Grice e Sciacca: all’isola -- la ragione
conversazionale all’isola -- l’idea della libertà – fondamento della coscienza
etico-politica – la scuola di Messina -- filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Messina).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Studia a Palermo sotto
RENDA. Insegna a Palermo. Volge il suo interesse verso il criticismo, a cui
dedica “La funzione della libertà nella formazione del sistema kantiano” a cui
fece seguito, “La libertà come fondamento della coscienza etico-politica”
(Palumbo, Palermo), che reproduce la memoria in appendice. Società filosofica
italiana Altri saggi: “Filosofi che si confessano” (Anna, Messina); “La steresis
nella filosofia dell'azione” (Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, Palermo);
“Il concetto di tiranno, dagl’antichi italici a SALUTATI” (Manfredi, Palermo);
La visione della vita nell'Umanesimo di SALUTATI” (Palermo); “Politica e vita
spirituale” (Palumbo, Palermo); “Gli Dei in Protagora” (Palumbo); “Esistenza e
realtà” (Palumbo, Palermo); “Scetticismo” (Palumbo, Palermo); Ritorno alla
saggezza” (Palumbo, Palermo); “L'uomo senza Adamo” (Palumbo); “Sapere e
alienazione” (Palumbo, Palermo); “Il segno -- quel Segno” (Cappelli, Bologna); Reale
accademia di lettere scienze e arti", «La filosofia per cambiare il
mondo», La Repubblica. Bono, Rocca, M. K.
N., la tradizione del criticisimo, in Giovanni, Le avanguardie della filosofia
italiana, Angeli, Società Filosofica Italiana", Plebe, Giovanni. Sciacca
fu un filosofo italiano nato a Messina nel 1912 e morto a Palermo nel
1995, fu professore di storia della filosofia presso la facoltà di
lettere dell’Università di Palermo e presidente della Società Filosofica
Italiana. OPERE: Le opere di Sciacca sono: • La funzione
della libertà nella formazione del sistema kantiano (1945) • L’idea della
libertà. Fondamento della coscienza etico-politica (qui Sciacca, in
appendice riproduce la memoria del 1965). • Ritorno alla saggezza
(1971). • L’uomo senza Adamo (1976). • Sapere e alienazione
(1981) • Il segno, quel segno (1987). PENSIERO: Sciacca,
nella sua opera “L’idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-
politica” tratta del rapporto esistente tra Scienza e Filosofia, privilegiando
la dimensione metafisica della filosofia contro la dimensione positiva
delle scienze esatte. Sciacca recupera il pensiero di Renda e
abbandona il pensiero di Cantoni, secondo la quale oltre la conoscenza
del mondo è importante il destino dell’uomo nell’aldilà e
nell’aldiquà. Nel 1963, egli nel suo saggio si chiede con Kant se la
metafisica sia possibile come scienza; la risposta è negativa, in quanto
la metafisica di per se, andando oltre la scienza tratta i problemi di
maggior rilievo per l’uomo. L’uomo usa la sua ragione per problematizzare
la sua esistenza nel mondo, proiettandola verso l’aldilà in una
dimensione etico-religiosa. La presenza di Kant, in Sciacca, la possiamo
ritrovare nelle sue opere successive, ovvero: Ritorno alla saggezza (1971);
L’uomo senza Adamo (1976); Sapere e alienazione (1981); Il segno, quel
segno (1987). Sciacca, sottolinea che , nella fase storica di maggiore
espansione della scienza e della tecnica, l’uomo ha più che mai bisogno
della filosofia, cioè l’uomo ha bisogno di tornare alla saggezza,
considerando che l’uomo dei tempi moderni è primo di saggezza, ovvero “un
uomo senza Adamo” che ha mistificato e mercificato la natura. Egli,
sottolinea che l’uomo non può ignorare l’enigma dell’aldilà, cioè non può
dimenticare l’ignoto oltre l’orizzonte della vita terrena. Per Sciacca,
il sapere che distoglie l’uomo dai ver problemi è un sapere allenante o
fuorviante, cioè: il mondo è un sistema di segni che vanno decifrati
aldilà dell’apparenza, ed è proprio per questo motivo che Sciacca
suggeriva di cercare l’essenza della metafisica, ovvero della
filosofia. Egli, afferma che la filosofia si è sempre limitata a
chiedersi il perché delle cose senza mai ritenere di poter dire l’ultima
parola, la scienza invece ha finito con il prevaricare ogni forma di
sapere, nel momento in cui da scienza pura e semplice, è diventata
tecnica o peggio ancora tecnologia. Proprio per ciò occorre scoprire e
riscoprire una filosofia “critica” che torni alla saggezza.
Successivamente, Sciacca, nel suo volume “L’uomo senza Adamo” si confronta
con Marx; sembra strano che uno spiritualista come Sciacca riesca a
riscoprire attraverso una lettura di carattere antropologico del giovane
Marx e quella di carattere economista del Marx maturo, evidenziando una
forte esigenza di metafisica. Sciacca, sottolinea l’esigenza di tornare
all’origine, a Dio, ovvero riscoprire la dimensione umana; qui, si ha un
distacco dal materialismo storico , dal marxismo- leninismo, che predicava
la violenza come strumento di lotta, al contrario del pensiero di Sciacca
che a una libertà raggiunta con la forza, preferiva una libertà raggiunta
con la pace, semmai con la forza della ragione. Il penultimo libro di
Sciacca, “Sapere e alienazione”, è composto da cinque saggi ciascuno dei
quali pone il problema di intendere il sapere come alienazione, infatti
il filosofo è convinto che ogni forma di sapere storico costituisce una
forma di alienazione. Sciacca nel primo saggio si interroga sulla
dicotomia tra vero e falso, ed il suo suggerimento è quello di scavare,
socraticamente, dentro se stessi, considerando che il vero e il bene sono
da ricercare sempre come problemi. In “Sapere e alienazione”,
nell’interiorità di Sciacca si accende una curiosità: quella di Nietzsche
che nel Saggio 125 della Gaia Scienza, conferma che sono stati gli uomini
ad uccidere Dio, e secondo Sciacca, conferma anche che nello stesso tempo
è morto l’uomo stesso, sradicato dalla sua storia e dalla sua
cultura. Sciacca andava incontro Marx per superarlo e andava incontro a
Nietzsche per superarlo; in quegli anni, il filosofo, andava contro
corrente. Nel suo ultimo libro “Il segno, quel segno”, egli intende il
mondo come un insieme di segni, sottolineando che l’atto della conoscenza
rappresenta il primo segno dell’uomo, il segno iniziale e distintivo che
lo rapporta al mondo. Egli, suggerisce che conoscere non costituisce un
atto semplice cosi come può apparire a chi è accecato dalle apparenze,
proprio per ciò sostiene, come già detto, che si dovrebbe tornare
all’essenza delle cose e non soffermarsi all’apparenza delle cose.
Tutti questi interrogativi posti da Sciacca possono trovare una risposta in una
sua affermazione: “Forse, risalendo all’origine del nostro personale,
ripetitivo conoscere nei suoi atti spontanei e pur carichi di
significative responsabilità, l’essere di un mondo del quale sempre
cerchiamo il volto migliore potrà aiutarci a rispondere insieme alle
domande dell’anima e a quelle del sapere, scientifico e no”BIOGRAFIA: •
Filosofo italiano; PENSIERO: - Tratta del rapporto tra Scienza e Filosofia; - Privilegia la dimensione metafisica della filosofia; preso roteare i il di mivesta di
Palermo; Presidente della Società Filosofica Italiana. GIUSEPPE
MARIA SCIACCA (1912-1995) OPERE: La funzione della libertà nella formazione del sistema
kantiano (1945) L'idea della libertà. Fondamento della
coscienza etico-politica (qui Sciacca, in appendice riproduce la memoria del
1965). Ritorno alla saggezza (1971). L'uomo senza Adamo (1976). Sapere e alienazione (1981) Il segno, quel segno (1987).Giuseppe Maria
Sciacca. Sciacca. Keywords: Grice, ‘Negation and Privation’, negation,
privation, negatio, privatio, the use of ~ to stand for both negatio and
privatio – privatio as mere negatio (~), plus implicatum -- steresis, l’idea
della libertà – fondamento della coscienza etico-politica -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Sciacca” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Sciacca: all’isola -- la ragione
conversazionale dell’anti-filosofia e contra-implicatura – filosofia fascista –
il ventennio fascista – la scuola di Giarre – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Giarre). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Giarre, Catania, Sicilia. La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi,
ma dice la sua parola sulla verità delle lacrime e dei sorrisi. Dopo gli studi
liceali classici si trasfere a Napoli, dove si laurea sotto ALIOTTA. Insegna a Napoli,
Pavia, e Genova. Fonda Il Giornale di Metafisica. Molto intenso e il suo
rapporto filosofico e di stima reciproca con il filosofo fascista GENTILE, un
sodalizio testimoniato dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui
però ben presto S. si allontana, in particolare dal filone idealista, per
condurre la sua propria ricerca filosofica in modo più ampio, tanto da condurlo
a studiare per un certo periodo, grazie alle sue conoscenze pure in campo
teologico, sia la corrente del misticismo che quella dello spiritualismo. Accademia
di studi italo-tedeschi, Merano. Profondo conoscitore di SERBATI, promotore
della fondazione del centro di studi dedicato a Serbati a Stresa. Una delle
principali figure dello spiritualismo, a cui pervenne dopo i primi interessi
per l'attualismo ed i successivi, più impegnativi studi sullo spiritualismo,
anche interpretandolo in modo originale, delineando un particolare percorso di
continuità che, rifferendo alla metafisica classica, perviene a concepire
un'apertura del soggetto personale come creatur averso l'attualità assoluta
dell'essere nell’integralità. E ricordato principalmente attraverso Ottonello.
Saggi: “Agostino” (Morcelliana, Brescia); “L'Anima” (Morcelliana, Brescia); “Filosofia
morale” (Bocca, Torino); Atto ed essere (Bocca, Torino); Interpretazioni
rosminiane Marzorati, Milano); “Come si vince a Waterloo” (Marzorati, Milano);
“La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei” (Cremonese,
Roma); “Platone” (Marzorati, Milano); Filosofia e anti-filosofia (Marzorati,
Milano); Chiesa e civiltà (Marzorati,
Milano); Critica letteraria (Marzorati, Milano); L'oscuramento
dell'intelligenza (Marzorati, Milano); Studi sulla filosofia antica. Con
un'appendice sulla filosofia medioevale (Marzorati, Milano); Ontologia triadica
e trinitaria. Discorso metafisico-teologico Marzorati, Milano. L'Insegnamento
della filosofia: atti del Convegno di studi, Messina (Peloritana, Messina); Ontologia
triadica e trinitaria (Epos, Palermo); Atto ed essere (Epos, Palermo); Il magnifico
oggi (Epos, Palermo); In Spirito e Verità (Epos, Palermo); La clessidra (Epos,
Palermo); L'ora di Cristo (Epos, Palermo). Centro di Studi Filosofici di
Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G. C. Sansoni; Dizionario dei
Filosofi (Firenze, Sansoni); Schiavone, L'idealismo, Negri, “Dall'atto all'integralità”
(Forlì, Ethica); Pignologni, Genesi e
sviluppo del rosminianesimo, (Milano, Marzorati); Bologna, Quaderni del
Giornale di Metafisica, Stresa, Rivista Rosminiana, Incontrare S., Venezia,
Marsilio, Ottonello, “L'anticonformismo costruttivo” (Venezia, Marsilio); Shiavone,
L'idealismo, Collana di studi filosofici rosminiani, Domodossola; Milano,
Sodalitas, Ospitato su Bontadini e la metafisica. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. MICHELE FEDERICO SCIACCA Filosofia e Metafisica VOLUME I
MARZORATI - EDITORE - MILANO
FILOSOFIA E METAFISICA I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro- fonde che lo Sciacca ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dal- lo «Spiritualismo cristiano» alla «Filosofia dell’integra- lità». In essi si possono leg- gere saggi di rilevante inte- resse teoretico come quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull'esistenza di Dio, che or- mai si allinea tra 1 testi clas- sici della filosofia contem- poranea.
Lo stile avvincente e chia- ro,
il vigore del pensiero in- sieme
profondo e cristalli- no, l’unità
dell’ispirazione, il modo proprio dell’
Auto- re di rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistemati- ca senza pesantezza, sta una lettura appassionante e pro- ficua.
Zursarax - $. Tommaso visita S. Bo-
naventura. OPERE COMPLETE DI
MICHELE F. SCIACCA Volumi pubblicati: I. L'interiorità oggettiva, III edizione
italiana riveduta, pag. 120, L.
1000. 2. Come si vince a Waterloo, IV
edizione riveduta, pag. 224, L.
1200. 3. Interpretazioni rosminiane, Il
edizione riveduta e aumentata, pag. 272,
L. 2000. 4. L'uomo, questo «squilibrato
», V edizione, pag. 292, L. 2000. 5.
Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV
edizione riveduta e aggiornata, pag.
980, L. 6000. 8. La filosofia morale di
A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180,
L. 1500. 9. Morte ed
immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. 0. La clessidra (Il mio itinerario a
Cristo), VI edizione, pag. 160, L.
1300. Il. In Spirito e Verità, V
edizione riveduta, pag. 340, L. 2500.
12. Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III
edizione riveduta e aumen- tata, pag.
478, L. 4000. 15. Pascal, V edizione
riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000.
16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300. 17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114,
L. 1000. Volumi in preparazione: 18. Soren Kierkegaard e il « malessere »
della cristianità. 19. La filosofia
italiana, II edizione. 20. Il tempo e
la libertà. 21. Il momento estetico e
il valore ontologico della fantasia.
22-23. Platone, II edizione. 24.
Studi sulla filosofia antica, Il edizione.
25. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. 26. Il pensiero italiano nell'età del
Risorgimento, Il edizione. 27-28. Il
pensiero occidentale nel suo sviluppo storico.
29. Studi sulla filosofia moderna, III edizione. 30. Le mense di Cristo. MICHELE FEDERICO SCIACCA FILOSOFIA
E METAFISICA Terza edizione
riveduta e aumentata Volume I Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI MILANO — via privata Borromei, 1 B/7 Proprietà letteraria riservata © Copyright 1962 by Marzorati - editore,
Milano Stampato in Italia - Printed in
Italy 1962 Tipo-Lito P. Pasquetto - Milano INDICE
VoLume I Dedica Prefazione . . Premessa alla seconda edizione . Nota bibliografica INTRODUZIONE Parte PrIMA
FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA
Car. I. - FiLosoria. I. 2.
3. 4. 5.
Saggezza greca e saggezza biblica .
La filosofia scienza «sui generis» e sua autonomia dalle altre scienze ‘o Astrattezza del dialettismo antinomico La filosofia come ricerca della verità
interiore e suo esito religioso Lee La filosofia come sforzo di « ascesi » ed
itinerario a Dio Cap, II. - « COME BISOGNA CONCEPIRE LA
FILOSOFIA? » I. 2.
3. 4. La filosofia come ricerca « perennis »
della verità . La filosofia e i suoi
rapporti con la sua storia e la scienza
. . . La filosofia come . metafisica.
Essenzialità della filosofia e
inessenzialità delle scienze Ancora
sulla distinzione tra filosofia e scienza .
Cap. III. - FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE . 49
5I 56 61
69 70 73
76 81 PARTE SECONDA CONCETTO DI METAFISICA E SUA PROBLEMATICA INTERNA Cap, I. - LA METAFISICA E I SUOI
PROBLEMI I. 2.
3. 4. « Crisi » ed essenzialità della metafisica
. Metafisica e trascendenza. Le istanze
dell’interiorità La filosofia moderna
e contemporanea di fronte ai pro- blemi
della metafisica PIA Gli esseri e
l’Essere. L’Atto creatore . Car. II. -
ÎDISCUSSIONE INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA. I.
2. 3. PN »
Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni . Questioni marginali . Se hanno una metafisica anche le filosofie
che la negano . Metafisica e trascendenza ‘i . L’interiorità come l’opposto dell’immanenza
. Ultime precisazioni . . Replica ad una replica . . Ultima replica Car. III. - CULTURA E TRASCENDENZA Cap. IV. - CULTURA E METAFISICA Cap. V. - Vi È UNA FILOSOFIA DELLA
STORIA? Car. VI. - ESISTENZA E
CONSISTENZA I. 2. o
n da w L’esistenzialismo o la rivolta
contro l'essenza .
L’incontraddittorietà dell’essenza e il problema è della metafisica LL. ‘o . Critica dell’esistenzialismo . Esistenza e consistenza . . L'essere e il problema teologico . . Conclusione pag. 89
105 170 179
Indice 7 VoLume II PartE TERZA
ATEISMO E TEISMO Sezione
Prima L’ATEISMO Cap. I. - PRELIMINARI E POSIZIONE DEL
PROBLEMA. I. Limiti, scopo e difficoltà
dell'indagine . . . . pag. 7 2. Abuso
del termine ateismo. . . . . . ‘ » 9
Cap. II. - L’ATEISMO PRATICO. 1.
Di alcune sue forme . . . ....0.0.» 15
2. L’inconsistenza dell’ateismo pratico . . . . . » 22 Cap. III. - L’ATEISMO TEORETICO. 1. Schema delle sue principali forme . . . . .
n» 25 2. L’ateismo assoluto o dommatico
. . . . +.» 26 3. L’agnosticismo . . . 0
.. » 29 4. Il fideismo come forma di
agnosticismo . .. » 38 5. Il deismo . o
. . ..0.0.0.. <. » 41 6. Monismo e
panteismo . . . . . . <- . » 4 7.
L’umanesimo ateo... ... . . . n 60 Cap.
IV. - CRITICA CONCLUSIVA DELL’ATEISMO . . . » 70 Parte TERZA
ATEISMO E TEISMO SEZIONE
SECONDA L'ESISTENZA DI DIO Car. I. - POSIZIONE DEL PROBLEMA E I € DATI REALI
©) DEL- L'IPOTESI « DIO ». 1. Definizione nominale di Dio e fondamento
razionale dell'ipotesi . . . . pag.
79 2. Di quale Essere si vuole
dimostrare l'esistenza quando si pone
l’ipotesi « Dio»... . .... » 84 3.
L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos» . . » 87 4. Da quale dato reale è conveniente partire
per provare la verità dell'ipotesi «
Dio» . . .. » 88 Indice . Importanza dei « dati » psicologici »
nella dimostrazione dell’ipotesi « Dio
» . . La pregiudiziale critica da cui
muove il problema del- l’esistenza di Dio . La realtà spirituale punto di partenza
della dimostra. zione dell’ipotesi «
Dio » Cap. II. - LA DIMOSTRAZIONE
DALLA « VITA DELLO SPIRITO ”: 2) DALLA
VERITÀ. Impostazione dei termini del
problema Gli elementi del giudizio e
il problema della sua va- lidità I principî del giudizio non sono « posti »
dalla ragione nè indotti dall’esperienza
esterna Ragione e intelligenza:
l’intuito fondamentale dei prin cipî
del giudizio Il problema dell’origine
dei principi del giudizio: risposte
fondamentali Indubitabilità ed
indistruttibilità della < verità dei prin-
cipî del giudizio Elementi e
formulazione della prova « dalla verità »
In interiore homine habitat veritas .
Cap. III. - CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA PROVA « DALLA 7.
VERITÀ ». . Dio Primo Vero
assoluto Ln . Il principio di causa e le
due forme di astrazione . x . La verità presente alla mente è
appartenenza di Dio senza essere
Dio . Critica costruttiva del
principio di causa . . Il non senso
dell’ateismo La presenza di Dio e il
dinamismo del pensiero. « Ve- ritas » e
«ratio » . . Partecipazione iniziale e
finale . Cap. IV - LE IDEE. Le Idee come oggetto della mente. Critica
dell’a priori di Kant . . . Pag.
92 95 %
107 115 118
120 126 128
135 138 149
153 156 162
Indice 9 2. L’Idea nell’empirismo
inglese . . . . . . . pag. 167 3. Ancora
di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e
validità del giudizio... . .. 0...» 170
Cap. V. - LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO.
l. Critica e precisazioni . . . . . . . » 177 2. Conoscersi ed essere conosciuti. . . . . .
» 180 Cap. VI. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA
« VITA DELLO SPIRITO »: b) DALLA VITA
MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE DI
BEATITUDINE. I. Contraddittorietà dello
scetticismo . . . . . . » 182 2. La
prova dalla vita morale... . . .. . » 184
3. La prova dal desiderio naturale di beatitudine. . . » 186 Cap. VII. - BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI
ARGOMENTI ONTOLO- GICO E COSMOLOGICO. I. La prova ontologica . . . » 194 2. La prova cosmologica . . . » 203 Cap. VIII. - L’IPOTESI PROIBITA . «+.» 212 Cap. IX. - RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE
DELL'ESI- STENZA DI DIO. 0... » 219 Cap. X. - LA CONVERGENZA TOTALE . . . . ... »
225 APPENDICE. - ÎL CONCETTO CATTOLICO
DI LIBERTÀ DI PENSIERO » 239 INDICE DEI
NOMI . » 247 Ai mici giovani
dell'Università di Genova e di
Pavia L’ illustrazione è opera del
pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che
attraversa le Colonne d’ Ercole,
simboleggia l'aspetto essenziale della
filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli
per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede
nella verità di Cristo. PREFAZIONE I più impegnativi e sistematici scritti
raccolti în questo volume sono il
«condensato » dei due corsi universitari di
Filosofia teoretica, da me tenuti negli anni 1947-48 e I 948-49 nell'Università di Genova, elaborazione di
idee maturate nell'ultimo corso
professato nell'Università di Pavia. La le-
zione — almeno per me — è la forma più efficace di comu- nicazione e di silenziosa collaborazione: è
sempre stato ben poco quel che ho
insegnato al confronto di quanto ho appreso
insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà,
avrò esaurito la mia capacità d'imparare
insegnando e sarà giustizia e onestà che
scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco (e direi in segno di riconoscenza) che il
volume è dedicato ai mici Giovani di
Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un
altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di
Dio, nella fase di elaborazione e in
quella di revisione, ho chiesto il loro
ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di
ciò ringrazio i Proff. Antonelli,
Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi,
tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici colla- boratori nella lieta fatica delle ore
riscattate e affidate alla perennità
dello spirito. Così, dopo i Problemi di
filosofia, ormai lontani, pub- blico
ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’or- ganicità del volume non abbisogna di essere
giustificata: 14 Filosofia e
Metafisica l’unità dell’ispirazione
(almeno questo è il mio avviso) trapela
dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali che lo sostanziano, sempre presenti, tornano
con una inst- stenza martellante. Ma,
come che sia di ciò, resta il fatto che
pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici, invece di quella Filosofia dell’integralità, che
prometto da alcuni anni e la cui
pubblicazione non ritengo prossima. Il senso
di responsabilità mi obbliga manzonianamente a pensarci sopra, a meditare ancora su quella che
considero la siste- mazione definitiva
del mio pensiero, per minima che potrà
essere la sua importanza. Ma, in
mancanza diciamo pure di meglio, anche le pa-
gine qui raccolte forse significano qualcosa. Innanzitutto ho cercato di eliminare un
equivoco, a cui i miei precedenti
scritti potevano prestarsi: non dall’imma-
nenza alla trascendenza, ma dalla presenza in noi di qual- cosa che ci orienta ed oltrep assa alla
Trascendenza in sè: da Dio come è
presente alla nostra mente a Dio in sè nella
sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La prima posizione, per la sua equivocità,
andava definiti- vamente chiarita e, una
volta chiarita, oltrepassata. Essa può
rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse un passaggio obbligato per chi proviene
dall’idealismo tra- scendentale) tra
immanenza e trascendenza, non un punto
d'arrivo definitivo, fondato criticamente e sondato fino tin fondo. Ma l'abbandono di ogni compromesso con
l’idea lismo trascendentale, in special
modo con l’attualismo del Gentile, mi ha
consentito di distinguere nettamente le sue
due forme fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed oggettivo e dell'idealismo immanente e
soggettivo, quest’ul- timo negazione
della verità del primo, sopruso che il pen-
siero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta, per cui problemi, esigenze e principî
dell’Idealismo trascen- dentistico,
trapiantati nel campo sterile dell'immanenza as- soluta, trovano la loro morte proprio nella
soluzione imma- è Prefazione 15 nentistica. Mi è sembrato e mi sembra
necessario — tenendo conto del processo
di nascita, crescita e dissoluzione del pen-
siero moderno — riscattare problemi, esigenze e principi dal- la illusoria soluzione immanentistica per
farli rivivere nella verità
dell’Idealismo trascendentista, fatto più ricco, ma- turo e critico dall'esperienza speculativa
che va dal Cogito di Cartesio alle
posizioni più recenti della filosofia contem-
poranea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo tradizio nale di essenziale ispirazione
platonico-agostiniana nel vivo della
problematica della speculazione moderna non per adat- tarlo ad essa — che sarebbe ucciderlo — ma
quale elemento risolutore della sua
dissoluzione e soddisfacente le sue esigenze
critiche. Così, a nostro avviso, la « metafisica della verità », propria dell’Idealismo oggettivo, risolve in
sè le due opposte metafisiche «
dell'essere » e « del pensiero », conservando al pensiero e all'essere tutta la loro validità
e positività. Con ciò ritengo di rendere
un buon servizio al pensiero moderno e a
quello tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla filosofia, di avanzamento nella via della
verità. Evidente- mente le pagine qui
raccolte non presumono di avere rea-
lizzato questo programma, la cui attuazione è solo all’int- zio; ma mi pare che in esse l'impostazione vi
sia, ed è pure qualcosa. Ancora su un altro punto desidero richiamare
l’atten- zione di chi leggerà questo
libro. Spesso i miei precedenti scritti
sono stati accusati (dai tomisti) di esigenzialismo: «esigenza» della metafisica e della
trascendenza, ma non .ancora loro « fondazione
». Di questa critica ho tenuto conto
perchè ha la sua parte di verità. Credo che ora non mi si possa più muovere e chi v’insiste (0
v’insistesse) ripete senza efficacia un
luogo comune, perchè mi pare di avere abban-
donato la posizione esigenziale ed essere passato alla fon- dazione razionale della metafisica e della
trascendenza, pur senza sacrificare (al
contrario) quell’apporto della vita spi-
rituale nella sua integralità, della quale la ragione è un 16 Filosofia e Metafisica elemento essenziale ma non il solo, in
cui va sempre colta e da cui non va
isolata. Mi sembra che così il pensiero mo-
derno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una con- clusione che non può più ignorare: la
trattazione più teoretica e critica
impone, nella sua razionalità autentica e
concreta, la verità insopprimibile della metafisica e della trascendenza. In altri termini, chi scrive ha
l ambizione di poter dimostrare che
proprio la più rigorosa istanza teoretica
e la più intransigente esigenza critica, se spinte fino in fondo dalla logica che governa e guida la
vita dello spirito, debbono
necessariamente concludere alla fondazione di una metafisica teistica, la sola vera e perciò la
sola autentica- mente razionale e
critica. Queste nostre conclusioni, per altri
motivi, valgono anche contro quei pensatori contemporanei cristiani o cattolici che credono di poter
accettare con alcune correnti odierne la
svalutazione e quasi la inutilità (quando
non la nocività) della ragione e di salvare ugualmente la va- lidità della ricerca filosofica facendo della
filosofia dell’ « est- genza », del «
cuore », della « fede », del « mistero », del
« sentimento » ecc. e riducendo la metafisica alla psicologia o ad una specie di fenomenologia
dell’esistenza. Le stesse conclusioni
valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0 cattolici che credono basti contrapporre il
pensiero tradi- zionale a quello moderno
e condannare questo per avere partita
vinta e instaurare un nuovo clima speculativo; op- pure che, preoccupati della razionalità
(innegabile) della filosofia,
sacrificano alla ragione la ricchezza della vita spi- rituale, finendo così per isterilire le
capacità della ragione stessa. A noi
sembra invece che la filosofia vada assunta
in tutta la sua pienezza, che è la stessa della vita dello spi- rito. Crediamo che queste affermazioni siano
sufficienti per distinguerci dagli
esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da po-
sizioni di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità innegabili con la nostra), come pure
definitivamente da. ogni forma di immanentismo
ed anche, infine, da un razio-
Prefazione 17 nalismo che
impoverisce la stessa ragione con la pretesa di
garantirne la purezza e il primato.
