pensa, eterno come essa. Ma se Pen- siero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza della mente umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque esiste la Mente assoluta infinita che è la Verità in sè asso- luta e infinita, da cui è ogni verità: è la Verità creatrice. Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana intuisce verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a provare che esiste Dio come Verità assoluta, in quanto le verità dalla mente intuite, proprio perchè intelligibili, appar- tengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal- ‘l’ordine del pensiero all’ordine del reale. Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere affetto dal più grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica il reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della realtà; 5) dall’altro, non tien conto che noi argomentiamo dalla presenza della verità alla mente, cioè non da un pos- sibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene al- l’ordine dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto che, se per l’essere finito la verità intuita è solo dell’ordine 130 Filosofia e Metafisica del pensiero perchè egli per la sua finitezza non può es- sere il soggetto sussistente ad essa adeguato (se il pensiero umano adeguasse la verità infinita sarebbe esso Dio e per ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita, in- vece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè non è un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui s'identifica. In altri termini, la distinzione tra i due ordini, per cui non è logicamente corretto dedurre dal pensabile la sua esistenza, è valida per il finito e non per l’Essere infinito o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gau- nilone; e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del Santo di Aosta. Questa precisazione significa ancora ben altro: la verità è oggetto nell’uomo, perchè non può identificarsi con il sog- getto, ente finito, ma come Verità in sè è soggetto, è il Sog- getto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non è l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione è valida contro chi obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto o la Sostanza assoluta, al pari dello Spinoza o del Carabellese. 2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un altro or- dine di considerazioni: la verità che la mente umana intui- sce e di cui la ragione si serve per formulare giudizi validi, ha i caratteri dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali ci obbligano a riconoscere che è, sì, nella mente umana, ma non dall’uomo creata; i caratteri essenziali della verità so- no gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la verità presente nella mente umana non può essere che di ori- gine divina: esiste Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene ha fatto dono. Di qui ancora la necessità di tener distinte l’inzelligenza e la ragione di Dio: non vi può essere ragione di Dio senza intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è o viene a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inespri- mibile perchè la ragione ne è impedita come nel caso del pazzo, dell’idiota, dell’ateo: niente può strappare la verità L'esistenza di Dio 131 dalla mente e la mente dalla verità, che è divina, più del- l’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente del pazzo o dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la pre- senza di Dio come presenza della verità data all’intelli- genza. Per conseguenza, da un lato, la ragione che nega Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle all’inzellectus, fuori dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che argomenta dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, dimostra conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la ratio chiede all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da questo punto di vista, la razio è un potere conoscitivo infe- riore all’inzellectus da cui dipende. Il dubbio e l’errore pos- sono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nel- l’intuito fondamentale della verità. 3) Tutti i caratteri che analogicamente attribuiamo a Dio sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) la verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere che è principio di se stesso; 2) la verità è necessaria ed im- mutabile; Dio, l’Essere necessario ed immutabile; 3) la ve- rità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere tra- scendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Es- sere creatore; 5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Or- dine e la Perfezione assoluti; 6) la verità è essere, ciò che di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere realissimo; 7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 8) la verità è l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è la Verità, il Soggetto intelligente infinito. 4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immu- tabili, assolute; l'ente intelligente, contingente e finito, non può creare nè ricevere dalle cose per mezzo dei sensi le ve- rità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè necessaria, im- mutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 132 Filosofia e Metafisica alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed asso- lute, che sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità im- mutabile, assoluta, trascendente che è Dio. La ragione giudica secondo i princìpi intuiti dall’intelli- genza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può met- tere in discussione, pretendere di dimostrare, la verità di quelle verità, fondamento della veridicità dei suoi giudizi. Intuite dalla mente, sono applicate dalla ragione; non ha senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe po- tuto essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere la dimostrazione di quelle verità, fondamento della veridi- cità di ogni dimostrazione: sono fuori discussione, al di so- pra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare l’esistenza di Dio « dalla verità » significa porre in discussione i prin- cìpi, punto di partenza fuori discussione. Per conseguenza, nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è impli- cata l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già pre- senza in immagine di Dio stesso. In questo senso si può dire che ogni qual volta la mente è presente alla verità che è in lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque, pen- sare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed im- mediato del nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il Trascendente. Non il ragionamento o la dimostrazione fa che Dio esista, ma semplicemente constata che esiste: 2+2 è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare l’esisten- za di Dio è acquistare piena consapevolezza della nostra vita spirituale, dalla quale infatti muove l’argomentazione, la cui forza è nella proposizione «è presente alla mente umana qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la ragione argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esi- stenza degli spiriti finiti e contingenti all’esistenza dello Spi- rito infinito e necessario; oppure dal soggetto pensante nel- l’oggettiva verità che gli è interiore e lo costituisce pensante, alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si tratta L'esistenza di Dio 133 di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio, ma dall’ente nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e neces- sario che lo fa essere ente pensante. D'altra parte, l’uomo pensa per la verità, oggetto naturale del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al pensiero è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conse- guenza, la « presenza » del pensiero è « compresenza » della verità; dove c’è pensiero c’è verità e viceversa; dove c’è pen- siero c'è dualità, il pensiero, che è tale perchè si illumina al- la verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso sia. La prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità pri- male, per cui anche la notte più densa della coscienza è sem- pre quella nella quale veglia la presenza di Dio. La notte si ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità che dal di dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre più chiara e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pen- sante, dunque c'è Dio: basta che vi sia un pensiero perchè sia implicata, come scrive Campanella, l’esistenza dell’ Asso- luto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario pen- siero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esi- ste) e possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual volta il pensiero acquista coscienza di sè, cioè conquista la verità di se stesso, il senso della sua dipendenza dall’Essere creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè l’argomentazione abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, ignuda, pura di sofismi, vergine di menzogna: intelligenza della verità, che è senso dell’essere, il costituirsi dell’uomo nella sua genuina umana sostanza! « Chi pensa, pensa Dio»: al contrario « chi non pensa Dio, non pensa» perchè è assente all’oggetto naturale del pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro essere, se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no- 134 Filosofia e-Metafisica stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo chi si pone da questo punto di vita — cioè si colloca sul pia- no dell’essere — ha oltrepassato la posizione empirica e po- sitivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è già ben saldo in quella metafisica e della vita spirituale. Insistiamo: altro è l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, co- se distinte anche se non discordanti. Sapere Dio è conqui- stare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, tra- duce in discorso, che è appunto dimostrare sul fondamento dell’intelligentia. Il pensiero moderno ha voluto fare dell’esi- stenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto Dio: ne ha fatto un problema di « scienza », di conoscenza « scientifica », non uno di vita spirituale, d’« intelligenza », di verità. Dio per la pura ragione — quella del calcolo, dei nessi e rapporti — è un ente di ragione: il Dio del deismo è Ente razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive natura, dice Spinoza); quello del meccanicismo di Newton è Legge o Causa del mondo, l’Architetto dell’universo degli il- luministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel divenire stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spi- rito e come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si adeguano perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio è perduto nè poteva non perdersi: la ragione, fatta essa tutta la verità, è priva dell’intelligenza di essa, veicolo a Dio. La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo del- l’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li ap- plica alle cose di cui giudica: la ragione è « scientifica », este- riorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché re- sti sempre unita all’intelligenza, imbevuta della luce della verità, in modo che con un occhio guardi nel mondo, e l’al- tro lo ficchi a fondo nella sorgente che la illumina e tutto illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere revi- sione critica del pensiero moderno, è quello del recupero del- L'esistenza di Dio 135 l’intelligenza, dell’intuito della verità che fa vera la ragione e ne è «al di là»; in altri termini, è il problema di oltre- passare la pura scienza, del riscatto dell’interiorità, della pro- fondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è bisogno di un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, luce di verità, sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’in- telligenza è sempre più giovane della ragione. Perciò la pie- na intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta, del santo, che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua per- sona — carne e ossa e sangue € spirito — come fusa in una unità incandescente e dinamica, che è slancio di azione, fe- condità di pensiero, accensione perenne dell’intelletto al fuo- co della verità. Ragione sì, anche; ma riempita d’intelligenza. 8. — In interiore homine habitat veritas. Presenza, non immanenza della verità alla mente; se im- mane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, la verità diventa un suo prodotto e non pone il problema del- l’esistenza della Mente assoluta, in cui il pensiero e il suo og- getto (la Verità) s’identificano, a differenza che nella mente finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente atea. Ma la riduzione della presenza ad immanenza della verità implica contraddizione, quella dell’idealismo trascen- dentale, specie della forma più matura e coerente di esso, che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, verità e pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo stesso soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero pensa se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare, ma la dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato 0 è un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il pensiero pensante adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non mediazione, o non l’adegua e c’è trascendenza, non più im- manenza. 136 Filosofia e Metafisica Presenza della verità alla mente dunque, e, nello stesso tempo, trascendenza, in quanto presenza è sempre dualità di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora, se intuire la verità che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri divini, consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo cerca Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro di sè un’immagine divina. D'altra parte, se la verità è inte- riore alla mente, in questo senso si può dire che Dio è in noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisa- mente, l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’im- magine di Lui, cioè la verità illuminante ed operante. Che non è Dio; e perciò la sua presenza accende il desiderio di Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del Bene sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della mente è la conoscenza della verità: Dio è la verità assoluta; dunque alla mente adherere Deo bonum est (°). La pre- senza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante, stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orien- tatrice e unificatrice: l’oscura nozione della verità è il pre- sentimento di Dio; la stessa esigenza di verità è esigenza di Lui, come la prima verità scoperta è implicitamente la pri- ma scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è l’inter- mediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente in- finita creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed è perciò naturalmente, ma indirettamente, unito a Dio. Que- sta la sua condizione naturale. Da ciò consegue ancora: dato che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, tutto il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più ele- vato, anche quando l’uomo tende ad altro, è orientato a Dio, converge nella « scoperta » della verità, che coincide con la « scoperta » dell’esistenza di Dio, punto assoluto di conver- (5) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una pro- duzione ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non relativa; Egli è « Colui che è » e gli altri esseri sono per suo libero atto creativo. L'esistenza di Dio 137 genza di tutta l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O uni- ca filosofia è quella scettica — e perciò un’insormontabile e assurda contraddizione — o essa è capace di una sola verità e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è l'intel- ligenza umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la presenza della verità, della Verità in sè. Vi è in ogni ente pensante un teismo embrionale, in quanto gli è presente la verità, sia pure involuta o nascosta; vi è come un « pensiero compendiato », che si fa sempre più esplicito a mano a ma- no che lo spirito acquista coscienza della verità ad esso in- teriore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la conoscenza piena della Verità assoluta, oggetto della sua suprema aspirazione ma sempre rivestito di «sacro miste- ro »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia, non è filo- sofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche al- l’estremo confine della conoscenza, può esserle dato solo dal- la Rivelazione e dalla fede (6). L’uomo non è soltanto un essere razionale, ma intelligente e razionale; come intelli- genza è naturaliter teista. (6) F. BonatELLI, Pensiero e conoscenza, Bologna, 1864, p. 108. CapitoLo III CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA PROVA «DALLA VERITA’ » 1. — Dio Primo Vero assoluto. Vi sono verità che in nessun modo possiamo pensare che non siano vere: questa proposizione è il fondamento della prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo svi- luppato. Il fatto che la ragione, malgrado la loro presenza, possa errare ed erri, non solo non prova nulla contro di esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non fos- sero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di er- rore. Chi dice: «la ragione umana erra, s’inganna », sot- tintende: « perchè ha deviato dalla verità, se ne è allonta- nata »; dunque ammette la verità e, solo in quanto essa c’è, può rilevare che la ragione erra. L'affermazione: «la ra- gione umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed in- ganno », non ha alcun senso: è soltanto uno sfogo passio- nale, un’insensatezza che, come tale, non interessa la ricer- ca filosofica. Essa significa: «l’uomo non può pensare altro che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare il nulla di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non C'è più questione di errore, nè di verità. « Pensare il nulla », «l’assurdo », «il puro errore», «conoscere l’errore », ecc. sono espressioni senza senso, suoni verbali che non signifi- cano niente. D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente pensante in ogni sua parte è contingente e finito, conferma L'esistenza di Dio 139 che la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fat- tura: è stata data a lui, fatto capace di conoscerla. L'ente pensante è un dato; la verità che egli, contingente e finito, non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in inte- riore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità in sè, il Primo Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero As- soluto o Dio; c) che di essa è il Principio: dalla verità creata in me alla Verità creante in sè; dal dato al Principio effi- ciente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita; dal- l’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formula- zione della stessa prova. Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio esemplare e di Principio efficiente. La mia mente intuisce delle verità, che sono un’immagine vera e reale del Modello verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta, ma non si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’al- bero che si riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto creativo efficiente che lascia nella creatura un’orma di sè, viva, operante ed illuminante, produttrice dell’attività razio- nale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle ve- rità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine in me della Verità in sè non è rappresentativa bensì presen- tativa di Dio, non com'è nella Sua essenza, ma come può essere presente all’ente creato nello stato naturale. È invece rappresentativa la conoscenza razionale in quan- to lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini concettuali: è conoscenza spettacolare, di ciò che sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è presentativo: l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto non è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e di qualcosa che è dentro di me. La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso tempo più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 140 Filosofia e Metafisica 2. — Il principio di causa e le due forme di astrazione. Nella formulazione data testè della prova abbiamo fatto uso del principio di causa, ormai legittimamente in quan- to si è dimostrato che l’ente pensante finito è capace di co- noscere verità oggettive, una delle quali è appunto il sud- detto principio, che, come ogni altro fondamentale del giu- dizio, è vero per se stesso e fonte di verità razionali (!). Come tale è già una presenza, per se stesso una attesta- zione, una testimonianza dell’esistenza di Dio; come prin- cipio di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la veri- dicità di ogni dimostrazione razionale che su di esso si fonda e dunque anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma nel contesto del nostro discorso il principio di causa ha un significato particolare. « Interiorità », « presenza » della ve- rità alla mente, implicita ed oscura quanto si voglia, signi- fica sentirsi dentro la verità che è in noi, viverla come vita e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi nella sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza è acquistare coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la con- sapevolezza della verità è già coscienza che vi è nella mente qualcosa di superiore ad essa: la verità è di per se stessa te- stimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità in noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostra- tivo dell’esistenza di Dio, ma sulla base della capacità « pre- sentativa » di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri ter- mini, il rapporto di causalità di ordine razionale si esplica e riceve verità e forza dall’intelligenza, di cui fa parte, come verità originaria, lo stesso principio di causalità; l’argomen- (I) Resta da esaminare e provare se i princìpi fondamentali non siano im- plicati in un'unica intuizione primitiva. Tale approfondimento sarà fatto in altra sede, ma fin d'ora possiamo dire che i princìpi del giudizio sono impliciti nel- l’intuito fondamentale dell’Idea dell’essere, che intendiamo in un modo che non è più quello del Rosmini, anche se da lui ispirato. Successivamente alla prima edizione della presente opera abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: L’interiorità oggettiva, L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e immortalità, rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. L'esistenza di Dio 141 tazione in base al suddetto principio dà forma razionale e dimostrativa al momento interioristico della presenza della verità alla mente, « presentativa » dell’esistenza di Dio. Per- ciò nella prova vi sono due momenti solidali e convergenti: a) prova come esperienza della presenza della verità, che è acquistare consapevolezza esplicita dell’« ospite celato e pre- sente », come dice il Blondel; 5) e prora come argomenta- zione dalla nostra realtà spirituale all’esistenza di Dio. Il principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha per Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi pri- mi, è interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è già una conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o im- plicita, una verità oggettiva e non una pura condizione sog- gettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come oggetti- vamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni altro fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideo- logica o ascendente, cioè astratto dalle percezioni sensoriali, in quanto ogni astrazione che l’uomo fa da queste presup- pone proprio i princìpi fondamentali come strumento di astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di uni- versale ed oggettivo. Tale astrazione ascendente, dai parti- colari a quel che le cose hanno di universale, non forma le verità prime e non potrebbe mai formarle — tanto è vero che ogni posizione empiristica prima o poi conclude al nomi- nalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo — ma le trova formate e ne fa uso nel procedimento astrattivo. D'altra parte, esse sono prodotte e non dall'uomo, veri derivati e non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eter- no. Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stes- so: sono il prodotto, come ha dimostrato il Rosmini, non del- l’astrazione ideologica ascendente, ma dell’astrazione divina discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma di- (2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente « astrazione teosofica », espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche dire: astrazione logica ascendente e astrazione ontologica discendente. 142 Filosofia e Metafisica scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in interiore homine una presenza della Verità, ma la stessa Verità, non il divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la ve- rità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 5) l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della verità infinita, cioè Dio. Con l’astrazione discendente si spiega l’origine non umana delle verità primali che sono presenti alla nostra mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di queste verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o verità. Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma diciamo che essa, da un lato, presuppone l’astrazione discendente e, dall’altro, ha il suo campo di applicazione limitatamente al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di esperienza sen- soriale. Ma quel che importa è recuperare e far nostro il concetto di astrazione perchè è garanzia del rapporto ana- logico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo contro l’ontologismo e il panteismo. 3. — La verità presente alla mente è appartenenza di Dio senza essere Dio. Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre parzialmente, contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Per- ciò noi misuriamo, « giudichiamo » la verità o il grado di realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme adeguino la verità che è in noi; dunque, la verità dalla mente intuita non trova in nessuna cosa esistente la sua adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto ideale astratto. Ma se c’è nella mente creata una presenza della verità asso- luta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo com- preso, perchè contingente e finita, possa essere la sua sussi- (3) Evidentemente si parla di « astrazione » da parte di Dio in senso ana- logico: qui il termine non vuol significare l’operazione propria dell’uomo — assurda se attribuita a Dio — di astrarre l’universale dal particolare, ma l'atto creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata, non è più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. L'esistenza di Dio 143 stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, è il Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità primali che la mente intuisce sono un’appartenenza di Dio, il « divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera dell’Intelligenza divina. Non Dio, assolutamente: la Verità in sè contiene infinitamente più perfezioni di quante possiamo attribuire alla verità che è in noi e le stesse perfezioni da noi conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in grado eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per mezzo della Rivelazione, più diquanto ci fa conoscere la verità intuita: gli attributi di questa, per analogia, li predi- chiamo anche dell’Essere assoluto (°). Noi sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso di sapere e per quanto ha voluto che fosse presente alla nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può dire che l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci po- trebbe mai venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la verità, immagine della Verità in sè, intermediario che ci unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata da Dio stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate dalla Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura implicata involuta quanto si voglia, è interiore alla mente, perchè interiore le è la verità che la illumina, la fa pensare, conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la proposizione, (4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il soprannaturale alla natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito del Rosmini, di non capire o di non voler capire. (5) Dio, la Perfezione assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. Omnis determinatio negatio est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là dell’atto definitorio della iogica della determinazione astratta o del definire esclu- dendo. In questo senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò che si predica del finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito che Egli è l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e per- fettissimo, è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio è fuori della serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è « l’analoguant createur » (N. I. I. BartHasar, Mon moi dans l'étre, Louvain, 1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi irreceptus, cioè non ricevuto in una essenza specifica; la sua essenza è l'atto di essere e dunque ia sua perfezione non ha limiti: indeterminato perchè senza limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 144 Filosofia e Metafisica nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è valida per tutte quelle conoscenze che non possiamo avere senza il concorso di similitudini sensibili, non per quelle verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fos- sero in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie sensibile. Per conoscere un oggetto particolare è necessaria l’esperienza sensoriale; per giudicare di questa o quella cosa è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa giu- dicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la validità di ogni giudizio e rendono possibile la conoscenza riflessa delle cose particolari, non è necessaria esperienza alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa intuiti, di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora è proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di ogni altra verità, questo naturale iudicatorium, che si dice presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui unisce sine ad4- miniculo sensuum exteriorum (°). 4. — Critica costruttiva del principio di causa. Da questa conclusione possiamo trarre lumi per ulterioriconsiderazioni sul principio di causa. E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali si servono del principio di causa — da un effetto alla sua causa fino alla causa ultima non causata — fanno come quel tale che va in giro tutto il giorno con una vettura da nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia sulla soglia. Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa non causata si serve del principio di causa fino ad un certo punto, poi lo abbandona, come chi licenzia la vettura sulla porta. In altri termini, il principio di causa è valido fino a quando si risale da effetto a causa, ma non quando si arriva (o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè è valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) (6) S. Bonaventura, Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL L'esistenza di Dio 145 che trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schope- nhauer c’è la critica di Kant all’argomento cosmologico. Tale osservazione ha per noi scarsa importanza, dopo il chiarimento dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della prova e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si li- cenzia la vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di casa, ma si entra in casa con essa, anzi si è già in casa, in quanto l’effetto è presenza del Principio da cui è. L’esemplari- smo ci consente di scoprire nella realtà spirituale l’immagine (effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è cono- scere Dio come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zove- rim me, noverim te, dice Agostino. Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando diciamo che la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla vita dello spirito (di cui fino ad ora abbiamo considerato solo l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da quell’essere contin- gente che è l’ente pensante finito avente un contenuto, og- getto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. L’intuito o l’intelligenza di queste verità, che non sono perchè io le penso, ma, al contrario, io penso perchè esse sono e mi illuminano; la coscienza di questo contenuto del mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esi- stenza, non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo è il punto da cui muove la dimostrazione dell’esistenza di Dio « dalla verità ». Non dunque solo dal mio pensiero contingente e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità immuta- bili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; dall’ente « pensante », ma che è tale in quanto intuisce un « pensato » oggettivamente valido, che egli non crea e non giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la prova muove « dalla vita dello spirito » nella sua pienezza, che governa secondo verità immutabili ed universali la sua attività intellettiva e morale. L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di verità se mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci- 146 Filosofia e Metafisica samente a quello che chiamiamo «cosmologico » o anche « scientifico »; infatti, la causalità in questo senso è uno dei princìpi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva, invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in noi della verità e, come tale, valida come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Allora non il processo causale, applicazione che la ragione fa di esso ai fenomeni di espe- rienza, per se stesso porta a Dio — in tal caso è valida l’obie- zione dello Schopenhauer —, ma il principio di causa in se stesso, come puro principio, presenza di verità in noi. Biso- gna distinguere tra il principio di causa in se stesso e la sua applicazione. In altri termini, il processo causale è un nesso di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza; il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito, la cui presenza è presenza di verità in noi: come tale — e come ogni altra verità primale — è punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve necessariamente limitarne la validità all’esperienza e negare per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in que- sto modo Kant, come lo Schopenhauer, « criticano » soltanto l’uso che la ragione fa del principio di causalità negando che possa essere esteso al di là dei dati dell’esperienza sensoriale. Certo, se il principio di causa è inteso nel suo primo signi- ficato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro feno- meno che è a sua volta preceduto e condizionato da un altro ancora; è di questa causalità che lo Hume aveva negato la oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da nulla preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei feno- meni e di ogni serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò in questo senso non è causa dell’Universo, ma Principio as- soluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico, cause a L'esistenza di Dio 147 loro volta causate. Resta l’altro problema del principio di causa in se stesso, cioè della « verità » oggettiva di esso, che la «critica» ignorò per difetto di critica. Ora proprio la « verità » del principio in sè — non la sola sua applicazione o il processo di unificazione dei fenomeni — pone il pro- blema dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della sua soluzione. A Kant resta il merito di aver dimostrato, contro, la metafisica scientista e geometrizzante del raziona- lismo moderno, che il principio di causa, considerato nel suo uso scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto o Dio resta inserito nella serie dei fenomeni e non è più Dio, o ne è fuori e non si dimostra con il solo uso del principio che viene infatti, come dice lo Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il pro- blema di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, che è problema puramente gnoseologico : Dio è al di là della unità dell'esperienza. Se noi Lo identifichiamo con il tutto dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o di deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della metafisica razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e degli stoici) da Cartesio a Wolff: Dio principio unificante la esperienza, architetto del « mondo ». Di qui la identifica- zione di Dio con la Causa o la Legge, con la Ragione uni- versale; ma questo è il problema della causa cosmologica non quello del Principio teologico. Dal nostro punto di vista, la questione s'imposta diversa- mente: non dal processo causale (di causa in causa) a Dio Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità diretta- mente intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della verità è chiarimento dello spirito a se stesso, è toccare la sua interiorità profonda, che, conquistata, è è testimonianza di Dio, del Principio di verità e di ogni verità; poi la ragione argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e la pre- senzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso diverso da quello che ha come legge dei fenomeni. Per con- 148 Filosofia e-Metafisica seguenza crediamo che l’espressione « Dio-Causa prima » sia impropria e generi equivoci; meglio dire « Dio-Principio ». Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa, « verità » dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di causalità che regola i fenomeni di esperienza (7). Il mondo, più che effetto, è creatura di Dio; il concetto di effetto non traduce affatto la pregnanza di significato di quello di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò che è nell’ordine dell’essere limitato o creato. Dire che Dio è Causa di se stesso importa la difficoltà di concepire una Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da ogni effetto, tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra Dio- Causa e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci consente di porre l’esistenza di Dio come problema di ordine metafisico, al di là del piano delle scienze sperimentali e matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia pure causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, quasi integrazione o prolungamento della conoscenza scien- tifica; è solo il Principio (e la ragione anche) di ciò che esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio non esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, esiste in quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. In breve, il concetto di causa appartiene all’ordine dei feno- meni: Dio invece è l’Essere, la ragion d’essere creatrice di tutto ciò che è. Il progresso della scienza, da questo punto di vista, non interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa rende superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e (7) Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non causata, anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe im- portare in Lui un assurdo « prima » e « poi ». Dio è Principio assoluto e solo per analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G. ‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. L'esistenza di Dio 149 l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e viceversa. La preoccupazione di tanti volonterosi di « armo- nizzare » metafisica e scienza — e, peggio, fede e scienza — è una forma di «irenismo » senza senso e pericolosa. Dal nostro punto di vista il principio di causa, più che risolutore del problema dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che pone il problema dell’origine di se stesso come verità primale presente alla mente; ma, appunto perchè tale, esso è un dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, serve alla ragione per argomentare dalla verità presente alla mente all’esistenza della Verità in sè. In altri termini, la ragione dimostra l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e de- sidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e l’amore di Dio come Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno all’altro interiori. 5. — Il non senso dell’ateismo. Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non esiste ? Affermare razionalmente significa giustificare secondo ra- gione: si può giustificare l’affermazione « Dio non esiste » ? Se la domanda ha un senso non può significare che questo: l’affermazione « Dio non esiste » è un giudizio oggettivamente valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente validi senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità oggettiva; ma la presenza di questi princìpi è proprio il fondamento della dimostrazione dell’esistenza di Dio; dunque, dire che il giudizio « Dio non esiste » è oggettivamente valido è una contraddizione nei termini, in quanto se la ragione è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta perchè argomenti l’esistenza di Dio e non possa più ne- garla. Esattamente S. Bonaventura osserva (*) che, anche la (8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q. II. 150 Filosofia e Metafisica negazione di ogni verità faugualmente impensabile la ne- gazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice « non esiste verità » pone come assolutamente vera questa affermazione e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma non vi può essere un solo giudizio vero e una sola verità senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in quanto ogni vero è tale per la verità. Chi dice « Dio non esiste » e considera quest’affermazione come assolutamente vera, con ciò stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi nega che Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere ateo; benissimo: non vede la contraddizione, non si accorge che la sua negazione è l’affermazione senza senso di pensare l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è l’inst- piens, colui che non sa quel che dice, l’insensato. Dio è pre- sente alla nostra mente, interiore alla nostra vita spirituale: negare la sua esistenza è atto irrazionale, in quanto la ra- gione attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè la verità è presente alla mente, cioè proprio per la presenza di Dio in noi; dunque, non può « razionalmente » dubitare di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera dal dubbio. Assurda la sua pretesa di giudicare la verità, fonda- mento di ogni suo giudizio vero e dunque quella che la giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne per pronunciare giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimo- strare Dio non significa farlo esistere, ma semplicemente passare dal sapere originario alla conoscenza discorsiva pro- pria della riflessione. La ragione che nega Dio si mette contro la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni giudizio vero, contro se stessa, si contraddice; non nega Dio, nega se stessa nell’errore: insipientia. In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di Dio; an- che se la ragione costruisce un discorso negativo in tal sen- L'esistenza di Dio 151 so, la forza di tale ragionamento è nulla, puramente appa- rente: la coerenza formale è vuota della verità che sostanzia ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di razionalità intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrin- secamente o verbalmente razionale: l’ateismo non volgare è insensatezza sottile. Spesso si nega l’esistenza di Dio perchè non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno stolto ed irragionevole « dispetto » della ragione diabolicamente su- perba: «Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti nego; dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu non esisti». Lo stesso atteggiamento può determinare il fideismo assoluto: « Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò credo che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo irrazionale che spinge la ragione, uccidendola, a compiere lo sforzo innaturale di rendere «lucido » l’oscuro, di misu- rare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della ra- gione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella sua distruzione. Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non sanno quello che dicono. L’ateo è colui che pensando che Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei princìpi di verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità me- tafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pro- nuncia parole che non hanno senso e di cui non si rende conto; le dice, ma ad esse non può dare il suo assenso, in quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo: il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è anch'esso verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno che fosse persuaso che Dio non c’è: almeno mi direbbe la ragione invincibile che l’ha saputo convincere » (La Bruyère). L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio non esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa affermazione. Si può dire che la superstite  « ragionevo- 152 Filosofia e Metafisica lezza » del negare l’assenso lo salva in parte dall’assurda «razionalità » irragionevole del suo ateismo (7). L’ateo, l’insensato che fa la ragione giudice della verità invece di usarla per giudicare secondo verità, capovolge lo ordine del pensiero, sottomette la verità alla ragione; una volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone non sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde nell’errore e nell’insensatezza. Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe neppur pensare che non esiste, in quanto non penserebbe nulla. In questo senso pensare è pensare che Dio esiste; « io penso, dunque Dio esiste », scrive ancora La Bruyère, in quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). Da quanto abbiamo detto risulta che la dimostrazione dell’esistenza di Dio o la sua negazione è questione, dal punto di vista logico, di uniformità o disformità della ra- gione alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della ragione, non viceversa. Nella ricerca, guidata dalla verità, (9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti sotto il titolo Existence de Dieu (Paris, 1910), nota acutamente che quelli che sono o credono di essere atei testi- moniano in favore dell’esistenza di Dio; infatti, ci aiutano a rendere sempre più pura la nostra concezione di Lui, a liberarci delle rappresentazioni grossolane o infedeli: Ces douteurs ont frayé la route Et sont si grands sous le ciel bleu Que, désormais, gràce è leurs doutes, On peut enfin affirmer Dieu. (10) Con la prova da noi sostenuta, di evidente ispirazione agostiniana, ha punti di contatto quella del Rosmini: l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, intuita dalla mente limitata e mutevole, non può essere prodotta dalla mente stessa, la riceve come l’oggetto primo che la fa intelligente; vi è pertanto in noi un effetto non prodotto da noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste una Mente infinita, necessaria ed eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 797). Rosmini argomenta così perchè la sua idea dell'essere non è la forma a priori di Kant. Conoscere è giudicare, anche per lui: ma vi è un sapere intuitivo fondamentale che non è giudizio, e garantisce la validità di ogni cono- scere giudicativo. Nei nostri scritti successivi, già citati, abbiamo fuso la prova ago- stiniana’ con. quella del Rosmini attraverso un approfondimento del « principio di verità » e di quello dell’« essere come Idea », per cui è necessario integrare quanto si legge in queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto ed essere, III ediz., pp. 124-134. L'esistenza di Dio 153 la presenza di questa è presenza dell'immagine di Dio, cioè di un dato che testimonia del suo principio: nella stessa di- mostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella verità la cui presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la dimostrazione scaturisca da tutto il processo del pensiero, da ogni momento del suo svolgimento. Se conoscere signi- fica acquistare una sempre più chiara consapevolezza del grado di verità di cui la mente umana è capace, il processo del pensiero è processo di consapevolezza dell’esistenza di Dio: ogni verità scoperta è aztestazione della sua esistenza e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La originaria oscura nozione di Dio si fa sempre più chiara a mano a mano che il pensiero acquista coscienza della verità e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il suo destino di verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di Dio. La vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario dalla verità in noi alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. La presenza dell’uomo a se stesso lo è dell’uomo alla verità che gli è interiore ed infinitamente lo trascende. Vi è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò l’uomo più di ogni altro ente porta in sè i segni manifesti del suo Principio. 6. — La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve- ritas » e «ratio ». L’internità della verità alla mente al tempo stesso che garantisce la validità oggettiva della prova dell’esistenza di Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della ragione, che non « pone » la verità, ma argomenta sulla base della verità « posta », « data » alla mente: giudica di ogni cosa con cui l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i mezzi per conoscere e giudicare secondo verità. Vi è un nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè e che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca- 154 Filosofia e Metafisica pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà creata e finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera del- l’uomo, la conoscenza del mondo dell’esperienza, che la ragione è capace di costruire solo perchè poggia su un fon- damento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria ed orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razio- nale creato, è presente alla mente e direttamente intuita da essa, che ne ha inzelligenza; è in noi la presenza illumi- nante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità intuita, fondamento di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimo- strazioni. Senza la sua presenza, che è presenza indiretta di Dio, il movimento stesso del pensiero sarebbe incompren- sibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla ve- rità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione è chiamata a seguire questo movimento intellettivo dalla pre- senza interiore della verità alla Verità in sè, a inserirsi nella verità che fonda i suoi giudizi, ma appunto perchè li fonda, è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza indiretta di Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza per concatenazione di concetti. Lo spirito tende alla Verità in sè sollecitato dalla verità in lui presente; tende a Dio che è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e ne dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile per- chè nello spirito è presente tutto ciò che la rende possibile, ciò di cui la ragione si serve per argomentare rettamente. È evidente che i due termini veritas e ratio vanno tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili dalla mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento di questi princìpi che la trascendono, stabilisce nessi e rela- zioni. La ragione è il lume delle cose in quanto è essa che le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità intelligibili, che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni cosa (di fare che il mondo sia « esperienza »), tranne gli intel- ligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso, L'esistenza di Dio 155 è la verità che la trascende e la mette in grado di stabilire relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità. Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare — e dun- que neppure l’esistenza di Dio — se nulla di vero o di intel- ligibile la illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse per- chè la verità, indipendente da essa e dalla quale essa dipen- de, la illumina; c) dunque, la ragione non fa esistere Dio, ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è as- solutamente irragionevole che non esista e assolutamente ra- gionevole che esista. Per conseguenza anche se la dimostra- zione risultasse imperfetta a causa della ragione mutevole e finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza di Dio. La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed im- rfetta, perchè tale è l’umana ragione, ma non può mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per il semplice motivo che la stessa dimostrazione imperfetta — ma sempre contenente una qualche verità — non vi sarebbe se Dio non esistesse e non illuminasse. Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, distingue tra « ragione » e «lume della ragione »: la prima è l’attività che ha come «oggetto » l’idea dell’essere, che è appunto suo lume. Questa distinzione va approfondita (l’ap- profondimento è nostro e non va attribuito al Roveretano) perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale del no- stro discorso. Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo gre- co e del razionalismo moderno, che il « senso è del parti- colare » e la « ragione dell’universale »; il « senso è del con- tingente » e la « ragione del necessario », ecc. Queste espres- sioni non significano affatto che il senso è particolare e la ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso «è la cosa meglio distribuita »; non solo «la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propria- mente quel che si chiama buon senso o ragione) è natural- mente uguale in tutti gli uomini » (Descartes, Discours de 156 Filosofia e Metafisica la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, an- ch’essa naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo punto di vista, il senso, come facoltà comune a tutti gli uo- mini, è altrettanto universale come la ragione o l’intelli- genza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio non dipendono dal senso o dalla ragione in quanto tali, ma dal diverso oggetto che è proprio di ciascuna delle due fa coltà; in altri termini la ragione è universale, capace di giu- dizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio la fa tale, cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la universalità e la necessità del conoscere razionale non sono date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità che è suo oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si pri- vasse da se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere univer- sale e necessaria come organo conoscitivo. Non vi è un rap- porto gerarchico tra senso e ragione, questa superiore al- l’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che è oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concre- tezza e sinteticità dell’atto spirituale dove sono presenti, en- trambi si coordinano e si subordinano alla verità illumi- nante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero. Da ultimo se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe piùverità, sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e sog- gettiva al pari del senso, pur restando «la cosa meglio distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo trascendentale si può sempre convertire in forme estreme di empirismo e scet- ticismo. 7. — Partecipazione iniziale e finale. Vi è una verità primale presenze all’intelligenza fondante la veridicità dei giudizi della ragione; dunque l’uomo è creato con e per la verità, dove il «con» indica la parte- cipazione iniziale — è dalla verità — e il « per» il fine: L'esistenza di Dio 157 cercare la verità nella vita temporale per fruirne nella vita eterna; dunque, la verità guida il pensiero e, guidandolo, fa che esso la trovi e trovi, salvi, se stesso: itinerario filo- sofico con meta religiosa. Vi è dunque una partecipazione iniziale ed una partecipazione finale dell'ente intelligente creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza essenziale per il fatto stesso che è partecipante della verità, ma non è /a Verità, la contingenza della mente creata, che è per la Mente assoluta increata. Non una soltanto di ordine, diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma an- che e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: siamo enti perchè l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; come esseri e per quanto abbiamo di essere abbiamo di verità, e la verità che siamo è il nostro grado di essere: ciò che è vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere principiato implica l’esistenza di Dio. Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere, ed iden- tificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il Non-essere e il mio non-essere è implicato il mio essere, altrimenti non potrei pensare il Non-essere e me come non- essente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere, un essere, ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esi- ste, esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente è indipendente e allora ogni ente è #n essere assoluto in- dipendente, ciò che è assurdo perchè non ci sono più esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipen- dente; o l’ente dipende da altro per esistere e allora, ba- sta che esista l’ente finito, perchè esista Dio come Essere assoluto indipendente. Il problema dell’esistenza di Dio è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro cono- scere, ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o evitarlo solo evitando o scartando se stesso, tanto tale pro- blema è radicato in lui ed egli in esso. Ora, se la parte- (11) Superfluo avvertire che questa espressione è differentissima dall’altra hegeliana: « ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale », del resto già da noi criticata. 158 Filosofia e Metafisica cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non sia l’Essere ma dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia estraneo alla Verità o all’Essere nè l’Essere a lui, ma si avver- ta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo, che vi è in- commensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante del- l’Essere e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel senso da noi usato, importa contemporaneamente attrazione e repulsa; l’ente finito è come attratto e respinto dall’Essere infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto perchè non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diver- sità da ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito diverso da Dio, è perchè è da Dio: l’abisso che lo divide è contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui. Ma allora il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di co- noscere se Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste. Le due formule sono ben diverse: la prima — « conoscere se Dio esiste » — implica la possibilità del conoscere anche se Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di fronte al quale la ragione si pone giudicante come di fronte ad una cosa di esperienza: è la posizione dell’estrinsecismo razionalistico o «scientifico» dei «razionali non ragione- voli ». L’altra formula, la nostra — sapere che l’uomo esi- ste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste -— im- porta invece: 4) un «sapere», che è più del puro cono- scere, in quanto è coscienza piena e completa di tutto l’uo- mo; ) una dipendenza iniziale e finale dell’ente integrale che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c) l’impossi- bilità di esistere e pensare un solo istante se Dio non esi- stesse; d) la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, per cui non è di fronte a Dio, ma, come può esserlo l’ente finito, in Dio ed Egli in lui. Per conseguenza, il problema dell’esistenza di Dio non è di «conoscere se », ma di « sa- pere che », cioè di acquistare consapevolezza della dipen- denza iniziale e finale, della partecipazione interiore, per cui L'esistenza di Dio 159 si è in Dio: siconoscono le cose esterne, fuori di noi; si sanno le cose che sono in noi e noi in esse: perciò si sa che Dio esiste. « Essere in Dio » non significa, evidentemente, identifi- carsi con Lui o essere della Sua stessa natura, ma sapere di essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa perchè Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza significa, dunque, acquistare coscienza della nostra dipen- denza ontologica, sapere che noi siamo, viviamo, pensiamo e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui. La dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, poichè siamo la verità da cui essa muove e la testimonianza vivente di quell’esistenza. Gli uomini sono esistenti in questa verità che li unifica: sono reali, frammentariamente, nell’e- sperienza fenomenica. Io «sono reale » nella scienza, ma « sono esistente » nella mezafisica e soltanto nella metafisica. Pertanto, l’esistenza di Dio è un « problema » solo fino a quan- do l’uomo non conquista la piena consapevolezza di sè e del suo essere, non è presente a se stesso, che è essere presente a Dio, sempre presente; se lo è, non è più problema, ma evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema; provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscu- rità che avvolge la verità originaria, non acquista consape- volezza di se stesso. L'esistenza di Dio non s'impone alla mente con evidenza immediata, in modo da metterla nel- l'impossibilità di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, conquistata, è un’evidenza. La conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio; dunque, il pensiero che conosce se stesso, sa che Dio esiste e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In breve: se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è, non si conosce. L’ateismo è una questione di analfabetismo; ignoranza dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e della essen- ziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 160 Filosofia e Metafisica perchè sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel processo della ricerca, non nella verità che lo guida. Questo processo si attua attraverso due momenti di tra- scendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di giudizio sono le cose, il « mondo visibile » di Platone, per elevarsi all’intelligenza della verità; 4) di questa o della verità in noi, r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e del- l’interiorità (mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè ancora del momento gnoseologico (ragione) e di quello in- tuitivo (intelligenza). Trascendimento che non è negazione; è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla profondità di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che so- vrasta ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza dell’Esistenza di Dio, Mistero che solve ogni enigma, dà all’uomo il presentimento (ma solo questo e, in questa vita, sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella vi- sione ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle cose, dal discorrere ormai superfluo della ragione, sarà tutto l’uomo, l’uomo assoluto, non come specie, ma come singolo ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto, si ar- riva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la nostra grandezza. La ragione nel campo della sua attività è autonoma: giudica di ogni cosa del mondo senza essere giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e l’umana au- tonomia della ragione più piccola della piccolezza del « vi- sibile ». Quando Francesco Bacone, esaltato dai progressi della scienza, esigeva un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) che consentisse all'uomo di farsi padrone della natura, di dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva abba- stanza che la grandezza umana era in tal modo assoggettata ai limiti della natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito della sua intelligenza per incoronarsi piccolo re delle pic- cole cose, oggetto del conoscere razionale. La scienza è la L'esistenza di Dio 161 grandezza dell’uomo razionale, la sua cosmicità, ma è proprio essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui avverte la sua dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uo- mo è piccolo nella sua grandezza, la scienza del mondo; è grande nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la non- conoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di fronte al mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di es- sere. Il pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo conoscere ed ha perduto l’intelligenza dell’uomo, cioè il problema del suo essere, del « consistere » del suo « esistere ». Come abbiamo detto, non può essere pensato l’ente avente un certo grado di essere senza che si pensi implicitamente al- l’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e ogni grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di par- tecipare e dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La parte- cipazione iniziale lo spinge ed orienta a quella finale, al- l’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua interiorità; il pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio. In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: la verità presente alla mente preforma l’intelligenza e la di- rige verso Dio — è il senso profondo dell’idea dell’essere del Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Es- sere —; la partecipazione manifesta la sua profondità nella finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è così, nell’intelli- genza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la vo- lontà: la partecipazione finale si chiarisce come la finalità suprema dello spirito nella sua totalità di vita. CapitoLo IV LE IDEE I. — Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori di Kant. Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his intellectis sapiens esse nemo possit (!*). Quattordici secoli dopo, con ben altro orientamento di pensiero, Leopardi annotava (18 luglio 1824) nello Zibaldone: « Certo è che, distrutte le for- me platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Dio» (?). Queste due profonde osservazioni di uomini così diversi e lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono estre- mamente significative. Per il santo dei primi secoli, come per l’« ateo » dell’800, di formazione illuministica, negare le idee come conoscenze in sè, anteriori alle cose e misura og- gettiva per giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o nella mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè pone essa stessa e allora per questa presenza di qualcosa di immutabile e necessario, di illuminante e fecondo, ci si con- vince razionalmente che Dio esiste ed è irrazionale dire il contrario, o si nega che vi è una verità di tal natura e con essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o pro- vare l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e provvi- dente. Se tutto nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato senza traccia orma immagine vestigio divino, è impossibile dargli la nozione di Dio: egli è stato privato di quanto gli (I) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. (2) G. Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° L'esistenza di Dio 163 è indispensabile per poterlo trovare e provare, del lume della ragione, dell’oggetto che fa intelligente la sua intelligenza. Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo stesso, non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si perdesse nella finitezza e contingenza sua e del mondo, cosa tra le cose. Perciò Platone, il metafisico delle Idee, è il pa- dre della metafisica della verità, essenzialmente teistica: se esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste. Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è ban- dire Dio dal pensiero. Se la mente non conosce nulla di immutabile e necessario, niente vi è per essa d’intelligibile o di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di assolutamente vero è conosciuto dalla mente — insopprimibilità delle ve- rità che fa contraddittorio lo scetticismo — l’intelligibile è, e Dio è. Se non s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; cioè: chi non è presente alla verità che è in lui è insipiens,e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel che dice, non sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi og- gettivi, che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; chiuso al lume dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice concupiscenza del senso e della ragione: un irragionevole raziocinante. Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta volgare nella schia- vitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo qualificata « nobile» ed «eroica», nella passione o su- perbia della ragione, quella che sta alla base della nega- zione cosidetta « scientifica » o « filosofica » dell’esistenza di Dio: rifiuto di conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. Il suo limite non è l’impossibilità di trascendere l’esperienza, ma il rifiuto di trascenderla, l’ignorare che in essa è pre- sente qualcosa che la trascende. Ragione «critica » non è quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, ma la ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza e se stessa, in quanto cosciente di possedere una luce,la ve- rità, secondo la quale giudica, che è più di essa ed ha dun- 164 Filosofia e Metafisica que al di là della sua mutevolezza il Principio creatore. Solo se la ragione conosce che la verità è più e non meno di essa, ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di Dio non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è implicito nel problema dell’esperienza e nella esperienza stes- sa, che, in questo caso, è testimoniante: per il fatto che io ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima che per inferenza esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato che l’attesta. Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale il limite della ragione, affermazione che consegue dalla riduzione delle Idee o verità prime, intuite dalla mente e fondamento della veridicità di ogni giudizio, a forme « prio- ri, a pure condizioni della conoscenza. Qui il punto della questione: le Idee per l’idealismo ontologico sono verità, conoscenze prime, oggetto interiore della mente; sulla base di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee primali, che l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una verità che è data ed è più dell’io; dunque esiste Dio, la Ve- rità in sè donante, illuminante, creante. Per Kant, le forme a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza e da essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son funzioni di esso, forme dell’attività sintetica del pensiero; non verità o conoscenze, ma pure condizioni del conoscere e perciò vote: il contenuto lo riceviamo dall’esperienza, 4 posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son vuote, la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo dell’esperienza; dunque valgono solo a costruire e sistemare contenuti empirici. È evidente che, svuotate le Idee del loro contenuto di verità e fatte condizioni della conoscenza delle cose, non possono più trascendere l’esperienza dalla quale re- stano bloccate; dunque, non è più possibile una metafisica come scienza, tra l’altro, una dimostrazione razionale dell’esi- stenza di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione L'esistenza di Dio 165 giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure condi- zioni di essa; le forme a priori non trascendono la ragione, ma ne sono funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Cono- scenza valida è solo quella razionale e tutto il sapere è identificato con la conoscenza scientifica. Kant nega il sa- pere intuitivo dell’intelligenza e perciò deve negare che si possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla sua cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e lo si priva di Dio, che non è problema della ragione, se prima non è problema dell’intelligenza. Così è distrutta qual- siasi possibilità di dimostrare Dio perchè sono state di- strutte le Idee. Chi ha parlato di « veleno kantiano », da questo punto di vista, ha avuto ragione, anche se egli, se tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a ragione, per il tipo di apriorismo non kantiano qui sostenuto. In breve, Kant nega l’onticità dell’Idea e un sapere in- tuitivo: limite della forma 4 priori è l’esperienza senso- riale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a tra- scendere l’esperienza, cioè è il « cosmo», la «scienza ». Il concetto critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzio- nalità nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza che ha il suo limite nell’4 priori che la organizza, sono criti- ci a metà: sono critici del concetto di scienza, non del concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pen- siero, la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto ade- guato nel mondo fisico, in quanto l’esperienza fenomenica adegua la forma: il pensiero è ordinato al mondo, che è la sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione ini- ziale all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il con- cetto di creazione; infatti, se è posta la partecipazione ini- ziale, risulta contraddittorio negare quella finale, cioè am- mettere che l’Essere creatore abbia preformato l’ente creato 166 Filosofia e Metafisica in maniera da non essere ordinato a Lui, ma da avere la sua adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura è dal Creatore, non può non essere stata creata in modo da es- sergli ordinata; dunque la partecipazione iniziale implica necessariamente quella finale. Per Kant, invece, l’4 prio- ri ha la sua adeguazione nel mondo — nell'ordine na- turale: «il cielo stellato» e «la legge morale» — per conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e dun- que anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’or- dine del pensiero e da quello della realtà; non si spiega più neppure come possano nascere l’esigenza di Dio e le Idee della ragione, che non si giustificano, dentro il sistema kan- tiano, neanche come postulati della ragione pratica; Kant ve li introduce, ma restano estranei alla Critica com'è intesa da lui, la quale si risolve nel sistema della « cosmicità ». La Critica non è tanto critica da approfondire l’interiorità del pensiero, da sondare le profondità dell’intelligenza: le manca l'intelligenza dell’intelligenza, e non s’accorge che esigenze e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli altri pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni indelebili e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, fa- cendo l’uomo ente pensante, gli diede il lume della verità e la verità come oggetto del pensiero. Se ne accorse il Rosmini, la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori kan- tiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di Dio in noi (partecipazione iniziale) e preforma il pensiero stesso in modo che ad esso è impossibile invenire in alcuno dei contenuti di esperienza, o in tutta l’esperienza, il suo oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in solidarietà con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del reale, all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, convogliante, come letto d’immenso fiume, le innumerevoli sorgenti della vita, la totalità del creato. L'esistenza di Dio 167 2. — L'Idea nell’'empirismo inglese. Kant deriva il suo « criticismo » dal Locke, dallo Hume e dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più grande rappresentante. Locke è il primo consapevole e siste- matico distruttore dell’Idea nel senso dell’idealismo ogget- tivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni, immagini, percezioni, ecc., quanto è contenuto della «coscienza» : l’idea non è più l’oggetto intelligibile, immagine « priori dell’Intel- ligibile in sè, ma immagine del sensibile: l’anima, white paper, acquista le idee, puro contenuto della coscienza sog- gettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke, funzione della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo tra le idee-immagini sensibili; per conseguenza, la verità è « unione o separazione di segni » (joining or separating ofsigns), cioè di quelli impressi dalla esperienza sensoriale: il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della verità. Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sen- sibile complessa, cioè una somma di qualità prive di vin- colo reale; è « coesistenza continua » di alcune idee semplici, « considerate » (considered), per tale continuità di esistenza, unite in una cosa ed indicate con un « nome »; 5) l’identità della persona non viene da una sostanza permanente e perse- verante al di sotto del suo divenire, ma semplicemente dalla continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si cono- scono solo le qualità, abbiano un « sostegno », un'entità reale € che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: «Io non so cosa sia » (I dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empi- rica, un puro nome, un contenuto della coscienza soggettiva; non esiste un correlato oggettivo del pensiero; la ragione unisce e divide « segni » che, soggettivi, non garantiscono l’oggettività dei giudizi; dunque, non esiste una verità intel- ligibile, l’Idea come oggetto della mente, non prodotta ma solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza. Per l’ideali- 168 Filosofia e Metafisica smo oggettivo gli intelligibili sono, come Verità in sè, il con- tenuto della Mente assoluta; come presenza della Verità in sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento oggettivo dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfet- tamente nelle cose, di cui costituiscono l’essere o il grado di verità. In altri termini, sono il Primo Vero da cui deriva ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Pla- tone nel Timeo chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non sono il prototipo o l’esemplare intelligibile, ma pure imma- gini di origine sensibile: quanto noi conosciamo della realtà è quanto di « idee » o immagini ci forniscono i sensi; il reale conosciuto s’identifica con il contenuto della nostra coscienza empirica. Com'è noto, lo Hume, con maggiore coerenza del Locke e attraverso un approfondimento critico dei presupposti del- l’empirismo, non dice di « non sapere » cosa sia la sostanza, ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, s’identifica tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con le « impressioni » e le « idee ». Ma, per lo Hume, tra le une e le altre non vi è differenza di origine — le prime sono « co- pie di nostre impressioni» (copies of our impressions) — bensì d’intensità, le idee sono « percezioni più deboli » (more fleeble perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, bisogna chiedersi di quale impressione sensibile sia la copia. Non vi sono «sostanze »: quella che così si chiama è un insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vin- colo causale necessario ed oggettivo, ma solo I’ « attesa » che al fatto 4 segua il fatto d: è l’« abitudine » (custom) che fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee se non per « somiglianze » (resemblance), per « contiguità tempo- rale o locale » (contiguity in thime or place), per causa ed effetto, cioè seguenza accidentale di due fatti. Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza L'esistenza di Dio 169 alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non è più possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento della conoscenza e della realtà; vien meno ogni regola della vita intellettiva e morale, ogni sostegno delle cose. Distrutte le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose siano come sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo o in un altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il fatto che non vi sono più princìpi necessari, immutabili ed universali (*). Ciò prova come il punto cruciale del proble- ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico, sia la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e come la mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, come fa lo Hume, cade la validità oggettiva di ogni prin- cipio e qualunque dimostrazione è impossibile 4 priori ed 4 posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in- fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione argomenta; dunque dal problema della verità: secondo che questo è risolto positivamente o negativamente anch'esse sono valide o no. Ma se è risolto positivamente è già dimostrata l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi altra dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono (3) Ancora una volta il Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non filosofo nel senso tecnico del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- sismo), scrive il 17 luglio 1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100): « Quindi è chiaro che la distruzione [per un errore di stampa nel testo si legge « distinzione »] delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta e de’ loro contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- mento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341) ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così 0 così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose tra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente ». 170 Filosofia e Metafisica legate alla sorte di quella « dalla verità », da cui dipendono, di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. Hume è una buona lezione; negata l’oggettività dell’Idea è negato Dio; niente più regge, non lo spirito nè le cose, non la filosofia nè la scienza. In questo senso l’ultrailluminista Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo del- l’«uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito illuminista, in quanto rappresenta la vanificazione del reale ‘spirituale e corporeo e di ogni categoria del reale, la banca- rotta del razionalismo e dello scientismo illuministici. 3. — Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e validità del giudizio. Kant si accorse della rovina della conoscenza oggettiva e della metafisica come scienza, conseguenza della negazione delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il Rosmini. Ed ecco i due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti- vità del conoscere; 4) della restaurazione della metafisica co- me sapere razionale. La risposta di Kant è nota: i princìpi del conoscere non possono essere ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 4 priori della mente, oggettive ed universalmente valide, con cui lo spirito, mercè l’attività sintetica, costruisce l’esperienza, che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant, come abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma pure («vuote ») condizioni della conoscenza: per lui non vi sono verità 4 priori, interiori alla mente e da essa intuite, ma di 4 priori c'è solo la « forma » del conoscere. Per conseguen- za, egli nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- telligenza, cioè è d’ accordo con gli empiristi nel rigettare 1’ «idea » com'è concepita dall’idealismo oggettivo. Per con- seguenza, quando affronta il problema della metafisica come scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 priori, pur essendo indipendenti dall'esperienza, come sue L'esistenza di Dio IZI pure condizioni, al di fuori e al di là di essa non hanno al- cuna validità conoscitiva: 4 priori, ma bloccate nella e dalla esperienza. Prodotto dell’attività dello spirito e prive di un contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma sem- plicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono « giudicare » solo le cose di esperienza sensoriale. Ogni meta- fisica come scienza razionale risulta impossibile, come ogni prova dell’esistenza di Dio. In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega l’intelli- genza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla mente della verità: la forma più alta di sapere è per lui il conoscere razionale o scientifico, la matematica e la fisica come scienze. Kant « critico » non è « platonico », è « aristo- telico ». L’intelletto e le sue forme « priori (le « categorie ») non sono attualità di conoscenza, ma potenzialità di cono- scere: quello kantiano è un «intelletto possibile», in quanto le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma pure condizioni del conoscere e condannate a restare tali fino a quando non vengono « riempite » dal contenuto del- l’esperienza; senza di esso, l’intelletto, in sè, è privo di cono- scenza, è pura possibilità di conoscere. Per conseguenza esso, che non è in sè attualità, può conoscere soltanto quanto è oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro fenomeni- cità. La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così il modello del sapere e l’unico sapere umano. Kant critico — almento il Kant della Ragione pura — è più « illuminista » del Kant « precritico »: è il filosofo della ragione senza in- telligenza, della razionalità impersonale e non dell’ uomo concreto. Ma egli vide chiarissimo un aspetto del problema di Dio: che la prova cosmologica, come ogni altra, in fondo dipende da quella ontologica, che non è da identificare con la prova « dalla verità » o « dalla vita dello spirito », anzi la presup- pone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 172 Filosofia e Metafisica sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla mente. Fino a quando Kant fu « platonico » — o come si dice « pre- critico» — considerò valida la prova ontologica; diventato «critico » la rifiutò, perchè, negate le verità primali date alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote con- dizioni del conoscere, gli era preclusa la possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio 4 priori e con- seguentemente 4 posteriori. Ancora: col riconoscere la im- portanza primaria, rispetto a quella cosmologica, della pro- va ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esisten- za di Dio inerisce alla vita dell’ente spirituale più che a quella del mondo fisico; perciò egli, dopo aver creduto di aver colpito al tallone l’Achille della metafisica, riprese il pro- blema in sede morale, cioè a proposito di un altro aspetto della vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’ « idea cosmologica » dall’ « idea teologica » facendo di quest’ ulti- ma un problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per lui, l’Idea è sempre una forma « vuota », che aspetta di rice- vere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione della metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiusti- ficata nel suo sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione nel senso kantiano, sarebbe un puro possibile; ma se Dio è solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che è diventa di colpo impossibile ed inesplicabile. L’idealismo trascendentale salta il fosso della pura « nou- menicità » dell’idea teologica, come dell’idea cosmologica e di quella psicologica; rovescia il fondamento metafisico del- l’idealismo oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa il pensiero umano principio della verità: non è « percettivo » ma di essa « costitutivo »; pensandola la fa essere. Così l’im- manentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica alla trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascen- dentale o spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o autentico. Hegel è implacabile contro l’ « immediato », cioè L'esistenza di Dio 173 contro il « sapere intuitivo » o dell’intelligenza che, come implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore alla ridu- zione di tutto il sapere al mediato conoscere razionale. La metafisica della verità è negata in quella del Pensiero o della Ragione assoluta, cioè nella metafisica dell’assoluta irragione- volezza, e l’uomo decapitato come singolo. La metafisica è perduta, ma resta il problema kantiano della sua restaura- zione. Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’em- pirismo moderno non concluse alla forma 4 priori come pura condizione del conoscere, ma all’Idea come oggetto intuìto dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo oggettivo, verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restau- ra la verità primale come fondamento di ogni giudizio e su questa base ricostruisce la metafisica. Rosmini comprese benis- simo che per arrivare a Dio, o si passa dalla verità a noi inte- riore e trascendente, o non si passa e non si arriva, tanto da distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto «ideologico » da quello che chiama « teosofico ». Il problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo: origine da Dio dell’Idea dell’essere, oggetto intuìto dalla mente senza che esso sia Dio. Qui la soluzione del problema ideologico: le altre idee sono « figlie » dell’idea « madre » dell’essere, cioè giudizi sulle cose che ci presenta l’ espe- rienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina, ma facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità se- conde (i giudizi sulle cose) per le quali è necessaria l’espe- rienza e sono dunque 4 posteriori, ma vi è in esse un ele- mento 4 priori, una verità prima — e non kantianamente pura condizione del conoscere — che le rende possibili, la quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla mente; viene da Dio ed è alla mente data. Così è restaurata l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo e, con essa, ricosti- tuito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi- 174 Filosofia e Metafisica stenza di Dio; ripristinato il concetto della partecipazione iniziale e finale all’Essere (*). Da Cartesio a Hume due esigenze fondamentali dividono il pensiero moderno intorno al problema della verità: l’esi- genza razionalista e quella empirista. Il razionalismo appro- fondisce un problema che non va perduto di vista: se non vi è una verità prima indipendentemente dall’esperienza è im- possibile una conoscenza oggettivamente valida; le conclu- sioni dell’empirista Hume confermano la veridicità dell’istan- za razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori- (4) Nel grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto in seno all’em- pirismo inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo; in- fatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico, resta in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo ogget- tivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo « rappresenta ». Questa affermazione può essere intesa in due sensi: 2%) il mondo è la rappresentazione soggettiva di uno spirito — e non si sfugge al fenomenismo —; 5) il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, co- me oggetto intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse il Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa del termine «idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la se- conda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, « io non deduco che le cose non esistono realmente », ma — siccome non dipendono dall'essere percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione — « concludo che deve esistere un altro spirito nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley a) le cose esistono realmente; £) non esistono perchè io o un’altra coscienza finita ce le rappresentiamo; c) siccome però non possono esistere da sole per la loro finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le pensa. Interpretato così — le idee hanno un valore oggettivo di esemplari eterni della Mente creatrice — è sulla linea dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo mondo perchè esiste, ma questo mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tom- maso: Universas creaturas non quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia movit. Che sia così lo prova anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose non è nel « percepirle » (in tal caso la loro realtà sarebbe « posta » dal soggetto come per altre forme di idealismo), ma nell’« essere percepite », cioè nell’« es- sere pensate » come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha creato, cioè lo ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. Berkeley più che gnoseologo è metafisico: tema primo della sua speculazione è la teologia naturale, esistenza di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua me- tafisica interiorista c non cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella linea pla- tonica; meglio, per restare più vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non nella cartesiana. L'esistenza di Dio 175 stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, ri- vendica il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, il fatto o il dato dell’esistenza. Le due istanze vanno conser- vate e perciò pongono il problema della loro sintesi. Il vichia- no « giudizio storico », sintesi di « filologia » e « filosofia », è il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di vista, oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La « sintesi a priori » di Kant e la « percezione intellettiva » del Rosmini sono la maturità del problema e le sue due soluzioni. Dun- que, dopo Vico Kant Rosmini, non c’è più questione sulla sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è, capitale e decisiva, sulla natura della forma o del principio della validità del conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del pensiero, o 5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, suo oggetto, sapere originario? Questa la gran questione: la prima risposta differenzia Kant dall’idealismo trascenden- tale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a Kant e all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della validità del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo prodotto? Torna in discussione, in piena maturità del pen- siero moderno, il problema centrale della teoria della cono- scenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica, anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano crea- tore della verità, fondamento a se stesso: il primo ontologico è il primo conoscitivo. La risposta rosminiana, conforme nel- lo spirito a quella di S. Agostino e della tradizione plato- nica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di Dio, una Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, implica l’esistenza di Dio ed è il fondamento dell’argomen- tazione razionale che la dimostra. La prima risposta dice: «l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo e nega Dio: è la risposta atea; la seconda: «l’uomo riceve la verità da Dio », e con ciò stabilisce un rapporto di dipen- denza essenziale tra l’uomo e Dio: è la risposta teista. Ma la prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo fa- 176 a Filosofia e Metafisica tale: «se l’uomo dà la verità a se stesso, la verità è tutta umana »; dunque, «deteologizzazione » dell’uomo e della sua verità. Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nulli- smo. Lo sviluppo è coerente: dalla negazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione dell’uomo alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo si conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nel- la sua indistruttibilità. CapitoLo V LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO I. — Critica e precisazioni. Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, mol- to superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse a chi sa quali «lontani pericoli ». È necessario intenderci sulla questione, anche perchè non ci sembra onesto che l’ac- cusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è immune. C'è conoscenza mediata di Dio quando: «@) obiectum se reddit cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quod- ammodo similis; b) res cognoscitur per speciem alterius rei (cognitio rei per speciem relucentem in speculo, v. g. sensi- tiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente alle due proposizioni: a) la verità che la mente umana in- tuisce non è la Verità in sè o Dio, quantunque ad essa si- mile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui riflessa nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la Sua intima essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è Dio; essa fa che Lui, pur essendo la sua natura diversa da quella della creatura, non sia un fine separato dall’uomo, co- me pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, per opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua vo- lontà, per cui l’uomo, tornando al Creatore attraverso la Sua presenza in lui, opera di Dio stesso, compie un atto che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 178 Filosofia e Metafisica vi è una verità primale che viene da Dio e dunque qual- cosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore attraverso l’intermediario della verità. Consegue che lo spi- rito che cerca la verità cerca Dio: chi pensa la verità e nella verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In questo senso ab- biamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. In altri termini: la presenza immediata della verità alla mente non significa presenza immediata di Dio, intuizione della Sua essenza o contatto diretto della mente; significa solo presenza immediata della verità com’è data alla mente da Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. Se qualcuno ci accusasse ancora di ontologismo gli do- manderemmo se esclude qualsiasi rapporto tra l’uomo e Dio, qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di partecipa- zione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha separato il Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai Dio col pensiero: se per noi il pensiero è teistico, per lui è ateistico. Certo, non vi è visione immediata di Dio nè cono- scenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi è un tipo di ontologismo — sfido l’uso della parola compro- messa — diverso dall’altro, anzi di esso la confutazione, il quale non esclude l’intuizione di verità intelligibili, interiori alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa e poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, come abbiamo sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presen- zialità della verità in noi e a noi, non di dato inerte get- tato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia ope- rante, di presenza attiva e attivante il dinamismo del pen- siero, da essa orientato e guidato e senza di essa inesplicabile ed incomprensibile. E «interiorità » della verità significa «trascendenza » della verità stessa. Ora, se per ontologismo s'intende intuizione o visione immediata e diretta di Dio, il nostro, ripetiamo, non lo è affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto on- . L'esistenza di Dio 179 tologista ogni posizione filosofica che ammette verità ante- riori all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, al- lora anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente da spartire con l’altro. Infatti, per noi, di Dio vi è solo co- noscenza mediata ed indiretta, per partecipazione e analogia; dunque, l’impropria qualifica ci lascia perfettamente tran- quilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci chia- ma ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga che l’uomo sia del tutto separato da Dio. E che noi parliamo di analogia e non di univocità nessun lettore di buona vo- lontà può metterlo in dubbio. « Vedere », « intuire » la verità che è in noi, non è affatto « vedere », « intuire » Dio: non conosciamo la Verità in sè, ma quanto di essa è riflesso nello « specchio » della nostra anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi e la Ve- rità in sè vi è « somiglianza»: dunque rapporto di « ana- logia », che esclude l’identità o l’univocità delle due nature. La mente « partecipa » della divina Verità non direttamente, ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità ri- flessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: è riflesso divino senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora vedremo facie ad faciem (!). La verità, lume e vita del- l’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità e dell’assolutezza, ma non è Dio: è «il più splendido riflesso » di Lui (?). In questo riflesso la mente vede ciò che conosce assolutamente e ciò si dice omnia in divina veritate vel ratio- nibus acternitatis videre et secundum cas de omnibus iudi- care (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente — non on- tologisticamente nè aristotelicamente — S. Agostino: l’ana- logia da noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è identica a quella tomista tra l’essere riferito a Dio e l’essere riferito a noi. (1) S. Agostino, De Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. (2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c. 24, n. 40. (3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 180 Filosofia e Metafisica 2. — Conoscersi ed essere conosciuti. Essenziale il problema del conoscere, ma più, quel- lo dell’essere conosciuti; infatti, l'indagine sul fondamen- to metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo co- nosce ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il socratico « conosci te stesso », al pari del cartesiano Cogito, va anch'esso integrato: « Conosci te stesso e saprai che sei conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te troverai la pre- senza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando non avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità in noi, il passaggio dal suo stato implicito e oscuro, avver- tito quasi come un lontano presentimento, allo stato d’in- tuizione chiara ed esplicita è una folgorazione, come se un fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente umana. Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo gioia e sgomento, senso di possesso e di ossequio: scopriamo in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento che l’intel- ligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza la riempie e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella di chi è ricco per avere ricevuto in dono la ricchezza per cui è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed en- tusiasmo: umiltà di fronte alla verità che è divina; entu- siasmo chè essa, che è più di noi, è in noi. La verità intuita è indissolubilmente della nostra mente: figlia della verità, perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice di molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bel- lezza, di bene, di giudizi veri in forme sempre nuove ed infinite. Una verità scoperta è il motivo centrale che ri- torna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei veri che produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, del senso e della ragione; c’è l’unità concreta dello spirito nella luce della verità, il quale vede chiaro dove prima era buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta, che L'esistenza di Dio 188 è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi in una zona di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: la verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci som- merge; ma nel suo abisso presentiamo che sarà la nostra chiarezza totale e definitiva, alla quale tende la mente, dal mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite della filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: meraviglia, entusiasmo, follia. La verità in noi stimola, per- cuote, pungola, sferza, fa di chi la ama un « genio di verità ». La preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa padre di veri è una sola, semplice e vera: « Signore, che sei la Verità, fa che io, nella umiltà della mia piccolezza e nell'amore per la Tua grandezza, possa essere il più pazzo dei saggi ». CaritoLo VI LA DIMOSTRAZIONE DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: B) DALLA VITA MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE DI BEATITUDINE 1. — Contraddittorietà dello scetticismo. I risultati, a cui fino ad ora la nostra ricerca ha appro- dato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e fi- nita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quan- to oscura e confusa, ha intuizione originaria: le sono pre- senti, interiori; 2) di esse la ragione si serve per giudicare di ogni cosa; c) son queste verità che ci insegnano, quasi « maestro interiore », la presenza di Dio in noi; d) esiste la Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esiste- remmo noi stessi e non potremmo neppur dire che Dio esi- ste, in quanto mancheremmo di intelligenza. Degli scettici del suo tempo Aristotele scrive: «somigliano più a delle piante che a degli uomini » (4); lo scetticismo, in qualunque tempo, prima o poi, finisce fatalmente per abbassare l’uo- mo al puro livello biologico. L'osservazione di Aristotele, profondissima, merita un breve commento. Lo scettico nega che il pensiero umano sia capace di conoscere la verità che gli compete: fatto per la verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo es- sere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il pensiero (intelli- (I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. L'esistenza di Dio 183 genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che l’uomo somigli più a delle piante che all'uomo che è. Op- pure: il pensiero, senza il suo oggetto naturale che è la verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello bio- logico). Qualsiasi questione sull’uomo non ha più senso, ma appunto per ciò, non ha senso lo scetticismo, che, nel suo stesso porsi, è contraddittorio: si autonega. Non solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che nega una verità oggettiva è negazione del pensiero e dunque dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e dialettico. Se la verità e la sua validità sono storiche, consegue che il pensiero greco è la verità « storica » dell’antichità, quello cristiano la verità « storica » del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplice- mente che l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, perchè verità significa verità e nient'altro: nè antica nè me- dioevale nè moderna, ma verità — scoperta nell’antichità o nel medioevo, da greci o da italiani — valida per ogni ente pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la verità è dialettica e la dialetticità è l’essenza del reale, conse- gue ancora che niente ha essere e nulla è vero: la realtà o la verità di ciascun ente è in « rapporto al » suo contrario dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è quello che è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun ente ha una sua realtà o essenza e la verità non è tale. Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della verità alla mente, perchè solo così si può difendere la validità del pen- siero e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il pen- siero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura, farlo somigliante, come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. D'altra parte, se si nega validità oggettiva al sapere umano, si nega il fondamento naturale di quello rivelato, cioè la base della fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante non avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere di ra- 184 Filosofia e Metafisica gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti sensi mutevoli quante sarebbero le contingenti posizioni « stori- che » del pensiero, o le autonegantesi sue posizioni « dialetti- che »j cioè ancora alcun senso sensato. 2. — La prova dalla vita morale. Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva, af- finchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, e soprattutto perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di Dio, a nostro avviso, presuppone quella « dalla verità ». Ma ora è necessario analizzare gli altri aspetti della vita dello spirito, affinchè la prova manifesti tutta la sua aderenza al- l’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera la sua forza normale. La verità originaria presente alla mente non interessa solo la vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche la vita morale ha il suo fondamento nei princìpi originari che guidano, orientano e informano ogni azione, quantunque nes- suna li adegui: ne sono la misura senz’essere da essa misu- rati. L'azione « buona » o quella « doverosa » non fanno es- sere bontà e dovere, anzi non vi sarebbero senza la bontà e il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se nel mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buo- na e doverosa. Possiamo concludere: non vi sono i valori morali perchè esistono le azioni che li esprimono, ma queste in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le azioni e ne sono indipendenti. I valori morali sono innanzi tutto verità oggettive, intuite dalla mente; in questo senso, anche se « pratici », sono teo- retici, regole della volontà che ad essi è obbligata a subordi- narsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni qualvolta ne « riconosce » la verità ed il pregio: è la volontà volente se- condo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni L'esistenza di Dio 185. cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pra- tica di ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità (e come tali «teoretici ») regolatrici della volontà e della no- stra condotta e perciò aventi un uso pratico. Per conseguenza, come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del cono- scere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in noi di verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come Verità in sè; dalla presenza in noi dei valori morali si argo- menta l’esistenza di Dio come Valore assoluto, Bene sommo. L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito della prova « dalla verità »: la mente umana è capace di conoscere valori morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia della volontà che di essi è come la rivelatrice; essi non sono creati dalla mente o dalla volontà, nè indotti a posteriori dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque esiste Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di tutti i valori, di essi fondamento e sostegno. Il bene morale è anche «attrattivo »; la sua « attrazione » conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la sua potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il bene, sua verità; essa ne è attratta, anche quando lo misco- nosce e gli si pone contro: il pentimento del male fatto, rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il bene è il principio motore della volontà e l’elemento infor- matore delle volizioni. Non c’è felicità senza bene; il suo possesso è la felicità di ogni ente spirituale; dunque il bene è il principio di ogni nostra azione. Vi è una intuizione intel- lettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come Bene sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di Lui e pertanto il rapporto tra il bene intuito e Dio come Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione operante, crea- trice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti; esso genera il movimento della volontà e ne concentra gli sforzi verso lo stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 486 Filosofia e Metafisica finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il Bene Sommo, che trascende ogni bene e lo fonda. Amare il bene è operare nel bene, che si possiede in esso operando; le azioni buone sono le risposte veraci che noi diamo all’oggetto della nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa regola costante e continua della condotta, l’ente razionale, stimolato interiormente dall’attrazione del Bene sommo, cammina e si approssima sempre più alla meta. È la sag- gezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed in- digente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la norma regolatrice ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume del- la mente e della volontà, illuminando, ama: Dio illumina ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attra- zione del bene; Dio è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. Il dinamismo della volontà, alla quale è presente il bene, è originariamente orientato verso il Bene Sommo o Dio, Cen- tro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, che, altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente spirituale finito ha dunque il desiderio naturale del Bene Sommo, assolutamente ed infinitamente perfetto. 3. — La prova dal desiderio naturale di beatitudine. L’ultima proposizione è la « maggiore », se alla dimostra- zione si dà la forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esi- stenza di Dio, la quale si fonda pur essa su quella « dalla verità ». Infatti, la proposizione — «tutti gli uomini deside- rano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto » — non sarebbe formulabile se non avessimo la nozione del bene oggettivo; ma tale nozione non potremmo avere — non la crea la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si può indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la presuppo- ne — se non ci fosse data originariamente come oggetto in- tuito. Per conseguenza: «) gli uomini desiderano natural- . L'esistenza di Dio 187 mente il Bene sommo solo in quanto vi è in loro la sua pre- senza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il desiderio del Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un principio di verità. Ciò rileva — diciamo fugacemente — quanto sia errata l’interpretazione modernista di tale argo- mento, la quale si fonda su un presupposto agnosticismo che distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo della prova; come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teo- retico, limita la forza dell’argomento alla sua portata pra- tica e volontaristica. «Tutti gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. Quali che siano i differenti mezzi che adoperino, tendono a questo scopo... La volontà non muove mai il più piccolo passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono perdere... »; così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desi- derio di felicità, naturale ed irresistibile, è il movente della volontà che, spinta di volizione in volizione, non sa e non può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce del Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può ade- guare le tendenze e i desideri della volontà, il suo desiderio intimo e profondo del Bene assoluto, anzi il possesso dei beni finiti lo accresce sempre di più: la « volontà voluta » non adegua la « volontà volente », che vuole ancora e vorrà sem- pre fino a quando non possiederà l'oggetto della sua suprema aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli uomini, anche quando si perdono, vogliono la felicità piena — quella che non rinvia — è evidente che la loro volontà è originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che è in essa la presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si può dire con Agostino: qualsiasi cosa l’uomo cerchi e voglia, cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio naturale di beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può restare sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 188 Filosofia e Metafisica volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà rea- lizza il piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la caduta dell’uomo al disotto dell’uomo. Vi è un dramma es- senziale alla radice della volontà: vuole con tutta se stessa il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al mas- simo della loro forza normale non la garantiscono dalla ca- duta, nè bastano ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono la condizione indispensabile perchè essa resti conforme alla sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale. In- fatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso un voluto finito è atto innaturale, è la guerra della volontà contro se stessa, contro il suo desiderio naturale del Bene infinito; è il male, in quanto, dato che il desiderio di infinito è indistruttibile, l’infinita capacità di volere, concentrandosi in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è. Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in idolatria e fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso per aver detto falso vero. L'autenticità della natura umana è perduta fino a quando, caduto l’idolo, l’orientamento genui- no della volontà non riprende il suo corso naturale e non si eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitu- dine in Dio. Ma l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non ba- sta e, se puramente psicologica, non è dimostrativa. Rispon- diamo: 4) qui si tratta di un’esigenza naturale, essenziale ed universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano; 5) i dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c) l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di qualsiasi esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte al puro dato psicologico nel senso ristretto e soggettivistico del termine, ma alla vita dello spirito, che è un dato reale e all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora, il dato psicologico che qui consideriamo — tutti gli uomini desiderano la felicità piena e dunque tutti aspirano al Bene - L'esistenza di Dio 189 sommo, il solo che possa appagare questo loro naturale desi- derio o essenziale esigenza — oltre che indicativo di una con- dizione reale, è anche aztestativo o testimoniante, in quanto quella condizione sarebbe inesplicabile senza la nozione o la presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movi- mento della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo che in questo scopo unico ed assoluto trova la sua direttrice essenziale e la sua unità totale. Ma proprio nella indicatività e attestazione della condizione reale è il fondamento della dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi po- trebbe essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita spirituale ed orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non esistesse il Bene sommo, a cui la volontà stessa aspira. In breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio, se Dio non esistesse. L’« indicatività » dell’esigenza, chiarita, approfon- dita e colta nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela fondamento oggettivo della dimostrazione razionale. Ma se è così, anche se il desiderio di Dio si manifesta per ultimo, an- che nel caso che non si manifestasse affatto, esso è ugual- mente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita spirituale: senza questa originaria « presenza della trascen- denza » (dell’Al di là interiore e trascendente) l’uomo sarebbe privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro potrebbe riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il desiderio naturale e necessario del fine ultimo o del Bene sommo non è una inclinazione incosciente, contingente e transitoria della volontà, ma un’inclinazione consapevole, che ci porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione del- l’appagamento del desiderio essenziale e fondamentale della beatitudine, cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque, (2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. (3) Qui non si confondono affatto Bene e felicità, Valore e beatitudine: l'aspirazione alla felicità non significa volere il Benc per la felicità. Se fosse pos- sibile pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici, 190 Filosofia e Metafisica la spiegazione di tutto il movimento della volontà va cercata in questo « implicito essenziale », sua unità primitiva, di cui le singole azioni non sono che l’esplicazione parziale e a cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene infinito a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli altri beni: come l’oggetto della intelligenzaè il Vero asso- luto, così l'oggetto della volontà è il Bene sommo. L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e per- ciò è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo «ver- ticale» e non «orizzontale», che è di ordine fisico o biolo- gico e non di natura spirituale; la dinamica dello spirito è processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, quello che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascen- de, che guarda « avanti » e non «in alto », avanza ctelluri- camente » verso ciò che è più ir /è e non sale « iperurania- mente » verso quello che è 42 di lè. Noi abbiamo perduto il senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e per- ciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali quelli di dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dal- l’uso immanentistico, e perciò naturalistico, che li ha depau- perati, depotenziati, detonalizzati. Un dinamismo che non è mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è agitazione inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza come posizione provvisoria di un che che sarà immanentiz- zato è appiattimento dello spirito nell’orizzontalità del li- vello terrestre e perciò negazione del suo slancio ascendente alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infi- nito, lo « realizziamo » nel nostro stesso tendere e lo « co- e come espressione mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a sof- frire tutte le pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene sommo. Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche se tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si preoccupi della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la beatitudine dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, se il possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugual- mente desiderio di beatitudine e felicità. L'esistenza di Dio 198 struiamo » nel nostro divenire, dice cosa che non ha alcun senso e, degradando l’infinito alla nostra finitezza, degrada noi al livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il Gott-im- werden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto usa il termine Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, con- traria alla Sua natura. Dio non è un fine che « produce » l’uomo — ed è ridicolo che lo possa produrre — ma un fine a cui l’uomo « tende » e può « attingere »; e ogni fine a cui « si tende » e che si vuole « attingere » presuppone precisa- mente l’esistenza del fine desiderato. Dio, dunque, a cui ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la Volontà che è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni vero e di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente creatrice. Il Bene sommo trascendente è appunto il fine ade- guato dell'umano naturale desiderio di beatitudine. Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene som- mo; ma potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qual- cosa di inesistente e impossibile. Abbiamo già risposto a questa obiezione, la cui forza è puramente apparente, in quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano natu- ralmente il Bene sommo, è provato anche che il loro desi- derio naturale non può essere vano, proprio perchè natu- rale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è desi- derio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un desiderio naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato sarebbe contraddittorio ed inintelligibile: una potenza senza il suo atto, nel linguaggio tomista. Per conseguenza, come ar- gomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non potrebbe eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo ec- cede è perchè l’Essere infinito dà fondamento a questo suo desiderio; dunque esiste il Bene sommo, infinitamente per- fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua (4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 192 Filosofia e Metafisica natura tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- mente diffusivo, Attività creatrice, da e per cui è ogni bene creato, di Lui debole immagine. Ma per quel che è di bene è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine del suo movimento (7). Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine ‘presuppone l’altra « dalla verità », senza l’intuizione della quale non vi sarebbe in noi il desiderio del Bene sommo, in quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, creandomi ente intelligente, mi dà quanto è necessario che io abbia per essere tale; la verità a me interiore fa che la mia vitaintellettiva resti sempre sotto la dipendenza divina: cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- gnata ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della mia volontà. Nessuna verità finita può soddisfare la mia intelligenza e nessun bene creato il desiderio infinito della mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la nostalgia della « patria » sia invincibilmente impressa nella mia vita spirituale e ne segni la « via »: et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la consapevolez- za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e di Chi o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio è; ed è amarLo. L’autocoscienza profonda, sapersi fino in fondo, involge la coscienza dell’esistenza dell’ente finito e quella dell’Essere infinito. L’autocoscienza kantiana ed idealistica, invece, è coscienza di me come trascendentalità o unità delle forme trascen- dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto (le forme a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- lida delle forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, (5) Il desiderio naturale di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene spesso ciò si dimentichi, « sostiene e comanda ogni speculazione filosofica sul mondo, sull’umanità e sul loro destino » (Le problème de la philosophie catho- lique, Paris, 1928, p. 161). (6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. L'esistenza di Dio 193 non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra- scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai coscienza di me e di Chi mi trascende. L’idealismo trasfor- ma l’Io trascendentale kantiano in entità metafisica per cui, da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la «cosa in sè» come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- soluto è lo stesso Io trascendentale, lo identifica coerente- mente con l’unità del mondo. Così l’autocoscienza resta pri- gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto, si assimila alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo muore nella trascendentalità: il suo desiderio naturale di beatitudine è compresso e soffocato; il suo fine ultimo è il mondo, il suo unico amore la terra. Dio è morto e, con Lui, l’uomo. CapiroLo VII BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI ONTOLOGICO E COSMOLOGICO Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova « dalla vita dello spirito » non è riducibile nè a quella onto- logica nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- vuto nel corso della storia della filosofia, nè alla prova co- smologica, di cui la più chiara ed esatta formulazione sono le « cinque vie » di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più forza, perchè di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai opportuno, ma non rientra nei limiti della nostra indagine, un esame approfondito delle due prove ontologica e cosmo- logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno avuto, in rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe come esse, in molti punti concordanti e convergenti, sono riducibili in fondo ad una sola. Qui ci limitiamo a qualche osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo scritto. — La prova ontologica. È la più accanitamente difesa e combattuta, ma resiste sempre; non si tratta di respingerla o accettarla integralmen- te, ma di bene intenderla e soprattutto di integrarla. Infatti, se essa presuppone la prova « dalla verità », tipica di S. Ago- stino, ci sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, in tal caso, muovendo dalla realtà della vita spirituale, vien meno la forza della principale obiezione: impossibilità L'esistenza di Dio 195 di dedurre dall’idea di Dio la sua esistenza, di passare dal- l’ordine del pensiero a quello della realtà. A nostro avviso, l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana della verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. I sostenitori della prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- naventura sicuramente, sono preoccupati del fatto che, se la nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non è presente alla mente e da essa interiormente intuita la ve- rità, fondamento di ogni vero particolare e modo come Dio può essere in noi, non è possibile all'uomo partecipare del suo Principio: senza una verità originaria che illumina la mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo verità; di pensare e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea di Dio, come chiariremo tra poco, è partire dal fatto del pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i ca- ratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’asso- lutezza; un fazto che essa non le crea e non le riceve dalle cose finite e contingenti; dunque esiste Dio come Verità in sè, da cui deriva la verità che è in noi. Intuire l’idea di Dio è possibile in quanto si intuisce la verità in noi, quella di cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni del- la ragione (il giudizio e la dimostrazione) sono possibili in quanto presuppongono quel lume di verità che è anche lu- me di bene, che alimenta il movimento della volontà e fa che sia desiderio ed amore del Bene sommo. Se teniamo presente la formulazione agostiniana della prova « dalla verità » nella forma sillogistica in cui l'abbiamo enunciata, la minore — «la mente umana intuisce verità immutabili e assolute, ad essa superiori » — implica l’esi- stenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere verità presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse la Verità. Abbiamo avuto cura di dimostrare che non c’è verità semza un pensiero che la pensa e che, d’altra parte, 19% Filosofia e Metafisica non c’è pensiero senza verità: nell’uomo vi è verità, dun- que egli è un ente pensante; privo della verità cesserebbe di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esi- ste Dio, Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. Certo, per analisi, posso distinguere e distinguo tra il pen- sare e la verità oggetto della mia mente, ma, in concreto, il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il pen- siero di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come essere pensante la verità e pensante per la verità: l’una ade- risce all’altro e sono inscindibili. Perciò la prova « dalla ve- rità » non muove da un possibile, ma dall’ente pensante, dal- l’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per cui la mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente pensante che la pensa, in quanto questo è finito e contin- gente e quella infinita e necessaria; dunque, pensata dalla mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pen- siero infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente del- la Verità, che con esso s’identifica. Nell’ente creato la verità non scindibile dalla mente è suo oggetto, da nessuna cosu creata adeguato; perciò l’unità non significa anche identità; nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. A noi sembra che l’argomento ontologico di S. Anselmo vada inteso tenendo presente quanto già detto. Egli muove dall’idea di Dio come « l’essere di cui non si può pensare nulla di maggiore »; tale idea importa innanzi tutto che sia pen- sata, cioè che vi sia una mente che pensa; ma non vi può essere pensiero senza presenza di verità; dunque l’idea di Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, dotato di verità. Per conseguenza, la presenza alla mente dell’idea di Dio presuppone l’esistenza dell’ente che è pen- siero ed è tale perchè in lui è presente la verità; l'argomento ontologico presuppone la prova « dalla verità ». Una sarebbe la difficoltà, che non è alcuna di quelle prospettate da Gau- nilone, S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare Dio? ad averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-. L'esistenza di Dio 197 chè nega che si possa averne un’idea vera; se lo si con- vince che l’idea di Dio è presente alla mente e che perciò ne- garne l’esistenza è contraddittorio, si arrende 0, se non al- tro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque, superata la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova è imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esi- stente. L’alternativa che pone l’argomento ontologico è la seguente: o si pensa Dio o non Lo si pensa; se lo si pensa, Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dun- que, ripetiamo, se Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che la mente Lo pensa, le è presente la verità e con essa l’idea di Dio. Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può pensare nul- la di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce che le è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad ogni cosa esistente o pensabile; per conseguenza conclude (l’argomentazione è identica a quella della prova « dalla ve- rità ») che esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla men- te le aderisce, come già detto, per cui non c’è mente senza verità e verità che non sia oggetto di una mente. L’idea di Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto, c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qual- cosa che fa parte della sua natura; non il pensiero e l’idea di Dio, ma il pensiero che pensa Dio. Così intesa, la prova perde quel carattere concettuale ed astratto che, a prima vi- sta, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove dall’idea di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui aderisce la verità, connaturata, nell’atto creativo, alla crea- tura umana. Bisogna ancora notare che nei sostenitori dell’argomento ontologico c'è un’altra preoccupazione legittima, quella di dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè del- l’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, Verità illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 198 Filosofia e Metafisica si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ra- gione ma anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto proprio della religione e della coscienza religiosa. Per il filosofo cristiano, il problema dell’esistenza di Dio si pone in questi termini: è razionalmente dimostrabile l’esistenza del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razio- nale della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provviden- za? Per lui, senza che la fede abbia a pregiudicare la razio- nalità della dimostrazione, non si tratta solo della ragione, ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a servizio della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio Causa prima non causata del divenire, Legge dell’Uni- verso, come quello aristotelico, ma di Dio Padre Creatore ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il punto di partenza dell’argomentazione ha una grande im- portanza: bisogna partire da un ente che contenga tutti gli elementi per concludere a Dio come è creduto per fede e poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su questo punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus (Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostra- zione: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere (Proslo- gion, c. IV). È qui il punto: la mente intende Dio perchè Egli, la Ve- rità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è vero che, se Dio non fosse originariamente a noi interiore, non potremmo mai dimostrarne l’esistenza, non saremmo neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche razio- nali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè notata: chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare il vero Dio — quello in cui si possa credere, che si possa L'esistenza di Dio 199 pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo — ma un Principio impersonale, una Causa cosmica, una Leg- ge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filo- sofo di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega perchè San Tommaso, filosofo cristiano, pur essendo aristo- telico, ha trasposto il pensiero del filosofo pagano in ter- mini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non è aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza aristotelica del suo pensiero e non se ne rivive la profonda ispirazione cristiana di origine agostiniana, di essere cristiani di fede, ma aristotelici — e dunque non cristiani — di -pen- siero, cioè dei piissimi... atei. Invece, chi muove dalla vita dello spirito nella sua integralità, se riesce nella prova, di- mostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e di menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a loro volta creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, sentire nel cuore. D'accordo: si tratta di partire da un dato positivo di esperienza su cui esercitare la riflessione; perchè non può essere la nostra vita spirituale? la nostra esperienza interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’espe- rienza interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? Ma proprio l’esperienza interiore e la vita tutta dello spirito sono intelligibili per il lume interiore di intelligibilità che le fa tali, per la verità presente alla mente, immagine di Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa c'è, la ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somi- glianza e analogia, razionalmente corretto e perfettamente ortodosso. Se l'argomento ontologico è inteso nel suo nucleo di verità ed in stretto legame con la prova « dalla verità », da esso presupposta, perde le sue apparenze di astrattezza e di argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obie- zioni di Gaunilone o di S. Tommaso, il quale non nega la presenza in noi delle verità prime che, anche se è neces- saria l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 200 Filosofia e Metafisica dopo «cronologicamente »), non sono date dall’esperienza sensoriale. Così impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza fuori discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza ed esistenza (!). La stessa affermazione che nell’essenza di Dio è contenuta l’esistenza ha un significato più che altro chia- ritivo ed esplicativo; in effetti, non è che nell’essenza di Dio è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio «ricevuto» in alcuna essenza specifica, come abbiamo detto sulla scorta di S. Tommaso, perchè la Sua stessa essenza è l’atto di es- sere — o il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza — consegue ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. Dire che a Dio è necessaria l’esistenza significa che l’esi- stenza è identica alla Sua essenza, che non è alcuna speci- fica essenza; in breve, Egli è la Verità che è Verità, l’Essere che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente. Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto per Dio e non per l’«isola beata » di Gaunilone o per i «cento talleri» di Kant; isola beata, talleri e ogni altra cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e perciò dipen- dono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente asso- luto. La derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza dall’essenza serve per convincere la nostra mente, a cui Dio non è evidente per se stesso, con la forza del ragionamento;DI cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in Dio (I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza, S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma nega la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio. S. Tom- maso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza essere concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in intellectu e non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere perfettissimo, che non può non essere concepito che come esistente, per ciò solo esiste. Il passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è richiesto da tutte le altre cose, che possono essere concepite esistenti e non esistere affatto în rerum natura perchè non perfettissime, tranne che da Dio, in quanto solo in Lui, come S. Tom- maso ammette, essenza ed esistenza s’identificano. L'esistenza di Dio 201 non si può parlare di derivazione alcuna per la identità di essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che dalla essenza deriva necessariamente l’esistenza — e per la mente finita non può essere diversamente in quanto nello stato naturale non le è presente Dio com'è in sè — così si può. dire, ma non più rispetto a noi, che dall’esistenza deriva la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è lo Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza ed esi- stenza come di esistenza ed essenza. Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, ma tutti gli enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non la « pongono », non esistono da sè. Solo in Dio, posta l’es- senza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta con essa l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque non Lo si può concepire senza concepirLo esistente: l’esi- stenza non si aggiunge, è nella Sua essenza. Ma, se è ne- cessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è neces- sario per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, cioè non può concepirsi esistente senza concepirlo con una sua essenza. È qui la forza della prova cosmologica: partendo dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro esistenza, cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma ap- punto perchè non sono atto di se stesse, pongono il pro- blema del principio del loro esistere. D'altra parte, non la sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza contenente una essenza, un ordine, una « verità »; dunque, pongono il pro- blema del loro principio non in quanto soltanto esistenti, ma in quanto esistenti con un'essenza o essenze esistenziate. Per conseguenza, l'argomento dalle cose contingenti si riallaccia a quello « dalla verità », come, del resto, l’argomento on- tologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che non può non partire dall’esistenza delle cose, non può muo- vere che dall’essenza o idea di Dio, la sola che contiene necessariamente l’esistenza. Da ultimo notiamo che l’argomento anselmiano con- 202 Filosofia e Metafisica tiene un altro elemento di verità, del resto, già da noi evi- denziato: mettere l’ateo di fronte al senso dell’affermazione «Dio non esiste ». Che Dio non esiste si può «dire» e l’ateo lo « dice »; ma ha un senso questa espressione ver- bale e le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che quel che dice l’ateo non ha senso, e per questo è insipiens, «non sa quello che dice »: parla di Dio, ma « pensa » ad altro, manca della vera nozione. Non perchè non ce l’abbia, ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non pos- sono essere che da insipiens, della ragione sensitiva non della ragione intellettiva. Che Dio non esista non si può neppure pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso pensare come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore, perchè pensandolo non esistente mon si pensa più a Lui, ma ad un qualsiasi altro ente che si può pensare senza pensarlo esistente appunto perchè non è l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, nel momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova ancora che l’esistenza di Dio non è una verità immediata nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa di dimostrazione, ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio {e dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cer- cato nel dato sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da noi stessi e dalla luce interiore, essere assenti a noi, « fuori di noi », lontani dal sapere intellettivo ed immersi nel cono- scere sensitivo. La dimostrazione occorre non perchè manchi in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è immediata nè sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse su quello che « dice » non potrebbe « pensare » che Dio non esiste nè «assentire » alla sua affermazione negativa, in quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in lui, si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta chiaramente la sua origine agostiniana, da dove trae for- za. Esso è anche valido negativamente: dimostra assurda. la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia valore L'esistenza di Dio 203 razionale la proposizione « Dio non esiste », che l’insipiens pronunzia in cuor suo (?). 2. — La prova cosmologica. Ci siamo più di una volta richiamati alla prova (alle prove) cosmologica o a posteriori dell’esistenza di Dio, an- ch’essa vera se riportata a quella « dalla verità ». L’argo- mentazione — vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la serie causale non può procedere all’infinito; dunque esiste un Primo Motore, qui ipse est immobilis — prima che di S. Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese formula l’argomento cosmologico. Ma lo stesso Agostino la riduce a quella « dalla verità » per il motivo che la prova, la quale parte dai dati sensibili, dipende da alcuni elementi intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza, quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non (2) E’ nota la critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un oggetto non contiene la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè non implica contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla espe- rienza, cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analitica- mente); c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta dall'esperienza, consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque to- glierla o aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza; d) pertanto, anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna perfezione. In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto del concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò conferma che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua essenza, ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’espe- rienza non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimo- strare che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che ciò impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. Kant considera Dio alla stessa stregua degli enti finiti per i quali vale la distinzione di essenza ed esistenza, senza senso per Dio, che è identità di essenza ed esistenza; infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio involve neces- sariamente l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si può pensare nulla di più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che quando afferma che dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale dunque dovrebb'essere aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla dell’essere di cui non si può pensare nulla di più grande: quando critica l’argomento onto- 204 Filosofia e Metafisica possiamo ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appog- giarci alla Verità interiore. Esatta l’affermazione di S. Tom- maso che la prova deve avere il suo punto di appoggio in un dato reale e non in una pura entità concettuale, ma il dato reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale e quanto in essa è implicitamente presente. Per esempio: esistono cose che hanno un certo grado di perfezione; ciò indica che esiste il perfetto del quale partecipano le perfe- zioni finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). Esatto, ma come può il soggetto conoscere, misurare, il grado di perfezione delle cose, se non intuisce la perfezione, se non ha in sè la misura con cui misura? In altri termini: non potrei dire «questa cosa ha un grado di perfezione » se non fossi illuminato dalla perfezione, cioè se non fosse in- teriore alla mia mente una nozione di essa, che le cose pos- sono anche esplicitare, ma non mi possono dare. La propo- sizione «le cose hanno un grado di perfezione » è un giu- logico non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di Dio è qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a quello che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un concetto reale, cioè implicante la realtà del suo oggettoTutta l’argomentazione di Kant è errata sostanzialmente. La sua afferma- zione: sia che Dio esista o no, nulla si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, vale per l’ente finito, ma non ha alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità di essenza ed esistenza, non ha senso parlare di togliere o di aggiungere a Dio- l’esistenza. Ne ha solo uno: togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta la sua perfezione, ma negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa essenza; dunque, negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta confermato che se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso ateo che « pensa » di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è ancora negare l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, dunque Dio esiste. Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri hanno, in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non si è badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in partenza nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le obiezioni alleprove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare i presupposti del sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei limiti della esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato nei contenuti finiti dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il reale nella sua totalità, e che le «idee » non sono conoscenze ma pure « condizioni » del conoscere il. % cui contenuto dovrebbero ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espe- L'esistenza di Dio 205 dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del giudizio a cui conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltre- passo i corpi e anche me stesso, in quanto quella verità pri- male è più di me, misura anche la mia ragione e la mia intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non « dalle cose », ma in quanto mi sono elevato da esse alla verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore all’inte- riore e dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una via anch'essa, ma più lunga; l’altra « dalla verità » più breve: dalla verità in me (interiore) alla Verità in sè (al Superiore). Entrambe si fondano sulla dipendenza essenziale dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima il rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo atto intuisce la verità che in lui è presente e lo illumina; di qui argomenta che, partecipato, esiste l’Essere di cui partecipa, il Principio da cui è. Pertanto l’autocoscienza implica la presenza a se stessa del Principio creante: avver- rienza) e se non lo ricevono sono « vuote », egli ha escluso non solo la soluzione del problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello spirito: ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un infinitesimo il livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è altra verità ncl- l'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo sintetico del conoscere, ne fa il legislatore della natura (cioè gli attribuisce il potere che spetta a Dio), ma nello stesso tempo, mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto di se stesso, al livello dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della ragione pratica sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non con- traddicendosi. Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teo- logia, bensì verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. Non possiamo non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontolo- gismo critico del Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso un'elaborazione critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto puro assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esi- stenza è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è soggettività nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste è fare di Lui un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento ontologico de- v'essere pertanto abbandonato così come è nella sua forma tradizionale e accettato solo nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, oggettiva immanente allé singole coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei singoli, come sarebbe se si ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può negare con il pensiero, pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con un atto di pensiero e ciò è contraddittorio. «/o penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 206 Filosofia e Metafisica tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste l’uomo, esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta che esista un pensiero, perchè sia implicata l’esistenza del Pensiero assoluto. Infatti, dato un pensiero, come abbiamo detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere, esiste l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di cui ogni uomo partecipa per una dipendenza essenziale ini- ziale e finale. Attraverso di essa, se vuole esser valida, è costretta a passare la via cosmologica per il motivo che sono i prin- cìpi primi o le verità primali che rendono possibile il giu- dizio vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno che sia valida ogni argomentazione dalle cose finite e con- ungenti a Dio essere infinito e necessario. Ogni regola di giu- e in quella negativa » (P. CaraseLLEsE, 1 problema teologico come filosofia, Roma, 1930, pp. 181-183). Ma quale argomento ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo l’affermazione che io penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire « io penso, dunque affermo Dio »; altro «io penso, dunque Dio esiste ». Le due formule sono antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma il pensiero; la seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che c'è perchè Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esi- stenza; il Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne nega l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze singole e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il mondo; ma se Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e ad esso relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; è l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale, delle singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in quanto esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza ed esistenza. Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il concetto panteistico spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito della sua filosofia, l’idea dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è pura nou-menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una coscienza pensante, Egli è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze pensanti. Così il Carabellese all’immanenza idealistica, con la quale ha polemizzato efficacemente tutta Ja vita, sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti sin- goli. A noi qui non interessa l’importanza polemica di questa posizione nei confronti dell’idealismo trascendentale, ma la sua validità ai fini del problema dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto anche lui l’errore di distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è accorto che, negare l'esistenza, è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmi- L'esistenza di Dio 207 dizio lo è innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le possibili prove cosmologiche dipendono da quella « dalla ve- rità ». Le due forme di argomentazione — a) esiste qual- cosa di contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario ed infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è su- periore; dunque esiste la Verità in sè — nella loro profon- dità si riportano allo stesso principio di verità, da cui rice- vono la loro forza. Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, l’argomentazione non può non seguire questo procedimento: le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali, non possono avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna « trascen- derle » per cogliere il Principio da cui derivano quanto han- no di ordine, di perfezione e di essere; al di sopra dell’or- dine e della perfezione delle cose vi sono l’ordine e la per- fezione del nostro pensiero, con cui conosciamo, « giudichia- mo » e « misuriamo » quelli delle cose; la verità che è in niana idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui importa il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco, identifica Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità del molteplice è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità reale. - Per la critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G. Zamsoni nell’ Itinerario filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto presenti. Per altre nostre osservazioni al pensiero del Carabellese su questo punto cfr. 1! Secolo XX, Milano, 19472, pp. 277-281; Il problema di Dio e della religione nella filosofia attua- le, Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente che esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che esiste nel pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in quanto l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero lo pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che l’esistenza non aggiunge nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al pensiero umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il pensiero lo pensa. Perfetta- mente il contrario: io penso in quanto in me è presente la verità che è presenza di Dio e dunque in quanto la stessa idea di Dio è luce del mio pensiero. Ma Kant, tornando a lui, nega che esistano nello spirito conoscenze primarie ed in- tuitivé e dunque una verità originaria; consegue che non c'è altra verità nell'uomo oltre quella che egli stesso si costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del contenuto a posteriori: Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le obiezioni di Kant all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del significato del termine «idea » operata dagli empiristi inglesi ec mirano molto lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale, che è la riduzione dell’essere all’immanenza del pensiero. 208 Filosofia e Metafisica noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere noi stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, a Dio. In altri termini: il pensiero discende dalle verità pri- mali intuite per conoscere e giudicare secondo queste verità le cose sensibili; da queste ascende alle verità che sono in lui, inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere perfettissimo, che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza, l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i sensi ma con la ragione, cioè misurandole con la verità che è in noi: il fondamento della loro conoscenza è l’intuizione primitiva della verità; dunque le prove 4 contingentia mundi passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il sal- mista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et opera manuum cius enuntiat firmamentum; ma nulla mi direbbero e mi indicherebbero, se in me non lucesse la luce della verità. Così impostata, la prova cosmologica è incon- futabile; non si può negare Dio senza spingersi ad affer- mazioni assurde come questa: è contraddittorio concepire l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi attribuire l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono contingenti e finiti! La prova cosmologica non solo suppone quella « dalla verità » ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova onto- logica: Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esi- stenza nella sua stessa essenza; perciò in Lui essenza ed esi- stenza s’identificano; ma è questo, come sappiamo, il fon- damento dell’argomento ontologico (*). (3) Com'è noto, all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso il razionalismo cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile applicare all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei li- miti dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, ogni causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non infirma la validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. G. BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma «che la filosofia non x persegue la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato dalla co- L'esistenza di Dio 209 D'altra parte, la formulazione della prova — esiste qual- cosa che non è da sè, dunque esiste Dio — è insufficiente a dimostrare l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente, In- telligenza e Volontà; infatti, il puro Ens realissimum può essere una causa o un principio impersonale, una legge co- smica ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è ne- cessario che esistano degli effetti tali, da cui si può argo- mentare per analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascen- dente ecc., cioè di Dio, quale Lo crede per fede la coscienza religiosa. L’Ens di ragione, causa dell’origine del mondo, è un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli sia scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile, ma dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità dell'esperienza); che la più ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si dimostra con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S. Agostino, è metafisica della verità, la quale si coglie in interiore homine ». Successivamente aggiunge: « con questo si dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pen- siero (per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica stessa come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la metafisica dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una medesima posizione ». Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che l'essere non è estraneo al pensiero, cioè gli è interno originariamente come idea; del resto, non ho mai opposto la metafisica della verità a quella dell'essere se ben intesa, nè Agostino e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre sostenuto il contrario. Proprio la Neoscolastica italiana, invece, trova opposizione, o tutto vuol ridurre al suo to- mismo; perciò il problema dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo Bontadini io ho «sottoscritta » (nel vol. 17 problema di Dio e della religione nella filos. attuale, cit.) « la prova tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto con quel riferimento a ’’tutto l’uomo’ » e anche qui si dichiara d’accordo; ma, come per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i « personalisti concilianti »; invece, io non concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presup- pone due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; è sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Suc- cessivamente il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno francescano, di occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della prosa contenuta in questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e pubblicare (Spiritualismo cristiano e metafisica classica, « Giorn. crit. d. filos. ital., I, 1955) dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e « cri- ticato » sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche se « neo-scolastica » non è oggetto di discussione. Del resto, il superamento della fase esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio spiritualismo nella linea della metafisica classica è stato ampiamente vagliato e riconosciuto dalla più autorevole critica mondiale, compresi i più accreditati tomisti e neotomisti. 210 Filosofia e Metafisica l’Ente assoluto; di qui ancora la necessità di partire « dalla vita dello spirito » che è intelligenza di verità, volontà mo- rale ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza di Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Per- fezione infinita. Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai farmi pensare che Dio è Libertà e Persona? Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio Primo Motore Immobile, principio del movimento o del di- venire, non potenza ma Atto puro; ma quale abisso tra il Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio filo- sofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer! (*). È il Dio di una filosofia ma di nessuna religione e non può esserlo di una filosofia cristiana. Non diciamo che il Dio della religione (e della cristiana) non si possa chiamare anche Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa termi- nologia va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario non solo integrare Aristotele, ma trasporlo come ha fatto S. Tommaso, la cui metafisica, che utilizza filosoficamente il concetto di creazione, non culmina nell’aristotelico Mo- tore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere crea- tore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uo- mini invocano. Non basta partire dal reale finito e dive- niente per arrivare a Dio; è necessaria una «critica » del- l’ente finito e diveniente in quanto tale, in modo da sta- bilire quali elementi contenga e se tali da farci conclu- dere non ad una o più cause immutabili del divenire, ma al Principio creatore e provvidente. Daccapo: non è pos- sibile alcuna critica dell’ente finito, cioè alcun giudizio oggettivamente vero, se non è presente alla mente la ve- rità che è fondamento di ogni giudizio e della ragione giudicante; ma se è presente la verità, esiste Dio, che è la Verità, il Lume eterno e trascendente, che illumina la mente e riscalda il cuore delle creature. (4) H. Bercson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1946, pp. 256 segg. ° L'esistenza di Dio 211 Da ultimo, la prova cosmologica dev'essere spogliata di quel suo carattere puramente razionalistico e gnoseologico, più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il proble- ma, infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto co- noscente ed oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, s'imposta in quelli ontologici di ciò che è empirico e con- tingente e di ciò che è metafisico e necessario; altrimenti, se il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è impossibile da questo arrivare all’essere. Dopo quanto abbiamo detto, le tre prove — dalla verità, che include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata all’altra del desiderio di beatitudine e cosmologica — si pre- sentano concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine o nel suo essere o nella sua verità, con una voce sola, attesta la sua dipendenza da Dio e in Lui, e solo in Lui, cerca ed attua la sua finalità suprema (5). (5) Credo che ciò possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, « Salesiamum », I, 1948, p. 64), il quale esige da me e da altri « una interiorità più robusta che non avesse timore della materia nè la fuggisse », cioè un'interiorità profonda, universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: come una a filosofia dell’integralità » potrebbe aver timore della materia e del mondo, e fuggirli? CaprrroLo VIII L’IPOTESI PROIBITA La nostra indagine, muovendo dall’ipotesi « Dio», ha dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato la sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è oppor- tuno domandarsi se è possibile porre l’ipotesi opposta, « Dio non esiste » e, se porla, sia razionale. La si può porre, ma con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, come del resto abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è insipiens. Se fosse razionale porre, al pari dell’ipotesi « Dio esiste », l’altra « Dio non esiste », le due ipotesi si distrug- gerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico, « sospen- dere » il giudizio e con esso la filosofia. Se è razionale porre l'ipotesi « Dio» non è razionale porre quella opposta. Qui non siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile che domani sia una bella giornata com'è possibile che sia brutta; invece, non è razionalmente possibile che Dio esista ed altrettanto razionalmente possibile che non esista. Per porre una ipotesi è necessario che sia razionalmente possi- bile che possa essere dimostrata vera; non posso porre come ipotesi da dimostrare una tesi destituita di qualsiasi fonda- mento razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la verità della tesi opposta. Se così, l’ateo non pensa, « vocia »; non è consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua non è una conclusione critica, ma un’affermazione domma- tica; non il risultato di una riflessione esauriente, ma uno stato passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di fare , L'esistenza di Dio 213 apparire «logico ». « Dio non esiste » è l’ipotesi proibita, l’impossibile razionale. Non si tratta di ammettere l’esisten- za di Dio perchè soddisfa un mio desiderio ed è consolante, ma perchè tale affermazione risponde all’ordine della ragione e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi « Dio » non fosse ra- zionale — e lo fosse quella opposta — tutto l’uomo e l’univer- so sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è razionale che sia razionale l’ipotesi « Dio non esiste », ap- punto perchè l’uomo — in ogni forma della sua attività e in tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine e in ogni grado della sua normatività, attestante la razio- nalità dell’ipotesi « Dio » — sarebbe sostanzialmente contrad- dittorio e assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come ipotesi, si ponesse razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista inerisce alla natura dell’uomo e all’ordine della ragione; se quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo porla come ra- zionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È con- traddittorio che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipo- tesi « Dio esiste » e l’opposta; perciò « Dio non esiste » è l'ipotesi proibita perchè contraria alla ragione e alla natura dell’uomo. Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la verità del- la pascaliana prova « della scommessa » e non nel suo pre- sunto carattere pragmatistico e volontaristico, che è solo una interpretazione scorretta o insufficiente. Pascal, posto che è impossibile la neutralità di fronte al problema, vuol dimo- strare e dimostra che non si può non scommettere a favore dell’ipotesi « Dio esiste », perchè non si può scommettere a favore dell’opposta, in quanto è irrazionale, contrario, non ad una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scom- mettere per l’ipotesi « Dio non esiste » è implicitamente pun- tare per il mondo, cioè per un bene finito; scommettere per l’altra « Dio esiste » lo è per il bene infinito, senza scommet- tere contro il mondo. Ma, una volta che si tratta dell’Infi- nito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non scom- mettere per Dio. Non perchè sia più conveniente e con- 214 Filosofia e Metafisica fortevole scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè per un reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale bene finito (il mondo) non si spiega più come sia un bene se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è assurdo scommettere per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, ma basta che sia tale, perchè la realtà e positività del mondo comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si può scommettere per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica ra- zionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per conseguenza irrazionale e disforme la sua opposta. Perciò la scelta, se- condo Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi, ma tra la ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza dell’altra, tra il seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi all’insen- satezza della passione sofisticata; non è tra due condizioni reali dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la nega- zione insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di essere contro Dio è contro se stesso: si nega come uomo e nega Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui l’uomo coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la sua è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio o Lo dimentica per attaccamento al mondo o a sua cosa (atei- smo pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè l’atto con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e non c’è pensiero senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al suo «sì» profondo ed indistruttibile: offendendo Dio of- fende se stesso, si degrada al di sotto della razionalità. Nè di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato Dio per il mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di essersi attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla negazione pratica della Sua esistenza, che è negazione della sua natura umana e della finalità che le è propria e non è il mondo. Ipotesi proibita è il « dubbio iperbolico » di Cartesio, che, perchè iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche Dio, tanto da ammettere l’ipotesi di un « Genio maligno ».. L'esistenza di Dio 215 Ma il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrug- ge se stesso, perchè distrugge il pensiero: se davvero fosse possibile bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non nascerebbe mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero quale è il dubbio assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche nel grado più negativo del dubbio, non può dubitare di pen- sare; ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia pure come momento metodologico, l’esistenza di Dio, si ne- ga il pensiero e anche quell’atto di pensiero che è «il dub- bio iperbolico » e con esso l’ipotesi ateista. « Metodo » si- gnifica « via»; ma il pensiero per trovare la verità non può seguire la « via » che lo porta alla negazione di se stesso nel dubbio assoluto che comporta la « sospensione » dell’esisten- za di Dio. Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del « Ge- nio maligno », che implica, sia pure provvisoriamente, la pos- sibilità di concepire razionalmente ciò che non è razional- mente concepibile, cioè che tutto sia assurdo stupido insi- gnificante, al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evi- dente e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma è precisa- mente questa l’ipotesi proibita perchè assurda; dunque impos- sibile ed irreale, informulabile nell’ordine razionale come ad esso contraddicente. Non per seguire un metodo che porta alla verità, ma contro ogni metodo confacente alla ragione, Cartesio si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al dubbio iperbolico e alla ipotesi del « Genio maligno » (). (1) Lo stesso discorso vale per la « Volontà » cieca ed irrazionale dello Schopenhauer, altra specie di Genio malefico, tanto è vero che, irrazionale quanto si voglia, in fondo, pensa e delibera se, come dice il filosofo, crea illusioni cd allettamenti per alimentare negli uomini la volontà di vivere; dunque pensa e delibera l’assurdo; ma è assurda una pura volontà dell'assurdo. 216 Filosofia e Metafisica Proprio alle origini del razionalismo moderno, nella sua stes- sa posizione, c'è insito un elemento d’irrazionalità: l’atto irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora esser tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esisten- za di Dio, autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che si autopone, si autonega: è l’elemento dissolvente immanente alla stessa filosofia moderna. Concludiamo che il dubbio sull’esistenza di Dio si può spingere al punto da esigere una prova razionale, da di- scutere questa o quella prova, ma non fino a negare la ra- zionalità dell’ipotesi « Dio esiste » e ad ammettere quella dell’ipotesi opposta, la quale, se posta, distrugge lo stesso dubbio e lo stesso pensiero: se l’ipotesi « Dio non esiste » fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque anche l’ipo- tesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razio- nalmente perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a quella ipotesi varca i confini della razionalità e della ragio- nevolezza, si pone fuori dell’una e dell’altra, del pensiero e dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato irreale dell’uomo, è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di se stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal suo inizio cartesiano, contiene un elemento di « insensatez- za»: ammettere la razionalità e la verità del pensare anche se Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. Secondo Kant, è « pensabile » che Dio esiste, anzi è solo « pensabile », perchè non implica contraddizione. Egli esclu- de il dubbio iperbolico e l’ipotesi del « Genio maligno », ma non che sia razionalmente possibile e dunque « pensabile » l’altra ipotesi « Dio non esiste »; se così non fosse, le « anti- nomie » o i « conflitti » della ragione pura non sarebbero possibili. Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’an- titesi, propri della dialettica dell'idea cosmologica, sottinten- dono il primo che Dio esiste e l’altro che non esiste: «il mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo spazio, è chiuso dentro limiti », dunque Dio esiste; « il mondo non ha L'esistenza di Dio 217 cominciamento nè limiti spaziali, ma è infinito sia rispetto al tempo come rispetto allo spazio », dunque Dio non esiste; «la causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò è necessario ammettere per spiegazione di essi anche una cau- salità per libertà », dunque Dio esiste; « non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade universalmente secondo leggi della natura », dunque Dio non esiste ecc. Come sap- piamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la se- rie delle tesi; ma, come abbiamo dimostrato, non è pensa- bile razionalmente che Dio non esiste e dunque non è razio- nalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contradditto- rio pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare quella delle tesi, cessa l’antinomismo della ragione pura. In breve: è pensabile che Dio esiste, non che Dio non esiste; dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si fonda sulla pensabilità della ipotesi « Dio non esiste »; perciò non vi sono antinomie o conflitti della ragione pura, in quanto la pensabilità della serie delle tesi non consente razional- mente la pensabilità e dunque la razionalità di quella delle antitesi. Se l’ipotesi « Dio non esiste » è impensabile, anche la serie delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa ipotesi, risulta impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e il conflitto, restando compatibili con l’ordine della ragione solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa, soltanto la serie delle tesi. Possiamo aggiungere che neppure secondo un convenzio- nalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi atei- sta, in quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un dato convenzionale intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è il dilemma — o « Dio esiste », 0 « Dio non esiste » — perchè il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente anche come ipotesi: nell’ordine razionale manca l’alternativa di questo 44 aut. Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa- 218 Filosofia e Metafisica bile, rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che è im- pensabile, perchè in sè assurdo; dunque razionalmente è for- mulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensa- bile. L’ateismo non è neanche un problema perchè non è un problema sensato (?). (2) Indubbiamente la psicologia dell’ateo è molto più complessa di quel che risulta da quanto sopra si è detto limitatamente all’ateismo considerato come posizione speculativa. Abbiamo trascurato tutti gli elementi che formano lo « stato d'animo » dell’ateo, interessantissimi ma marginali per un metafisico che non desidera farsi sopraffare dalla psicologia e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo « filosofico » vi è un aspetto sul quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo — ‘egli come individuo o la ragione umana in generale, fa lo stesso — vuole essere Dio senza Dio: è qui la contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, in quanto nessuno penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio non esistesse! Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che esista l’Essere assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero che identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio. L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria; ma anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione ad aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio, invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti non potrebbe autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda gli è impossibile: la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della sua aspi- razione (M. BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien, vol. I, p. 78), tanto che egli, in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la forma mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primi- tivo e radicale del pensiero umano verso Dio « non è sterminabile ». Lo si può tradire; e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, dice di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel cuore dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, e si può guadagnare dalla misericordia di Dio la « chiamata ». La sua condizione è quella di chi ad ogni momento «si rifiuta » ad una « chiamata » interiore, generosamente cd instancabilmente insistente. CapitoLo IX RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato che S. Anselmo si propone dimostrare che esiste il Dio a cui si crede per fede e quale la fede Lo indica; anche noi te- niamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare l’esi- stenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede per fede. Ciò non significa nè che la ragione penetri la sua essenza (!), nè che la fede sia il fondamento della dimo- strazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede e ve- rità di ragione insieme, interessa la filosofia e la religione. Certo, esse vanno distinte e la via per cui la ragione arriva a Dio è diversa da quella per la quale vi arriva la fede, ma le due vie devono concludere allo stesso concetto di Dio, in modo che la ragione sia una conferma della fede: conosco razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così impostato il problema, la fede non solo non è un ostacolo, ma è anzi un aiuto per la ragione e nulla toglie alla forza razionale della dimostrazione; anzi, in un certo senso, gliene conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di cui si cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che l’uomo prega, invoca, adora ed in cui crede e spera. (1) Evidentemente il fatto che la ragione non penetri l’essenza di Dio non infirma l’argomento ontologico nel senso che, se la ragione ignora Dio nella sua essenza, non si comprende come dall’essenza o idea possa dedurre l’esistenza. E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua essenza, questa s'identifica sempre con l’esistenza. 220 Filosofia e Metafisica Impostare la questione in questi termini ci sembra estre- mamente importante per oltrepassare l’apparente antitesi, tan- to rovinosa quanto inconsistente, tra il « Dio della fede » e il « Dio della ragione », il Dio d’Isacco e di Giacobbe e il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a verità, cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, un fideismo che, per il fatto che nega la ragione, non salva la fede, la quale non dev'essere invocata per provare l’esi- stenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la fede, di essa non è più una conferma e se anche dimostra Dio, egli non è quelio della coscienza religiosa, ma una causa cosmica, una legge della natura. È necessario, invece, con- servare nella sua interezza il contributo della ragione e del pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce — sia detto per i volontaristi ed i pragmatisti — proprio la ricchez- za di quella vita spirituale che credono difendere contro il razionalismo astratto), senza separare la ragione dalla fede. Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di un'’astratta concatenazione concettuale e priva di quella forza reale che può attingere solo dalla pienezza e dalla concre- tezza della vita spirituale, è di un Dio che non è quello dell’esperienza religiosa ed umana. Teniamo fermo il punto centrale della questione: l’esi- stenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una verità di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fon- darsi sulla fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che gli uomini invocano ed adorano, e, per una filosofia cri- stiana, il Dio della Rivelazione. La fede non interviene e non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare alla ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare l’esistenza; è indicativa della meta da raggiungere e, dun- que, in certo senso, orientativa: è l’assente presente. L’esi- stenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. Ma il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi L'esistenza di Dio 221 tre secoli di accanita corrosione della metafisica, è tentatore e non risparmia neppure la coscienza comune. Infatti, quasi sempre si dice: « io credo o non credo nell’esistenza di Dio » facendo di essa, implicitamente e spesso inconsapevolmente, una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno, quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista ed afferma che l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi-genza, non è dimostrabile razionalmente: è una credenza, un bisogno morale, un atto di volontà, un « affare » intimo, un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volonta- rismo religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso dimostrare razionalmente; credo, « voglio credere » che esi- ste e « dunque » esiste. Un « dunque » inconcludente. Fidei- smo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone la vo- lontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. Vi è ancora un’altra forma non agnostica nè scettica di fideismo, quella protestantica, che non nasce dalla sfiducia nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di essa, considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro la ragione che pretende di risolvere, non solo il problema dell’esistenza di Dio, ma anche Dio stesso nel processo del pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni pura- mente razionali e filosofiche. È il « fideismo » che combatte il «razionalismo» deista o ateo (il deismo, in fondo, è ateismo bello e buono), la pretesa della ragione di dire tutto intorno a Dio, di costruire una religione naturale o razionale, o di risolvere il momento «inferiore » della co- scienza religiosa in quello « superiore » della coscienza filo- sofica o della razionalità. In questa forma di fideismo vi è un fondo di verità: rivendicare i diritti della fede contro la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come tale, irra- zionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si cerca non è quello « filosofico » o l’« Ente supremo di ra- gione » del deismo e neppure il « Dio che si fa ». Ma vi è anche un gran torto: rivendicare i diritti della fede contro 222 Filosofia e Metafisica la ragione e concludere che essa nega Dio e la fede, è loro nemica, il « diabolico» nell’uomo, come sostengono, per esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far valere i suoi diritti non «contro» ma «con» la ragione, di essa giovandosi; se è contro la ragione è contro se stessa: non si può credere « senza » o « contro » la ragione; il con- flitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica che la sua è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre imbevuta di ragione, come quest’ultima, pur «distinta », non è « separata » dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista, illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della ragione e dunque « fede per disperazione », è esso stesso ateo; l’ateo precisamente si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la ragione smentisce la fede. La difesa della ragione, dentro i limiti delle sue capacità naturali, è anche difesa della fede (2). Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della ragione è architettare un’antitesi convenzionale ed inesi- stente, se per ragione s'intende non quella «immaginata » dal razionalismo assoluto, ma la ragione normale, la quale non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la fede ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, essa argomenta intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne la verità, cioè per confermare la credenza religiosa. Colla- borazione, dunque: dimostrare cor la ragione l’esistenza di Dio a cui si crede per fede. (2) Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono inspiegabile il « di- screto sospetto » dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica, cit., p. 387) che anch'io « non rasenti la metafisica della fede » per la mia « insistenza » (sì, insistenza, e senza sospetti neppure discreti) nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza di Dio bisogna tener conto della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto quanto questo saggio esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio principii di presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro (Guida storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di « fideismo » e « volonta- rismo »; ma che si può fare contro le accuse gratuite ed orchestrate sempre nello stesso ambiente se non alzare le spalle e continuare tranquillamente il proprio lavoro? L'esistenza di Dio 223 Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la esistenza di Dio non è solo una verità razionale, ma di tutto l’uomo: verità integrale dell’uomo integrale. Non della ra- gione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta, profondamente umana, che non «prescinde » dall’uomo nella pienezza della sua vita spirituale. La ragione filo- sofica, che non è quella «geometrica », non ha da es- sere « passionale » ma non può non essere « appassiona- ta», « accesa », ad alta tensione; è passione di verità (eros) e, come tale, anche finesse. Solo in quanto eros è ragione penetrante: solo in quanto si accende di amore per la verità attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo co- nosce anche razionalmente per quanto ama, e più ama e più conosce. Pertanto dimostrare l’esistenza di Dio non è un'operazione, diciamo così, di ordinaria amministrazione; non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione indifferente, con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci «si esercita» con questo problema. È necessario viverlo intensamente, nella drammatica alternativa del sì e del no, da cui dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle cose, la consistenza essenziale del nostro accidentale vivere. « Riflettere » sul problema dell’esistenza di Dio è sopravvan- zare con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione per renderla aderente a quella, verità primale che la illu- mina, per mezzo di cui giudica e che pur la trascende (*). Dimostrazione rigorosissima, ma il cui rigore logico deve essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e non estintore. È qui che presta il suo aiuto la fede, pur senza interferire: la sua presenza indicativa è anche incen- tiva, eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata al massimo della sua forza normale dalla consapevolezza che la rispo- sta che da essa si attende, è quella del sì o del no al pro- blema assoluto. La risposta dev'essere senz'altro conforme 6 Amore petitur, amore quacritur, amore pulsatur, amore revelatur, amore denique in co quod revelatum fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus cath. ecclesiae, c. XVII, 31). 224 Filosofia e Metafisica alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano, ma le conclusioni stesse sono più sicure razionalmente se si è certi che la ragione abbia fatto il suo dovere, fino in fondo. Per- ciò la ragione riflessa non può non tener presente l’oggetto della fede religiosa, di un’esperienza che non può essere un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la fede si tenga sempre ancorata al suo fondamento razionale: credendo cogitat et cogitando credit (*). (4) S. Acosrino, De praedestinatione sanctorum, c. Il, p. 5. CapritoLo X LA CONVERGENZA TOTALE « Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi », nè basta portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del sacro fuoco. Similmente, non basta «esercitarsi » a dimo- strare l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati di- scorsi, anche se « indispensabili »; è necessario « impegnarsi » con la totalità di se stessi, dirigere, unificate e solidali, tutte le proprie energie spirituali e vitali verso lo stesso punto; fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari dispo- sizioni, una reale condizione psicologica di tutto l’essere spirituale che esclude l’indifferenza e la pigrizia ed include la consapevolezza della profondità della questione, dell’ur- genza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della risposta, dalla quale dipende persino se noi siamo vera- mente o solo apparentemente degli esseri intelligenti e non cose, il cui funzionamento organico ha delle singolari ma- nifestazioni — dette impropriamente pensiero, ragione, vo- lontà — che gli altri organismi animali non hanno, beati loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza aderire pienamente alla verità che si vuol provare, se non si è disposti a dimostrarla, « chiamati » dall’interno di noi a tentare la prova. Non è una chiamata qualsiasi: è quella dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del nostro essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della crea- zione non ci avesse radicato in Lui. La chiamata aspetta in si- lenzio quando noi, perduto il senso autentico del nostro 226 Filosofia e Metafisica esistere nell’onda del tempo, dall’Essere ci sradichiamo: déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le ore ine- sorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel cerchio del finito più insignificante, opprimente, insoppor- tabile. Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa de- siderare una tale certezza della sua esistenza da essere poi nella condizione di non più dubitare; infatti, è sapere tutta la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto toglie il potere di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboc- cante, il momento della piena armonia, dell’equilibrio del nostro essere integrale, che trova il suo appagamento nella conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire di no. L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della ve- rità. Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè la ragione sia nella condizione di « rendere al massimo », esige preventivamente una « conversione » di tutto l’uomo a quel problema. Tale « conversione » al problema (non a Dio) riguarda innanzi tutto la ragione. « Sofistica » non è la ragione retta, ma quella deviata; sofisma è un’argomentazione corretta nella forma ma sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze non forza di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi e relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è ugual- mente errato ('). È la stessa ragione che lo corregge dimo- strando falsa l’affermazione da cui muove e argomenta, ma non potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità non è nel nesso razionale, ma nel principio secondo cui esso è fatto: i nessi razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio è vero, sono solo formalmente corretti e sostanzialmente errati se muovono da un errore assunto come verità. Da questo punto di vista la ragione è inferiore all’intelligenza (1) « Le raisonnement n'est pas la raison; il en est souvent la parodie » (E. Hetto, Du Néant è Dieu, Paris, 1921, p. 154). L'esistenza di Dio 227 che intuisce i princìpi, fondamento su cui la ragione argo- menta; ma la verità dell’argomentazione non è nel puro nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, cono- sciuto dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelli- genza è illuminata direttamente dalla verità, la ragione mediatamente attraverso la prima, la quale, nella sua im- mediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica, la ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e falso al vero, di convincere di menzogna, di sofisticare la verità: il sofisma è l’alibi della menzogna; buona parte della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La ragione riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e crea- trice di verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la verità delle cose, ma solo in quanto l’intelligenza la illu- mina, la fa feconda di verità; l’una è la verità fresca, allo stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la verità riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è necessario che sia «riflessione secondo verità », che «si converta », s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa: solo purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva al livello della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta la forza di cui è capace; affinchè possa dimostrare la verità di una proposizione e conferirle tutta la sua potenza logica è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo a questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua forza normale; fino a quando è nell’errore, è al di sotto di se stessa e l’uomo al di sotto dell’uomo. La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vi- vere al suo livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra tutti gli enti creati, non vive al suo livello normale, sem- pre in squilibrio sul punto del suo equilibrio integrale; tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è, difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tre- mendo, drammatico, quello che alimenta insopprimibile una filosofia dell’integralità. Sembra di facile attuazione il 228 Filosofia e Metafisica comando «sii tutto l’uomo che puoi essere »; è invece tre- mendamente difficile: io non so mai in quale condizione raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure che lo raggiungessi e ne fossi sicuro, non basterebbe per salvarmi: questo livello posso perderlo in ogni attimo ed ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: qui tutto il senso di una filosofia cristiana dell’integralità. È evidente, dunque, che quando parliamo di ragione o del- l’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza normale non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo su- peruomo, che è la negazione dell’uomo o meglio la subli- mazione di quello inferiore, ma semplicemente della ragione che sia tutta la ragione, dello spirito che sia tutto lo spi- rito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integral- mente tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo che sia la pienezza di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è attuale e totale normatività dell'uomo se ogni sua energia e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pie- nezza dell’uomo è colma. La filosofia cristiana dell’inte- gralità è la filosofia dell’umiltà assoluta. La disposizione intellettuale di « conversione » alla ve- rità è anche disposizione morale, processo di purificazione di tutto lo spirito, elevazione al suo livello autentico: è met- tersi nella condizione di esser liberi dall’errore. Per dimo- strare secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo allora la ragione dispone di tutta la sua efficacia; non sottomettere il pensiero alla concupiscenza, le norme del giudizio alle cose da giudicare, in modo da ascendere al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua at- tività, convertita al problema, converge tutta nella sua so- luzione. Non basta ragionare secondo la logica, è neces- sario esistere, pensare, ragionare secondo la verità. Alla base L'esistenza di Dio 229 dell’autentica ricerca filosofica vi è una iniziale onestà di pensiero e di volontà, che è frutto di ascesi e purificazione: non si conosce la verità se non si è già nella condizione in- tellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua scoperta è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il premio di chi si è liberato dell’io superficiale, egoista, fram- mentario, disperso; premio dell’onestà fondamentale di una ragione votata alla verità e di una volontà che è buona vo- lontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i poeti; e non vi è poeta senza una particolare condizione di spirito, quella che chiamano «estro»; e vi è anche un « estro » filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno anche scientifico. L’« estro » della filosofia è l’amore incondizio- nato della verità, che è poi, anche quando non se ne ha coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i « bei discorsi », di cui parla Socrate, sono il suo modo di pregare, la ma- niera con cui la ragione si rivolge alla verità, come ne testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio nella verità stessa. Solo allora le argomentazioni manife- stano tutta la loro forza normale (?). Questa la condizione per acquistare tutta la consapevo- lezza possibile della nostra iniziale e finale partecipazione all’Essere. Come abbiamo già detto, del « nulla» non c’è discorso nè filosofia: il nulla è il nulla e non avrebbe alcun senso senza la positività dell’essere. Ogni ente è l’essere che è; è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo stimola ad essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta che riceve dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipa- zione all’Essere gli dà tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, (2) Difficilmente la forza « attuale » delle attività dell’uomo è tutta la loro forza « normale », la quale, d’altronde, anche allo stato interamente attuale, non è mai autosufficiente, anche se sufficiente nell'ordine naturale. Anzi la normati- vità piena è impossibile senza la convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè senza la condizione attuale della transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al di là della norma, l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 2% Filosofia e Metafisica più che dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che non riesce a rendere tutta attuale. L'uomo è sempre più di quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un domani. Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del di- sperato, di chi non ha domani significante ed eterno, dei sradicati dall’essere. È nostalgico chi nel futuro vede il nulla e nel presente il vuoto: misconosce la partecipazione ini- ziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi signi- ficante, ma per un fatale abbandono «in ciò che non è». L’uomo è lievitato dall’essere: farina che si fa pane, sempre nuovo pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile. Ogni ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello spirito, ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello oggi sporge sempre in quello del domani: lievito e lievita- zione perenne. È la tensione della vita spirituale nella sua integralità; nè teme rotture, perchè la tensione dell’essere all’Essere è il «tonico », il « ricostituente » dello spirito. È la tensione al finito che spezza l’esistenza; quella all’infinito, risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della creatura, che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto creativo. Da un punto di vista empirico questa tensione incandescente può far sembrare allucinata e allucinante la vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere al li- vello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, che ha saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e riconquista) tutta la pienezza della vita. « Pour étre vrai- ment homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre sans aucune réserve » (*. L'’ontologo, il metafisico vero, non « parla » dell’essere, « vive» del e nell’Essere assumendosi il problema totale del significato del suo essere integrale, fin nelle sue profonde ed abissali radici. Tale condizione è esigita assolutamente dalla dimostra- zione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro- (3) BaLtHAsar, op. cit., p. IX. L'esistenza di Dio 231 blema essenziale della filosofia essenziale: tutto il dinami- smo della vita spirituale è chiamato a convergere nella soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora non capiterà d’incontrare persone che conoscono benis- simo tutte le prove dell’esistenza di Dio tanto da saperle esporre meglio di coloro che ne sono convinti, ed essere atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare esatta- mente l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo costoro perfettamente inteso per filo e per segno tutti i processi logici. Che manca? manca la tensione, la conver- genza totale della vita spirituale e di tutte le sueinfinite ed a volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ra- gione, a tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in moto, con la ragione, tutto me stesso, in modo che essa viva di tutta la mia vita, pulsante di tutte le energie del mio spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza insospet- tata e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e laragione scopre nello spirito la presenza di qualcosa che prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e nella luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con quell’intelletto di amore, che potenzia le sue capacità di- mostrative senza comprometterle. La ragione cerca e trova, cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito, non l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio creante, vivificante, provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita ed è artefice di verità, perchè dalla verità illuminata. La originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed il pre- sentimento primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato ogni atto spirituale, si svela come verità razionalmente vera. La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità presentativa della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, perchè tutto convergente in questa dimostrazione. La prova non è soltanto lavoro di dialettica e concatenazione astratta di concetti, ma di logica incarnata, piena di tutte le risorse, adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni ente 232 Filosofia e Metafisica conosce il senso assoluto della sua contingenza: la risposta è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta indefettibil- mente la vita nel tempo — di un passato che altrimenti non importerebbe più e di un futuro che diversamente sarebbe inutile — all’eternità. La prova non ha fatto certamente che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato l’essere di Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha reso possibile la prova stessa. Il presentimento, prima se- greto e confuso, si traduce in termini discorsivi: la vita dello spirito, nella consapevolezza razionale della sua si- gnificanza, trova pace nella verità operosa e creatrice di nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle parvenze sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una pace che è solennità di pensiero maturo e compiuto, ope- rosità di volontà inesauribile nella realizzazione del bene. « Trop de vérité m’étonne », scrive Pascal. M°étonne non direi, perchè la verità non stordisce nè fulmina: la verità illumina. Certo che, nello stato naturale dell’uomo, resta una zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si penetra. Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine del- l’uomo, la sua felice e feconda infelicità sulla terra. « La Grande Luce» è per noi «la Grande Tenebra»: più si riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed acce- cante nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bi- sogno del ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta la Luce. Con Agostino ed il migliore agostinismo — e S. Tom- maso ne è il più originale assimilatore — noi rivendichiamo una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua effi- cacia concreta, che solo la vita dello spirito e il suo inte- riore dinamismo le possono conferire. Dio non si dimostra ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava « pas- seggiando ») ed astrattamente sillogizzando come se ba- stasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la umanità e delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragio- ne, anche se è vero che non vi è vita spirituale senza ragione. È necessario che nella prova vi sia la solidarietà essenziale di L'esistenza di Dio 233 tutti gli elementi attivi e reali della vita dello spirito (ve- dute dell’intelletto, disposizioni della volontà, amore di ve- rità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio di possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti allo stesso scopo: solidarietà essenziale di elementi in una convergenza totale, orientata e guidata dalla primitiva ve- rità interiore. A questo livello e sulla base di una razionalità sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come verità assoluta e la sua non esistenza come affermazione insensata e ipotesi proibita; a questo livello la ragione di- mostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere creatore tra- scendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della vita spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che dona a noi la verità, Luce della nostra mente, Valore asso- luto, fonte di ogni valore. Tutto converge in Lui perchè tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Ve- rità in sè, presentimento primitivo di Dio e principio mo- tore originario di tutto il mio movimento spirituale, se non sono assente a me stesso, fa sì che tutta la mia attività ar- monizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha il potere di unificare tutti i momenti della mia vita e diri- gerli verso la meta unica. Se, come abbiamo scritto altrove, in me mancasse la presenza operante di questa intuizione originaria, « se essa non esercitasse il suo potere sintetico ed unificante, la mia vita sarebbe sparpagliata, dispersa in tan- te direzioni insufficienti e tutte insieme inefficaci ad uni- ficarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove va- dano e dove cadano i brandelli della sua insignificante esi- stenza. Ed è una condizione ”’irreale”’ perchè frutto di igno- ranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della reale condizione dell’uomo... ». Perduto l’essere, si spezza l’unità dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazio- ne, il disfacimento; questa la morte, non quella corporea. Un uomo ed una società senza Dio sono fuori dell’uomo € 234 Filosofia e Metafisica dell’umana convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo perchè ha ucciso Dio, non si comunica perchè la comuni- cazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo presente che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve ‘e mette in moto l’interezza della vita spirituale, per cui la forma logica dell’argomentazione aderisce perfettamente alla concretezza dell’integrale realtà umana, si coglie tutta l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della mente nel- la verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della volontà inesauribile nella realizzazione del bene: volontà operosa. Mente vera e volontà buona: è la rettitudine del- l’uomo. La pura « razionalità » non è « intelligenza », che inclu- de l’altra e l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, o è astrattismo e formalismo, o conoscenza dell’empirico: c’è razionalità pura dell’astratto e delle cose fisiche (la Critica della ragion pura, da questo punto di vista, è una metodo- logia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma in- telligenza penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esi- stenza vi è un recupero dell’io profondo, del sensus sui, della verginità e schiettezza del nostro essere, della sua ‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere « ra- zionale » e perciò è scientifico e metodologico; si è privato dell’ « intelligenza » di Dio e perciò ha cercato di demolire o fare a meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi dell’empirico e del metafisico. Posizione formalisticamente «razionale », ma non ragionevole. La « ragionevolezza » è la razionalità fatta penetrante dall’intelligenza e vivificata dal sentimento: chi è ragionevole non può negare l’esistenza di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non ‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sen- timento da rendere umana la ragione e tanta forza di ragione da purificare ed illuminare il sentimento, in modo che la verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua razionalità L'esistenza di Dio 235 e ragionevolezza, che sono anche quelle della ragione. Tutto il nostro discorso è un invito ai « razionali » e ai « passio- nali » affinchè tornino ad essere « ragionevoli ». A questo punto, dimostrata razionalmente — e con una ragione ricca di tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il di- scorso della filosofia cessa e comincia quello della fede. Ma il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione di « arrivare », di spingersi fino a questo punto, se pensa interamente, se è spietatamente «critico »: non deve fermarsi a metà. Egli non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equi- librio, in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale e unificata, in cui si attua la rormazività piena, inclusiva di tutte ie norme di ogni forma di attività e di tutti gli equi- libri parziali. Il filosofo non può sottrarsi, costi quel che costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere di quanto ha positività — al livello in cui l’essere conquista la sua chiarezza nella partecipazione consapevole all’Essere, in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso dell’esi- stenza, il suo significato assoluto nell’immortalità e nella spe- ranza della salvezza. Poi la fede, quella che ha tale forza at- trattiva da sollevare l’anima al punto in cui « cade » in Dio, suo centro di gravità. Se mi seppellisco nel mondo, mi faccio cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge della gravitazione degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e fango mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per perderlo di vista ma per riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Es- sere che è Verità. Da questa altezza il mondo non mi attira e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito, in cui bramo « ca- dere » non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi tra- sfiguri. A questo punto il discorso si conclude — come Ago- stino il XV ed ultimo libro del De Trinstate — precatione melius quam disputatione. APPENDICE IL CONCETTO CATTOLICO DI LIBERTA’ DI PENSIERO Di diritto e di fatto il solo Istituto e il solo sistema dot- trinale che riconoscono e garantiscono la libertà autentica del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa catto- lica e il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolice- simo. Una tale affermazione, nei tempi perduti che l’uma- nità attraversa, a prima vista, superficialmente e solo in ap- parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal Rinascimento in poi, attraverso i « libertini », gli « spiriti forti », i deisti del Seicento e successivamente i cosiddetti «liberi pensatori » del giacobinismo settecentesco e del laicismo dell’800, si è prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega- zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e l’altro con la coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, le teorie politiche moderne, il liberalismo e il marxismo è stata interpretata, da storici e scrittori non cattolici, come la lotta tra l’oscuranti- smo della tirannia chiesastica e clericale e l’affermarsi della libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani € un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con la graduale e progressiva ignoranza, caratteristica del mondo moderno e contemporaneo, di quel che sono la Chiesa e il suo complesso dottrinale. Di fatto è accaduto sempre al contrario: quando un’au- torità ha misconosciuto i diritti della persona umana e ogni forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte, non nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma senza paure al cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 240 Filosofia e Metafisica oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estre- mo rifugio. Così ogni qual volta gli stessi uomini che met- tono in moto le forze oscure del potere e dell’ambizione, sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato ed im- potenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui consegue anarchia, perdono smarriti il controllo e il presti- gio d'’istituti e leggi è atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida ancora tra tanta tenebra di sanguinosa violenza negatrice di ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni, in quei Paesi dove tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi ristoratrice di libertà al gregge di uomini che terrorizzato applaude alla sua schiavitù. Per rendersi conto di come sol- tanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice della-libertà umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per fina- lità diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per una sua concezione strumentale, bisogna che vengano tempi duri, anni in cui la libertà è minacciata o calpestata. Quando tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la Chiesa protesta per quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stes- si, possano di nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi dalla colpa di aver negato agli altri questo naturale e fonda- mentale diritto. Questo storicamente. Ma quale il concetto cattolico di libertà, e, più particolarmente, della libertà di pensiero? Co- me intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Pro- blema imponente, che in una brevissima nota può essere sol- tanto sfiorato in quelli che a noi sembrano i suoi aspetti teo- retici essenziali. Innanzi tutto, libertà di pensiero significa libertà del pen- siero, cioè non libertà di pensare quello che piace, che è la negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale e nel non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura del pensiero, cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta Il concetto cattolico di libertà di pensiero 241 che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non una violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero come tale significa semplicemente libertà del pensiero di pensare l’oggezto che gli è conveniente e a cui la sua natura lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del pensiero alla sua essenza conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero significa libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. Chi pensa nella verità non può non pensare la verità che l'umano pensiero può conoscere e chi la pensa, pensa confor- memente alla natura del pensiero stesso e dunque in piena libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. Ma la verità è più del pensiero che la pensa e per cui esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza il suo oggetto. E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima ed indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente può conoscere perchè c’è la verità, presente in ogni vero € per cui ogni vero è tale. Se la verità è più del pensiero, gli sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto verità-pensiero è di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità. Il « diritto » alla sua libertà, a pensare il vero nella verità, lo esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia il « do- vere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbi- dendole. Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità che è come escire fuori di strada, perdersi nel buio di sè a se stesso, pensare disformemente dalla sua natura, che è non pensare, soffrire della privazione della verità e del peso del- l’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si può così formulare: chi pensa conformemente alla verità pen- sa conformemente alla natura stessa del pensiero, il quale è libero quando pensa il suo oggetto proprio, cioè quando si sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della verità è libero dall’errore ed in possesso dell’oggetto che ap- paga la sua natura e, appagandola, gli dà la gioia della libertà 242 Filosofia e Metafisica piena. La libertà è processo di liberazione dall’errore senza che tuttavia s’identifichi con il processo attraverso cui si conquista. Similmente la libertà della volontà è libertà dal male, cioè volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbi- dire al bene, come il pensiero lo è quando è libero di ubbidire alla verità. Il concetto cattolico di libertà della volontà si- gnifica: obbedienza libera a legge giusta e buona; disubbidire in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di liberazione dal male, conquista del bene e conformità del- l’azione al bene voluto, che, cristianamente, significa amato. Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni: qui s’im- pone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a seguirla; non gli si consente che si scelga la sua verità. Hanno un senso razionale queste parole ? Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto libero nel vuoto, anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui ri- fugge. Bisogna dunque dargli un oggetto; e quello che gli è conforme e lo rende libero è proprio la verità, che è tal cosa che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: è di sempre, extratemporale o superstorica, quantunque sia madre del tempo e della storia; è tal cosa che non può non imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il pensiero dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schia- vitù. i Che significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la sua verità? Ha solo un senso: scegliere la verità invece che l’errore. Ma di fronte alla verità non c’è scelta, perchè non c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il pensiero sce- gliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì an- cora nel senso che in essa si trova a suo agio e vi si adagia, anche se per una veglia perenne. No, invece, se significa che Il concetto cattolico di libertà di pensiero 243 la verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da lui dipendente, tanto da essere verità per uno e non-verità per un altro. Tal verità non è più tale, è opinione; ma qui delle opinioni non si fa questione. In breve: o si dice dimo- strandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pen- siero, per il semplice motivo che il pensiero è sempre nella non-verità; o verità c'è e allora, siccome la verità è tal cosa che è sempre vera e mutare non può, la libertà del pensiero ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di essere nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare secondo essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha pro- prio negato l’esistenza di una verità oggettiva ed immuta- bile, dei principi stessi della ragione, per una verità storica e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole della mutevole mente umana. Perciò, perduto il vero con- cetto di libertà del pensiero, schiavo dell’errore, accusa di negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne abbia un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè conforme alla genuina natura del pensiero, la cui libertà si realizza nell’ubbidienza alla verità, che è tal padrone che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone tale di- pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. Dentro questa libertà del pensiero nella verità e della volontà nel bene è legittima e vera ogni altra libertà: po- litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre tale che si attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il concetto cattolico della libertà di pensiero è fondamento e garanzia di ogni altra libertà, della libertà integrale; perciò la Chiesa difende i diritti naturali della persona umana, che si compendiano in un solo fondamentale diritto: libertà di essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo limite: la verità per il pensiero, il bene per la volontà; perchè non ha senso una libertà del pensiero e della volontà oltre 244 Filosofia e Metafisica la verità, al di là del bene. Oltre la verità e il bene c'è il nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di schiavitù: c’è il nulla della persona umana, di ogni suo di- ritto e dovere. Pensare fuori della verità è non pensare e non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi nell’errore, che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu- tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò che piace non è oggetto del pensiero ma del senso. Se si abbandona il piano della libertà spirituale o di pensare nella verità si scende a quello della libertà biologica o vitale, governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che piace » fa che l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- ciale e morale, quella di riconoscere e rispettare la libertà dell’altro: è la violenza in tutte le sue forme, dell’assassinio singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta o della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero di non fare quel che gli piace, e di fare quel che è giusto perchè conforme all’ordine del bene, in cui soltanto la sua volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto il suo pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. Da un punto di vista teologico questa formula si traduce in quest'altra: libertà nell’ortodossia. La verità è infinita e si manifesta in aspetti infiniti, che mai la esauriscono; pen- sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa, armonizzante col tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per quanta verità possa contenere, non è mai tutta la verità e dunque non vi è alcuna filosofia che possa dirsi tutta la verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come tante verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della unica verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- chio convergono tutti al centro. La Chiesa ha conosciuto nel migliore Medioevo questa magnifica libertà di pensiero den- Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 tro l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi senz'altro con una filosofia o con una determinata corrente filosofica. Non una philosophia perennis, perchè perenne c’è solo la verità e la filosofia come ricerca e scoperta di sempre nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- lano un aspetto della verità, perchè vive della vita perenne della verità; è ogni pensare nell’ortodossia, senza esclu- sione, in quanto la verità è soltanto monopolio di se stessa ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta. Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana conoscenza dell’unica eterna verità, anche se si dice ateo, contro se stesso, pur essendo schiavo dell’errore, è libero per quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui ubbi- disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa non contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della libertà di pensiero è tal cosa che rende liberi anche coloro che fanno di tutto per essere schiavi dell’errore e del male. INDICE DEI NOMI A Abelardo, p. 204. Acri, p. 143; vol. II, p. 53. Agostino (S.), p. 35, 40, 62, 67, 99, 124, 125, 127, 128, 137, 139, 140, 141, 143, 145, 147, 148, 149, 150, 151, 154, 155, 156, 165, 166, 180, 184, 187, 194, 207, 210, 216, 217, 223, 224; vol. II, p. 8, 40, 97, 112, 115, 136, 145, 155, 162, 175, 177, 179, 187, 192, 194, 203, 209, 223, 224, 232, 235. Alembert (d’), p. 109, 180. Alessandro, p. 187. Aliotta, p. 130. Amerio, p. 137. Ampère (d’), p. 180. Anselmo (S.), vol. II, p. 130, 194, 195, 196, 197, 198, 202, 203, 206, 207, 219. Antonelli, p. 13. Ardigò, vol. II, p. 50, 51, 123. Aristotele, p. 51, 52, 61, 91, 97, 105, 113, 122, 123, 127, 128, 129, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 149, 150, 152, 153, 156, 181, 184, 190, 193, 194, 220, 221, 227; vol. II, p. 42, 91, 147, 183, 199, 210, 232. Arnauld, vol. II, p. 10. Arvon, vol. II, p. 76. Bacone, p. 181 vol. II, p. 73, 160. Bakhtavar, vol. II, p. 27. Balmes, p. 127. Balthasar, vol. II, p. 143, 230. Bayle, vol. II, p. 9, 23, 25, 27, 38, 43, 45, 46, 76. Berdiaeff, p. 188, 205. Bergson, p. 116; vol. II, p. 94, 210. Berkeley, p. 107, 108; vol. II, p. 174. Bernardo (S.), p. 204. Bertini, vol. II, p. 204. Besant, vol. II, p. 60. Bespaloff, p. 205. Blavatsky, vol. II, p. 60. Blondel, p. 40, 67, 80, 127, 128, 129, 143, 155, 225, 226; vol. II, p. 7, 141, 187, 218. Bogliolo, p. %; vol. II, p. 211. Bonatelli, vol. II, p. 137. Bonaventura (S.), p. 99, 156, 144; vol. II, p. 150, 195. Bontadini, vol. II, p. 208, 209. Borne, vol. I, p. 76. 250 Indice dei nomi Bossuet, vol. II, p. 15. Bruno, vol. II, p. 56. Brunschvicg, vol. II, p. 8, 35, 69. Bruto, vol. II, p. 20. Buber, vol. II, p. 76. Biichner, vol. II, p. 50. c Calvez, vol. II, p. 76. Campanella, p. 127; vol. II, p. 130, 191. Camus, p. 189, 211; vol. II, p. 17, 28. Capone Braga, vol. II, p. 148. Carabellese, p. 221; val. II, p. 32, 76, 130, 205, 206, 207. Caracciolo, p. 13. Carlini, p. 101, 137, 138, 140, 141, 143, 145, 146, 147, 148, 150, 151, 156. Cartesio, p. 15, 37, 89, 100, 105, 106, 107, 108, 111, 118, 144, 204, 215; vol. II, p. 10, 105, 108, 155, 160, 174, 214, 215. Cesare, p. 187. Chestov, p. 208; vol. II, p. 39, 222. Ciro, p. 187.Comte, p. 114; vol. II, p. 7, 37, 61, 75. Condillac, p. 108. Copernico, p. 73. Crippa, p. 13. Crizia, vol. II, p. 26. Croce, vol. II, p. 35Cusano, p. 127; vol. II, p. 161. D D'Amore, p. 227, 228. Dario, p. 187. De Bonald, vol. II, p. 41. De Finance, p. 143. De Lubac, vol. II, p. 76, 99. Destutt de Tracy, p. 108. Diagora di Melo, vol. II, p. 26. Diderot, vol. II, p. 44. Diels, vol. II, p. 26. Diogene di Apollonia, vol. II, p. 26. Diogene Laerzio, vol. II, p. 29. Dostoiewskij, p. 164, 210; vol. II, p. 8, 45. Drochmann, vol. II, p. 76. Du Bois Reymond, vol. II, p. 50. Duméry, vol. II, p. 76. Durkheim, vol. II, p. 48. ‘E Eddigton, p. 201. Egesia, vol. II, p. 24. Eliot, p. 177. Epicuro, p. 67; vol. II, p. 23, 26. Eraclito, p. 159. Erode, p. 187. Eschilo, vol. II, p. 53. Eucken, p. 118; vol. II, p. 49. Euripide, vol. II, p. 17. Evemero, vol. II, p. 26. Ferro, vol. II, p. 222. Festa, vol. II, p. 50. Indice dei nomi 251 Feuerbach, p. 114, 211; vol. II, p. 61, 63, 66. Fichte, p. 114; vol. II, p. 55, 56, 59, 61, 63. Ficino, p. 127. Flint, vol. II, p. 76. Fondane, p. 205. Fourer, vol. II, p. 48. Franchi, p. 186. Franck, vol. II, p. 76. G Galilei, p. 73; vol. II, p. 43, 160. Gandhi, vol. II, p. 20. Gaunilone, vol. II, p. 130, 199, 200. Gentile, p. 14, 38, 91, 115, 116, 117, 138; vol. II, p. 61, 122, 135. Giacobbe, vol. II, p. 220. Gilbert, vol. II, p. 46. Gilson, p. 14!, 142, 143, 192, 197, 202, 218, 222. Giovanni di S. Tommaso, vol. II, p. 86. Goethe, vol. II, p. 54. Gratry, p. 127. Guyau, vol. II, p. 48. H Haeckel, vol. II, p. 50; 51. Hamann, p. 204. Hamilton, vol. II, p. 30, 33. Hardouin, vol. II, p. 10. Hasting, vol. II, p. 76. Hazard, vol. II, p. 42, 43, 44, 46, 76. Hegel, p. 57, 59, 93, 113, 115, 124, 134, 154, 166, 168, 183, 185, 186, 202, 203, 204, 206, 211, 213; vol. II, p. 47, 49, 55, 56, 58, 63, 64, 66, 68, 94, 108, 116, 121, 122, 123, 124, 134, 172, 175, 191, 221. Heidegger, p. 102, 124, 1%, 203, 205, 206. Hello, p. 225; vol. II, p. 226. Herbert di Chirbury, vol. II, p. 42, 45. Herder, p. 179, 180. Hobbes, p. 108. Holbach (d’), vol. II, p. 23, 30. Huizinga, p. 174. Hume, p. 108, 109, 144; vol. II, p. 30, 120, 146, 167, 168, 169, 170, 174. Huxley, vol. II, p. 29, 31, 50, 76. L Isacco, vol. II, p. 220. J Jacobi, p. 204. Jaeger, p. 122. James, p. 118. Jaspers, p. 205, 206. Jaurès, vol. II, p. 47. K Kant, p. 59, 74, 91, 93, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, II6, 117, 144, 204; vol. II, p. 25, 252 Indice dei nomi 29, 31, 33, 41, 42, 43, 72, 5, 122, 130, 141, 145, 146, 147, 152, 164, 166, 167, 170, I71, 172, 175, 196, 200, 203, 204, 205, 207, 208, 216, 217. Keplero, p. 73. Kierkegaard, p. 114, 198, 202, 203, 204, 206, 208, 210. L La Bruyère, vol. II, p. 27, 40, 151. Lachelier, p. 108, 118; vol. II, p. 13. Lagneau, vol. II, p. 152. Lalande, p. 199; vol. II, p. 76. Le Dantec, vol. II, p. 7, 26, 76. Leibniz, p. 107, 108; vol. II, p. 47. Leopardi, vol. II, p. 22, 162, 169. Le Roy, p. 99; vol. II, p. 33. Le Senne, p. 209. Levi Ad., vol. II, p. 33. Liard, p. 117. Littré, vol. II, p. 31. Locke, p. 109, 111, 144; vol, II, p. 30, 44, 120, 167, 168. M Machiavelli, vol. II, p. 43. Malebranche, p. 106, 107, 127; vol. II, p. 10, 121. Mansel, vol. II, p. 30, 31, 33. Mansfield, p. 226. Manthner, vol. II, p. 76. Marcel, p. 205, 206, 222. Maritain, p. 197; vol. II, p. 4, 76. Martinetti, vol. II, p. 42. Marx, p. 114, 168, 211; vol. II, p.- 52, 61, 64, 66, 67, 68. Masnovo, p. 151, 223. Moleschott, vol. II, p. 50. Naville, vol. II, p. 31. Newton, vol. II, p. 43, 46, 135. Nietzsche, p. 166, 168, 210; vol. II, p. 58, 61. Novalis, vol. II, p. 55. o Occam, p. 98, 182. Oleschtschuk, vol. II, p. 76. Olgiati, p. 19, 92, 93, 95, 105, 126, 127, 128, 129, 130, 13I, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157. Ollé-Laprune, vol. II, p. 39. P Parker, vol. II, p. 10. Parmenide, p. 97, 159, 190, 201; vol. II, p. 57. Paolo (S.), p. 68. Pascal, p. 40, 53, 56, 68, 75, 76, 80, 127, 151, 155, 1907, 204, 240; 214, 216; vol. II, p. 10, 21, 40, 41, 72, 73, 107, 213, 214, 232. Indice dei nomi 253 Pico della Mirandola, p. 158. Pindaro, vol. II, p. 53. Pitagora, p. 49, 56. Platone, p. 40, 49, 52, 62, 64, 66, 79, 97, 125, 128, 141, 143, 151, 153, 155, 165, 184, 190, 193, 194, 202, 206, 212; vol. II, p. 17, 57, 73, 160, 163, 168, 169. Plotino, p. 98, 202; vol. II, p. 42, 55, 56. Plutarco, vol. II, p. 34. Poincaré, p. 34. Pompeo, p. 187. Prini, p. 13. Protagora, vol. II, p. 29. Proudhon, vol. II, p. 48. Reid, vol. II, p. 31. Renouvier, vol. II, p. 7. Rensi, vol. II, p. 9, 27, 72, 76. Ricciotti, p. 21. Richard, vol. II, p. 76. Rickert, p. 117. Rideau, vol. II, p. 76. Rosmini, p. 32, 40, 58, 64, 68, 116, 124, 127, 151, 155, 156, 187, 222, 224; vol. II, p. 4l, 140, 141, 143, 152, 155, 161, 166, 170, 173, 175, 177, 206, 209. Rossi, vol. II, p. 45. Rousseau, p. 204; vol. II, p. 42. S Saint-Simon, vol. II, p. 48. Salomone, p. 50. Sartre, vol. II, p. 17, 69, 76. Scheler, p. 124. Schiller, vol. II, p. 55. Schlegel, vol. II, p. 55. Schopenhauer, p. 114, 183; vol. II, p. 74, 144, 145, 146, 147, 215. Sciacca, p. 138, 140, 143, 147, 151, 154; vol. II, p. 76. Scotuzzi, p. 13. Sesto Empirico, vol. II, p. 26. Socrate, p. 50, 51, 128; vol. II, p. 10, 229. Sofocle, vol. II, p. 53. Spaventa, p. 115, I16. Spencer, vol. II, p. 50, 51, 53. Spinoza, p. 107, 108, 113, 134; vol. II, p. 45, 47, 49, 53, 55, 56, 57, 91, 121, 130, 143. Stalin, p. 164. Stefanini, vol. II, p. 222. Stephen, vol. II, p. 29, 76. Stirner, vol. II, p. 61. Strauss, vol. II, p. 31. Stuart Mill, vol. II, p. 3I. Suarez, p. 127. Sully Prudhomme, p. 115. T Teodoro, vol. II, p. 26. Toland, vol. II, p. 42, 45, 49. Tommaso d’Aquino (S.), p. 68, 122, 127, 128, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 145, 146, 147, 148, 149, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 165, 166, 190, 217, 221, 224, 226, 227, 228; vol. II, p. 88, 179, 189, 194, 1%, 254 Indice dei nomi 199, 200, 203, 204, 209, 210, 211, 232. Tucidide, p. 31. U Unamuno, vol. II, p. 39, 222. Vv Vacherot, vol. II, p. 31, 32. Valensin, vol. II, p. 57. Van Steenberghen, vol. II, p. 87. Varisco, vol. II, p. 207. Vico, p. 127, 137, 173, 183; vol. II, p. 175. Voltaire, p. 108, 179; vol. II, p- 11, 27, 38, 42, 43, 46, 73, 76. W Windelband, p. 117. Wolff, p. 100, 106, 107; vol. II, p. 49, 147. Z Zamboni, vol. II, p. 207. Zenone, vol. II, p. 50.Michele Federico Sciacca. Sciacca. Keywords: il veintennio fascista. Refs.: Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Scipione: la ragione conversazionale del circolo degli Scipioni – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Si trova al centro del più antico portico romano. Console, distrugge Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo console, distrugge Numanzia. È un appassionato lettore della "Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza del Portico. Forse, anche per questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la corruzione. A statesman, military leader, and scholar. More a patron of philosophers than a philosopher himself, he is particularly close to Panezio. Cicerone regards him sufficiently highly to include him as character of some of his philosophical works. He is much admired for his courage and moral integrity. C UM in Africani veniftem, M. Manilio z Confuti  ad quartam legionem Tribunus , ut fcitis, mili-  tum ; nihil mihi potiusfuit, quam ut $ Mafmif-  fam convenirem, regem farri il \x noftrsejuftis decauflis amicìfllmum * Ad quem ut veni, complexus me (enex  collacrymavit : aliquantoque polì (ulpexit in calum, Grate (inquic) tibi ago, furarne Sol, vobifque,  4 rel qui Caelites; quod, antequam ex bac vita migro,  confpicio in meo regno & histe&is P. Cornelium Sci*  pionem, cujus egO nomine ipfo recreor .* ita numquam  ex animo meo difcedit illius Optimi atque invitìiffìmi  viri memoria, Deinde ego illum de fuo regno , illemd  denofìra Repub. percontatus eft : multifque verbis ut-  tro citroque habitis, i 1 le nobis confumptus eli dies «  Poftautem regio apparatu accepti, fermcnemin mul-  tata nodem produximns; cumfenex nìtiil nifi de Afri-  cano loqueretur, omnìaque eius non fafta folnm, fed  ttiam di&a m^miniflet; deinde, ut cubitum difcedi.  mus, me & de via fefl'um, & qui ad multam noflem   vi-    t Seipio . Figliuola di Lucia  Emilio Paolo Macedonico , adot-  tato da Scipittne figliuolo dell*  Affici cano il maggiore , che di-  flrutfe Cartagine e Numanzla  nell'anno 609 Or etto nella dif-  puta di Repubblica follenea cotitra l' oppln Ione di Filo, che tan-  to era falfo non poterli lenza  commettere inglnftiiie la Repub-  blica governare, che anzi dicea  non poterli reggere Lina una  » fornirla gluftizia Sant* Agoftino  di clb ragiona nel libro il cap.  21. de Civltate D I, a' cui tem-  pi quelli libri di Rtpubl. fi leg-  geano , come pare , ed andavano  attorno .   1 Confuti ...... tribunus    militum . Ulata maniera , nort  Confuti. Diccafi fimilmente Ir*  gatus confuti non confuti .   I Maftnifj'am . Re d' una pat-  te d' Affrica . Solleone in prima  11 partito de* Cariaginelì contra  i Romani , nell' anno di Roma  541. Ma quattro anni apprelfo ,  avendo Scipione niello in rotta  l'armata d'Afdrubale , rimandò  fé u za prezzo di rifcatto 11 nipo-  te a MalTìnilfa ; per tale eciiero-  fo ano sì ptefo e per taf modo  fu quello principe , che poi fu  fempre cffezionjiiflimo a' Roma-  ni . Con erti congluofe l lue  forze , e nell'anno 55I. di Ro-  ma lì trovb alla battaglia , che  quelli guadagnarono contro N   SCIPIONE PARLA,-   / K .   E Sfendomi portato in Affrica, militar tribuno, co»  me fapete, alla quarta legione fotte il Confole  Manio Manilio; non ebbi cofa, che piò a cuor  mi folle, quanto il far vifita a Maflìniffa re per giu»  Hi titoli aftezionatiflìmo alla noftra cafa* Al qua! co-  me fui giunto, il vecchio abbracciatomi, versò lacri-  me : ed alquanto appreflo levò, gli occhi al cielo, e,  Grazie , difTe o fommo Sole, ti rendo , ed a voi al*  tri, celefti Dii, che, prima di pa (Tare di quella vita,  nel mio reame veggio, ed in quelli foggiorni Pubblio  Cornelio Scipione, pel cui nome i He ITo prendo riftoro:  s\e per tal modo dall’animo mio non fi diparte giam-  mai la memoriadi quell’ottimo , ed invittiffimo uomo Apprelìò io gli feciftudiofe ricerche del reaméluo, ed  egli Culla Repubblica noftra . Accolti pofeia in reai trat-  tamento, menammo per la lunga irragionar lioftro  fino a gran pezza di notte; conciofoffèchè il vecchio  non avelie alla lingua altro che 1* Africano, è ricor-  dane non folamente tutte le azioni di lui, mà i detti  altresì: come ci fummo fu levati per andare a letto,  e per efier dal viaggio fianco , e perché io vegliato  ayea fino a notte molto inoltrata, mi prefe cm Tonno  più ferrato, che nonfolea. In quefto a me (credo ve-  ramente da ciò procedeffe , di che avevacn parlato ;   • O o a che   Afdrubale , e dì Si face . Dopo,  la pace conci «fa tra.* Romani ed  i Carraginifi ebbe la fovfanirà  di diverfe provincle d* Affrica ,  e vide Tempre amico de* Romani .  Morì di qo. anni , e lafciò 44.  figliuoli di di vetfe conferii . Di-  cefi che nell’ ultima malartia  pregafle Mal Ho generale dcll'ar-  mata Romana, ad Inviargli il  giovane Scipione , affine d* aver  la conio lezione di morire nelle  Tue braccia , e per dargli gli op*  portunLordioi , che offcrvati vo-    lea fui rìpaftimento del fuo re-  gno .\E da quella contezza per,  avventura s’accatta I’occalìone  data al fogno .   4 Reìt^ui Calìtes . Accenna  la luna e gli altri pianeti e del-  le del elei fu premo , annoverate  dalla pift parte degl’Antichi  tra gli Dei. Di che Lattanzio  ragiona nel de  Fal/a Religione . Platone nel  Cratilo deride sì beftiaJe oppimene vigilaflem, ar&ior, quam folebat ; fomnuscomplexus  eft. Hic mihi (credo equidem ex hoc» quod eiamus  Jocuti : 1 fit enim fere, ut cogitationes fermonefque  noflri parfant aliquid in fonino tale, 2 quale de Ho-  mero fcribit Ennius, de quo videlicetj faepifTime vigì-  Jans folebat cogitare & loqyi) Àfricanus fe oftendit il-  la forma , qua: mihi 3 ex imagine ejm , 4 quam ex  ipfo, erat notior. Quem ut agnovi , equidem cohor-  rui. Sed ille, Ades, inquit, animo ; & orni tee timo-  rem , Scipio ; & , quae dicam , trade memori. V Idefne ilfamurbem, qu* parere Pop. Roro. eoa da  per me, renovat priftina bella , nec poteft quiefee-  re (oftendebat aurem Carthaginem 5 de excelfo , &  pieno flellarum , illuftri , & darò quodaro loco) ad  quam tu oppugnandam nunc veois piene miles? hanc  hoc 6 biennio Conful evertes : 7 eritque cognomen id  tibi per te partum , quod habes a nobis adhuc heredita-    x Fit enim fere iti cogita-  iiona <y c . Socrate appretto Pla-  tone nel 1 bro 9. de Repub.  di quelle cagio.ù , il fognar  generanti, va nobilmente filosofando.   a Squali de Homero fcribit  Bnrtiuf . Leggendo Ennio % e  meditando 1 verfi d* Omero e  fluitandone con premura Pihri-  taiiene , fognò <1* effere dive-  nu'O O nero , e che l’ anima di  colui (offe pattata m etto gia-  lla il Pitagorico domina . A ciò  allude Orai. uell’Epift.   , Ennius & f api Citi , for «*   tis (5 f alter Homerus .  ÌJt Critici dicunt , leviier  curare vìdetur. Ut pronti fa cadant , <y fo»  mai* Pytbagorea w   v   Oc. nel Luculìo cita un etrffU-    cMo del luogo , dove Ennio >1  fuò fogno narrava . Fifus Homr.  rus adejfe poeta.   j Ex imagine ejus &c. Allu-  de a que* ritratti degli antenati,  che fottenuto a reano curut ma*  gittrato,oche tener fi folcano  appetì uell* atrio.  Quam ex ipfo . Vuole 11  Sigonio che nell' anno , che  trapafsò 1* avolo Scipione Af-  focano il Maggiore , venitte a  htee il nipote adottivo 1' Affricano il Minore , cioè nel 571. fotto 1 confoli Apjlo Claudio Pulcro, e Marco Sempronio  Tuditano . Altri però lo fanno  nato due anni prima : e* pare  che ciò piò confuoni all'efpref*  fumé , che nel prefeme luogo  fi adopera .   5 De exctlf» . 1/ Affocano  parlava dal cerchio ^ della via  Latea , gremita di piccole ttel*  le , come dicono Ariftoti-   le 1  thè d* ordinario fuccede che ipenfamenti e difcorfi no*  Ari generano un non fo che di Tinnii nel Tonno , come  Ennio Tcri ve a lui Tu d’Omero avvenire, del qual fo-  vente Tolea nel Vero penfar vegliando e parlarne) in  quello, dilli, a me mi fi fe l’ Affocano vedere in quel  iembiante , che più dal ritratto di lui , che da elio  medefimo, m’era noto* Cui come ravviato l’ebbi , fen-  tii del ribrezzo. Ma egli dà qua mente, prefe a di*  re, o S., e caccia via il timore; ed a memo-  ria manda quel, che dirò*    Q Uella città vedi tu, cheper opera mia cofirettaa  predare ubbidienza al popolo romano, le guerre  prilline rinnovella , nè può racchetarli (ed ad-  ditava Cartagine da un certo alto lungo , e pien di  flelie, illuminato, ed arioTo) a cui oppugnare ora tt|  ne vieni quali faldato? quella tu interinine di due an-  ni con podellà conlolare diroccherai: e ti avrai quel  cognome per tua opera procacciato , che d^noi fina do*  ra pofliedi ereditario. Quando avrai poi fllrtag'n di firutto, menato trionfo , e Tara illato Cenfore, e lega-  to avrai cerco attorno T Egitto, la Siria, .T Alia , e la  Grecia , Tarai di nuovo eletto Confole Tenza cohcorre.  re, e recherai a fine una poderofiffi ma guerra, rovine*   O 0 ì rat ^   } Eritrite càgnomin &c. Di-  te 1* Affricano il Maggiore ;  t* acq unterai per tue valorofe  Opere II cognome d* Africano,  che firtadora da me avolo tuo 1*  hai ereditarlo . Ottervano che  1* A Africano il Maggiore fu il  primiero -tra* Romani comandan-  ti , dopo terminata la seconda guerra Punica , che fregiato  forte del ritolo formato da na-  tiorte foggìogata da lui . Su tal  prorofi'o Liv. nel fine del llb.  3CXX. riflette . Exemplo fèittdg  hujus , tìffHaquàm V'&ori* p*-,  tei •> infignes , imaginum tiiulot  tlaraque cognomina f amili* fi*  cin le e Toìommeó , la qUale pef  coiai fimiglianza od apparen-  za , che ha col ìatte , fa da   Greci detta a (• Svariate furono le oppiniont del-  la cagione di cotal comparfa ,  ma la piA naturai pare « quel  color fifultare dalla moltttudin folta di quelle piccole  «elle ..  Biennio tonfai . Ottervà il  Slgonio che 1* Affrica no fu ben  confole due anni appretto , ma  pattaron tre anni prima di com-  pier r imprefa , e la città di-  tteutte In carattere di proconsole , come egli dimoftra ue* com-  mentar j de' ratti .  . tanurn , Cum aurem Carthaginecn deleveris, triumphum egeris, Ceniorque fueris, & i obieris legatus  Egyptum , Syriam , Afìam, Grgciam, deligere iterum  conful x abfens, bellumque maximum conficies » Nu-  mantiam exfcindes: fed , cum eri* curru Capitolium  inve&us , offencles Renripub. perturbatane confiliis $  nepotis mei • 4 Hic tu, Africane, oflendas opcrtebit  patri» lumen animi , ingemì , confiliique tui . Sed  ejus temporis aneipitem video quafi fatorum viam. Nam, cut» aetas tua feptenos otììes 5 t Solis anfratìus,  reditufque converterit ; duoque .hi numeri (quorum  utetque plequs , alter altera de caufla habetur) cir-  cuicu naturali fummam tibi fatalem confeceriot ; in  te unum , atque in tuuic nomen , fe tota con verter  civiras : te Senatus, te omnes boni , te focii , te La-  tini intuebuntur : tu eris unus, in quo mtatur civi-  tatis falus: ac, ne multa, 6 diélator Rempub. confti.  tuas oportet | fi impias propinquorum manus effugerìs.  Hic cum exclamafTet Laelius ingemuiflentque cete-  ri vehementius, leniter arridens Scipio. Qn^fo, io* quit, ne me e fonino excitetis ; 8 pax ; audite ce*  tera. W  1 Oliar is legatus. Scrive   Giuntino nel ìib. j8« che per  esplorare gli animi de re, e  de comuni fu mandato legato con Spurio Mummio, e Lucio Metello . Oc. però dice  nel I.ucullo che quella lega,  rione feguì prima della esercirata ceuftira, e così pur fen-  te il Sigouio . Che qui poi  prima fi accenni la ce n fura,  fi P u h cib riportare al cumino,  do della efpouzione , alla quale  tornava piti in acconcio il mct.  terla prima.   z Abfens . Giulia la maniera , d-: Ila qual parla fovente  .Livio, quando fi ragioni dell*  elezione de* magiftrad 1* ai»  fetts importa 11 non concorrervi ed il non proiettarli candidato coll'andare in quel mi-  merò nel campo Marzo • Glb  ben ritrae fi dal conte fio di  molti luoghi degl’istorici, ed  olcraccib il comprova la pro-  pria forza di abejj*, il qual  verbo importa non l'efier lontano , ma il non efier prefente. ? Nepotis mei . Intende Ti.  berlo Gracco, figliuoi di Cor-  nelia figliuola dell* lAiTrjcano  il Maggiore, il quale , colla  legge agraria taflarsu i 5 0. ju«  ger! di poflefTo, voleva abbat-  tere lo fiato già corroborato de-  gli ottimati *11 fatto t coìrti Itinio nella llorfa Romana , del  quale abtiam già fatto pai volte ricordo. 4 Hic tu , Africane, Vuole. s ui    rai Numanzia; ma quando in cocchio farai condito  al Campidoglio, troverai la Repubblica fcompigliau  per le màcchine del nipote mio. Qui converrà che  tu, o AfFricano, facci alla patria vedere il la^reddl*  animo, ingegno ed accorgimento tuo . Ma di quel  tempo io veggio ambigua effer quafi la traccia de’ fati . Imperciocché quando la età tua voltato avrà per  otto volte fette tortuofi giri e ritorni del Sole: e queRi due numeri (che amendue per pieni tengonfi  qual per una cagione e qual per altra) come con periodo naturale t* avranno compiuta renduto la fatai  fomnru : tutta la città in te folo rivolgeralTì , ed a|  tuo nome: in te Afferà lo (guardo il fenato, in te tutti i buoni, in te gli alleati, ed i Latini: tu farai 1’unico, nel quale la fai vezza della città foflerraffi: e, per non farla più lunga , d’uopo è che tu dittatore  metti in buon ordine la Repubblica , fe ti verrà  fatto di fcanfare 1 empie mani de’ tuoi parenti In quello avendo Lelio levato alto la voce, e dato aceefi  gemiti gli altri , S. per maniera piacevole (or?  ridendo , deh, difTe , non mi rifcotcte dal foono:  fiate chieti : fentite il refìo. qui il Sigonio accennato il fac-  to di Cajo Carbone tribuno  della plebe, quando condii fle  fu’roftri Scipione, ed il coftrinfe a dire , che gli parerle dell*  uccisone di Tiberio Graccp, al J [uale egli con franchezza rifpo-e , eum [iti fare cafum videri.   5 Soli* anfratti* s Cosi nomina i giri del Sole per la obliquità del' Zodiaco , per cui vigore il fole or piega a fetten-  trione ed ora a meriggio . Cosi  pur chiamanti le curve e sinuose vie de* fiumi e de lidi con  rutta proprietà latina. 8 Dittator rempub. Significa,  che fenza fallo farebbe ft.uo  dittator creato, per acchetare  gli fcompigU della Repubblica,  te non folle flato tolto di vita  da* parenti con infidie , ed in  O 0 4 HL Affetto fu trovato morto fui fuo  letto.  Hic cum exclamafjet . Si finge che nella leena del fogno v*  Intervenirle Lelio e gli altri perfonagoj accennati di fopra,  che deputavano di Repubblica.  Or qui Cic. l’erba il carattere  decoroso di S. . Perciocché mentre alPafcoltarfi de fu-  turi rifichi di lui gli alcolcnnci  dimoftrano conimozion d* ani-mo: folo l’eroe, a cui appar-  tengono , ferba intrepidezza e  cofanza % Pa . Voce da Latini concici ufata ad accennare filenzio. Terenz, Eavtont. 4. j* Unus eiì  dits , dum argentarti eripio,  pax , ni AH amplia s . U fai la pur Plauto. C*ED; quo fis, Africane, alacrior adtotandamRem-  ò pub. fic habetoi omnibuJ, qui patriam conferva-  rint, adjuveriot, auxerint, certum effe incacio ac definitum locum , ubi beati aevo ftmpiterno fruantur. Nihil eft enim illi principi Deo, qui omnero hunc mundum regie, quod quidem interrii fiat , acceptius, «pian»  concilia caetulque hominum ajure lodati, qu* civitatesappellantur : harum redloresS confervatores ahinc profefti, huc revertuntur. Hic ego, etfi eram perterritus non tatti metu mortis, quam infidiarum a meis,  quaefivi tamen, viveretne ìpfejPauIlus pater, salii, quosnos extinflos arbitraremur . Imo vero, inquit , 11  »ivunt, qui 4 exeorporum vinculis, tamquam e carcere evolaverunt . Veftra vero , qua; dicitur vita , mori  eft. Quin tu afpictas ad te venientem Paullum patrem.  Quem ut vidi, equidem vim lacryroarum profudi. Jl-  le autem me amplexus, atque ofculans Aere proh.bebat Atque ego ut primum ftetu repreflo loqui polle  1 cce- t 1 Jure focidti. Si accennano  tutte le raguuanie , che risulta-  no dal conienio ed offervauza di  legpl . Dà buon lume all* ef-  prcllìone un luogo di Macrobio. Servili s quondam, die*  egli f & gladiatoria manus concilia, CcBtufque hominum fuerunt , fed non jure {odati . JUa  autem fola eli jufia multitudo ,  cujus vnitfrjitas in legum  tonfentit otfequium. E quella  definizione conviene con quella»  che Platone ci da della legittima moltitudine ne' J'hfl della  Repubblica, ed Ariflotile nel   ljb. II. de* Poikic*. I Bine profetili Già nel llb.  de'Senec Spiegammo la fenten-  za Platonica Sulla origin di ti-  ra delle anime , ammetta pure  da Cic. Qui aggiungo in conferma un patto tratto dal V. l* b »    delle Tufculane . Bumanus ani-f  ntus decerptur ex mente divi- i  *4, cum alio nullo , nifi cum \  tpfo Deo % fi hoc fas e fi diflu , \  comparar i potefi . Or in quello  luogo Spezialmente attribuisce il  ritorno in Cielo a quegli Spiriti , che /landò in quella vita,  dirittamence prefederono alle Repubbliche . 3 Vaullus . Che fu naturai  padre di Scipione Affricano il  Minore , il quale foftiene il Sogno . Quegli chiamoflì Lucio E-  milio Paolo , che Soggiogò Per-  feo Re di Macedonia . L* adot-  tivo fu Pubblio Scipione fi-  gliuolo dell* Affricano il Mag*  giore : quello Affricano ha da-  to principio all* iftruzione del ,  fogno ; la quale è fiata Inter.  rotta da Paolo .   4 Ex cor forum vitteulis   Ella 1 . v   M A, oAflfrictno, acciocché pibcoraggiofofii a fofìcner la Repubblica, Tappi, che a tutti coloro , i  quali confervatohan la patria, aiutata, e vantaggiata ,  v’ha in cielo uo fitto e determinato luogo, dove go-  dan beati un eterna vita. Imperciocché a quelprinci-  pale Dio, che tutto queir univerfo governa, di quello,  che fi opera almen nel mondo, nulla v’ha di pih accet-  tevole , che le ragunanze ed i ceti degli uomini per  leggi aflTociati, che città fi appellano : i reggitori, e  confervatori di quelle quinci partiti, quafsh fan ritor-  no. In quello io, febbene mi trovava (paventato, non  tanto dal timor della morte, quanto dall’ infidie, che m’ordirebbono i miei, ricercai tuttavia Te vi veflfe l’iftef-  fo mio padre Paolo , ed altri , cui noi cedevamo e-  flinti • Che anzi, loggiunfe, e(Ti vivono, i quali da’  corporali legami, come da carcere, fono via volati   La voftra poi, che vita dicefi, ella è morte. Che an-  zi volgiti a vedere il padre Paolo, chea te ne viene.  Il qual come veduto ebbi, verfai veramente gran copia  di lacrime, Maegli abbracciatomi , ed imprimendo ba-  ci, il piangere mi vietava. Maio come prima, ripreffo il pianto, cominciai a poter parlare, deh, dilli , o  fintiamo, ed ottimo padre, poiché quello egli é vive-  re (come lento dire all’ Affricano) che fio a fare nel  mondo? perchè non m* affretto a venire da voi quaf.  sii ? Non va così la faccenda , replicò egli. Se quel Dio,  del quale è tutto quello profpetto, che vedi, non t'avrà  dal corporal carcere liberato, non ti fi può aprire ac-   ceffo    Ella è dottrina ed efpreltìone  Socratica . Nei Fedone di Pla-  tone Sando Socrate per ber la  cicuta, tra le altre cofc , cui  viene introdotto a dire full* a-  nlma , prefenti 1 difcepoli; af-  ferma il corpo efierc una car-  cere dello fpirlto , che ivi con  violenza dimora come legato ,  il di lui naturai luogo, e plft  puro elTere 11 cielo , e la mor-  te altro non elTere che un difcloglinienro da quello carcere ,  ed un ritorno alla maggion  celefte . E coerentemente nd '  Fedone, nel Ostilo , ed in  altri dialogì di Platone il cor-  po chiamali« 7 a vi»»   cui a animi , e lèCfduvnpiOf  career . Che ami alcuni vo-  gliono che ìsutui corpus trag-  ga Parlino logica origine da   Ai? f/os , coltcch<è Ha come  Vinculum animi , ed al corpo   li a 0Uìlihp&vn 'luXt! colli»  gatus animus capi, Quasfo, inquam , pater fan&iflìme atque optime ,  quando hasc eft vita ( ut Africana m audio dicerc) quid - luoror in terris? quia huc ad vos venire propero ì Noti  eft ita, inquitille. NifiOc*usis, i cujus hoc templum  eft omne, quod confpicis, iftis te corporis cuftodiis Jif  beraverit, huc tibi aditus patere non poteft . Homines  cairn funt hac lege generati, qui tuerentur ilium globunri , quem 2 in hoc tempio medium vides, quae terra  dicitur . Hifque animus datus eft ex illis lempiternis  ignibu9, quas 5 fiderà & ftellas vocatis ; 4quae globo»  fae & rotundae, divi nis animata^ mentibus, circos fuos  orbefque confìciunt celeritate mirabili. Quare& tibi,  Publi. , & piis omnibus retinendus eft animus in cuftodia corporis: nec injuftu ejus, a quo ilie eft vobis da  tus, ex hominum vita migrandum eft ; ne munus humanti m aflìgnatum a Deo, defugifte videamini. Sedfic,  Scipio, ut avus h*ic tuus, ut ego, qui ce genui , juftitiam cole & pi età te m ; quas cum fit magna in paren-  tibus & propinqui, tum in patria maxima eft . Ea vi*  ta via eft in caelum, & in hunc ccetum eorum , qui  jam vixerunt, & corpore iaxati illum incolunt locum,  quem vides (erat autem is fplendidiflìmo candore in»  t ter ffommas circuseluceni ) quem vos, ut aGrajisac-  cepìftis, $ orbem la&eum nuncupatis. Ex quo omnia  mihb contemplanti preclara cetera & mirabilia vide»  bantur. Erant autem eae ftellas, quas numquam ex hoc  loco vidimus; & eae magnitudinesomnium, quas erte  numquam fufpicati fumus . Exquibus erat ili* minima,  qua ultima cacio, citima terris, luce lucebat aliena.  Stellarum autem globi terrae magitudinem facile vin*  cebant . Jam ipfa terra ita mihi parva vifà eft, ut me    1 Cu fui hot templum e fi o*  mnt , Tutto il ciclo dicefi t*m~  plum con proporzione , cbe I  luoghi rilevati , per tenere le  Kf elioni degli auguri , dicean*  v tempi a % che viene a. Tigniti*  care laogo , che da ogni par-  te ha profpetto c veduta . D*  onde nato è il verbo tontem»  flavi. Così pure Terenzio chia-  ma 11 cielo tempia nell* atto HI.  dell'Eunuco • v*;: -1 .•   Ai quem Dtum , qui lem pia cali fumma fonitte  coifcutit .   1 In toc tempio medium .  Cioè la terra , che da ogni  parte dal cielo è circondata ,  come punto da fmifurara cir-  conferenza tujvs templi di que-  llo hnmenfo profpetto.   