Le pagine di questo volume sono dunque impegnative: chi le ha scritte può chiedere pertanto che
chi legge, prima di accettarle o
respingerle, s'impegni a sua volta almeno su
quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significa- tive. Chi le ha scritte si è «compromesso » e
l’ha fatto in modo di « compromettere »
chi le legge. Direi che le pagine
sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete: vogliono entrare con violenza. E ciò perchè
chi le ha pen- sate e scritte esige da
chi legge una risposta. M. F.
Sciacca Genova, Università, 10 luglio
1949. PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE Nell’ordinare le mie « Opere complete »
pensavo di ri- stampare questo lavoro
col titolo L'esistenza di Dio e d’inse-
rire i restanti scritti in qualche altro volume della Collana. Ho dovuto rinunziare al progetto: non si può
sopprimere un libro che ha ormai un suo
posto nella filosofia contem- poranea ed
ha suscitato appassionate, anche se non sempre
intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una let- teratura critica di mole considerevole, alla
quale si sono aggiunte le traduzioni
della parte centrale in spagnolo (La
existencia de Dios, Tucumdn, Richardet, 1955), francese (L’existence de Dicu, Paris, Aubier, 1951),
inglese, par- ziale (in Modern Catholic
Thinkers, London, Burns and Oates,
1960); ancora in spagnolo degli altri capitoli (La filo- sofia y el concepto de la filosofia, Buenos
Aires, Troquel, 1955, 2° ediz., 1959) e
dell’« Ateismo» (Madrid, Miracle, 1954),
tradotto anche in inglese (Formville, Virginia). Ma questa seconda edizione non è una
ristampa della prima; infatti, il
contenuto è stato riordinato în altro modo:
il breve saggio su «Il concetto cattolico di libertà di pen- siero » è il solo rimasto nell’Appendice;
sono state aggiunte pagine nuove e il
saggio su « L'ateismo », oltre al seguito
della discussione con F. Olgiati, sicchè il libro ha dovuto essere diviso in due volumi. L’opera, anche nella veste attuale, non fa
parte del corpus della « Filosofia
dell’integralità », ma segna il passaggio dallo « spiritualismo cristiano » a quest'ultima
posizione, di cui, 20 Filosofia e
Metafisica come è noto, la prima
formulazione è L'interiorità oggettiva.
Essa, dunque, da un lato, presenta ancora incertezze ed im- precisioni (1 concetti di persona,
interiorità oggettiva, est- stenza,
realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati, elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non
criticamente ri- pensati della posizione
precedente, di cui tuttavia è una cri-
tica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tema- tica rinnovata ed arricchita st trovano nei
volumi posteriori; pertanto, in questa
nuova edizione, a meno di non scrivere
un altro libro, non mi restava che conservare la stesura di dodici anni fa, limitandomi ad una revisione
della forma e ad un riordinamento delle
pagine. Tuttavia, come ho detto, mi è
stato possibile, servendomi di note che risalgono al 1951, inserire nella terza parte aggiunte e
precisazioni senza alte- rare il
contenuto dell’opera, che, com'è, segna una tappa nello sviluppo interno del mio pensiero. M. F. Sciacca Griesalp (Svizzera), luglio 1961. N.B. La terza edizione, meno qualche
ritocco nella forma, riproduce la
seconda, esauritasi in pochi mesi. M.
F. S. NOTA BIBLIOGRAFICA Volume I
Introduzione, « Giornale di Metafisica », 1, 1946. Parte I - I. Filosofia, « Humanitas », n.
1, 1946. — II. Come biso gna concepire
la filosofia?, testo francese, « Revue de Synthèse», lu- glio-sett. 1947 (XXI, Nouvelle Série), testo
italiano, « Humanitas », n. 5, 1947. —
III. Filosofia e vita spirituale, relaz. letta al « Congreso Internacional de Filosofia Suirez y Balmes »
di Barcellona, 7-12 ott. 1948, Actas, vol. II, pp.
925-929, Madrid, Instituto « Luis Vives » de
Filosofia, 1949 e « Humanitas », n. 2, 1949. Parte
II - I. La metafisica e i suoi problemi, « Giornale di Meta- fisica », IV-V, 1947 e « Philosophia », n.
10, 1948, Universidad Nacio- nal de
Cuyo, Mendoza. — II. Discussione intorno al concetto di meta- fisica, « Giorn. di Met. », IV, 1949; III,
1950; I, 1951. — III. Cultura e
trascendenza, testo francese, « Études philosophiques », numero spe- ciale, 1948; testo italiano, « Humanitas »,
n. 9, 1948: testo spagnolo, « Revista de
Filosofia », abril-junio, 1949. — IV. Cultura e metafisica,
« Humanitas », nn. 8-9, 1949. — V. Vi è una filosofia della
storia?, Procedings of the tenth
International Congress of Philosophy, North-
Holland Publishing Company, Amsterdam, 1949, vol. I, fasc. II, pp.
989-991 e « Humanitas », n. 7, 1948. — VI. Esistenza e consistenza, « Giorn. di met. », n. 1, 1947 e « Atti del
Congresso Internaz. di Filosofia », vol.
II, l’Esistenzialismo, Milano, Castellani, 1948. Volume II
Parte III - I. L'ateismo, nel vol. Dio nella ricerca umana, a cura di G. Ricciotti, Roma, Coletti, 1950; trad.
spagnola, Madrid, Mira- cle, 1954; trad.
inglese, Formville (Virginia), 1962; — II. L'esistenza di Dio, « Giorn. di Met. », nn. 1, 2, 3,
1949. APPENDICE. - Il concetto
cattolico di libertà di pensiero, San Se-
bastiin, 1948, a cura del Comitato delle « Conversaciones catélicas internacionales », e « Humanitas », n. 10,
1948. INTRODUZIONE Ogni guerra, per la nazione che l’ha
combattuta, segna. sempre la fine di
qualcosa che era e il cominciamento di
qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha propor- zioni gigantesche, scaturisce da situazioni
di portata mon- diale e si combatte in
nome di principii la cui sconfitta o
vittoria importa una nuova epoca del mondo, come quel- la che da qualche mese si è conclusa ('),
essa segna la fine di ordini e di
sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di ideali e di miti e nello stesso tempo
l’inizio di nuove forme di vita
nazionali ed internazionali, continentali ed intercon- tinentali. Anche la filosofia, che è vita
concreta dello spirito (proprio per
l’universalità e la necessità della verità non con- tingente ma superstorica, che è suo oggetto),
tutt'altro che estranea allo scorrere
del tempo e alle nuove esigenze che
nascono al posto di altre che declinano o sono sommerse, si trova di fronte a nuovi compiti. Essa —
proprio perchè sicura che i cangiamenti
esteriori sono spesso il segno di
profondi mutamenti spirituali — ha il dovere e il diritto di insediarsi, pur senza fare della politica o
dell’economia, alla base dei nuovi
problemi politico-economico-sociali, anche
contro l’intelligenza di quanti credono che essi siano solo una pura e semplice questione di politica o
di economia. Perciò la filosofia è
chiamata a rimettere sul tappeto della
discussione e della lotta problemi e soluzioni, ipotesi e prin- (1) Scrivevo nella primavera del 1945. 24 Filosofia e Metafisica ci pii, affinchè l’eterna verità
infinita venga più profonda- mente
sondata e più chiaramente configurata in nuove e sempre parziali prospettive, anch'esse
incomplete come le precedenti, ma di
queste meno inadeguate e più compren-
sive. La storicità della filosofia è figlia della Sofia, che sto- ria non ha: la Sapienza è madre della storia
e perciò anche del filosofare. Non la
ricerca o il processo storico condizio-
nano la verità, ma la Verità condiziona e fa che esistano e la ricerca e il processo. Una nuova rivista di filosofia (?), nel
momento in cui per l’Italia e il mondo
incomincia una nuova epoca, non ha
bisogno di giustificare la propria ragion d'essere; spe- cialmente se si tien conto che, da noi,
alcune tra le più accreditate riviste
filosofiche o hanno già da alcuni anni
esaurito la loro funzione e perciò rappresentano un modo di filosofare ormai al tramonto, difendono
posizioni quasi sorpassate, comunque
esprimono quel che alla filosofia e al-
la cultura in generale è già acquisito e come tale appar- tenente alla storia; o hanno perduto i
Direttori, che ad esse conferivano con
la loro personalità, ben definita e ri-
conosciuta, indirizzo ed autorità.
In questi lunghi ed atroci anni di guerra la filosofia, co- me qualsiasi altra attività, è stata sospesa
all’esito dell’im- mane conflitto. Non
ha sonnecchiato o dormito; ha atteso
trepidante per i destini della vita dello spirito, per l’esi- stenza stessa del diritto al pensiero, che è
essenzialmente diritto alla libertà.
Trepidante, ma fiduciosa nella peren-
nità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo; perciò ha atteso pensosa e raccolta: non ha disperato
e dunque ha potuto continuare a pensare.
Ora la guerra è finita, ma ha lasciato
impressi nei nostri occhi e nel nostro spirito
gli orrori della morte; superstiti di uno sterminio senza precedenti, siamo quasi increduli di
ritrovarci. Però come (2) Il «Giornale
di Metafisica » (Torino, Società Editrice Internazionale), presentato dalle pagine qui ristampate. Introduzione 25 capita a quanti si ritrovano vivi dopo
aver vissuto per anni sotto l'incubo
della morte e tra tanti morti che assiepavano
e rendevano oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi superstiti abbiamo gran desiderio, brama di
vivere. Ma, per vivere veramente da
uomini, è necessario che facciamo
violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spiri- tuali gli istinti vitali il cui scatenarsi
per eccesso di irrazio- nale valutazione
ha portato l’umanità alla guerra di ster-
minio, all’ebrezza atroce e crudele del sangue, l’ha de- gradata al livello zoologico. La rivolta
oscura delle forze primitive ed
elementari della vita animale ancora oggi,
malgrado tutto, sembra ribellarsi al rispetto dei valori spi- rituali e alla disciplina di un ordine
morale. Perciò noi so- steniamo (e ad
oltranza difenderemo questa nostra posi-
zione) che il desiderio di vivere — e con esso il genericissimo concetto di « vita» — venga qualificato come
desiderio di vivere nello e per lo
spirito, quasi di spirito; che lo spet-
tacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla furia, dalla violenza e dall’odio sia al più
presto cancellato dai nostri occhi e
soprattutto dai nostri cuori e dalle no-
stre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone colpite, oltre che dalla guerra, dal cozzo violento e
a volte brutale delle ideologie
politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati
di un partito e quelli del partito opposto; i sopravvissuti co- vano nel loro cuore rancori, odii, propositi
tenaci di ven- detta; sedimenti si
accumulano nelle loro coscienze; la sete
di sangue vendicatore repressa e non sanata aumenta; potrà — di nuovo! — rompere gli argini e provocare
nuove guerre e nuovi sanguinosi e
disordinati sconvolgimenti. La corru-
zione dell’organismo sociale minaccia sempre l’esistenza di una società. Ogni coscienza che non sa oggi
perdonare, che non lotta contro i suoi
impulsi immediati per scoprirsi ed
affermarsi coscienza autentica, per vincere il gelo della ven- detta con il fuoco della carità, porta dentro
di sé la pau- rosa responsabilità di
un’umanità futura peggiore di quella
26 Filosofia e Metafisica di
ieri. Avviare le coscienze a trovar pace nel perdono e conforto nel lavoro e nel bene è uno dei
compiti alla rea- lizzazione del quale
ogni forma di umana attività deve con-
tribuire e più delle altre la filosofia, che, come abbiamo detto, è la vita stessa dello spirito. Si
tratta di ricostruire, d’instaurare
nelle anime il senso dei valori spirituali sulle rovine morali e religiose
(incommensurabilmente più gravi di
quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima, durante e con la guerra (*), si sono
satanicamente accanite a seminare a
piene mani. In questa santa battaglia di ri-
marginazione delle ferite spirituali, ciascuno di noi, quale che sia il suo grado di cultura istruzione
capacità, quali che siano la sua
professione e il suo mestiere, i dolori e i
lutti che porta dentro di sè, ha il dovere di prendere e te- nere il suo posto, di restarvi fedele come
umile combattente della verità.
Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo;
farla trionfare a lui non compete.
Ritrovare noi stessi; aver ragione del nostro individuali- smo per affermare la nostra vera personalità
che è, come tale, negazione degli
egoismi individuali o familiari, di clas-
se o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra persona, prima di reclamarla come un diritto, dobbiamo
sentirla co- me un dovere e perciò come
un atto morale; ma non vi è moralità
senza legge, senza una norma universalmente va-
lida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi, consistere come persona. Solo l’adempimento del dovere
conferisce il diritto di avere dei
diritti; il diritto all’esercizio del do-
vere e la dedizione all'adempimento di esso sono la condi- zione necessaria e sicura di qualsiasi altro
diritto, che, senza dovere, è il diritto
della forza, negatore della persona, esal-
tatore dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge e ogni libertà conculca. Libertà della
persona significa libertà dall'egoismo
individuale e sociale dalle mille facce, o non (3) E, purtroppo, bisogna dire anche dopo
la guerra. Introduzione 27 significa niente. Ricostruisce la
società chi costruisce la pro- pria
persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoi- smi dividono, la legge unifica; la materia
rende impene- trabili, lo spirito ci fa
intimi gli uni agli altri, è la via mae-
stra della comunicazione nella verità; le passioni accendono passioni ed accentuano le distanze, la virtù
tempera, contem- pera ed avvicina;
l’interesse cristallizza le menti e raffredda
i cuori, l'amore rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue versato per lo scatenarsi dell’odio, della
distruzione e del- l'ingiustizia non può
e non deve essere stato versato per per-
petuare questi flagelli, che tutti concordemente ed unanima- mente diciamo di condannare e di voler tenere
lontani. Molti giovani oggi tornano dai
campi di battaglia o di concentramento,
dalla prigionia o dalle carceri, dai nascon-
digli e dalle montagne. Quel che hanno visto soffrire e sof- ferto non lo sapremo mai: il racconto delle
sofferenze mo- rali e fisiche ha poco
senso per chi non ha sofferto e visto
soffrire, tanta è l’intimità e la personalità del dolore, come di tutti gli umani sentimenti. Quel che è
passato per le loro menti nei giorni
oscuri è loro patrimonio non trasmissibile;
è necessario però che diventi capitale del loro spirito, ric- chezza che produca nuova ricchezza. Lo
esigono loro stessi, se è vero che hanno
combattuto per un mondo migliore, se la serietà,
la pensosità e spesso la serenità dei loro volti sono il segno di serietà e serenità
interiori; lo esigiamo noi tutti che con
e per loro vogliamo contribuire alla rinascita
della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orien- tamento in tutti profondo ed urgente; lo
esigono soprat- tutto quanti (quanti!)
non sono tornati, quanti nella fossa
hanno seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sco- nosciuti ed inconoscibili, inespressi ed
inesprimibili per il mondo a cui non
appartengono più, per la terra che li co-
pre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non si consola con altro male; chi è caduto non
vuole che la sua morte sia resa sterile
da altra morte. Il chicco di grano 28
Filosofia e Metafisica che cade
sulla terra è lieto di sacrificarsi nel suo germo- glio; i morti di ieri esigono da noi — e abbiamo
il dovere di rispondere al loro appello
— che siano tanti semi di fru- mento e
non di zizzania, da cui dovrà germogliare l’uma- nità di domani, cioè dello spirito, nostra
realtà dignità gran- dezza, non della
materia, che, da sola, è la nostra anima-
lità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio, della ferocia e della barbarie, loro, che più
di tutti avreb- bero diritto a non
perdonare (ammesso e non concesso che un
simile diritto sia riconoscibile all'uomo), siano i pionieri di un mondo di pace e lavoro, di un’umanità
che sappia trasformare il bagno di
sangue, a cui è stata costretta, in un
lavacro di riscatto e purificazione.
Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e bisognosi di orientarsi; hanno sete di giornali, riviste,
letture, pro- grammi, che, in verità,
non si manca di offrir loro, tanto è in
tutti il bisogno di fare e dare alcunchè. Che cosa noi offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il
nostro noi migliore, il noi profondo. Li
incitiamo a pensare, che è filosofare,
filosofando noi stessi. Non presentiamo una filosofia bella e fatta che serve a chi l’ha fatta e non a
chi non la fa da sè, ma un modo di
concepirla, un metodo di filosofare, che
valga come metodo di vita e di condotta. Essi tornano non con problemi astratti, ma, diciamo così,
incarnati, fatti di carne ed ossa,
sangue e nervi; non possiamo dare in cambio
formule confezionate in serie, valide per tutti e perciò non buone in concreto per nessuno. La filosofia,
che esprime pro- blemi ed -esigenze
nostre, ha il dovere di essere l’espres-
sione dello spirito umano e non di estraniarsi dall’uomo, che la fa essere ed è la sorgente
inestinguibile della sua vita perenne.
Il pensiero, come la ragione, è universale per-
chè leggi universali governano la sua attività; ma il pen- siero e la ragione non esistono come enti
impersonali ed astratti, bensì come
pensiero e ragione degli uomini, di ogni
singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è. Introduzione 29 la negazione dell'umanità della ragione
e perciò è inuma- nità e negazione della
filosofia, che l’umanità dell'uomo è
chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non la sola ragione, quasi staccata dal resto di
sè, ma tutto se stesso; perciò la
filosofia, a parte la religione, è il momento
più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello spirito. Da essa — col concorso della
religione, dove trova il suo
completamento — ci può venire una rigenerazione
verace di tutto l’uomo e un rinnovamento profondo della vita; da essa, che, quando si scruta fino al
midollo e si sco- pre come fondamentale
verità e come apertura al Dio ri- velato
e incarnato, non è più inutile somma di esperienze e di fatti scientifici, politici, sociali,
economici ecc. ma loro conversione
qualitativa su un piano diverso e ben ele-
vato; dunque, è altresì atto di supremo coraggio, la filo- sofia. Filosofare è guardare in faccia noi
stessi e le cose per leggervi dentro,
l’occhio teso e fisso per non sbagliare,
quel che noi significhiamo e le cose significano; è cercare e trovare la significanza del creato, il
senso assoluto del suo contingente
esistere; perciò è concludere, senza chiu-
dersi in una conclusione definitiva, contro ogni aperta o ma- scherata inconcludenza del mondo, banale o
sublime che sia. Una filosofia così
concepita, che pone in prima linea la
validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come suo oggetto la verità che non nasce e non
muore; che, come vedremo, è filosofia
della trascendenza teologica razional-
mente fondata; che propugna un integrale realismo, che è assoluto spiritualismo, da un lato non teme
l’accusa di psi- cologismo, di riduzione
del filosofare a descrizione dei fe-
nomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad inti- mismo soggettivista pre o afilosofico;
dall’altro, accetta la problematica che
scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e
viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi, speranze. Dare anima e volto umano ai
problemi ed alla % Filosofia e
Metafisica verità, che trascende
gli uomini e le età perchè alla contin-
genza sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con la luce inestinguibile del vero; inverare il
fatto, affinchè viva nell’eterna verità
ed esistenziare il vero, affinchè si faccia
la nostra verità umanissima: questa è la filosofia. Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto
fino al sa- crificio significa che,
anche nelle ore più oscure, l'umanità
non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero finito per vincere; ma non c’è speranza senza
fede; gli uo- mini, dunque, hanno avuto
fede. Anche la filosofia è spe ranza, quella
di trovare la verità che chi filosofa cerca:
chi cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede ancora il vero, ma ne è posseduto fin
dall’atto che lo cerca: chi filosofa è
chiamato dalla verità, ne ha la vo-
cazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa e nei suoi disegni, anche nonostante tutto.
Anzi, proprio quando il meccanismo delle
passioni sembra invincibile, ci si
rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione meditata alla situazione effettuale e suo
superamento, prende la spinta dal
riconoscimento deciso e preciso che solo un
fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita; è fede nella perenne validità del principio,
e questa fede è la molla del filosofare.
Non è credenza, preconcetto e dogma-
tica affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di comunicarsi attraverso la ricerca per farsi
scienza. Senza di essa la filosofia non
sarebbe mai nata: le menti ed i cuori
degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dub- bio, senza speranza. Ragionar molto, è vero;
ma anche sen- tire molto: un pensiero
robusto e ferace è ad un tempo figlio
della ragione e della fede. Proprio perchè ricerca e in- sieme possesso iniziale della verità, la
filosofia non è scet- ticismo ed è vita
rinnovatrice e promotrice di nuova vita;
perchè non possesso pieno, non è dommatismo ed intransi- genza cieca, ed è amore del vero, aspirazione
perenne, di- namismo spirituale
sollecitato e mosso dalla verità per la
Introduzione 38 scoperta
della verità stessa, grido di eremita che trascina popoli interi. Filosofare, dunque, è nutrire sempre più di
fede la filo- sofia, nutrirla
d’interiore certezza e di razionale fiducia nel- l’essere della Verità che è anche di ciascuno
di noi, il nostro immortale Ideale.