ì Sidera. Propriaménte fo-  no 1 fegni celefti componi di  più Itelle , quali fono T Arie-  te       ceffo quafsà . Imperciocché fono gli uomini con quella  condizion generati , che quel globo guardino, cui col*  locatovedi nel mezzo di quello profpetto , il qual globo  r dicefi terra. Ed a quelli è flato dato lo fpirito da quei fem-  piterni fuochi , cui voi codellazioni e delle chiamate ; le  quali eflendo globofe e rotonde, e da divine menti anima-  te, i cerchi e i giri Tuoi compifconocon mirabileceleri-  tà • Laonde ed a te , o Pubblio, ed a tutte le pie pedo-  ne dee lo fpirito rimanere nel carcere corporale : nèfen-  za il beneplacito di colui, da! quale vi fu compartito,  non fi deedalla vita, che menan gliuomini, diloggia  re; per non parere di volere sfuggitela umana incom-  benza da Dio afTegnata, Ma in quefla condizione, o  S., come fatto ha quello tuo avolo, ed io, che  t’ ho generato, la giudizia pratica e la pietà ; la qua.  le ficcome ne genitori efercitata e ne’ parenti è di gran  pregio, così verfo la patria è d* eflìmazione grandini*  ma. Queftotenor di vita firada è pel cielo, ed in que-  llo ceto di coloro, che viffergià, e dal corpo difciolti, quel luogo abitan, cui tu vedi (ed era quello un  cerchio tra le fiamme lucente d’un candore rifplendentifTimo) il qual voi, come avete da’Greci apprefo, il  chiamate la via lattea. Dal quale io ogni oggetto contempiando , nobililTimemi fembravan le altrecofee ma.  ravigliofe. Erano poi quelle flelle, le quali nonabbiam  giammai da quedo luogo veduto ; e di effe tutte tali  le grandezze, quali non le ci damo immaginategiam-  mai  Infra le qua ! i quella era di minor grandezza , che  nell’ ultimo cielo , e pih vicina alla terra , rifplendeadi  luce accattata . Ma' i globi delle delle la grandezza  della terra vinceano lenza fallo. Orla terra mededma  co.    tc , l’Andromeda , 11 Leone ec. 4 . J£ud globofd . Crede Ari.  dotile che le ftelle fieno di  forma sferica, sì perchè In  qualunque lor progre filone noti  ci dinioftran couiparfa d* alcra  figura , sì ancora , perchè , fie-  come la luna , che annoverar  fi dee tra le ftelle , è di for-  ma sferica , egli è arresi vo-  rifimilc , che le altre ftelle pu-  re portin P Iftdfa figura . Ol-  tracciò gli Stoici appretto Cic. nel  de Nat. Deorum  furon d* avvita aver le ftelle  la forma e figura ìftetta dell*  Uni verfo , perciocché quefta è  la pi fi bella, la piA univerfale,  che le altre comprende, ina fen*  za 1 difetti . Orbem laHeum . Della via  httea già parlammo di (opra »  Per dottrina degl] antichi filo,  fofi quella era deftinato feggio  de* beati {pirici imperii nofì ri, quo quali punftum ejusattingimus, pae*  niteret. Quam cum magis intuerer, quacfo, inquit Africa-  nus, quoufque humi defixa tuamenserit? Nonne  aipicis, quae in tempia veneris? i Novem cibi orbibus , vel potius globis, connexa lune omnia, quorum  unus eft cfleftis extimus, qui reliquoSvOmnes compie-élitur, 2 lummus ipfeDeus, arcens& continens ceteros; in quo infixi funt illi, qui volvuntur, ftellarum  curfus fempiterni ,• cui fubjeéli funt feptem , qui ver.  fantur retro, $ contrario morti , acque Cglum, ex qui*  bus unum globum pofTidetilIa, 4 quam in terris Saturniam nominane; deinde eft hominum generi prosperus et falutaris i Ile 5 fulgor, qui dicitur Jovis ; tum ruti-  Jus horribilifque terris, quem Martem dicitisi dein-  de 6 fubtermediam fere regionem Sol obtinet, dux&  princeps , & moderator luminum reliquorum , mens  mundi & 7 temperano, tanta magnitudine, ut cunéta   (uà  1 Movent tìii orbi bus . 1 cerchi Tono nove , comprefa la  terra , la nual non fi muove: l’uno e l’altro è giuda 1’oppìnion degl’antichi . Sicché  sopra I’ottavo cerchio celefte  altro non ne poneano, e quello {limavano che tatti gli altri comprendere e deiTe Ior  confiftcma , come Oc. viene qui  dichiarando.  1 Summus ipfe Devi . Quefta.  fuprema ed . ultima sfera rego-  latrice delle altre chiamai» Dio  per ecce llema , come Cic. ta.  lora cotal titolo attribuire ad  uomini fingolarmente valenti  in alcun genere . V. G. nel  Ut. I. de Orat. Te fetnper in  dicendo putavì Deum . Ad Art.  IV. 15. Feci idem , qvod in  Tolitia fu a Detti 'tilt nofler Fla-  to . Altri interpreti poi credo-    no ( ed è il plfi verifimile )  che qui Oc. parli fecondo l'op-  pìnione non tua . ma di molti  Antichi , che I* Onlverfo , 11  Cielo e le Stelle riputavano  divinità . Nel de Nat.  Deor. esponendo Clc. la fem  tema fu di cib di Platone co-  sì feri ve . Idem in Timeo  Jrcit in legiius fy murtdum  Deum effe , & célum , & 4-  Jira , fV terram , animo t .  Nell' iftetfa opplnione fu Seno-  crate , e Cleame , come ivi ri-  porta fi poco appretto.   j Contrario motu atquè Ca 0  lum . U atqtte è particola cor-  relativa di contrario , polla li»  cambio di quam .   4 jQuam in tetris Saturni dm ,  La della di Saturno » la piil  alta delie erranti : chiamata   é da' Greci QctiVCùV j Uccome   quel-    così piccola mi fembrò, che (enea mi malcontento del  noftro imperio, nel quale ne tocchiam come un punto  di quella.   LA quale io vie maggiormente riguardando, deh, l’ Af-  fricati foggiunfe, e fino a quando farà la tua men-  te in terra fida? E non vedi tu in che profpetti fei  venuto? ogni cola ti viene concatenata in nove giri .  o piuttofto globi, de 1 quali l’uno è il celefte nell’ultima efterior parte, che tutti gli altri contiene, in sé  fommo Dio, che tutti gli altri lega e comprende : nei  quale fermati fono que’ (empitemi corfi di delle, che  fi vanno aggirando; al quale fot topofìi fono i fette glo-  bi, che indietro fi volgono, con moto contrario a  quello ; che fa il cielo, de* quali un ne poftiede quella  della, che nel mondo chiaman Saturnia; fuccede ap-  pretto quel fulgore profperoe (aiutare all'uman genere,  che chiamali Giove; quindi ne viene il rodeggiante  pianeta, fpaventevole al mondo,. cui dicono Marte;  il Sole occupa pofeia la regione, colà intorno a lotto  mezzocielo, guida, e capo, e direttore degli altri lu-  minari , fpirito, e temperamento dell’univerfo, di sì fmifurata grandezza, che colla luce illumina, ecora-  pie ogni cola. Tengono a quedo dietro, comecompa-  gni, l’uno il camino di Venere, e l’altro di Mercu-    quella il Mercurio c/ h/?àtv   voci latinamente per Aufonio  adoperate . Tempori qua StiU  von volvat , qua facula Pia.  i io* . Queita ftclla crederi  mandare influenze gelide e tor-  pide : oude fu rlpurato iL^la-  ncta de* vecchi,* che però ueno  tantalici e fartidiori . Compie il Tuo cerchio iu anni ig.   f iorii! 1 6t. ed ore iz. Cic. pel  uo tardo procreilo nel  de Nat. Deor. vuole che così  chiamili quod •fdturrtur attui s .  li Ricciolio peri» nell* Alme-  girto dà al dì lei corfo ip. an-  ni c ipo. giorni •   5 Fulgor , qui dieitur Jo*  v'tt . Quanto alla difporizion    rio;   grammaticale, o Jovis i ge-  nie. retto da fulgor , ovvero  è nomin. giufta 1* ufo , nel  qual era nell* antichi (limo La-  zio . Quefta rttlla fu da* Gre-  ci detta (pctttitùv da /«- •   cto , ardto . Da Latini fu detto  Jupittr Jovis da j uvando , at-  teri gi’influflì fuol temperati e  falutarl : onde da Cic. chiamali prosperus (gf f alutaris . 6 Subttrmediam . Vocfe ottima , ma pure dal Calepino  riformato non ricordata punto  nè popo . 7 T tmperat io . Perchè il So-  le col calor fuo comcmpera il  deio e la terra. ; sua luce iUuIIrer & compleat. Hunc ut cornice» conte»  quuntur alter i Veneris, alter a Mercurii curfus ; in  infirooque orbe Luna radiis Solis accenta convertitur  infra autem jam nihil ed > nifi mortale & caducum ,  praster animos generi hominum munere Deorum datos»  fupra Lunam funt aeterna omnia. Nam ea , quae  media & nona tellus, j neque movetur : infima eli ,  in eam feruntur omnia 4 nutu luo podera.   Q xjk cum intuererflupens , utmerecepi, Quishic,  inquarti , quis ed, qui complet aures meas tantu$  & tam dulcis fonus < Hic eft , inquic ille , qui  intervallisconjunfìusimparibus, fed tameng prò rata  parte ratione diftin&is, ó impulfu & motu ipforum or»  r bium t Veneris . Quello pianeta fi  difttngue per la fua lucidezza ,  e biancheria « onde avatua tut*  tl gli altri pianeti » ed è si  notabile , che in un ofcuro  luogo fpòrge ombra fenfibìle •  11 fuo luogo e tra la terra e  Mercurio . Egli accompagna  collantemente 11 Sole, e mai  non fene dilunge più di 47.  gradi. Quando quella ftcjla va  innanzi al Sole , che fi leva 9  dicefi Fosforo, Lucifero o Ilei-  la mattutina t c quando gli tien dietro , e che tramonta dopo  di lui, chiamali Espero, o Vesper , o stella Vespertlna . 1 Mercurii . Il piò piccolo  de* pianerf inferiori ,< ed il piò  vicino al Sole. La mezzana  diltanza di mercurio dal Sole  per rispetto a quella della ter*  i;a al Sole tiene la proporzione di 387. a I00O. Giulia il  fentimento di Neuton , fonda-  to fulle prefe efperienze per  mezzo d* un termometro , il  calore del Sole fulla fuperficle  di Mercurio < 7 volte più Intenso, che fulìa fuperficle della terra . La rivolnzion di  Mercurio attorno al Sole , ov-  vero il fuo anno compie fi in  87. giorni e 17. ore  La rivoluzione diurna poi , ovvero  la lunghezza del fuo giorno  non è ancora determinata . Per  iò altre contezze vedi gli A*  ronoml .  ì Neque movetur , Fa oppi*  ninne comun degli Antichi che  la terra non fi mo velie , cd  anche univerfal de* moderni ,  Ma non fono mancati filofoli  e ne* vetulll tempi , e ne' mo-  derni , che ne folteneflero il  fuo continuo moto , e fpezlal*  mente al prefcntc . Furon tra*  Filofofi ' antichi Filolao Pitta-  gorico ed Eraclide Pontico ec.  ed Ecfanto pur pittagorico,  Clc. ' nel Lucullo riporta I*op-  plnione di Niceta da'Siracufa  con quelle parole . Nicetas Si racupus , ut aìt T beophrafius %  c eel urti , folem , lunam , f ìellas %  fupera dentque omnia (tare ten -  fet t neque pr^ter ieh*m , rem   ul-  «•IL SOGNO DI SCIPIONE. 5*1 ,  rio; e nell’infimo cerchio la Luna da raggi del Solé  accefa raggirali: di foteo poi nulla pili altro v’è, it  toon mortale, t cadevole, dalle anime in fuori , pet  grazia degli Dii all’uman genere compartite; foprala  Luna le fòftanze tutte fono immortali. Che quanto aU  la terra, eli 5 è in mezzo ed è la noni, nè muovefi t  élla è 1* infima, e verfò di ella viene ogni pefo per  propria inclinazione portato.  I Quali oggetti io attonito rimirando, come in me  fui ritornato, che è egli n a*, dirti, quello sì grati*  dee sii foave fuono, che m’empie le orecchie ) Quello,  ti loggiunfe, è quel fuoho, che da intervalli dilpari  venendo a un tempo, ma con avvedimento però diflin  ti fecondo la debita proporzione, per impullo e moto  delle orbite illelTe fi forma; il qual fuonoagli acuti tuoni co* gravi contemperando, proporzionatamente for-  ma fvariati lonori concerti. Imperciocché movimenti  di tanta mole non poflòn ertère chetamente incitati ; e  itìlam in mundo mtverì : qud  tum circa axem jumma fe et licitate -tonvertat , torqueat ,  tadem effici omnia , qua , fi  fi ante terra , cdlum movéretur,  Àtque hoc ttiam Platonem in  Timeo dicere quidam arbitrantur. Sed pattilo obfcwìus. Ma  «toppo pift foro i moderni, iCopernico GALILEI ec. Di  quella fi fica controversa , quali che fieno quinci e quindi i  fondamenti il certo fi  , che  ogni vero ed ubbidiente catto-  lico dee contenerli a norma  delle ordinazioni dalla Romana chiefa emanate, ciò* che il  moto della terra foftenere 1-  ppteticamente fi pofiTa , in  quanto , fe tale fikppofizion fi  faccia * fi fpicgherebfcutio age-  volmente molli fenomeni del-  la natura : ma cl vieta il sostener ciò , come tefi . Ma    por-   Ì3;0 voglia che alenili non facciali pafiaggio dalPjpotcfi a di-  fender la tefi 1   4. Nutu fuo . Importa indi-  nazion , tendenza , ed affézion  naturale. E’ di frequente ufo in  Cic. Pro rata parìe fattone ,  Col Gronóvlo riconofeo . quella  lezione non punto fconciata ,  perciocché ben confuona con  tutto il cancello del fentimen-  to. E viene a dire che quelli  difpari intervalli delle sfere ,  che ne* loro moti rendon fuo-  110 , fono proporzionati a* diversi gradi de* tuoni , che formano : né fono quelle diflanze  fatte a cafo , ma catione con  avvedimento, come appunto ricerca la natura di quello con-  certo armonico . 6 ìmpulfu & mota . Ancor  Platone ammife quell 1 armonia dello s9 2 biuro conficitur; qui acuta cum gravibus temperans ,  variòs^quabiliter concentus efficit . Nec enim filentio  tanti motus incitari poffunt ; & natura fert , ut excre-  ma ex altera parte graviter, ex altera auteni acute fo.  nent. Quam ob cauflam funimus ille ftelliferi Cfli cur-  fus, cujus converfio ed concitatior , acuto & excita-  to movetur fono, graviamo autem hic lunaris arque  indmus Nam terra nona imobilis manens , ima fede  femper haeret complexa medium mundi locum . Il ! ì autem o&ocurfus, inquibus eadem vis ed deorum i Mercurii, & Veneris, septem efficiunt didintìos ìntervallis  fonos: qui numerus rerum omnium fere nodus ed .  Quod 2 dodi homines nervis imitati acque cantibus, aperuere fibi reditum ad hunc locum; ficut alii, qui f traedantibus ingeniis in vita humana divina fludìaca-  uerunt. Hocfonitu oppletae aures hominum obfurdue-  runt; nec ed ullus hebetior fenfus in vobisjficut, ubi   Ni.  delle sfere celelH , colicchè nella Repub. deputò a  tutte le eelefti orbite ciafcuna  firena , che fopra dj effe dan-  doli giraffe con quelle , acconpugnandone col canto loro la  rivoluzione. Altri poi appref-  fo Aridotile nel lib. 11. de  Carlo cap. 9 . c di Plin. nell*  Iftor. Nat. vollero que-  llo fuono non procedere dalle  celeftl orbite , ma dalle (Ielle  medefime in quelle fide, che nelle orbite fanno loro ri vo-  ltinone . Quindi è che i Pla-  tonici filofofi credettero che il  uiov imeneo de* corpi celefli  una vera ed effettiva armonia  formaffe s al qual errore drè  luogo la feutenza de* Pittago-  ricl , i quali per formare giu-  dizio de* tuoni ad_ altro non  aveati riguardo che alle ragio-  ni delle proporzioni efatte,  che perfette appari van ne numeri, i quali furon 1’ìdolo di  Pittagora, fenza punto attendere al giudìzio dell' orecchiò •  Ma quella oppinione ne* con»  feguenti tempi , a proporzione  che abbracciata era la dottri-  ua Platonica , fece i Cuoi progredì . Quindi è che Filone Ebreo , i>. Agoftino , S Am-  brogio , S. lddoro , Boezio 9  ed altri molti furono molto  impegnati per quella celcfte  armonia, cui attribuivano al-  le varie proporzionate impref-  fioni de* globi celefti , che fan 1 un fopra l'altro t le quali comu-  nicate per certi giudi intervalli  formano cotale armonia . Non  ut> far , dicon* efli , che sì  erminar! corpi con tanta ra-  pidità movendoli , cheti (fieno ed In filentio . Ed all* In-  contro 1 ' atmosfera di conti-  nuo da que' corpi fofpinta dee  produrre una ferie di fuoni  proporzionati alle itnpulfioni »  che la riceve : e per confeguen-  te, conciodìachè tutti i globi  ce ledi non facciano la medefrma    m  perù il altura 1 ordine delle cofe, che gli eftremi fi et* dall* una parte rendano grave Tuono, dall’ altra poi il  rendano acuto. Per la qaale cagione i! Tu premo corio  del cielo ftellifero, la cui rivoluzione è più concitata ,  vien molto con acuto ed elevato (uono, c con gravif-  fimo quefto lunare ed infimo corfo . Che quanto alla  terra, nona d’ordine', ilandofi immobile, rimanfi Tempre nel feggio infimo , occupando il luogo di* mezzo  nell 5 univerfo. Quegli otto corfi poi , infra i quali il  tuono de* due Mercurio e Venere fi èd’un tenore me.  defimo, formano Tette fuoni difpari per intervalli diversi: il qual numero fi è, quali come il legamedi tut-  te le cole. Cotal concerto i dotti uomini colle corde  da Tuono avendo imitato, e co 5 canti, fiaperfero il ri-  torno a quello luogo ; ficcome altri , che per loro ec-  cellenti ingegni nella umana vita coltivarono divini  ftudj. Diquefio ftrepito ingombrate le umane orecchie  fi fono aflordite ; nè vi è in voi alcun feotimento più  ottufo : a quella guila che, dove il Nilo in quelle par-  ti, cheCatadupe fi appellano, da altiffimi monti pre-  cipita , quella gente , che intorno a quei luogo abita)   P p per ma rivoluzione , né colla medesima velocità, 1 tuoni diffe-  renti t che provengono dalla di-  versità de* moti , dall* Altif-  fimo Indirizzati, formano tm ammirabile musicale concerto. Il difeorfo par ragionevole r  ma noni effondo foftenuco dall’efperienza delle nostre orec-  chie , che pur parrebbe dovcSTe-  ro averne alcun femore , cosi  concludo il mio debole fen ti-  mento fu di tale oppfnione. Quell* armonia de* cieli fe ri-  dur SI voglia a muftcal tuono  è una bella e fpeciofa favola  degli antichi fi Io Toft , che pre-  tendeano alle oppinlonl loro  dare aria e fembiania di maravlgliofe . Ma quefta celaste  muSica ed armoniofo concerto  altro non è veramente che le  proporzioni, cui I dotti mo-  derni astronomi han riprovato nelle mifure e quantità , che foco portano i movimenti di que-  sti oeleSli corpi ;   i Mer curii (f Ventri s . I  quali pianeti accompagnando il  Sole , fi comprendono elfere  dell* IfteSfo fuono t ficchè gli  otto globi formano fette diversi  fuoni .   z DoRi hominet . Ritrovato-  ri 'dell* eptacordo , cioè dei  mnltcale iftrumento di fette  corde , annoverati perciò tra»  Semidei. Macrobio e Severi-  no furono in opinione che co-  storo col numero ferteunarlo  di queftè corde IntendeSTero d*  imitare il moto armonlofo de*  fette pianeti . L* Affrlcano pe-  rò qui intende da costoro imi-  tato il. fuono delle, otto orbi-  te già divlf.ite. Su di costoro  non vo* tralafciare 1* oppiato-  ne , che n: portò Quintiliano   usi  Nilusad illa, qu^e | Catadripa nominantur, prscipitat  CI altiflimirThontibus, ea gens» quae illum Iocura ag-  colie propter magnitudi bear fonitus> fenfu audiendi  caret. Hic vero cantu* eft totius mundi incitati rti ma, converfioneionitus, ut euoi aures bominum capere noti  portine: ficut intuerì folem nequitis adverfum , ejufque  radiis acies vedrà (enfufque vi nei tur- Hate ego admì-  fans » referebam tamen oculos ad te&rain ideutidem.  T UM Africanus , Sentio , inquit, te fedem etiarn  dune bominum ac domum contemplali: qusefiti-  bi parva, ut et!, ita videtur, haeccaeleftia femper (pe-  lato, illa Humana contemnito. Tu enim quam cele-,  britatem fermonis hominum, aut 2 quam expetendam  gloriam confequi pote$> Vides hab tari iti terra rana  & anguftis in !oci$, & in ipfis quali maculis, ubi ha- -  bjtatur, vaftas folitudines incerje&as; hofque, qui in-,  colunt terram,»non modo interruptos ita erte, utnihil  incer Jpfos ab aliis ad alios manare portìt ; led par.  tim£ obliquos, partim 4 averfos, parcim etiam 5 ad-  verfos flare vobis ; a quibus expeéhre gloriam certe  nullam poteftis. Cernis autem terram eamdem, quali 1  quibufdam redimitami circumdatam òcingulis, equi»   'bus • t    nel lib. I. io. Claror dòmini  fapitnt'ue viros rtemo dubita*  Vtrit Jìudtofor tnuficis fuifft  tum * Vytb agoras , dtque tum  fittiti acce pt am fitte dubio an «  tiquituf opittionem vulgati*  itint f mundum ipfum tjm ra -  fiotti ifit rompo jltum , quam  Pojlta fit lyra imitata . Quin-  di cred* io che procedcfie la  cftimation grande J od anzi la  venerazione , che gli antichi  Greci Nerbavano per, |a molici!  che però I mutici dic^nfi pare  tatts e fapitttttsi e T^fepiilhcle  effendi» inesperto in toccar la  cetera , gli folte imputato a di-  fetto d* imperizia .  Catadupa . Le cataratte fono    del Nilo dette da Xaf<T«J ovvric*  dt or furti cado,   2 fhfdm txptttttdam glor*am .  Cic. ne* lib? ! della Repubblica  fu di, parere , che dovefle chi  maneggia la Repubblica effe re  fomentato , ed eccitato alle ge-  nerofe imprefe colla gloria , e  credc'a che ciò folle alla Repubblica vantaggio^» , - rifle Alo-  ne t che altresì de* Romani fece  S Agoftino nel Uh. V- c*.- ij. de  Cl. Ir. Dei . Or coerentemente  1 # Atfricano non condanna del  •tU'to 1' appetito della . lori a ,  ma vuole a quello rlufcire,  che qualunque umana gloria i  pef enrro ad auguttl tifimi con-  fini rirtretta , e non pur non   e ter-    1 5 p* per U grandezza dello flrepito, priva è d’udito. fVfa  quello Crepito di tutto l’utiiverfo con rapidiffima rivo-  luzione è di tenore sì fatto > che le umane orecchie  noi poffon comprendere: ficcome non potete fiflar gii  occhi del Sole 5 quando Ila di rincontro, e da’raggidì  lui l’acume voftro e’1 (enti mento del, vedereè lover.  chuto. Quelle cofeie con ammirazione afcoltando, ri*  volge» pure di tanto in tanto gli occhi alla terra.   Vi.   . »   . # i   A Llora T AfFricano , ben m’ accorgo, logp^iunfe, che  tu anche al prefente il faggio contempli e l’abita-  zione degli uomini; la quale fé piccola ti pare, com’è  ineffetto, tieni (empre rivolto l’occhio a quelle cele-  fti magioni, e quelle non curare, che umane fono • Im*  perciocché tu qual mai confeguir pool ftrepitofa fama  dell’uman ragionare, o qual gloria, che da appetir (la ?  Vedi che nel mondo abitazioni fono in rari ed retti  luoghi , ed infra quelli medefimi, come fparfe macchie,  dove fi abita valle folitudini vi fono interpone; e co-  li oro , che abitan la terea , non pure edere per tal ma-  niera feparati, che tra elTì nulla dagli uni polla trape-  lare agli altri; ma parte rifpetto a voi dare a fgem-  bo, parte alle (palle, e parte ancora di rinccntroal di  fotto ; da* quali certamente fperar non potete veruna  gloria. Vedi poi la medefima terra , come coronata di  certe zone ed intorniata, delle quali due fommamente  tra 1 or* dittanti* e quinci equjndt fugli fletti celefli po*   P p a li eterna , cria neppur durevole lun-  go tempo. Quelli rifletti peri» a  chi per la evangelica Fede cre-  de una eterna immortai vita , in  elei prometta a chi dirittamente  opera , debbono eflere podetofi  incitamenti a . non curare la  umana gloria dei tutto , ed a  prendere àccefi ttimoli per ri-  volgere ogni aiion noltra a pro-  muovere la gloria divina   I Obliquo * . Qaefti fur detti   da* Greci 9rfpi oi xf f *   4 /ìdterfos . Coloro fono che  tfgaafd;in diverfo polo , e di-   coivi» * vvoixOt . Quelli fono ,  :hc abitano nella cont rapporta  na temperata fotto il rontrap-  pcflto paralello, ma nell* Irte fio'  fenutircolo meridiano.   5 Adterfos . Sono gli antipo-  di , così de^ti per li piedi o  veftigj , che fi rifpondono di  rincontro . t)i qoett! termini  vedine fplegazioite pift ampia  appretto gl/ A Urologi 'ed I Geo-  grafi.   6 Cittguljs . Divifa le di,*  ode zòne , delle qual! le po-  rtreme frigidi ttìme fono, la aie#  dia caldi Éfi ma . % > bus duos maxime intet fe diverfos, & iceji «ertici*  bus ipfis ex utraque parte fubnixos obnguiffe pruina  vides: medium autem lllum & maximum folis ara?'"®  torreri. a Duo funt habitabiles, quorum a udrai is «Ile  tin quo qui infiftunt, 3 adveria vobis urgent veft.gia)  4 nihil ad veftrum genus . Hic autem alter (ubieflus  Aquiloni , quecn incolitis , cerne, 5 quam tenui vospar-  te contingat • Oronis enim terra, quac coli tur a vo*  bis, 6 anguQa verticibus, 7 laterìbus latior , 8 parva  quaedam infoia eft; circumfufa ilio mari, quod Atlanticum , quod Magnum , quod Oceanum appellatis m  terris: quitamen tanto nomine, quam fit parvus , vi»  des. Ex his ipfis cultis notifque terris, nutnaut tuum ,  aut cojufquam noftrum nomen , vel Caucafum nunc,  quem cernì* , trascendere pctuit , vel illum Gangem  tranfnare? Qui* in reliquis orienti*, aut abeuntis folis  ultimi*, aut. Aquilonis* Aufirive partibus tuum nomen  audiet^ Quibus amputatis, cet ni s profeto, quanti* in  .anguftiis veflragloria fedilatari velie • IpOautem, qui  de nobis loquuntur, quamdiu loquentur ? * Y va ; . ',   Q Uinctiam fi cupiat prole* illa futurorum hominum  deincep^ laudes uniufcujSque noftrum apatribus  acceptas pofteris prodere, tamen prepter eluvio-  nes exuftitionefque terrarum, qua* accidere tempore  certo necefle eft , non modo aeternam , fod ne diu tur-  nam quidem gloriano affequi poffumus. Quid autem in   ter-    t    % Cai* Virtìcibur. Ai p»U .   1 Duo furtt Jbabit abile s . Vie*  tic efponendo le due zone  temperate intermedie quinci e  quindi da' lati t auftrale l* una  boreale 1* altra*   $ Adverfa vobis . Perciocché  dimorano dall* altra parte dell*’eccliptica folare . Niktl' ad vefitum genus .  Perciocché «è voi a loro nè  efli a voi trapalano .  JQuàm tenui vos parte ,  Vedi quanto fi a piccolo fpaxio  quello ) dove fi aggirano le Volbe glorie . Angui a vertieibus * ' In   brevi parole accenna la latitu-  dine della terra fottopofta a’  Romani , la quale coi. fitte nel-  la dittatila d * un luogo dall*  Equatore ed un arco del meridiano , comprefo tra *1 Zenit h  del luogo, e l'Equatore. (Quindi la latitudine dlctfi efiere fettcRtrionaie 0 meridionale,  fecondo che li luogo del qual  fi parla è fett^ntrionale , 0 meridionale . Or 4a parola wr-  ticibus fignifica i poli Artica  Afr  .; fp 7  ii pofàndo, vediefTere per la brina irrigidite ♦ equeila  di mezzo» e la più ampia edere dal folare ardore av-  vampata* D.ie le abitabili fono, delle quali l’audrale  ( dove chi dà (opra imprimon veftigj di rincontro a  noi ) alla vodra fpecie non appartiene . Di queO”  altra poi all* Aquilon foggetta , cui abitate , guar-  da come tenue parte a voi ne tocchi * Imperciocché  tutta quella parte di terra , che da voi fi abita , da vertici rifìretta, più diflefa da fianchi, è come una picco-  la ifola; bagnata intorno da quel mare, che in terra  chiamate Atlantico, Magno, ed Oceano: il qual però  comecché di si gran nome, pur vedi quanto picco! fia.  Da quelle idede coltivate e note regioni o*l nome tuo,  ovvero il nome d* alcun de’ nodri potette egli forfè o  queft’Oceano valicare, cui tu vedi, o traghetfarequel  Gange? Chi mai i]\nome tuo afctìlrerà o nelle altre  parti del nafcente fole, o nefl’eftreme del medefimo  tramontate, ovvero nelle parti dell’Aquilone, edell’Aulirò? Le quali regioni edendo feparate, certamente fcor*  gi in che augufli fpazi la vodra gloria alpi ri ad ed'er  didefa. Quelli poi, che di noi ragionano, finoaquan*  do il faranno?   G HE anzi fe quella gènéraxìone di futuri uomini bràa  mera fuceeflìvamente di trafmetterea’poderi legio-  ne di ciafcun di noi da* padri loro fentite, tuttavia  ber le inondazioni, e divampamenti de'paefi, i quali  Fora* è che in determinati tempo fuccedano, nonpoflìamò acquiflar gloria, non che fempiterna, ma neppuf  lungamente durevole. Or che mónta che da colorò, i  quali nafceran dappoi, fu di tefìterran difcorfimen-   Pp - j tre    fe Aritattlco t che fono 4 ter,  mini , per cui rapporto fi mi.  fura r eftenfione della latitu-  dine  '   Ì Ut tribù s f Attor. Viene ef-  pretta la longitudine dell* Impe-  rio Romano , cioè 1’eftenfione , che area da Ponerite a Le-  vante fecondo la direzione dell'  Èquatore . E quindi fi viete a concludere che maggior  nc forte ia longitudine che la    la tir udinè •8 Par va quaJatn ihfulA efb  &c- Dal Cielo additando l'im*  perfo Romano lo dlmoftra come  una piccola ifola conirtefa e  bagnata dall* Oceano. Ma quella è una mani fetta efagerazld<*  ne per efprimerne la piccolezza , chfe dal cielo all* Affrica*  no appariva . Aulì , a dir ve-  ro, non fi potea ncppor chia-  mar ifola .  r  tereft ab iis, qui poftea nafcentur, fermonem fore de  te, cum ab iis nuilus fuerit, qui ante nati fint ; qui  nec pauciores , & trerte 1 meliores fueruntviri? cam  pradertim apud eos ipfos, a quibus a udiri nemen no.  flrum poteft, nemo uniusanni memoriam confequi pof.  fit . Homines eoiro populariter annum tantummedo So-  Jis, ideft unius aftri rHitu metiuntur ; cum autem ad  idem, unde femel profeta funt, cun£te aftra redierint,  eamdemque tetius cadi deferiptionem longis interva!-  Jis retuleriot , tum ille 2 verevertens annusappellari  poteft; in quo vix dicere audeo, quam multa incula,  bominum teneantur- Nacnque, $ ut olimdeficereSoi  •bominibus extinguique vìfus eft , cumRomuIi animus  baec ipfa in tempia penetravi; ita quardoque eadem  parte So^ , eedemque tempore iterum defecerit, tum fibus ad idem principium ftellifquerevocatis, ex«1 Meliores fuerunt , I coftumi degli’antichi, la fede, gli  andamenti ec. univerfalmente  dagli fcrittori commendane :  quello è vezzo comune anche  a eh! è vecchio, deferitto da  Orazio con quelle parole. Lau-  dai or tempori s afri . Onde que-  llo giudizio non Tempre al ver  corrifponde .   1 Vere verterti annus . Que-  lle maniere verterti annus ,  verterti menfis fono pagamen-  te prefe per un anno , .per un  mele trafeorfo . Altri parcirlp j  n'arreco di voce attiva in for-  za partiva alla nota 7. nella vi-  ta d* Agelìlao apprettò Nipote.  Qui però mi 'pare pift coturno-  da V interpretazione in forza  attiva , actefe tutte le parole  ed il contefto. Or qui li parla  •* dell' anno grande , che\ ebte  più e dlvcrfi titoli . Fu chiamato, or ma gnu s , or fidereus,  quando mundanus , tal Hata  Platonìcus , e comprende tutta  l’efteulion di tempo, ovvero il  perìodo di tanti anni , quanti    li richiedono perchè i corpi ce-  lefti torniti tutti a Quella poli»  zion primiera , nella quale fu-  rono al principio del mondo •  Cic. acconciamente il divlfa  nel lib, 11. cap. de Nat. Deo-.  rum . Maxime vero funt ad*n i-  r abile s mot us earum quinqete  jtellarum , qua falfo vocantttr  errante s $ nihil enìm trat , quod  in omni eetemitate conferva  progreffus , regrejjus t reli-  quofque motus confante s (jf ra-  tos .... jQuatum ex dijpn-  ribus Motiombur magnurn an-  riunì mai he mutici nominate-  runt , qui tum efficitur , tum  folis fy lume, & quinque er-  rarti ium ad earrtdem itJer fé  zompar ationem.y tonfi fòt) 0 nt-  niuru fpatiis , ejl fatta conver-  go. Pare che qui nel coffo  di que(|' anno inetta in confi-  de razione i Ioli pianeti . Ma  gli alt» i fcrìttoti, e Cic. iftef-  lb nel prefen.t fogno palla .di  tu^tc le ftellc u*b ver Talmente -\  Quale poi lia il numero precifo  degli auul ella è controverfìa   non  1  V *    i   $. * .  m  tre nonfen’è fatto pur parola da quelli , che negli ante-  • riori tempi vennero a luce; i qua!» nè furono in mirtor  numero, e certamente uomini furono più valenti? maffime che apprerto quegli flerti, da’ quali fi può il nome  noftro afcoltare; niiino ne può la ricordanza ottenere d'un fole anno. Imperciocché g li uomini giulia J’efti-  mazion popolare dal rirorno (oltanfo del Sóle mifuran  l’anno, cioè d’una fola (Iella : quando poi faran tutte  le (Ielle al punto medefimo ritornate, onde una volta  fi modero ; ed avranno ne* lunghi loro intervalli riportato il drvifamento medefimo di tutto il Cielo, allora  quello fi può veramente appellare anno , che opera rivolozione: nel quale appena d’efprimer ro* attento quan.  ti fecoli umani fieno comprefi. Imperciocché, ficcome  una volta agli uomini parve che il Sole foftenedè ec.  elidi , e fi ammorzarti;, quando l’anima di Romolo pe-  netrò in quelli (ledi profpetti ; coslallor quando il Sole nella parte medefima, e nel tempo irteffo da capo  avrà (ottenuto ecclirtì, allora ertendo tutti i celetti corpi, etutte le (Ielle al lor principio medefimo richiama,  re, terrai l’anno erter compiuto . E Tappi chedftjueft*  anno non n’ è per anche la‘- vigefima parte trafeoria %  Che però (e difpenerai di far ritorno in quello luogo, ; ... y a r P p 4 nel    non per anche decffa . Clc.  Iftetfo parlando di quella rivo»  In z. ione foggi agile appreflb ..  Quaquam longa fit , 'magna  quelito ejl , ejfe Viro cirtam  defintiam necejfe eji . Si cita  perb un frammento dell* Opera  intitolata l'Orccnfm , dove chia-  ramente efprime il fuo Tenti,  mento. 1s eft magnai & Virus annus, quod i aderti pofìtìo  cali fiderumque cum maxima  ifi , rurfum exijigt j ifque an-  nui horutn , quoi tocamui , an-  norum Xll. . com-  pie Bit ur 9 cioè dodici mila no-  vecento quatir' anni . In. cib  fono fvariatiifime le eppinioni  degli altri-, che ci danno argomento ad affermar con cer-  teira non effor ancora 1’agronomia pervenata a tanto, eh»  pocefle fame probabile decifìo.  ne. Sicché quel, che fi foggiti,  gne pift innanzi in quello ci-  po , hu)us anni nondum vieeji-  matn partem itfi cot/Virj'am , fb.  vuol prendere per piccolo , c  fcarfo tempo, non per determi-  nata mifura trafeorfa . Ovvero  fe Clc. ha pretefo di far dire  * all* Affricano il preclfo fpazio del  trapalato tempo , non fi vuole  attendere in cofa cotanto incerta.   j Ut olim. Ferma il principiò  dell* anno grande dalla morte di  Romolo , cu! dicono che moriffe  nelPecliffe del fole . Per altro  da ogni punto di tempo fi pub  dare cominciamento al computo  di quello anno Platonico. Qxpietum aonum habeco. Hujus quidem anni nóndulft  vicefimam partem fcitoeffe converfam. Quocirca fire-  ditum iit hunc locum deiperaveris , in quo omnia fune  magnis & praeflantibus viris ; quanti tandem eft ifta ho-  minuui gloria, quae pertinere vix ad unius anni par*  temexiguam poteft ? Igitur alte (pelare fi voles,. a tque  hanc fedem & aeternam domum contueri , neque te  fermonibus vulgi „ dederis , nec in praemiis humanis  fpem pofueris rerum tuarum ; fuis te oportet iilece brìs ipfa virtus trahat àd verum decus, Qui detealiì  loquantur, ipfi videant, fed loquentur tamen. Serma autem omnis ilie, & augufliis cingitur iis regionum,  quas vides, nec umquam de ullo perennis fuit ; &  obruitur hominum inceritu , & oblivione pofteritatis  extinguitur.  Q UiE cumdixiflet, Ego vero, inquam, oAfricatie*  fiquidem bene mentis de patria, i quali limes ad  cali aditum patet, quamquam a pueritia vedi*  giis ingreflus patriis & tuis, decori vefìro non defui;  nunc tamen, tanto praemiopropolìto, enitar multo vi*  gilantius. Ét ille : Tu vero enitere , fitfic habeto,  non esse te mortalem , fed corpus hoc: 2 necenim i9  es, quem forma irta declarat ; fed mens cujufque, is  eft quifque,* non ea figura, qua? digito demonOrari po*  teli. 1 Deum te igitur fcitoeffe; fìquidem 4 Deused ,  qui viget, qui fentit, qui meminit , qui provider ,  qui tam regie & moderatur & movet id corpus, cui   P**-  1 lima. Sono propr lanterne le ftrade , che fervono di’  cfivifionc alle campagne, e per  confeguente fono od hanno an-  che T. varchi per enrrare né *  campì . Quindi fi accatta la metafora , e fi trafpórca al cielo.   a Nec e» im is es , quem &C.  Qucfii rifleffì e dottrine con aU  tre , che fieguono, fono Plato-  niche. Socrate appretfb del di-  vi» filofofo dìmoftra al fuo  Alcibiade che I* uomo noli  £ il foto corpo , ne il corpo    colla mente , ma ta fola men-  te . E nell* Affoco cosi ferivi   Hgeif uiV yip tVjuiv   * «d tf VOtOZfV y tv •Sl'l/-   <7» xat$HpyfjisvGÌr Qpoupta Imperciocché noi pani lene V 44  stinta , immortale animale, rat •  eh tufo in mortai cufiodia . SI-  niigliantc fu 'il fenthnento d*  Arnobio e di Lattanti©. ^  ' 3 Deum te igitur jtito effe .  Gli Stoici definivano 1* nomo  animai rationale mortale , e   Diù    t   6o i   hel quale per li grandi ed eccellenti uomini v'è ogn *  bene ; alla fin fine corefta gloria degli uomini a che  valore monca , la quale appena comprender fi può in  una parte piccola d' un folo anno? Se vorrai pertanto  fi (Tare l'occhio dell’intelletto in alto, e quefto feg-  gio rimirare , e quella eterna magione , non ti farai  fervente a’ parlari del volgo, nè Tulle ricoropenle umane la fperanza riporrai delle imprefe tbe; conviene , che la virtù medefima cogli allettativi fuoi ai  decoro vero ti tragga . A quello, che gli altri fieno  per parlare di te , ci penfino erti , ma pur parleran-  no . Ma ogni lor difcoirere e vien compralo tra le  anguftie delle regioni, cui vedi, nè fu d’alcun fog-  getto fu perenne giammai; e riman fepolto dal mori-  re degli uomini, e nellaoblivione della pofterità vien  meno .  « o - t è »*’ 1 a* . Y* ~ l * i 1   » VHI.   • % -  r ' , * ! * • L E quali contezze avendomi efpofto , or io , fog.   giunfi , o Africano, giacché a’ foggetti) bene me-  fiti della patria è come quafi aperto il varco all' ingreflo del cielo , febbene fin dalla puerizia mefTomi  ìu i paterni vefiigj e fu de’ tuoi , non ho al decoro  voftro mancato j pur nondimeno al prefence , portomi  avanti cotanto premio, con troppo maggior vigilanza  farò miei sforzi . Ed ei replicò : Metti pur tuoi sfor-  zi ; e pervaditi, cbfc tu non fei mortale, ma quello  corpo fibbene * che non fei dello , cui la fembianza  tua dimoftra; ma Io fpirito di cialcuno è quello, che  fi è ciafcuno ; non è tal la figura f che accennar fi  polla col dito * Sappi adunque che tu lei Dio: poiché Dio è chi ha vivacità, fentimento, memoria, provvidenza, e che tanto regge, e modera , e muove  quello corpo, cui è a governar deputato, quanto quel  principale Dio queil’universo; e ficcome l'iddio eterno  Dio animai rationalt immortaìe . Sicché giuda la loro dot*  trina 1* uomo per quella pondo  ne di fc, ond’è immortale , non  farà da Dio differente k  4 Ùeus e fi qui Iftitulfce la parità tra Dio e l’uomo  e la ragione, onde provati l’immortalità deirefTema divina, l’eftende a provare rìnynorta-  lità dell'anima, eziandio anteriore. prstpofitus ed , quam hunc tnuodum princeps ille  Deus: & ut mundum exquadam parte mortalem ipfe  Deus asterifus, fic fragile corpus animus fempirernus  nrovet. Nam i quod femper movetur, «ternani eft: quod autem motum affert alicui , quodque ipfum a.  gitatur aliunde, quando finem habet motus, vìvendi  *|faemUiabe*t neceflè est. Solum igitur quod iefe mo*  •vèt , quia 1 numquam deferitur a fé , numquam ne  moverì quidem definii : quin etiam ceteris, qu« moventur, hic fons, hoc principium eft movendi. Principio autem nulla eft origo: nam ex principio oriuntur omnia; ipfum autem nulla ex re: nec enim id  efl’et principium , quod gigneretur aliunde . Quod fi numquam oritur, uè occidit quidem umquam Nam  principium extinàum , nec ipfum ab alio renafcefur,  nec ex se aliud.creabit: a fiquidem neceffe eft a princi*  pio oriri omnia. Ita fit , ut motus principium ex eo  fit , quod ipfam a fe^ roovetnr ; ìd autem nec calci  poteft nec mori: v *el concidat omne caelum, om-  nifque natura confiftat necefl'e eft ; nec vira ullam  nancifcatur, qua prime impulfu moveatur. CUM pateat igitur , aeternum id esse, quod a fe  ipfo moveatur; quiseft, qui hanc naturai» ariimis effe tributam neget ? Inanimum eft enim omne,  quod pulfu agitatur externo. Quod autem animai est,  id mota cietur interiore & fuo. Nam haec eft natura  propria animi atque vis*; quae fi eft una ex omnibus, quae fefe moveant , oeque nata eft certe , & atterri  eft. Hanc tu exerce in' optimis rebu 9 . Sunt autem hae  opti ma? cura? de falute patriae , quibus agitatus &  exercitatus animus, i velocius in nano fedem & do-  mum fuam pervolabit . Iraque ocyus faciet , fi iam  tu, cum erit inclufus in corpore, croincbit foras; & ea , - i jQuotì femper movetur tye.  Quefto argomento lo efpóne  quafi colle iftefle parole nelle  Tumulane 1. 2 $. Latta mio. v  ancora .lo tratta con principi  ancor più forti 2 Yel tonciÀAt omne tàtìum   &c. $ no Dio T univerlo muove per alcuna parte cadevole,  così l’immortale spirito muove il fragile corpo. lm*  perciocché eterno è quello , che Tempre muovei:  quello poi , che communica moto ad altra cofa, e che  pure impulfion foftiene da altra cagione , quando il  moto ha fine, egli è di neceffieà , che al fin pervenga del viver Tuo . Quel foio adunque , che le Hello  muove, perciocché non è mai da sé abbandonato, nep*  pur cella giammai di muoverli ; che anzi alle, altre  cole àncora , che muovonfi , egli è origine, egli -è principio di moto. Ma il principio non riconofce ortgine i che dal principio tutte le cole traggono lor  nalcirrienio;.e(To poi da ninna il trae; imperciocché  non farebbe principi® quello, che generato folle d’ai*  tronde. Che fe giammai non nalce, neppur muore giammai. Concioflìachè il principio edendo venuto  meno, nè eflo da un altro rinalcerebbe , nè di sé po-  trà creare un’ altro ;* poiché egli è forza che tutto  nafea da un principio . Per tale maniera n’avviene,  che il princìpio del moto da quello fi a , che da le  lleflb fi muove; or quello nè nafeer può nè morire:  ovvero di necelfìtà è che rovini giù tutto il cielo,  e l’universa natura fi arrefti; nè trovi alcun vigore,  onde colla impulfion primiera fi muova. E Sfendo pertanto manifeflo quel lo effere eterno 9  che da le ftelfo fi muove, chi negar potrà che  quella naturai proprietà fia fiata alle anime conceda»  ta ? I mperciocchè- inanimato è tutto ciò, che foftien  moto da impullo eflerno . Quello poi , che è anima Te , viene per interiore e proprio moto rifeoffo. Im-,  perciocché quella è la natura propria e la virtù dell*  anima ; che fe P una é infra tutte quelle nature,  che fe ftcflfe muovono, non ha certamente avuto prin-ci-  &c. Il fentimento e le parole 1’anima più facilmente da fe   altresj, fono di Platone nel - fcocerà il mortale e torpido  Tedro. ' ' pefo del còrpo , e pift fpedita-; V elotius fife. Con quello niente voleranne alla celeitc ma cfcrdifo e moto d' ojcraiìonl gione.  }  éo ea, quae extra erunt, contemplans, quam maxime (e  a Corpore abftrahet . Nam eorum animi , qui (e corporis voluptatibus dediderunt, earumque (e quafi mi*  ni (Ir os praebuerunt , impuifuque libidinum voluptati*  bus obedientiurti * Deorum & hominum jsra violavo*  runt , corporibus elapfi i circum terram ipfam volo,  tantur, noe in hunc locum, nifi multis exagitati (ae-  culis, revercuntur « Iile diiceffìt : ego (ornilo folutus  fum. i Circum terrdm ipfdm . Quella 6 oppiatone dì Socrate , da  Platon f ragionata nel Fedone dove dice che le anime de*  malvagi rimaugonfi In terra  condannate a divagare intorno  a* fepolcri , dave pagan le pe« ne della vita malvagiamente  menata . £d alla fatta oppi*  ninne dà pure alcuna compatta  di fondamento 1’apparire ta«  lora in si fatti luoghi fpcttrf  cd ombre 60$  cipio dì nafci mento, ed eterna è. Quella tu eiercita  in ottime operazioni . Ed ottime lono le premure  fall* falvezza della patria, {ielle quali Panima meda  in moto ed efercìrata, piò velocemente a quello leg-  gio e magion (ua ne volerà E ciò pib fpeditamente  farà , Te già fin d* allora, quando farà nel corpo rac-  cbiufa , fi loileverà fuori di sè, e contemplando quegli oggetti, che eftranei faranno , fi difiorrà, quanto  può mai, dal corpo. Imperciocché le anime di colo,  ro, che fi fono a corporali piaceri dati, e fi rendette-  v ro quafi minidri di quelli , e che , per impulfo delle  didemperate padroni a* piaceri fatti obbedienti, le leg-  gi ruppero e degli Dii e degli uomini, da' corpi ufci te fi vanno intorno alia terra medefima ravvolgendo,  nè io queflo luogo, fe non dopo d’edere (late tribo  late molti fecoli, fan ritorno. Egli dipartirti; edio  mi difcoHi dai fonno.  