L'umanità sopravvissuta alla guerra, do-
po tanti crolli di idoli e miti, è innanzi tutto bisogno di fede, sete di credere; perciò anche bisogno di
filosofare, di cer- care, aspirare. Così
è, specie quando circostanze straordi-
narie pongono di fronte a loro stessi uomini e popoli, li ri- velano nella loro interiorità profonda, in
quel che è il loro consistere, che si
nasconde, indomabile, al di sotto del loro
fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca e così vivo calore di fede siano bene
istradati, cioè siano au- tentico
bisogno di filosofare e non vaga e sterile aspirazione, inconcludente andirivieni, pericolosa
imboccatura di vicoli ciechi; urge
mettere a frutto la fede per non sciuparla o ina- ridirla nella sfiducia, a cui segue
l’indifferenza, morte dello spirito. Metterla
a frutto, affinchè non si disperda in lampeg-
giamenti che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in un’accensione accecante per il molto fumo, ma
si componga. fiamma limpida e
illuminante; affinchè non sia disordinata
crescenza, ma ricchezza fondata su principî e da essi sorretta e guidata in modo da scongiurare la confusione
delle lingue, il cangiar nome alle cose,
il chiamar le virtù vizi e i vizi virtù,
quel gran male con cui Tucidide caratterizza la mutata e corrotta società di Atene alla fine della
guerra del Pelo- ponneso. Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento
intellettuale e politico d’Italia fu
preparato e nutrito da una fede pro-
fonda e robusta, che non conobbe scoramenti e disarmò le smentite; fede saldissima nei destini della
Patria divisa ed oppressa, perchè
innanzi tutto fede nei valori invincibili
dello spirito, negli ideali più nobili di una umanità mi- gliore, nella realtà di una legge morale che
sovrasta inte- 32 Filosofia e
Metafisica ressi ed egoismi, nella
santità e nelle bellezze autentiche
della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata da Cristo, fonte d’ogni progresso e d’ogni civiltà, in quanto
sorgente e legge di salute. Antonio
Rosmini e il « Rosminianesimo »
(indichiamo con questo nome il movimento dello spiritua- lismo italiano della prima metà
dell’Ottocento, che dal Ro- veretano
ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran
fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filoso- farono. Noi oggi, come i nostri progenitori di
ieri, abbiamo una gran fede nei destini
dell’umanità, proprio perchè ab- biamo
una gran fede nei disegni della Provvidenza, pro- motrice e fecondatrice del lavoro degli
uomini, suoi figli. L’anima di verità
dello spiritualismo italiano dello scorso
secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia: questioni di ordine pratico e non filosofico,
l’avvento del positivismo prima e
l’affermarsi del neohegelismo nel primo
quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il pro- cesso, anche se alcuni — e positivisti e
neohegeliani — ab- biano detto o creduto
in buona fede di continuarlo. Oggi è
necessario liberare lo spiritualismo da alcune in- terpretazioni, che riteniamo tendenziose ed
erronee e di pro- muovere nuove vedute
di esso; riprendere il filo al punto in
cui fu rotto per riannodarlo ai fili della nostra vita di uo- mini d’ oggi, non per ripetere o conservare,
ma per conti- nuare e rinnovare: a
scuola, alla vera scuola, s'impara, non
si ripete. Imparare significa accrescersi ed accrescere, riela- borare e ricreare, rivivere, che è tale
quando si continua e si rinnova la vita
degli altri nella e con la nostra propria
vita. La dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i limiti di un filosofare che è il loro vivente
filosofare, in quanto è anche il nostro
nuovo, personale, attuale filosofare; ci
impegna non per quel che il passato ha di caduco ed è passato con il suo tempo, ma per quel che di
perennemente vivo vi è in ogni
filosofare che è stato veramente la passione di
un’anima e, in questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi Introduzione 33 tutta una nazione. La tradizione è
indispensabile alla filosofia, come a
qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo che abbiano una storia, ma dev'essere
lievito, non peso morto; tradizione
rivissuta da noi, in modo che diventi il
nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi. * * *
Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, del- l’universale; come scienza, deve essere pura
da ogni ele- mento soggettivo; come
avente per oggetto l’essere, rispec-
chiare l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza di spazio e tempo: la verità nella sua
oggettività è co- mune a tutti gli
esseri razionali e per tutti uguale in ogni
epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli
elementi sogget- tivi, elevarsi in
un’atmosfera di serenità composta e se-
vera; far tacere tutti quei sentimenti che possono essere an- che individualmente certi o quelle soluzioni
che si pre- sentano anche belle
edificanti confortatrici, ma che non so-
no, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè ogget- tivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare
i propri pro- blemi e le proprie
soluzioni con le circostanze contingenti di
un determinato momento storico e di non fondarsi su di esse. C'è molto di vero in questo modo millenario,
glorio- sissimo e nobilissimo di
concepire la filosofia e l’oggetto della
sua indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse scienza dell’essere e la verità oggettiva e
realissima, ante- riore ad ogni ricerca,
Verità, anche se la filosofia non fos-
se mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non esistessero massimi problemi, non avrebbe
senso parlare di filosofia, di
metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggetti-
vità della verità, che è prima dopo e indipendentemente dal pensiero che la cerca e conosce, non
esclude affatto la personalità del
filosofare e della filosofia. È la verità, ma
è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in astratto una astrat- 34 Filosofia e Metafisica ta verità, ma il singolo, questo o quel
filosofo, cerca le verità, perchè sia la
sug verità. Eliminare la personalità dal-
la ricerca filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo o prescinderne, cioè essiccare la radice
della filosofia. La pura oggettività ed
universalità, che mettono in parentesi il
soggetto che cerca, sente e pensa, non appartengono alla fi- losofia nè ad altra forma di umana attività.
Comnoscere la verità significa sforzo di
penetrazione, scoperta di quel che è
verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo « specchio » tersissimo è freddo ed inerte,
indifferente al- l’immagine che
riflette, al suo riflettersi e al suo sparire;
copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quan- to più l’amanuense si estrania da esso e
pensa ad altro. Chi cerca, invece, non è
indifferente alla verità — conoscere è
possedere —; non pensa ad altro, ma al contrario, non pen- sa più a nient'altro. Conoscere la verità è
totale partecipa- zione ad essa; eros
profondo e fecondo, irresistibile, amor di
possesso e d’appropriazione, di meità, direi, della verità uni- versale ed oggettiva. Che non è verità perchè
mia, nè per- chè la scopro e conosco o
nell’atto che la conosco; ma nel momento
che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla
e quando la possiedo, la ho come mia verità, come /a ve- rità che è mia e mi costituisce. Una la
verità contempora- neamente presente
nelle innumerevoli coscienze che furono,
sono e saranno: universalissima e personalissima al tempo stesso. Non si tratta soltanto di quella
soggettività che è riconosciuta alla
filosofia e alle altre scienze, compresa la
matematica (il Poincaré, com’è noto, distingue i matematici in due tendenze: quelli che, guidati dalla
logica, procedono per lunghe analisi
astratte; gli altri che, guidati dall’intuizio-
ne, per sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità dei metodi, dei modi particolari di procedere
nella scoperta del vero e nella sua
sistemazione, ma di una soggettività più
profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si trat- ta, infatti, d’intendere la filosofia come
assoluta dedizione - Introduzione
35 dell’uomo intero, nell’atto che
filosofa, alla verità, per cui questa —
e nel momento della ricerca e in quello della sco- perta — aderisce interamente al soggetto
filosofante, suona per la sua mente e
per il suo cuore con determinati, parti-
colarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo riempie di gioia, lo innova, come dice
Agostino. L'uomo apre un nuovo spiraglio
sull’infinita verità; e — come il pri-
gioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettata- mente, è rischiarato dal sole — chi «vede»
saluta e sor- ride alla luce, che è Za
Luce, ma è la sua luce, perchè suo è il
lavoro della ricerca, sua la gioia della scoperta, sue le ansie e le esitazioni, suoi i dubbi e le
angosce, sua la pro- spettiva dalla
quale si è posto per cogliere un aspetto del-
l’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è madre del filosofare, ma le vedute di e su di essa
son geniture del- l’umana mente; prodiga
nel darsi a chi l’ama, si allegra
d’esser figlia del suo figlio, il pensiero, che certo, non la par- torisce, ma, dalla verità fecondato,
partorisce; tale gestazione è appunto il
filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie; perciò il pensiero, che è fecondità fecondata
e fecondatrice, conosce il dubbio e la
speranza, il sorriso e il pianto. La verità
sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e cerca; assume essa, divina, volto anima
espressione umane. È l’umanità perenne
della filosofia, la personalità di cui
essa è gelosa. Perciò noi,
contrari ad ogni forma di soggettivismo, che
vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto
di personale vi è nella ricerca
filosofica, per la quale la verità si fa nostra
senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con esso; contrari ad ogni forma d’individualismo
siamo per la personalità della
filosofia, in quanto nessuna forma d’im-
personalismo riescirà mai ad eliminare la persona, sogget- to del filosofare; avversari di ogni
riduzione della filo- sofia a pura
descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora 36 Filosofia e Metafisica il problema ontologico e schierati per
la centralità del pro- blema
dell’essere, ci opponiamo ad una concezione pura- mente nozionale dell’essere stesso. Perciò
ancora siamo con- trari ad ogni forma di
svalutazione della ragione e dell’in-
telletto, alla riduzione del conoscere alla pura intuizione immediata, ma lo siamo anche ad ogni
intellettualismo a- stratto e geometrico
razionalismo, che non tien conto del-
l’umanità del filosofare, dei diritti del sentimento, delle ragioni del cuore, di quanto vi è di
intuitivo nell’umano sapere. Difensori
della scientificità della filosofia, non tol-
leriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qual- siasi scienza particolare, nè ad alcuna forma
di scientismo che precluda l’apertura
del filosofare scientifico e razionale
ad una verità metarazionale e superscientifica. La « Scien- za », onnipotente ed onniveggente divinità,
che tutto risolve ed ogni mistero svela,
è un idolo nefasto, che annulla, con
paurose confusioni e gran danno, le differenze qualitative tra le varie forme di attività spirituale e
sovverte la stessa natura razionale
dell’uomo nel momento stesso che ne de-
creta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspet- to particolare dell’esperienza, isolato dagli
altri e non avente come suo scopo
essenziale l’approfondimento dello spirito
nella sua interiorità e nei suoi rapporti con il mondo ester- no, è ancora una forma di cosiddetta
scientificità della filo- sofia che non
possiamo accettare, in quanto tende a limi-
tare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione
unica. La co- noscenza sensibile e la
scienza naturale o matematica, che pur
possono rendere segnalati servigi alla speculazione, non possono assorbire o sostituire la filosofia,
il cui compito prin- cipale è di far
acquistare all'uomo una sempre maggiore
consapevolezza di sè e della « gravità metafisica » della sua destinazione, il senso della sua esistenza e
della sua auto- nomia, di dare al tempo,
alla storia, il carattere di via all’e-
ternità e non d’inabissare lo spirito nel divenire temporale. Introduzione 37 Soltanto così l’uomo, a mano a mano che
sonda le sue pro- fondità, si eleva con
tutto se stesso all’Essere, sorgente e
principio dell’intelligibilità e del mistero. Perciò noi, nello stesso tempo che accettiamo il concetto della
filosofia come scienza razionale e
indagine metafisica, secondo una tradi-
zione che ha secoli di autorità e testimonianze antichissime, e respingiamo le più recenti riduzioni di
essa a psicologia, a gnoseologia pura, a
metafisica del pensiero immanente, a
pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a me- todologia della storia, a vana fisicità, a
logicismo, ecc., ci dichiariamo pronti
ad accettare quanto di vero e vitale ha
il pensiero moderno e contemporaneo, solleciti di non far nostra qualsiasi posizione speculativa che
pretenda di por- tarci indietro di molti
secoli verso forme di realismo e d’in-
tellettualismo, che è doveroso e proficuo rivedere — nell’in- teresse stesso della verità del realismo —
spalla a spalla, in una lotta serrata ma
sincera e non ostile, con un pensiero che
da Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che im- pongono rispetto e meditazione profonda,
scevra da pre- concetti e prevenzioni,
senza intolleranze premeditate o
dogmatismi precostituiti. Piuttosto che ritornare a quanto ha di sorpassato il passato, siamo decisi a
muoverci incon- tro a quanto ha di
meglio il presente: radicati nella tradi-
zione, vogliamo pensare oggi per il futuro. Questa nostra maniera di concepire la
filosofia ci porta a cogliere le sue
ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, ap- parentemente opposti: il personale e il
sociale. Non solo l'intuizione è
personale, ma lo è anche il concetto, che è,
diciamo così, la elaborazione scientifica dell’altra. La sua universalità è veramente tale quando include
la con- cretezza dell’intuizione:
universalità, difatti, non significa
affatto astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è anche la mia verità espressa in un concetto
universalmente valido. Concetto
significa sintesi, e la sintesi è una veduta
che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammen- 38 Filosofia e Metafisica tarie vedute individuali. Non vi è
pertanto verità sociale, va- lida per
gli altri, che non sia o non sia stata prima verità intima, personalissima di un uomo. Nè cessa
di esserlo — se è davvero verità e
coglie ed esprime una nota od un accento
dell’umano pensiero — anche quando diventa so-
ciale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti, per cui è verità, la riconosce e rifà sua,
intima personale verità. Altrimenti è
formula morta, informazione estrinseca,
curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spi- rituale. La verità « pubblica » è davvero
tale quando, al tem- po stesso, è verità
« privata », di ciascuno, quando ogni
singolo la riconquista e possiede e vive come assoluta- mente sua. L’universalità e l’assolutezza del
vero è la pre- senza dello stesso
assoluto vero nelle molteplici coscienze
singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna di esse all’istessa verità. Forse in
nessun’anima, come in quella del
pensatore solitario, è tanto presente l’umanità
di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pen- sosa ed operosa; diciamo della solitudine,
non dell’isola- mento. L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è
riscoperta ed accettata da un’anima, le
dona e l’arricchisce. Solo così c’è
commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno di noi, ogni mente, è industria di idee;
altrimenti gli uo- mini commerciano e
scambiano parole senza contenuto, for-
mule senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono le epoche, cosiddette di decadenza della
filosofia o afilosofi- che, pigre ed
inerti, che vivono di rendita e nulla sanno
mettere a profitto; in esse la verità ha solo l’apparenza della socialità, perchè le manca l’intima essenza,
costituita dal- l'intimità e dalla
personalità del vero nella sua oggettività.
* * * Poco più di un anno dopo
la fine della guerra ’14-18, Giovanni
Gentile nel « Proemio » premesso al primo fasci- Introduzione 39 colo del « Giornale critico della filosofia
italiana » così scri- veva: «oggi noi
vogliamo un idealismo storico o attuale,
uno spiritualismo antiplatonico e immanentista ». Molti giovani, che la guerra avevano fatto e
vissuto, sfiduciati del- l’ambiente
filosofico e culturale del momento, si orientarono verso la nuova rivista. Durò poco; il «
Giornale » continuò a vivere, ma alcuni,
giovani e anziani, cambiarono rotta e
s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico o attuale, anti- platonico e immanentista, non era la
filosofia che rispon- deva alle loro
esigenze; infatti, di tutte le filosofie che han- no reagito al positivismo, è tra quelle che
hanno fatto mag- giori concessioni alle
tendenze naturalistico-empiristiche e
più si è adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà spirituale, ma, per il suo fondamentale
storicismo ed im- manentismo,
imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nel-
le forme e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso quel carattere autenticamente metafisico e religioso,
essen- ziale alla filosofia, lo slancio
di elevarsi, con un respiro ve- ramente
universale e non mozzo, al di sopra di quella ge- nerica divinizzazione dell’umanità, a cui in
fondo si ri- duce quel suo concetto di
Storia o Cultura o Civiltà, col quale
identifica la totalità del reale. Altri
indirizzi in Italia e fuori sono contemporanea-
mente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guer- ra ’39-45. Poco meno di sei anni: tutto
cambiato. Filosofie che fino alla
vigilia dello scoppio del conflitto e a qualche
anno dopo erano studiate ed appassionatamente discusse, oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a
noi, come se da esse ci dividessero
secoli. Morte? No: con esse, com- preso
l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo an- cora fare i conti, se vogliamo proprio dare
un nuovo orienta- mento al filosofare.
Misurarsi con gli avversari, con tutto il
rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro, è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la
nostra consistenza. Diciamo subito,
sebbene il lettore abbia già capito, che
40 Filosofia e Metafisica il
nostro spiritualismo è platonico, come può esserlo uno spi- ritualismo che non intende ignorare il
pensiero moderno e contemporaneo nè da
esso straniarsi; ed è trascendentista. Di-
re per esteso come noi intendiamo il nostro spiritualismo, in che senso lo denominiamo platonico e
trascendentista, qual’è l'essenza del
platonismo antico e cristiano, sarebbe antici-
pare in questa introduzione molte tra le pagine di questo libro e quanti volumi formeranno la nostra
Filosofia del- l’integralità. Come
abbiamo scritto altrove: « Noi... capo- volgiamo
il principio animatore di buona parte del pensiero moderno e contemporaneo: non conquistare la
posizione im- manentistica dell’attività
creatrice del soggetto, ma conqui- stare
— ed anche questa è dura e aspra conquista — il sen- so, che è senso della trascendenza, di essere
creati, il calore spirituale di esser
parte vivente della creazione. Aver sem-
pre presente alla propria coscienza di essere creature, signi- fica avvertire sempre la propria esistenza
come dono, gra- zia di esistere: il
mondo, nella sua totalità, è un dono della
grazia del Creatore. Appunto, per noi, filosofare è pensare trascendendo il nostro pensiero; è far della
storia trascen- dendo la storia; è
tensione dello spirito verso una Realtà
che è in lui senza esser lui, che immane e trascende; è aspirazione al possesso della Verità, che non
ha storia e non è filosofia, ma che fa e
la storia e la filosofia ». Platone? Sì,
ma anche Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platoni- smo, che è un aspetto perenne perchè
essenziale e invin- cibile della
filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito uma- no, che è « filosofo », perchè è aspirazione
indomabile, eros inesausto della verità.
Perciò la filosofia è costituzionalmente
decisa tendenza alla trascendenza.
Oggi, come nel periodo immediatamente anteriore alla guerra, vi è, specie nella filosofia francese
e italiana, non un ritorno, ma una
ripresa dell’agostinismo perenne; i proble-
mi filosofici, quello religioso e dei suoi rapporti con la fi- losofia, sono posti, trattati e discussi nei
termini della spi- Introduzione
41 ritualità agostiniana: questa
oggi la nota attuale (che non si-
gnifica di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche la nostra nota che non contrasta affatto con la
ricchissima spi- ritualità tomista, di
cui è da tenere gran conto, in quanto,
aggiungiamo, è tutt’altro che antiplatonica ed antiagostinia- na. Agostinismo significa voler conoscere
innanzi tutto due cose: Dio e l’anima,
la mia anima che ama Dio e a Lui aspira.
Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;
centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio che in lei parla e della consistenza
dell’uomo e delle cose; senso della
creazione, che si coglie come tale nell’aspira-
zione perenne al Creatore e, dunque, senso profondo, inte- riore, della trascendenza. Dunque, ancora,
pensiero che si coglie nell’essere, non
essere che si coglie nel pensiero;
perciò metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte, la persona umana non è l’individuo, che è
ogni ente or- ganico, o l’io empirico,
e, dall'altra, il Dio del Cristia-
nesimo non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza. E’ più che sostanza, più che essenza: è
Persona, Padre, Creatore, Provvidenza.
La teologia razionale, che tende a
scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che è esperienza interiore e teologia rivelata.
Dio non è il re- siduo logico di un
intellettualismo intollerante; non è Og-
getto puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio
di Gesù, quella « soggettività » che è
Sua « natura ». Non si tema l’immanenza,
perchè, se non altro, questa posizione ci met-
te al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascen- denza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa
di Dio un elemento immanente della vita
dell'anima, ma Lo assu- me e ama come
Voce interiore, Norma assoluta e Guida
infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spi- ritualmente ricreano la creatura. Dio ancora
è intelligenza che attua col pensiero
gli intelligibili, ma attuandoli li vuole
liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per- 42 Filosofia e Metafisica chè siamo al di sopra del dilemma
volontarismo-intellettua- lismo: la
nostra posizione non è meramente volontaristica
e meno ancora anti-intellettualistica. L'attività intellettuale — che solo certe forme d’intuizionismo hanno
relegato nel formalismo e nell’astratta
schematizzazione, con una re- strizione
del termine intelletto tanto ingiusta quanto incre- sciosa — è anch'essa vita intensissima e
spirituale sentire, che si collega con
l’attività volontaria. Intelletto e volontà
sono fatti per armonizzare nella distinzione e reciproca- mente integrarsi. La riflessa cautela critica
dell'intelletto non smorza, ma
disciplina e rende più efficaci gli slanci della volontà, come la rigorosa obiettività
metafisica non si di- sgiunge dal
carattere personale della ricerca filosofica. « Poe- tico » è l’intelletto, al pari della volontà.
Insufficiente il primo nella sua sfera
se non è integrato dall’altra, come è
insufficiente la volontà che pretende di fare a meno dell’intelletto; sufficiente è la completa e
concreta vita umana naturale
nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra for- ma di attività. Da ultimo, il « complesso
dell’uomo » ha il suo compimento nella
spiritualità soprannaturale, che non
altera l’umana natura, ma la solleva ad un più alto stato. Una metafisica così intesa esaurisce il
contenuto della filosofia: è gnoseologia
e morale, è scienza del mondo e
dell’uomo singolo ed associato; è filosofia che ha il profondo senso morale e religioso di se stessa; perciò
cristiana, alla quale appunto il
Cristianesimo dà la consapevolezza dei li-
miti della conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con la Rivelazione, la soluzione di quel che può
solo cercare e sondare, ma intorno a cui
non può e non potrà mai con- cludere. La
filosofia è razionalità, se si vuole, « intransi- gente » razionalità; ma è atto della ragione
autentica rico- noscere i suoi propri
limiti; atto che include perciò stesso
il riconoscimento del mistero teologico, che non è affatto, non occorre dirlo, irrazionalità o
arazionalità. La ragio- ne, lume
naturale, riconosce, con un atto naturale, il
Introduzione 43 lume
soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia, che è indagine razionale, è apertura all’Essere,
vocazione alla trascendenza, che, per
noi, è quella teologica. Se così non
fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è
spirito e non materia, che è verità e
non illusione, da dove non dimentica o
disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta al lume della Verità che lo trascende per
indirizzarlo al suo fine, che è il
Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupi-
scenza dell’intelletto, non vita spirituale, salute dell’anima. Fede e ragione in stretta ed armonica
collaborazione, senza che si armino i
diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona filosofia, dunque, in umiltà di cuore,
semplicità d’intelletto e rettitudine di
volontà. Di qui scaturiscono
conseguenze di vitale importanza. Innanzi
tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’es- senziale spiritualità dell’uomo nella sua
complessa ricchezza e dell’ordine del
mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso
alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o attività perennemente creatrice e
conservatrice. Consegue che la filosofia
è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni creatura nel suo grado di essere; in questo
senso è « avvia- mento » all’integrità,
che è appunto riconoscimento di ogni
ente nel suo grado di essere, per quel che è e significa; è « disposizione » (non diciamo realizzazione
o compimento) al ritorno alla creazione
genuina, messa in linea per il ri-
scatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione inte- riore della verità, iniziazione religiosa,
contemplazione (theo- ria) che è
concentramento della totalità del creato in un
punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si fa lo slancio verso il Creatore; è infine — e
per tutto ciò — preghiera. Da ultimo consegue che essa è essenziale
moralità. Chi filosofa si mette in
cammino per incontrare la verità; dun-
que, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini- 44 Filosofia e Metafisica zialmente può essere di ostacolo al raggiungimento
del suo scopo e a liberarsi, a mano a
mano che la ricerca procede, di quanto
risulta falso o inadeguato: con ciò stesso rico- nosce che non la ricerca produce il vero, ma
il vero la ri- cerca. Filosofare è
pertanto itinerario di liberazione, di
purificazione: lotta del vero contro il falso, del bene contro il male; dunque, è assolutamente moralità,
che non è un fatto, ma un dover essere.
Nel nostro caso, è la possi- bilità di riescire
a vincere il falso con il vero, il male con
il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza. E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia)
di passare dalla possibilità di vittoria
sul male e sul falso, alla reale riescita?
Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta è la sua vita morale; la vittoria definitiva
ne è l’esito; poichè l’esito o
cessazione della lotta è al di là di essa, la
trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pen- siero, cioè il potere dell’uomo; dunque la
realizzazione del fine, per il cui
conseguimento l’uomo lotta contro il male,
non è nell’umano potere. La filosofia, intesa come asso- luta moralità, è la grande possibilità
naturale di cui l’uo- mo dispone per
realizzare il suo fine supremo. Impegnate
tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero si fa disponibile per accogliere dall’Alto,
se vengono, le energie della salvezza:
l’essenziale moralità della filosofia si
rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della vita morale (lotta del bene contro il male) non
può trovarsi se non nella religione. In
caso contrario, la morale come lot- ta
eterna senza possibilità di risoluzione, come perenne dia- lettica dei due termini in contrasto, si nega
come morale, in quanto si riduce ad un
fatto, al fatto della lotta, che non può
non essere altro e dev'essere quello che è.
E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale? Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una
morale autonoma nella sua possibilità di
riescire, con la spe- Introduzione
45 ranza che la riescita che la
trascende non le manchi e venga a
colmarla, a liberarla dalla lotta, ad «assorbire la morte in vittoria ». La salvezza come fine
della moralità investe nel suo punto
cruciale il problema dei rapporti di
filosofia e religione. PARTE
PRIMA FILOSOFIA E CONCETTO DI
FILOSOFIA CaprrroLo I FILOSOFIA
I. — Saggezza greca e saggezza biblica. Secondo la tradizione, Pitagora, quasi
indietreggiando umile di fronte alla
maestà della divina Sapienza, per pri-
mo si nomò non sapiente ma filosofo: semplicemente amico della Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è
scienza di Dio, la filosofia è scienza
dell’uomo. Dio « non è filosofo », dice
Platone, perchè è il Sofo. Ancor
prima di Pitagora e Platone, l’uomo (da Adamo
caduto, primo grido di dolore e primo atto di pentimento per la verità perduta) ebbe ad accorgersi che
l’amore per la Sapienza costa carissimo.