INTERLOCUTORI P. C. SCIPIONE TENORE LUCEJO, principe de' Celtiberi SOPRANO C. LELIO, duce romano .TENORE ERNANDO, re delle isole Baleari .. BASSO BERENICE, prigioniera . SOPRANO ARMIRA, prigioniera SOPRANO La scena è in Cartagine nova.All'eccellenza..Scipione All'eccellenza..di Carlo Lenos duca di Richmond e Lenos, conte di March e Darnly, barone di Setterington e Methuen, e cavaliere del nobilissimo Ordine del bagno. My lord, nulla meno dell'eroico deve dare pubblico divertimento alla britanna nobiltà per interamente compiacerla. Gli antichi Romani sono il modello di questa in armi e in lettere floridissima nazione: e non può trovarsi soggetto più nobile delle loro gran geste, per un teatro ove la medesima vegga rappresentati i personaggi a' quali i suoi più gloriosi figli somigliano. P. C. Scipione che fu poi nomato l'africano, vittorioso, amante, e vincitor di sé stesso, comparisce al pubblico, e mi dà  una   giusta   occasione   di   attestar   pubblicamente l'interno mio sentimento di stima e devozione verso l'e. v. con dedicarglielo. Io sin da che v. e. tornò da' suoi viaggi, la stimai, l'ammirai, ed ottenutone l'accesso ed il patrocinio, la ritrovai adorna delle più belle doti e naturali e acquistate: prestanza di persona, vivezza d'Ingegno, nobiltà di costumi, grandezza di maniere, affabilità di conversazione, conoscimento di lettere, buon gusto nelle belle arti ammirai nell'e. v. e godei vederla felice presso a nobile gentile e bella consorte. Negli affetti di padre e di marito dio prosperi il corso de' suoi floridi anni,  al quale se non mancheranno occasioni, non potranno mancar fatti che lo rendano ancor più simile a quegli eroi, che d'uno de' più Illustri de'quali, io presento la più ragguardevole azione all'e. v. in questo mio novo dramma. Ed ossequiosamente mi rassegno di v. e. umilissimo servitore ROLLI. P. Rolli Händel, Argomento Argomento. Publio Cornelio Scipione proconsole nelle Spagne prese per assalto Cartagine nova signoreggiata dalli   Cartaginesi: s'innamorò d'una bellissima  prigioniera,   ma trovandola già promessa a Lucejo principe de' Celtiberi, gliela rese generosamente con tutti i doni portati dal di lei padre per suo riscatto. N.B. Il solo primo motivo ed alcuni pochi versi di questo dramma sono stati tolti da un vecchio dramma del medesimo titolo. Il celebre signor Federico Handel ne compose la musica, al sommo espressiva ed armoniosa: ed il tutto fu eseguito in tre settimane. librettidopera.it Atto primo Scipione ATTO  PRIMO [Ouverture] Scena prima Piazza con arco trionfale. Scipione su carro trionfale seguìto dall'Esercito vittorioso, Schiavi d'ambo i sessi, e Lelio duce romano. [Marcia] [Arioso] SCIPIONE Abbiam vinto: e Iberia doma, par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. Recitativo SCIPIONE A Tiberiolo e a Sesto porgo egualmente la mural corona, ché noto è a me, ch'ambo saliro i primi sovra il muro scalato. Lelio, al roman senato fia noto il tuo sommo valore, in tanto segno d'illustre militar decoro splendati al crin questa corona d'oro. LELIO Scipione, grazie ti rendo e del dono e del merto: ché se i doveri adempio; di tua grand'alma sol seguo l'esempio. Di tanti illustri prede, queste stimai degne di te; cui rende rare amabil beltà che i cori accende. SCIPIONE (Numi! Che gran bellezza!) Bella, nel vago petto ad un vano timor non dar ricetto: cadesti in sorte a vincitor cortese. BERENICE Ah mia sorte infelice! SCIPIONE Il nome? BERENICE Berenice. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto primo SCIPIONE Non ti lagnar: tu nel bel volto porti armi che il vincitor rendon già vinto. (ad Armira) E tu chi sei? ARMIRA De' predatori all'ira tolta da Lelio illustre, io sono Armira. SCIPIONE A te duce fedel consegno queste sì preziosa spoglie. BERENICE A te Scipione confido l'onor mio: tu che le leggi sai tutte di virtù, tu lo proteggi. [N. 3 ­ Arioso] SCIPIONE Scaccia o bella dal seno il timore, di tua vaga beltà, dell'onore la virtù a difesa starà. Abbiam vinto, e Iberia doma par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. (parte) Recitativo BERENICE Oh Lucejo! LELIO E qual nome con dolor proferisti? BERENICE È forse noto tal nome a te? LELIO Del generoso parli principe de' Celtiberi? BERENICE Deh come t'è noto? LELIO Prigioniero un tempo io fui del re suo padre, e generoso ei volle rendermi libertade, e il cor m'avvinse. BERENICE Destinato in mio sposo egli a me fu, ma di nemica sorte il barbaro furore cangiò in dure ritorte i bei lacci d'amore. Oh prence amato che fia di me! Di te che fia! LELIO Non darti in preda al duolo. librettidopera.it Atto primo Scipione ARMIRA Io spero, che il vincitore ancor sì generoso libere ne farà. BERENICE Misero sposo! LELIO Nella regal magion ricetto avrete vaghe illustri donzelle: nei giardin dilettosi troverete riposi al vostro affanno. BERENICE Ahi qual riposo i miei tormenti avranno? [N. 4 ­ Aria] BERENICE Un caro amante gentil costante mi diede amor, e un empio fato me 'l tolse allor che amante amato venia fedele in braccio a me. Infin che porto tal piaga al cor, senza morire al mio martire altro conforto no che non v'è. (partono) Scena seconda Lucejo in abito di soldato romano. Recitativo LUCEJO Quando vengo alle mie nozze bramate con Berenice l'idol mio, ritrovo Cartagin presa d'improvviso assalto, e cerco invan l'anima mia: mi vesto qual soldato roman: vengo alla pompa trionfal di Scipione, e per mia sorte la veggo, oh dèi! ma prigioniera. Udii che Lelio n'è custode: ne' giardini reali m'introdurrò: seconda amor la frode. Oh con quai fissi sguardi l'ammirò il vincitore! Ahi! La perdo per sempre s'ella non fuggirà. M'aita amore. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo [Aria] LUCEJO Lamentandomi corro a volo, qual colombo che solo solo va cercando la sua diletta involata dal cacciator. E poi misero innamorato prigioniero le resta a lato, ma la gabbia pur l'alletta perché restaci il su' amor. Scena terza Giardino. Scipione, e poi Lelio. Recitativo SCIPIONE Oh quante grazie amore in quel bel viso accolse! Ma non son io già preso da quel celeste sguardo? La mia gloria è in periglio. E si dirà. LELIO Signor, le due vezzose prigioniere lodar tua cortesia. SCIPIONE Lelio, alla vaga Armira troppo spesso girar ti vidi i guardi. LELIO Perché celarlo? Il cor per lei sospira; ma il vincitor tu sei... SCIPIONE Molto l'avanza di beltà Berenice. LELIO E pur soggiace all'altra l'amor mio: d'ogni bellezza è più bel quel che piace. SCIPIONE A te la cura d'ambe già diedi. Capital delitto sia l'ingresso a tutt'altri in queste mura. Armira tua sarà. (parte) LELIO Generoso Scipione! Ecco la bella. librettidopera. Atto primo Scipione Scena quarta Armira e detto. LELIO Armira, e perché mesta? ARMIRA Oh quante volte in questa selvetta amena a mio diporto venni! Chi mai creduta avria le delizie cangiarsi in prigionia? LELIO Dal momento che tu fosti mia preda, che t'affanna? ARMIRA Il pensar che serva io sono. LELIO Ma di questa crudel sorte al rigore involar ti potria. ARMIRA Chi? Dillo. LELIO Amore. [Aria] ARMIRA Libera chi non è i lacci del suo piè no mai, non porta al cor. Chi adora una beltà, le renda libertà poi le domandi amor. (parte) Recitativo LELIO Indegna è inver di servitude un'alma di sì bei pregi ornata: quand'ella in mio poter sarà concessa, risolverò. Scena quinta Berenice e detto. LELIO Del vincitore, o bella, vittoria avesti co' begli occhi tuoi: che t'ami un tanto eroe vantar ti puoi. BERENICE Onde scorgesti l'amor tuo? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto primo LELIO M'impose che a tutt'altri che a noi delitto capital sia qui l'ingresso. BERENICE E tal segno è d'amor? LELIO Dirne potrei altri ancor: ti consiglio a riamare il primo fra' Romani. BERENICE E ingrato sei. Che? Già ti prese oblio dell'amico Lucejo? LELIO Ah! Che diss'io! BERENICE Giunger dovea l'istesso dì, che presa fu Cartago infelice. Chi sa? Forse perì. LELIO No, Berenice: spera miglior destino, e ti conforta. BERENICE Ah! Chi scampar può mai, quando a ruina il fato inesorabile ne porta? [N. 7 ­ Aria] LELIO No non si teme d'incerto affanno quando la speme con dolce inganno l'alma che brama può lusingar. Cangian vicende il male e il bene: spesso un s'attende, e l'altro viene, se vuol temere, non disperar. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Oh sventurati, sventurati affetti! Di Cartagin col fato periro le mie gioie, cadder le mie speranze. Chi sa, chi sa, se mai rivedrete il mio bene, occhi dolenti. Continua nella pagina seguente. librettidopera.it Atto primo Scipione BERENICE Che fortunosi eventi hanno sempre delusa la speme (o dèi!) de' puri miei diletti! Oh sventurati sventurati affetti! [Aria] BERENICE Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Aure dolci se 'l trovate, velocissime tornate: oh potesse ove son io, dolci aurette, far con voi ritorno a me. Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Scena sesta Lucejo dentro la scena, e detta. Arioso e recitativo LUCEJO Molli aurette v'arrestate. Sì malgrado al fato rio, idol mio, pur vengo a te. BERENICE E che ascolto! Che veggio? LUCEJO Mia Berenice. BERENICE Oh dèi! Quale ardir? Qual consiglio? LUCEJO Così accogli lo sposo? Che turba la bell'alma? BERENICE Il tuo periglio. LUCEJO Son deluse le guardie dall'abito mentito. BERENICE Ah se scoperto in finte spoglie sei, chi dall'ira di Scipion ti toglie? LUCEJO Non bramasti vedermi? BERENICE Sì vederti bramai. LUCEJO Che più, mio bene? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo BERENICE Ma vederti tornar liberatore, e non compagno delle mie catene. Parti, se m'ami, e a quelle del mio padre unisci le tue squadre, e torna armato: e se ingiusto anche il fato il tuo zelo tradisce, e il mio desire; vedrai se o cor che nacque, se non teco goder, teco a morire. [Aria] LUCEJO Dimmi, cara, dimmi, «tu dei morir» ma, o cara, non mi dir, «parti lontan da me». Pria di vederti, sì forse potea partir: or che ti veggio, no no che non vuol non può partire il cor e il piè. Recitativo BERENICE Ah t'ascondi: non lunge veggo Scipione: ahi! di timor son morta. LUCEJO Non temer, ti conforta. BERENICE S'ami la vita mia, prence t'ascondi. LUCEJO T'ubbidirò. (si ritira) BERENICE Numi 'l celate! Ei giunge. Che improvviso timor m'ingombra l'alma! Lo scorgerà nel volto: altra cagione ne fingerò! Scena settima Scipione, e detta, e poi Lucejo. BERENICE Guardin gli dèi Scipione... SCIPIONE Bella, perché turbata ne' begli occhi sereni? Non rispondi? Perché? Forse non lice saperlo a me? BERENICE Come apparir può mai se non turbata ognor serva infelice? librettidopera.it Atto primo Scipione SCIPIONE Deh rasserena i languidetti lumi: la servitù non ti sarà penosa. Comanda al vincitore chi tanta ha in sua beltà forza amorosa. BERENICE Ignoti senti a me ragioni. SCIPIONE Ancora a donzella di sì vago sembiante, ignoto ancora è forse il parlar d'un amante? LUCEJO Soffrir più non poss'io. BERENICE Oh ciel! SCIPIONE Qual calpestio? Che fai tu qui soldato? Chi sei? Rispondi. LUCEJO Io sono uom qual mi vedi innanzi ad un altr'uomo e se fra noi v'è differenza alcuna, non è merto, è fortuna. SCIPIONE (Sotto latine spoglie straniera è la favella.) Qui che pretendi? BERENICE (Anch'ei si scopre, oh dèi!) LUCEJO Io non pretendo in costei di te maggior ragione. SCIPIONE Grand'ardire! Chi sei? LUCEJO Sono... BERENICE Scipione, lascia, ch'io parli: e quale hai ragion sovra me? LUCEJO Sono... BERENICE Tu sei o folle o temerario, che con finto pretesto insidi l'onor mio, cerchi la preda rapire al vincitor. LUCEJO Sogno! Son desto! Librettidopera P. Rolli / Händel Atto primo [Aria] BERENICE Vanne, parti, audace, altiero, menzognero. Ahi! Non bastan le mie pene, ch'altri viene più infelice a farmi ancor. Taci, fuggi, non m'intendi? Mi proteggi, mi difendi o cortese vincitor. (parte) Scena ottava Lelio, e detti. Recitativo LELIO (Giunsi a tempo, si salvi.) LUCEJO (È Lelio.) LELIO Erennio, che fai qui? Vanne al campo! Signor, folle soldato ti disturbò. (a Lucejo) Non ubbidisci ancora? LUCEJO (Errai nel mio trasporto.) Ubbidirò. SCIPIONE All'accento credei fosse un ibero. LELIO Servì Publio tuo padre, e restò prigioniero, e nelle ostili tirannie perdette parte del senno, ma il mio cenno teme, ed anche è pieno di valor. SCIPIONE Gran cura prendine o Lelio nella sua sventura. Pietade inver l'amico abbi eguale al valor contro al nemico. (partono) librettidopera Atto primo Scipione LUCEJO Gelosia, m'ingannasti? Gratitudin d'amico oh quanto industriosa mi scampasti! Ma! Soffrir chi potea sentir parlar d'amore alla sua bella? Non è costume ibero un rivale soffrir: ma... menzognero! Audace! Vanne! Parti! Fur sentimenti d'alma, o fur sol arti? Ahi! Con troppo diletto ella certo sentia parlar d'affetto. [Aria] LUCEJO Figlia di reo timor, freddo velen d'innamorato sen, o gelosia crudel esci dal cor, lasciami in pace. Gelo ed ardor, smania ed affanno, dubbiosa fé, nascosto inganno porti con te, e alfin così di vita e amor spegni la face. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto secondo ATTO  SECONDO [Sinfonia] Scena prima Porto con nave approdata. Ernando padre di Berenice, che sbarca, e poi Lelio. Recitativo ERNANDO Mercé del vincitor mi fu concesso pacifico lo sbarco. Se i tutelari numi che veglian d'innocenza alla difesa, scampar la figlia dal furor di Marte, le portate ricchezze ne renderanno facile il riscatto. Vadano diligenti esploratori subito sulla traccia: ma fino a sua scoperta l'infortunio si taccia. Un roman duce s'appressa. LELIO Al forte Ernando che alle due Baleari isole impera, manda Scipion salute. ERNANDO Al proconsol romano la gloria e l'armi cedo, offro tributo, ed amistà gli chiedo. LELIO Grata a Scipione sia l'amistà d'Ernando, ma il tributo maggiore anzi il sol ch'ei ricerca, ad offrir vieni, a Roma e a lui pien d'amicizia il core. [Aria] ERNANDO Braccio sì valoroso core sì generoso il mondo vincerà. E senza usare il brando, co 'l nobil cor pugnando tutto vi cederà. librettidopera.it Atto secondo Scipione Scena seconda Appartamenti delle due prigioniere. Berenice e poi Scipione. [Arioso] BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante cor tremante ho l'alma. BERENICE Ah! pria di rivederti adorato mio sposo in tal periglio, prendi dagli occhi miei perpetuo esilio. Quanto propizia sorte ebbe il regal mio genitore Ernando non approdaro per contrario vento! Ch'abbia già Lelio il fido amico, io spero, persuasa la fuga al prence amato: ma so che disperato soffre di gelosia le pene amare, e fuggir non vorrà. Gravi tormenti alfin cadrò sotto la vostra salma. BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante cor tremante ho l'alma. Recitativo SCIPIONE Di libertate il dono, prigioniera gentil, grato ti fia? BERENICE Mi renderà del donator più serva. SCIPIONE Spera, ma dimmi pria tuo vero stato: i nobili sembianti spiran grandezza. BERENICE Io son d'Ernando figlia re delle Baleari isole. SCIPIONE E come in Cartagine? BERENICE Il principe Sitalce che n'è morto a difesa, era germano della mia genitrice, ed in sua corte vissi gran tempo, ah! librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo SCIPIONE Deh non darti in preda a vano duolo: è inesorabil morte. Libera tu sarai, ma libertà per libertà si chiede. Del suo laccio più forte per te già strinse amor. BERENICE Signor, t'arresta, non mi dir che tu sei... SCIPIONE M'odi. BERENICE No, ascolta. De' Celtiberi al prence, che meco un tempo visse, il cor già diedi. Riamar non poss'io se non... SCIPIONE (Spietato spietato mio destin! Misero core scoppierai di tormento e di furore. [Aria] SCIPIONE So gli altri debellar, ma porto nel mio cor chi mi fa guerra. Che giova trionfar, se tirannia d'amor l'onor ne atterra.) [Aria] SCIPIONE Pensa o bella alla mia speme e il desio non ingannar. (Ahi che l'alma troppo teme, e comincia a disperar.) (parte) Recitativo BERENICE Troppo qui noto è il mio natal, celarlo era timido e vano: dissimulare affetti è di me indegno. Scena terza Lelio, Lucejo, e detta. LELIO Ecco o prence la bella cagion del tuo dolore. librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Tu per me le favella: io non ho tanto core. BERENICE Oh numi! E questa di Lucejo è la fuga? Ah folle! Ei torna a turbar l'alma mia. LELIO (Sì mi dicesti 'l vero, o gelosia.) BERENICE Lelio, da me l'invola. LELIO E non vuoi tu? BERENICE Voglio che parta, e che non torni più. LELIO Ei brama sol..BERENICE Folle colui che vuole perdere le pupille per rivedere una sol volta il sole. LUCEJO Lelio andiam. Vado a morte. BERENICE A morte! Ah no. Lelio l'arresta. LELIO A morte. Sirena ingannatrice, che importa a te? L'amor la fé giurata son questi? E qual ragione puoi dirmi ingrata? BERENICE Ahimè! Verrà Scipione. LUCEJO Verrà il novello oggetto dell'amor tuo? BERENICE Cieco, e non vedi? LELIO Io vidi già ne' tuoi lumi infidi il cor fallace. In vana ambizion cangi il tu' amore, e il mio divien furore. Resta con quella pace che a me dai, ma la falsa alma poi tema piangere del rivale o dell'amante o d'ambo a un tempo sol, fu l'ora estrema. Ma no, risolvo abbandonar. BERENICE Rivolto ogni pensiero in te... LUCEJO Va', non t'ascolto. librettidopera.it  Rolli Händel Atto secondo [Aria] LUCEJO Parto, fuggo, resta e godi di tue frodi, tu sarai felice altera, menzognera. Sventurato io resterò sventurato sol per te. Resta ingrata, e che puoi dire? Quando invece di fuggire, vuoi restar co 'l vincitore. Quest'è amore? Questa è fé? (parte) Recitativo BERENICE Seguilo o duce. L'agitata mente lo trasporterà certo al suo periglio. LELIO L'orme ne segue, e penserò allo scampo. (parte) BERENICE Misera Berenice! Ah già preveggo il fine della tragedia mia tutta infelice. [Aria] BERENICE Com'onda incalza altr'onda, pena su pena abbonda, sommersa al fine è l'alma in mar d'affanno. E tutt'i miei momenti oh come lenti lenti di dolore in dolore a morte vanno! (parte) Scena quarta Armira, e Lelio. Recitativo ARMIRA Importuno tu sei. Quando in tua man sarà il darmi libertà, penserò allora di riamarti. LELIO Ed ora perché amor non prometti? ARMIRA Sarian forzati e men sicuri affetti. librettidopera Atto secondo Scipione [Aria] LELIO Temo che lusinghiero il labbro menzognero amor prometta per ingannar. Pur benché finga, sì dolce è la lusinga, che più m'alletta sempre a sperar. (parte) Recitativo ARMIRA Lusingarlo mi giova, finché del mio servaggio a Indibile il mio padre giunga l'infausta nuova, onde s'attenda soccorso tal, che libertà mi renda. [Aria] ARMIRA Voglio contenta allor serbar del piè, del cor, la cara libertà. L'amante avvezzo a dir che sol volea servir, tiranno poi si fa. Scena quinta Lucejo e detta. Recitativo LUCEJO Qui torno, e qui vuo' pria morir, che mai lasciar. ARMIRA Qui che vuoi tu? LUCEJO Vuo' quel che vuole la mia disperazione. ARMIRA Chi cerchi? LUCEJO Berenice. ARMIRA Ancor non sai, che l'adora Scipione? LUCEJO E corrisposto credi il romano amante? ARMIRA E tu qual cura ne prendi? L'ami ancor? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto secondo LUCEJO Per mia sventura. ARMIRA Del vincitor latino non paventi lo sdegno? LUCEJO Alma che nacque al regno non conosce timor. ARMIRA Dimmi chi sei? LUCEJO Ora de' casi miei non mi lice dir più. ARMIRA M'offendi: in pegno di fé, la destra mia prendine. LUCEJO O bella, tu mi conforti. (si danno la mano) Scena sesta Berenice, e detti. BERENICE Bella! Mi conforti! Ah traditore! Ah indegno! LELIO Oh van sospetto! BERENICE Sospetto il ver? Ma il tuo decoro, Armira? Sì l'audace correggi? ARMIRA Lascioti sola con quest'altro amante, così titolo avrai d'insegnar di modestia a me le leggi. (parte) LUCEJO E la mancata fede? Con finta gelosia pur si colora? BERENICE Va' traditor. Scena settima Scipione, e detti. SCIPIONE Tanto s'ardisce ancora, contra gli ordini miei? LUCEJO Scipione, a te costei diede fortuna, a me la diede amore. BERENICE È quel folle soldato. www.librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Io son Lucejo de' Celtiberi il prence: un vil timore non mi celò: tentai ritor la preda, se si potea, con onorata fuga, ma la crudel non m'ascoltò. SCIPIONE Tentasti, prence, un delitto: e prigionier già sei. BERENICE Ah misera! Il previdi. LUCEJO Se qual duce roman parli, ti cedo. Ma come un mio rivale, so ch'hai nell'alma onor, se non m'abbatti; prigionier non son io: ceder non voglio fin che vivo, il mio ben. SCIPIONE Deggio al senato risponder della mia, della tua vita. LUCEJO Disperazion non t'ode: il ferro stringi. Scena ottava Lelio con Guardie che circondano Lucejo con l'aste al petto. BERENICE Numi, lo difendete... Io manco... Io moro... SCIPIONE Olà? Non m'offendete. Non temer principessa, ei salvo fia. LELIO Cedi amico quel ferro. LUCEJO Avverso fato! Lelio m'uccidi tu... Son disperato. [Aria] LUCEJO Cedo a Roma, e cedo a te. Questi dica innanzi a me, s'ebbi già romano il cor: ma in amor, no non ti cedo no, ti sfido all'armi. E se rival tu sei, esser duce più non déi: l'onor ti vieterà privar di libertà chi non disarmi. (Lucejo, Lelio e guardie partono) librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo Recitativo BERENICE Signor, del tuo fisso pensar pavento. SCIPIONE Sì sì Roma altro sposo sceglierà del tuo merto ancor più degno. BERENICE Lucejo è nato al regno. SCIPIONE Merta però di posseder tuoi pregi un che dia legge ai regi, un romano. BERENICE In vil core han sempre forza ambizion, fortuna; nel mio non già, dove ha sol forza amore. SCIPIONE Del senato a' decreti forza è chinar la fronte, ed ubbidire. BERENICE Forzata esser non può, chi può morire. SCIPIONE Odi tanto i Romani? BERENICE Io n'ammiro il valor, n'amo il bel core, e se mia fede e l'amor mio non fosse avvinto altrui, sì n'arderei d'amore. [Aria] BERENICE Scoglio d'immota fronte nel torbido elemento, cima d'eccelso monte al tempestar del vento, è negli affetti suoi quest'alma amante. Già data è la mia fé: s'altri la meritò, non lagnisi di me; la sorte gli mancò del primo istante. librettidopera. it Atto terzo Scipione ATTO TERZO Scena prima [Sala magnifica.] Scipione e poi Lelio ed Ernando. Recitativo SCIPIONE Miseri affetti miei! Tutte le vie d'onore saranno chiuse all'amor mio? LELIO Scipione a privata udienza Ernando vedi, secondo i cenni tuoi. ERNANDO Del vincitore l'alta presenza onoro. SCIPIONE A cortesia amistà corrisponda: accetta Ernando la destra in pegno. Fortunato evento pose tua figlia in mio poter. ERNANDO Già Lelio tutto narrommi: dal tuo nobil core spero sua libertà. SCIPIONE La sua bellezza l'alma m'avvinse: in casto nodo io spero ottenerla da te. ERNANDO Sì grande onore, per mia sventura, troppo tardi è giunto. La promisi a Lucejo principe de' Celtiberi. SCIPIONE Ma questi è nostro prigionier. ERNANDO Con la sua vita la mia parola irrevocabil vive. La mia vita, il mio regno son tuoi, né per serbarli unqua io vorrei mancare all'onor mio. Corso è l'impegno, memore sino a morte animo grato n'avrò. SCIPIONE Vanne, e ci pensa. ERNANDO Ho già pensato. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto terzo [Aria] ERNANDO Tutta rea la vita umana saria sol brutale e vana senza il freno dell'onor. Dar parola, è dar sua fede: e la lingua che la diede fu ministra sol del cor. (parte) Recitativo SCIPIONE Degni amici di Roma son questi Iberi. Il saguntino onore sparso di tutti è nelle vene! Vanne, qui conduci Lucejo e Berenice, e a lui dirai, che deve gir prigioniero al novo giorno a Roma. LELIO Esperienza, e senno ai più ch'io possa consigliar. Fia tosto eseguito il tuo cenno. (parte) [N. 24 ­ Recitativo accompagnato] SCIPIONE Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder non vuoi? Della vita i diletti non sono che momenti, se brami... pensi... e speri, fuggono come venti. Chi meno gode, vive men. Virtute è tormentosa opinion per cui muor di sete il desire al fonte appresso. Sì sì voglio... ma... no...torna in te stesso. Puoi non usar tua forza, puoi non voler, giusto perché tu puoi posseder quel che vuoi. Questo è un piacer che non avrai comune co' bruti e co' tiranni. Qual fama di virtù! Ma no. Per fama ben oprar non si dée. Ben far verace è quel ch'uom fa, perché al su' interno piace. Oh fecondo pensier, sei generoso, tu riporti, lo sento, il mio riposo. (parte) librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena seconda Lelio, Lucejo, in proprio abito, e Berenice e Guardie. Recitativo LELIO In questo luogo o prence, ov'io dovrei renderti quel che tu a me desti, in questo devo darti un annunzio aspro e funesto. BERENICE Numi! Che fia? LUCEJO L'alma ho maggior dei mali. Di' pur. LELIO Prence, tu devi... ah! LUCEJO Da un romano con sì lungo esitar, morte si noma? LELIO Gir prigioniero ero al nuovo giorno a Roma. LUCEJO Questo è più fier che morte. BERENICE No non andrai senza di me, mio bene. Il dolore o la mano l'alma mia scioglierà da sue catene. Ti seguirò nud'ombra. LUCEJO Oh fida! Oh cara! Di cieca gelosia perdon ti chiedo! Oh compensati affanni miei! Deh resta, deh vivi sì amorosa, e sì costante alla memoria mia sola, e poi serba serba a fato miglior tua nobil vita. Amico un solo da te aspetto, un solo segno di gratitudine infinita, deh fa che cangi il vincitore in morte l'aspra sentenza della mia partita. [Aria] LUCEJO Se mormora rivo o fronda, sussurrano venticelli, di', che i sospir son quelli, ho l'alma mia che viene, mio bene, intorno a te. Dia vita o morte il fato, fian' ambe ugual tormento: sarò sol consolato pensando alla tua fé. (parte) librettidopera.it  Rolli Händel Atto terzo Recitativo LELIO Più resister non posso. Il cor si spezza. Se a sì teneri affetti, se a lacrime sì belle può resister Scipione, il cor romano ei non ha, ch'esser dée grande ed umano. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Ah! Scipion dove sei? Ascolta i pianti miei: o rendimi il mio bene, o avvinta in sue catene, mandami seco, sì spietato vieni saziati delle mie lagrime amare. Scena terza Scipione e detta. Recitativo SCIPIONE (Tenerezze del cor, cedo, son vinto.) BERENICE Non dovevo sdegnarti, ma non potevo amarti. La rea sola son io; mortal sentenza deh fa ch'io sola dal tuo labbro senta. SCIPIONE Bella non pianger più. Sarai contenta. (parte) [Aria] BERENICE Già cessata è la procella e la calma tornerà. E ne' rai d'amica stella l'amor mio scintillerà.librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena quarta Sala con trono. Scipione assiso che riceve Ernando preceduto da Mori che portano vari presenti d'argento e d'oro. [Sinfonia] [Sinfonia] Recitativo ERNANDO All'invitto proconsole romano, all'inclito Scipione, e al Campidoglio offro tributo e pace. SCIPIONE In nome del senato l'amiche offerte accetto, e patrocinio ed amistà prometto. ERNANDO Queste ancorché inuguali al tuo gran merto ricchezze accetta ancor: prezzo al riscatto della mia figlia Berenice. Oh degno cui tutto il mondo ceda, rendimi della vita il conforto migliore. SCIPIONE Venga la bella. Scena quinta Berenice e detti. ERNANDO Oh dolce figlia! BERENICE Oh genitore amato! SCIPIONE Libera sei: ma le ricchezze tutte del mondo, prezzo eguale a te non sono: ti rendo al caro genitore in dono. BERENICE Ho il cor da gioia oppresso. ERNANDO Vieni al paterno affettuoso amplesso. Cortese vincitor, pregoti almeno d'accettare in legger segno d'affetto i nostri doni. SCIPIONE Accetto le preziose offerte: ma in tuo volto tutta non veggo scintillare ancora l'anima lieta o Berenice. librettidopera.it Rolli / Händel Atto terzo BERENICE È vero. Troppo timida ancor l'alma paventa. SCIPIONE Spera, non sospirar, sarai contenta. [Aria] SCIPIONE Gioia si speri sì, sol voglio in questo dì letizia e pace. Marte riposo avrà, e lieto accenderà amor la face. (partono) Scena sesta Appartamento. Lelio ed Armira. Recitativo LELIO Tu d'Indibile figlia tanto amico a' Romani? E perché mai tacermi il tuo natal? ARMIRA Bastante asilo pareami aver nel tuo cortese affetto. LELIO In risponder così, mostri chi sei. In piena libertate or vivi, ed io rimango in tue catene. ARMIRA Qual Berenice, io non ho dato ancora ad altri il cor. LELIO Se a fedeltà sincera vorrai darne possesso. ARMIRA Amami, e spera. (parte) [Aria] LELIO Del debellar, la gloria, è il bel piacer d'amor, sono del mio valor pregi immortali. Del par con la vittoria un corrisposto ardor è il sommo del gioir, ch'è senza uguali. (parte) librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena settima Berenice e Lucejo. Recitativo BERENICE Dove o principe amato? LUCEJO A te mio bene. BERENICE Veggoti al fianco il nobil ferro. LUCEJO Dianzi per man di Lelio, Scipion me 'l rese, ed a sé m'invitò. BERENICE La gioia intera speriam da un cor generoso. LUCEJO Oh cara, abbiasi il mondo tutto, mi lasci del tuo cor libero il dono, e il più felice io sono. BERENICE Anch'io dovea senza vederti ire a Scipione, ma volli, principe amato, rivederti pria. Vo piena di lietissima speranza. LUCEJO Oh fida! Oh dolce? Oh cara anima mia. Aria] BERENICE Bella notte senza stelle chiaro sole senza rai tu vedrai, non il mio core senz'amore e senza te. Mancheranno al mar le sponde, mancheranno ai fiumi l'onde, pria che manchi la mia fé. (parte) Recitativo LUCEJO Squarciasi 'l fosco vel del mio sospetto, e qual fra nube il cui torbido seno rompa e dilegui il vento, veggo apparir più chiaro il ciel sereno. .librettidopera.it P. Rolli Händel Atto terzo [Aria] LUCEJO Come al natio boschetto augel che vien dal mar vola nell'arrivar, l'anima mia così impaziente già se 'n vola al caro ben. No più non è crudele la bella mia fedele: anima mia sì sì vattene innanzi a me posati nel bel sen. (parte) Scena ultima Scipione, Lelio, Ernando, Armira, Berenice, e poi Lucejo. [Arioso] SCIPIONE Dopo il nemico oppresso voglio esser di me stesso più forte vincitor. (ascende il trono) Recitativo SCIPIONE Venga Lucejo... SCIPIONE Prence, vinto dai primi sguardi arsi d'amor per la beltà che adori: la trovo tua: vinco me stesso, e illesa pronto a renderla io sono, poiché d'ambedue noi fia degno il dono premio da te si chiede a Scipio e a Roma d'amicizia e fede. Lelio all'illustre tuo scampo tentato per l'amico Lucejo tutta la lode io do d'animo grato. Ernando, i doni tuoi accettai per poter disporne poi: seguano la vezzosa Berenice al possesso del suo sposo felice. LELIO Oh magnanimo core! ERNANDO Oh virtù rara! LUCEJO Oh senza esempio anima grande! librettidopera.it Atto terzo Scipione BERENICE Oh degno d'esser fra i numi accolto! [Recitativo accompagnato] LUCEJO In testimonio io chiamo Giove e gli eterni numi, che la mia vita e il regno a Scipione a Roma, in guerra e in pace, impegno. [ Duetto] BERENICE E LUCEJO Si fuggano i tormenti, si vengano i contenti di bella fedeltà. Non più crudel timore il dolce dell'amore amareggiar potrà. Recitativo SCIPIONE Marte riposi, accenda amor la face sia questo un dì sol di letizia e pace. [Coro] CORO Faran la gioia intera vittoria pace e amor. E sia l'Iberia altera d'un tanto vincitor. librettidopera.it P. Rolli Händel, Interlocutori All'eccellenza Argomento Atto Ouverture Scena Marcia Arioso]. Arioso Aria Scena Aria Scena Scena Aria] Scena Aria Recitativo accompagnato­ Aria] Scena ­ AriaScena AriaScena AriaAtto SinfoniaScena AriaScena Arioso Aria Aria Scena Aria Aria Scena Aria] Aria Scena Scena Scena Scena Aria Aria]. Atto Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Scena Sinfonia Sinfonia Scena Aria Scena Aria Scena AriaAria Scena ultima. Arioso Recitativo accompagnato Duetto Coro Brani significativi Scipione BRANI SIGNIFICATIVI Abbiam vinto: e Iberia doma (Scipione) Il poter quel che brami (Scipione) Scoglio d'immota fronte (Berenice) Se mormora rivo o fronda (Lucejo) PIETRO METASTASIO / WOLFGANG AMADEUS MOZART Il sogno di Scipione Azione teatrale Scipio Costanza Fortuna Publio Emilio Recitativo Fortuna Vieni e segui miei passi, O gran figlio d'Emilio. Costanza I passi miei, Vieni e siegui, o Scipion.  Scipione: Chi è mai l'audace Che turba il mio riposo?  Fortuna: Io son.  Costanza Son io; E sdegnar non ti dèi.  Fortuna Volgiti a me.  Costanza Guardami in volto.  Scipione Oh dei, Qualle abisso di luce! Quale ignota armonia! Quali sembianze Son queste mai sì luminose e liete! E in qual parte mi trovo? E voi chi siete?  Costanza Nutrice degli eroi.  Fortuna Dispensatrice Di tutto il ben che l'universo aduna.  Costanza Scipio, io son la Costanza.  Fortuna Io la Fortuna.  Scipione E da me che si vuol?  Costanza Ch'una fra noi Nel cammin della vita Tu per compagna elegga.  Fortuna Entrambe offriamo Di renderti felice.  Costanza E decider tu dèi Se a me più credi, o se più credi a lei.  Scipione Io? Ma dèe... Che dirò?  Fortuna Dubiti!  Costanza Incerto Un momento esser puoi!  Fortuna Ti porgo il crine, E a me non t'abbandoni?  Costanza Odi il mio nome, Nè vieni a me?  Fortuna Parla.  Costanza Risolvi.  Scipione E come? Se volete ch'io parli, Se risolver degg'io, lasciate all'alma Tempo da respirar, spazio onde possa Riconoscer se stessa. Ditemi dove son, chi qua mi trasse, se vero è quel ch'io veggio, Se sogno, se son desto o se vaneggio. Aria Risolver non osa Confusa la mente, Che opressa si sente Da tanto stupor. Delira dubbiosa Incerta vaneggia Ogni alma che ondeggia Fra'moti del cor. Recitativo Costanza Giusta è la tua richiesta. A parte, a parte Chiedi pure, e saprai Quanto brami saper. Fortuna Si, ma sian brevi, Scipio, le tue richieste. Intollerante Di risposo son io. Loco ed aspetto Andar sempre cangiando è mio diletto.  2. Aria Fortuna Lieve sono al par del vento; Vario ho il volto, il piè fugace; Or m'adiro, e in un momento Or mi torno a serenar. Sollevar le moli oppresse Pria m'alletta, e poi mi piace D'atterrar le moli istesse Che ho sudato a sollevar. Recitativo Scipione Dunque ove son? La reggia Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi Al sonno abbandonai, Certo questa non'. Costanza No. Lungi assai É l'Africa da noi. Sei nell'immenso Tempio del ciel.  Fortuna Non lo conosci a tante Che ti splendono intorno Lucidissime stelle? A quel che ascolti Insolito concento. Dele mobili sfere? A quel che vedi Di lucido zaffiro Orbe maggior che le rapisce in giro?  Scipione E chi mai tra le sfere, o dèe, produce Un contento sì armonico e sonoro?  Costanza L'istessa ch'è fra lorto Di moto e di misura Proporzionata ineguaglianza. Insieme Urtansi nel girar; rende ciascuna Suon dall'altro distinto; E si forma di tutti un suon concorde. Viarie così le corde Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa E l'orecchio e la man l'acuto e il grave, Che dan, percosse, un'armonia soave. Questo mirabil nodo, Questa ragione arcana Che i dissimili accorda, Proporzion s'appella, ordine e norma Universal delle create cose. Questa è quel che nascose, D'altro saper misterioso raggio, Entro i numeri suoi di Samo il saggio.  Scipione Ma un armonia si grande Perchè non giunge a noi? Perchè non l'ode Chi vive lá nella terrestre sede?  Costanza Troppo il poter de'vostri sensi eccede.  3. Aria Ciglio che al sol si gira Non vede il sol che mira, Confuso in quell'istesso Eccesso di splendor. Chi lá del Nil cadente Vive alle sponde apresso, Lo strepito non sente del rovinoso umor. Recitativo Scipione E quali abitatori... Fortuna assai chiedesti: Eleggi alfin.  Scipione Soffri un istante. E quali Abitatori han queste sedi eterne?  Costanza Ne han molti e vari in varie parti.  Scipione In questa, ove noi siam, chi si raccoglie mai?  Fortuna Guarda sol chi s'appressa, e lo saprai.  4. Coro Germe di cento eroi, Di Roma onor primiero, Vieni, che in ciel straniero Il nome tuo non è. Mille trovar tu puoi. Orme degli avi tuoi nel lucido sentiero Ove inoltrasti il piè. Recitativo Scipione Numi, è vero o m'inganno? Il mio grand'avo, Il domator dell'Africa rubello Quegli non è? Publio: Non dubitar, son quello.  Scipione Gelo d'orror! Dunque gli estinti....  Publio Estinto, Scipio, io non son.  Scipione Ma in cenere disciolto Tra le funebri faci, Gran tempo è giá, Roma ti pianse.  Publio Ah taci: Poco sei noto a te. Dunque tu credi Che quella man, quel volto, Quelle fragili membra onde vai cinto Siano Scipione? Ah non è vero Son queste Solo una veste tua. Quel che le avviva Puro raggio immortal, che non ha parti E scioglier non si può che vuol, che intende, Che rammenta, che pensa, Che non perde con gli anni il suo vigore, Quello, quello è Scipione: e quel non muore. troppo iniquo il destino Sraia della virtù, s'oltre la tomba Nulla di noi restasse, e s'altri beni Non vi vosser di quei Che in terra per lo più toccano a'rei. No, Scipio: la perfetta D'ogni cagion Prima Cagione ingiusta esser così non può. V'è doppo il rogo, V'è merce da sperar. Quelle che vedi Lucide eterne sedi, serbansi al merto; e la più bella è questa In cui vive con me qualunque in terra La patria amò, qualunque offri pietoso Al publico riposo i giorni sui, Chi sparse il sangue a benefizio altrui.  5. Aria Se vuoi che te raccolgano Questi soggiorni un dì, degli avi tuoi rammentati, Non ti scordar di me. Mai non cessò di vivere Chi come noi morrì: Non merito di nascere Chi vive sol per sè. Recitativo Scipione Se qui vivon gli eroi... Fortuna Se paga ancora La tua brama non è , Scipio, è giá stanca La tolleranza mia. Decidi...  Costanza Eh lascia Ch'ei chieda a voglia sua. Ciò ch'egli apprende Atto lo rende a giudicar fra noi.  Scipione Se qui vivon gli eroi Che alla patria giovar, tra queste sedi Perchè non miro il genitor guerriero?  Publio L'hai su gli occhi e nol vedi?  Scipione É vero, è vero. Perdona, errai, gran genitor; ma colpa Delle attonite ciglia É il mio tardo veder, non della mente, Che l'immagine tua sempre ha presente. Ah sei tu! Giá ritrovo L'antica in quella fronte Paterna maestá. Gia nel mirarti Risento i moti al core Di rispetto e d'amore. Oh fausti numi! Oh caro padre! Oh lieto dì. Ma come Si tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante Sereno è ben, ma non comosso. Ah dunque non provi in rivedermi Contento eguale al mio! Emilio Figlio, il contento Fra noi serba nel Cielo altro tenore. Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore.  Scipione Son fuor di me. Tutto quassù m'è nuovo, Tutto stupir mi fa. Emilio Depor non puoi Le false idee che ti formasti in terra, E ne stai si lontano. Abassa il ciglio: Veddi laggiù d'impure nebbie avvolto Quel picciol globo, anzi quel punto?  Scipione Oh stelle! É la terra? Emilio Il dicesti.  Scipione E tanti mari E tanti fiumi e tante selve e tante Vastissime province, opposti regni, popoli differenti? E il Tebro? E Roma?... Emilio Tutto è chiuso in quel punto.  Scipione Ah, padre amato, Che picciolo, che vano, Che misero teatro ha il fasto umano! Emilio Oh se di quel teatro Potessi, o figlio, esaminar gli attori; Se le follie, gli errori, I sogni lor veder potessi, e quale Di riso per lo più degna cagione Gli agita, gli scompone, Li rallegra, gli affligge o gl'innamora, Quanto più vil ti sembrerebbe ancora!  6. Aria Voi collogiù ridete D'un fanciullin che piange, Che la cagion vedete Del folle suo dolor. Quassù di voi si ride, Che dell'etá sul fine, tutti canuti il crine, Siete fanciulli ancor. Recitativo Scipione Publio, padre, ah lasciate Ch'io rimanga con voi. Lieto abbandono Quel soggiorno laggiù troppo infelice. Fortuna Ancor non è permesso.  Costanza Ancor non lice.  Publio Molto a viver ti resta.  Scipione Io vissi assai; Basta, basta per me. Emilio Si,ma non basta A'disegni del fato, al ben di Roma, Al mondo , al Ciel.  Publio Molto facesti e molto Di più si vuol da te. Seza mistero Non vai, Scipione, altero E degli aviti e de'paterni allori. I gloriosi tuoi primi sudori Per le campagne ibere A caso non spargesti; e non a caso Porti quel nome in fronte Che all'Africa è fatale. A me fu dato Il soggiogar sì gran nemica; e tocca Il distruggerla a te. Va, ma prepara Non meno alle sventure Che a'trionfi il tuo petto. In ogni sorte L'istessa è la virtù. L'agita, è vero, Il nemico destin, ma non l'opprime; E quando è men felice, è più sublime.  7. Aria Quercia annosa su l'erte pendici Fra'l contrasto de'venti nemici Più sicura, più salda si fa. Chè se'l verno le chiome le sfronda, Più nel suolo col piè si profonda; Forza acquista, se perde beltá. Recitativo Scipione Giacchè al voler de'Fati L'opporsi è vano, ubbidirò. Costanza Scipione, Or di scegliere è il tempo.  Fortuna Istrutto or sei; Puoi giudicar fra noi.  Scipione Publio, si vuole Ch'una di queste dèe...  Publio Tutto m'è noto. Eleggi a voglia tua.  Scipione Deh mi consiglia, Gran genitor! Emilio Ti usurperebbe, o figlio, La gloria dela scelta il mio consiglio.  Fortuna Se brami esser felice, Scipio, non mi stancar: prendi il momento In cui t'offro il crin.  Scipione Ma tu che tanto importuna mi sei, di': qual ragione Tuo seguace mi vuol? Perchè degg'io Sceglier più che l'altra?  Fortuna E che farai, s'io non secondo amica L'imprese tue? Sai quel ch'io posso? Io sono D'ogni mal, d'ogni bene L'arbitra collagiù. Questa è la mano Che sparge a suo talento e gioie e pene Ed oltraggi ed onori, E miserie e tesori. Io son collei Che fabbrica, che strugge, Che rinnova gl'imperi, Io, se mi piace, In soglio una capanna, io quando voglio, Cangio in capanna un soglio. A me soggetti Sono i turbini in cielo, Son le tempeste in mar. Delle bataglie Io regolo il destin. se fausta io sono, dalle perdite istesse Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro, Svelgo di man gli allori Sul compir la vittoria ai vincitori. Che più? Dal regno mio non va esente il valore, Non la virtù; chè, quando vuol la Sorte, Sembra forte il più vil, vile il più forte; E a dispetto d'Astrea La colpa è giusta e l'innocenza è rea.  8. Aria A chi serena io miro Chiaro è di notte il cielo; Torna per lui nel gelo La terra a germogliar. Ma se a taluno io giro Torbido il guardo e fosco, Fronde gli niega il bosco, Onde non trova in mar. Recitativo Scipione E a sì enorme possanza Chi s'opponga non v'è? Costanza Sì, la Costanza. Io, Scipio, io sol prescrivo Limiti e leggi al suo temuto impero. Dove son io non giunge L'instabile a regnar; che in faccia mia non han luce i suoi doni, Nè orror le sue minacce. É ver che oltraggio Soffron da lei Il valor , la virtù; ma le bell'opre Vindice de'miei torti, il tempo scopre. Son io, non è costei, Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi, La tua Roma lo sa. Crolla ristretta da brenno, è ver, la liberta latina Nell'angusto tarpeo, ma non ruina. Dell'Aufido alle sponde Se vede, è ver, miseramente intorno Tutta perir la gioventù guerriera Il console roman, ma non dispera. Annibale s'affretta Di Roma ad ottener l'ultimo vanto E co' vessilli suoi quais l'adombra; Ma trova in Roma intanto Prezzo il terren che vincitore ingombra. Son mie prove sì belle; e a queste prove Non resiste Fortuna. Ella si stanca; E alfin cangiando aspetto, Mia suddita diventa suo dispetto.  9. Aria Biancheggia in mar lo scoglio, Par che vacilli, e pare Che lo sommerga il mare Fatto maggior di sè. Ma dura a tanto orgoglio Quel combattuto sasso; E'l mar tranquillo e basso poi gli lambisce il piè. Recitativo Scipione Non più. Bella Costanza, Guidami dove vuoi. D'altri non curo; Eccomi tuo seguace. Fortuna E i donni miei?  Scipione Non bramo e non ricuso.  Fortuna E mio furore?  Scipione Non sfido e non spavento.  Fortuna In van potresti, Scipio, pentirti un dì. Guardami in viso: Pensaci, e poi decidi.  Scipione Hò giá deciso.  10. Aria Di' che sei l'arbitra Del mondo intero, ma non pretendere Perciò l'impero D'un'alma intrepida, D'un nobil cor. Te vili adorino, Nume tiranno, Quei che non prezzano, Quei che non hanno Che il basso merito Del tuo favor. Recitativo Fortuna E v'è mortal che ardisca Negarmi i voti suoi? Che il favor mio Non procuri ottener? Scipione Sì, vi son io.  Fortuna E ben, provami avversa. Olá venite, Orribili disastri atre sventure, Ministre del mio sdegno: Quell'audace opprimete; io vel consegno.  Scipione Stelle, che fia? Quel sanguinosa luce! Che nembi! che tempeste! Che tenebre son queste? Ah qual rimbomba Per le sconvolte sfere Trerribile fragor! Cento saette Mi striscian fra le chiome; e par che tutto Vada sossopra il ciel. No, non pavento, Empia Fortuna: in van minacci; in vano Perfida, ingiusta dea... Ma chi mi scuote? Con chi parlo? Ove son? Di Massinissa Questo è pure il soggiorno. E Publio? E il padre? E gli astri? E l'Ciel? Tutto sparì. Fu sogno tutto ciò ch'io mirai? No, la Costanza Sogno non fu: meco rimase Io sento Il nume suo che mi riempie il petto. V'intendo, amici dei: l 'augurio accetto.  Licenza Recitativo Non è Scipio, o signore (ah chi potrebbe Mentir d'inanzi a te!) non è l'oggetto Scipio de'versi miei. Di te ragiono, Quando parlo di lui. Quel nome illustre É un vel di cui si copre Il rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro, e di Girolamo il core. 11a. Aria Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'oblio Ciò che in te ne dona il Ciel! Di virtù chi prove chiede, L'ode in quelli, in te le vede: E l'orecchio ognor del guardo É più tardo e men fedel. Coro Cento volte con lieto sembiante, Prence eccelso, dall'onde marine Torni l'alba d'un dì sì seren. E rispetti la diva incostante Quella mitra che porti sul crine, L 'alma grande che chiudi nel sen. Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano Minore. Keywords: Silio, il sogno di Scipione.

No comments:

Post a Comment