Amare la verità è tendervi, che è sforzo
perenne di ricerca, superamento di limiti, penetrazione di zone di ombra, vittoria sul dubbio; lo
sforzo è dolore. L’uomo partorisce mella
Verità le verità: prima gesta con
cautela e fatica; sorveglia perchè il parto non sia aborto pre- maturo e il partorito germoglio rachitico e
malaticcio; poi fa forza per rompere
l’involucro che l’asconde e vorrebbe
soffocarlo: non si dà alla luce senza dolore. Ed è giusto: non c’è luce di verità, per l’uomo, senza
sacrificio e soffe- renza, che fanno
pura la gioia del generare. Umanissima la
filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia; infatti è « testimonianza » del vero. Ma non
si sopportano sacrifici nè si affrontano
martirii senza fede nella verità, nel
dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo 50 Filosofia e Metafisica da chi è suo possesso. Filosofo è chi ha
fede nel ritrova- mento del vero, chi
usa il dubbio positivamente, come peda-
na di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non ten- tenna: crede, serve e muore. Socrate fu
filosofo. Altro saggio d’antichissima
saggezza, Salomone, nel- l’Ecclesiaste,
sottolinea il tormento di spirito, a cui volonta- riamente si condanna il filosofo per amore
del vero: vi- vere filosofando (non
primum e poi deinde, perchè non si
filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità, senza filosofare) è lotta perenne, fatta di
conquiste e perdite, di elevazioni e
cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di
speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandez- za di pensiero e miseria di peccato, è sempre
alle prese con l’errore, sempre in
un’ansia di ricerca che fruga il vi-
sibile e l’invisibile: ora cade al livello della carne che ago- gna delizie di piaceri, ora si slancia alle
cime serene e lu- minose della pura
spiritualità; contraddizione vivente di sa-
pienza e stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed in- quieto viandante, che sorsa a mille sorgenti
ed ha sempre più sete. Alla fine,
spossato umiliato confuso confessa la
propria impotenza e grida all’ausilio di una forza supe- riore alla sua; invoca il vero che tanto ha
cercato, affinchè scenda sul suo cammino
e gli venga incontro, mercede di tanto
affanno. Deum
time et mandata ejus observa; hoc est
enim omnis homo (1). Perchè tanto peregrinare del viandante
indomabile? Per- chè egli, dice ancora
il Saggio, per la verità deve lottare
con se stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che a- spira all’invisibile immutabile vero,
affinchè vinca il senso cieco e
corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto d’inganni e raffinatezze, di sostituire al
vero le apparenze di esso. Così dirà
anche Platone, che fu filosofo. La saggezza
testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di de- finire l’essenza della filosofia e del
filosofare. (1) Eed., XII, 5. Filosofia e concetto di filosofia 51 2. — La filosofia scienza ” sui generis”
e sua autonomia dalle altre
scienze. Che cos'è in concreto
filosofia? È una scienza come le al-
tre? È una scienza sui generis? Ha un suo oggetto e quale? Filosofia non è scienza come tutte le altre.
Non lo è innanzi tutto perchè, come ben
notò Aristotele, si distingue dalle
scienze empiriche: essa, infatti (quando è vera filo- sofia e non tornaconto di falsi o
mezzi-filosofi) non ha fini utilitari.
In questo senso, filosofia, «la sapienza desi-
derata per se stessa e per amore del sapere », è scienza inw- tile: non serve a niente di estrinseco o di
estraneo alla ri- cerca della Verità in
sè e per sè. Coloro che scherzando di- cono
che la filosofia è « inutile » non si accorgono di tessere il suo più bell’elogio: inutile, e perciò
libera e liberatrice. E quando
avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uo- mini nel più profondo della loro profondità e
tutto sembra irreale ed assurdo, il
volgo, spregiatore del filosofo, chiede
a lui la parola che illumina e salva e nella filosofia intrav- vede i calzari con cui l’umanità cammina nel
tempo per secoli e secoli. Bellamente disinteressata, pura
contemplazione, spassio- nata ricerca
della verità va fiera della sua sublime e quasi
divina inutilità. Il filosofo è come il poeta: contempla e can- ta, adoprando princìpi e formulando giudizi;
« fa musica », secondo il comando che a
Socrate carcerato dava in sogno la voce
misteriosa (7). D'altro non si preoccupa, dice ancora Aristotele, «in quanto ha il fine in se
stesso ». Proprio perchè non è scienza
empirica, essa è conoscenza di tutto il
reale, dello spirito e delle cose, non nella loro accidentalità, in quel che hanno di empirico,
bensì nei loro princìpi e nelle loro cause.
Ma ogni altra scienza particolare non
cerca pur essa princìpi e cause e leggi? Sì, ma nessuna. studia «l’ente in universale », bensì « dopo
averne rescisso (2) Fedone, 60 e. 52 Filosofia e Metafisica qualche parte, di questa studia gli
accidenti »; solo la filo- sofia studia
«l’ente in quanto ente e le sue proprietà essen- ziali » (*). Scienza dell’universale dunque
e, come tale, di- stinta da ogni altra
empirica. Secondo lo stesso Aristotele,
non è la sola che apparten- ga alle scienze
dette « speculative » (distinte dalle « poeti-
che » e « pratiche »): condivide questa nobiltà con la fi- sica e la matematica. Ma non allo stesso
titolo: occupa il posto più alto nella
gerarchia; e i gradi sono segnati dalla
purezza dell’oggetto: la fisica studia le forme, ma nella materia; la matematica anch’essa le forme, ma
astratte; so- lo la filosofia le studia
pure e concrete (‘). Prima di Aristo-
tele, Platone aveva già stabilito una gerarchia delle scienze culminante nella filosofia o dialettica, la
quale ha come og- getto le Idee in sè e
per sè, senza alcun commercio col sen-
sibile (*). A parte la dottrina
aristotelica delle forme e la platonica
delle Idee, proprie dei due filosofi, resta fermo che la filo- sofia ha come oggetto non alcunchè di
empirico o sensibile, ma il
meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disin- teressata, speculativa, il cui oggetto è
l’universale, ciò che è e non appare;
non è ricerca di una singola verità; non si ri-
volge ad un oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere. Non è scienza come le altre la filosofia
anche per un motivo strettamente
connesso a quanto già abbiamo veduto. Le
scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito uma- no, ma nè una nè tutte insieme sono lo
spirito. Che la scienza sia spirito e lo
spirito scienza, è solo un’erronea
equazione di certo positivismo o neopositivismo, che non vide e non vede ancora che tra l’una e
l’altra non v'è dif- ferenza di
quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una
serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni (3) Mer., IV, I, 1003. (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a. (5) Repubblica, 521 c-535 a. Filosofia e concetto di filosofia 53 singola scienza), perchè è sintesi
originalissima, assoluta. Ec- co perchè
/4 scienza, in fondo, è le scienze, mentre /z filo- sofia non è le filosofie Di qui ancora la particolarità delle
scienze. Ogni sin- gola scienza conosce
secondo un modo suo proprio (Pascal
direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece, che ha il suo esprit inconfondibile, non
s’indirizza ad un aspetto, ma a tutto il
reale. Lo conosce nella sua inte- rezza?
No, e qui bisogna intendersi. Vi è la conoscenza comune, che non è scientifica nè filosofica,
quantunque sia il materiale sul quale
lavorano e la filosofia e la scienza; vi
è la conoscenza scientifica che conosce — secondo un suo metodo, suoi concetti e regole — un
aspetto del reale, astraendo dagli
altri; vi è la conoscenza filosofica che ten-
de a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo pone intero come oggetto di conoscenza, ma di esso
coglie solo un aspetto, meglio lo vede
da un punto di vista, ne ha una veduta
parziale. Per conseguenza le scienze colgono
parzialmente un aspetto parziale del reale; la filosofia co- glie parzialmente la totalità di esso. Perciò
quelle hanno un’astrattezza che la
filosofia non conosce, senza che ciò
obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore co- noscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico ed
economico. Per povero che sia, un
concetto è sempre una finestra sul
mondo; per limitato che possa essere il conoscere scien- tifico è sempre una veduta della realtà. Vi è
inoltre un problema fondamentale, in cui
scienza e filosofia hanno sempre
collaborato: il problema stesso della scienza.
Per un altro verso le scienze sono astratte: sono cono- scenza nel senso più angusto. Lo scienziato
applica un me- todo di ricerca ad un
determinato fenomeno; è guidato solo
dall’osservazione e dalla ragione; il sentimento è escluso. La filosofia no: è fondamentalmente
razionalità concreta, la razionalità che
è l’uomo intero, totale, che è ragione,
volontà, sentimento, cuore. Anche quando la filosofia è pu- 54 Filosofia e Metafisica ramente nozionale, formula scarnificata,
resta sempre alla pura ragione
filosofica una vita che è pur presenza di uma-
nità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono pro- fonde aspirazioni umane. Non così la scienza
che astrae dal sentimento, dall’umanità
dell’uomo, anche da ogni mo- tivo
finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi mec- canica: in qualunque caso, anche se
indeterministica, pre- scinde dalla
finalità del reale. La filosofia invece è sem-
pre teleologica: non è scienza dei fatti, ma dei valori; dun- que la sua essenza è veramente spirituale.
Perciò ancora è libertà. Inoltre, la
filosofia, essenziale ricerca della verità
oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale reste- rebbe anche se mai alcun soggetto pensante la
conoscesse o la cercasse, ha una sua
indeclinabile soggettività: la verità
universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cer- cando ed amando, faccio mia. La scienza
invece astrae dal soggetto come tale per
garantire quella oggettività imper-
sonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ in- commensurabile ricchezza della filosofia,
quella stessa dello spirito umano
filosofante, cioè amante, con tutte le sue for-
ze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si offre, dedica, sacrifica; quel senso
umanissimo proprio del- la « pagina»
filosofica, che spesso, sotto la veste frigida
e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima in- tera, la vita e l’anima, inconfondibili, del
pensiero specu- lativo. Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il
filosofo che si accinge al terribile
compito di riflettere sulla conoscenza
comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare la sua vita per esaminarla profondamente, non
più vissuta nella sua immediatezza, ma
posta come problema, il filo- sofo,
dico, s’identifica con la sua filosofia, la verità che è la sua vita. Ogni filosofo è una formula,
ma la sua non è un’astrazione; è tutta
la ricchezza, radicalmente, della sua
esistenza; la formula è la croce, su cui si crocifigge e Filosofia e concetto di filosofia 55 dalla quale perennemente rinasce. Lo
scienziato, invece, po- ne un'ipotesi:
questa può essere dimostrata falsa o vera,
restare semplice ipotesi. Nei tre casi — tranne che l’ipo- tesi non abbia una portata metafisica e, in
tal caso, o fa della filosofia con
esprit filosofico e non più scienza, o fa
della filosofia con esprit scientifico e non più scienza nè filosofia, ma pseudo-scienza e
pseudo-filosofia — Ja sua vita resta
quello che è. Per il filosofo non è così: che Dio esista o non esista, che il bene sia una
realtà o un'illusione, che il mondo
abbia un fine o sia il risultato di combina-
zioni meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste ipotesi, impegna la sua vita interamente,
importa vedere l’universo in un modo
radicalmente opposto ad un altro. Lo
scienziato che indaga non scommette se stesso; il filo- sofo sì, totalmente. Vi è nella filosofia
un’essenza di to- talità metafisica e
insieme religiosa che manca alla scienza.
Si è ancora sostenuto, muovendo dalla pregiudiziale cri- tica, che la filosofia non è la scienza, in
quanto questa ha dei presupposti che
accetta senza renderne conto. La filosofia
invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo i presupposti della scienza, ma ogni
presupposto, porre in questione se
stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qual-
siasi altra, è essa stessa un presupposto: la si può discutere in base ad un altro; e questo in base ad un
altro ancora e così via. La stessa
pregiudiziale critica, affinchè abbia
senso e possa essere assunta come punto di partenza del filosofare, presuppone l’oggetto della
ricerca, la verità: la critica ha senso
come giudizio sulla umana conoscenza
della verità, non come dubbio che investa la realtà stessa del vero, altrimenti essa vien meno al suo
compito e alla sua ragione d’essere, in
quanto c’è critica del conoscere solo
rispetto alla verità. Infatti, il problema dei limiti della conoscenza umana è tale rispetto alla
verità ed è problema della validità -del
conoscere solo in quanto c’è verità. La
posizione critica è consapevolmente critica, solo 56 Filosofia e Metafisica in quanto col e nel suo porsi implica e
riconosce la po- sitività del vero.
Dunque anche la filosofia ha i suoi
presupposti, quantunque sia meno dommatica della scien- Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma
nessun ma- tematico, per esempio, pensa
di far progressi nella sua scienza
cominciando dal mettere tutto in dubbio, anche che due e due fan quattro; e se ciò mette in dubbio,
non dubita del numero. Anche lo stesso
modo di condurre l’ indagine filosofica
implica dei presupposti. Del resto, non è solo un limite della filosofia o della scienza; lo è
del pensiero umano in generale, il quale
non può rendere conto di tutti i presup-
posti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono di- mostrabili. Vi è un metodo — scrive Pascal
quasi a principio del frammento
sull’Esprit géometrique — più eccellente di
quello della geometria, consistente: a) nel « non usare alcun termine di cui non sia stato prima spiegato
nettamente il senso »; b) nel « non
affermare mai alcuna proposizione che
non sia stata dimostrata con verità già conosciute; cioè, in breve, nel definire tutti i termini e nel
provare tutte le pro- posizioni ».
Bellissimo metodo, ma « assolutamente impos-
sibile ». Di dimostrazione in dimostrazione « si arriva neces- sariamente a dei termini primitivi, che non
si possono più definire e a principii
così chiari che non se ne trovano altri
che lo siano di più per provarli ». Se la filosofia, come ogni altra umana scienza, potesse spiegare tutti i
presupposti senza presupporne alcuno,
non sarebbe più filosofia, ma Sofia, la
Sapienza, di fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo
Dio, che non è filosofo. Gli uomini non
hanno la capacità (ed è qui la ragion
d’essere della filosofia) di costruire una qualsiasi scienza di ordine assolutamente
perfetto. 3. — Astrattezza del
dialettismo antinomico. Dunque, la
filosofia è scienza sui generis, ma l’esser tale non significa affatto che non vi siano altre
scienze, come han- Filosofia e
concetto di filosofia 57 no cercato
di dimostrare alcuni indirizzi filosofici contem- poranei cosiddetti idealisti. Torna il conto
soffermarvisi, an- che se
brevemente. Per il neohegelismo
italiano, per esempio, la filosofia è
scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche prin- cipio del reale, è il dialettismo antinomico.
Perciò: l’an- tinomia dialettica è il
principio di tutta la realtà; la filo-
sofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la filosofia, in quanto dialettica, è scienza del
reale. La logica aristotelica invece
(che lo Hegel e gli hegeliani chiamano «
astratta » per distinguerla dalla nuova detta «concreta ») assume come princìpi logici della
speculazione quelli d’iden- tità e
non-contraddizione; per conseguenza muove da un cri- terio logico speculativo diverso da quello —
l’opposizione dia- lettica — che è il
principio del reale; dunque non può cono-
scere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica «astratta», che procede per esclusione,
bisogna sostituire quel- la «concreta»,
che fa suo il principio del dialettismo antino-
mico. Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico della speculazione e il principio del reale;
anzi il principio 0 la legge del reale
(ciò che è reale) è lo stesso criterio logico
o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza speculativa, è l’espressione perfetta di
questa identità, la tra- sparenza
dell’Idea. Le altre scienze non sono
«scienza » in quanto assumono come
principii del reale leggi determinate e fisse, che esclu- dono la contraddizione. Dunque non hanno
valore cono- scitivo; astratte, si
lasciano sfuggire la concretezza del reale.
Scienza è solo la filosofia che è l’antinomia, la contraddizio- ne, fattasi realtà; perciò è scienza diversa
dalle altre e, co- me tale, decreta la
loro non-scientificità o empiricità, nel
momento stesso che conferma la sua sola legittimità scien- tifica.
Che la realtà presenti antinomie e contraddizioni, anche sconcertanti, è vero; ma è proprio la
contraddizione che pro- 58 Filosofia e
Metafisica voca il pensiero a vederci chiaro e a
cogliere la radice, dove i termini
opposti s'incontrano. La conoscenza, filosofica o scien- tifica che sia, è soluzione di
contraddizioni, componimento di antitesi
ad un livello più profondo dell’antitesi stessa. Co- me dice il Rosmini, l’universo è un grande e
sacro libro aperto da Dio davanti agli
occhi dell’uomo e scritto tutto di
quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le risolva. Dio « col permettere che insorgano
nella mente del- l’uomo delle dubbiezze,
o, per dir meglio, delle difficoltà, ...
riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla investigazione del vero» (9). La legge «
fissa » non è che soluzione, diciamo
così, « dinamica » della contraddizione,
del dubbio e della difficoltà che han provocato la mente a comporli. Dunque, anche la legge scientifica,
in questo senso, è sintesi conoscitiva,
come lo è il concetto filosofico, ferme
restando le differenze da noi poste sopra tra filosofia e scienza. Inoltre, se la realtà, almeno come appare, è
contraddizione, ciò non significa
affatto che l’essenza del reale sia l’antino-
mia. Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sul- l’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare
nella radice pro- fonda del reale
stesso, dove è il componimento di tutte le
antinomie; è indietreggiare di fronte alla metafisica, che è appunto la filosofia; essere ancora degli
empirici; è fare della filosofia una
scienza empirica (sia pure sui generis) come le
altre; è il residuato positivistico che l’idealismo trascenden- tale non è mai riescito a sciogliere,
nonostante i suoi sforzi metafisici. Nè
il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto, ma l’assolutamente concreto. Astratte son le
scienze non in quanto non riconoscono
l’antinomia, bensì in quanto non col-
gono (nè è questo il loro scopo) la soluzione ultima, il con- creto assoluto; ed una zona di astrattezza
permane, in questo senso, anche nella
filosofia, quantunque essa sia lo sforzo
massimo che l’umano pensiero possa fare verso il concreto assoluto, che è l’assoluto Essere e
l’assoluto Vero. (6) Teodicea, n.
9. Filosofia e concetto di filosofia
59 Ancora: considerare
l’antinomia come principio del reale e
criterio logico di speculazione è accettare il dato, la contrad- dizione, quell’immediato che pur l’idealismo
trascendentale, dallo Hegel in poi,
combatte e respinge in nome del pen-
siero che è mediazione. Ciò comprova che esso è ancora al di qua della filosofia, che è riflessione sul
dato, la contrad- dizione, non
accettazione di esso; componimento dell’anti-
nomico nell’identico essenziale, cioè conquista della metafisi- cità del reale. Con ciò l’idealismo si
preclude anche la strada d’indagare se
la soluzione ultima che fonda ed involge le
altre e pur le trascende, che chiude la serie delle antinomie — al di là della stessa conclusione metafisica
pur non più bipo- larizzata dalla e
nell’antitesi ma aderente alla identità del-
l’essere a se stesso — sia possibile alla filosofia oppure trascen- da la sua capacità. Figlio del Kant, respinge
proprio il senso profondo del
criticismo; non arriva al limite massimo della
conoscenza filosofica, dove il pensiero si arresta, e acconsen- tendo, si dispone a ricevere la verità
suprema; al punto in cui la filosofia
legittimamente e col suo assenso si apre alla reli- gione. Perciò la filosofia, così come è
concepita dall’ideali- smo, fa sua,
oltre che l’empiricità delle scienze, l’immedia- tezza della conoscenza comune e l’astrattezza,
propria an- ch’essa della scienza, di
voler ignorare o «risolvere » nel logo
razionale la religione, come se l’uomo non fosse un « animale religioso» e la religione suprema
verità non ridu- cibile all’ordine di
quella filosofica, senza che le contraddica.
Ma l’idealista (anche se non hegeliano ortodosso) ribatte che la nostra critica è ingiusta, in quanto
accettare come cri- terio logico della
speculazione il dialettismo antinomico non
significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è l’antinomia, che la logica astratta esclude
in base ai princìpi d’identità e
non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concre- tezza del reale, che è sintesi degli opposti;
la mediazione, cioè la riflessione
filosofica, è la sintesi concreta degli opposti
stessi, che, separati — ogni cosa è identica a se stessa e non 60 Filosofia e Metafisica può essere diversa da se stessa — sono
l’astrattezza impu- tata alle scienze.
Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per l’ideali-
smo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente, cioè come elemento dialettico rispetto ad una
nuova antitesi; dunque quel che è reale
non è la sintesi ma l’antinomia che si
sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad
essa (e che è il vero principio del
reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e
perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scor- nato: o conclude che vi è una sintesi
assoluta ed allora il principio del
reale non è più l’antinomia, ma questa sintesi
suprema dove ogni antinomia si risolve, e l’idealismo dialet- tico nega se stesso; o esclude che vi sia
questa sintesi e il principio del reale
ed il criterio logico è la contraddizione,
cioè sempre il dato, anche se retrodatato all’infinito. La me- diazione è solo provvisoria ed apparente; la
riflessione sulla contraddizione, che è
la filosofia, resta sempre riflessione
sull’antinomia, che è il dato.
Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia ad astrattezza. Identificato dialetticamente
il reale con il pensiero e questo con il
processo logico (« ciò che è reale è
razionale, ciò che è razionale è reale »), consegue che la filo- sofia è panlogismo, cioè riduzione (o
dissoluzione?) di ogni forma di attività
spirituale e della realtà tutta al puro cono-
scere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta ad astrarre da quanto nell’uomo non è ragione o
riducibile a questa, cioè a far propria
quell’astrazione che, come abbiamo
detto, va imputata alle scienze.
Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni — che, in verità, l’hanno inteso su molti punti
a modo loro — ha voluto essere
consequenziario. Spinto dal miraggio del-
l’assoluta immanenza, risolve l’essere nel pensiero, il pensiero nel pensare in atto — reale non è l’oggetto
del pensiero, ma il pensiero conoscente
l’oggetto — l’attualità del pensiero nel
mio pensiero, che non è il Pensiero ma, d’altra parte, non Filosofia e concetto di filosofia 61 è una realtà trascendente le singole
persone pensanti, e ar- riva alla
conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo,
la filosofia, scienza sui generis,
conoscenza per eccellenza e la sola rigo-
rosissima, si fa assoluta soggettività; priva di un’oggettività propria, svanisce come scienza, essa che si
era posta co- me la sola. Lo storicismo,
infatti, conclude che la filosofia non
esiste ed è metodologia della storia: « Un forte avanza- mento della cultura filosofica dovrebbe
tendere a questo ef- fetto: che tutti
gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice
che la filosofia è «scienza delle cose divine»; ma Aristotele non ha scritto di storia e dunque ha fatto opera
inutile e da non- filosofo ] giuristi,
economisti, moralisti, letterati, ossia tutti
gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e discipli- nati filosofi; e il filosofo, in generale, il
purus philosophus, non trovi più luogo
tra le specificazioni professionali del sa-
pere »; l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di attività spirituale (pedagogia, politica,
arte, religione, ecc.), mentre un
seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene che non c'è la filosofia come scienza a sè,
ma che è la scienza: la filosofia non è
una particolare forma di sapere (filosofia
« astrologica »), ma l'universalità di ogni sapere, sicchè non ha un campo autonomo d’indagine. Così
l’idealismo contem- poraneo, dalla
filosofia come scienza sui generis, autonoma
dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue pre- messe, che come scienza a sè non esiste, ma è
immanente ad ogni singola scienza. 4. — La filosofia come ricerca della verità
interiore e suo esito religioso. Torniamo all’antica definizione della
filosofia: amore del- la sapienza;
dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia è
Eros; ed Eros è figlio della Povertà e dell'Abbondanza; di- vino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio
perchè non 62 Filosofia e
Metafisica è possesso della Verità.
Platone va integrato con il Cristia-
nesimo; l’amore è sì aspirazione, ma è anche sovrabbon- danza e perciò non è imperfezione, ma atto di
perfezione: il Dio greco, perfetto, non
ama; se amasse non sarebbe Dio, in
quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano, perfettissimo, è essenzialmente Amore. La perfezione o l’essenza della filosofia è
la ricerca, lo sforzo di riflessione;
perciò non è la Sapienza divina: Dio è
la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come tale ha sempre dei limiti: sottintesi,
concessioni, presupposti, ipotesi, ecc.,
che la riflessione non riesce mai ad esplicare
interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La filosofia, che è sforzo, resta sempre
aspirazione al di là del limite; perciò
la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,
l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi particolari, la filosofia è sforzo di
riflessione su Dio, sua meta agognata ed
irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo
aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema, ma non lo sarebbe se non fosse, come tale,
richiesta di solu- zione. Il platonico
Eros filosofo, infatti, partorisce nel Bello,
nel Bene, nell’Essere; i suoi parti sono nella verità che il filosofo, dubitando e cercando, trova, scopre
dentro di sè: verità oggettiva innata. E
anche qui Agostino va oltre Pla- tone:
la verità abita în interiore homine, non come dato di cui si risveglia la memoria, ma come
presenza peren- ne, di cui la coscienza
non si accorge quando è distratta,
lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è presente anche quando non è ascoltata. Che cosa stimola e
guida la ricerca? La Verità non
conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la
vocazione; perciò la ricerca è almeno iniziale possesso del vero, a cui l’anima aspira. Che cosa sono i
veri che la mente trova? Perchè la voce
della verità, pur interiore a noi più di
quanto noi non lo siamo a noi stessi, può non essere ascoltata? E quando lo è? (7) S. Acostino, De vera religione, XXXIX,
72. Filosofia e concetto di filosofia 63 I veri che la mente scopre sono le
risposte che il filosofo dà alla verità,
testimonianza del suo amore; il loro insieme
è il mondo ideale, il regno dello spirito, il solo veramente reale. L’unica infinita verità è conosciuta
dall’uomo in alcuni dei suoi infiniti
aspetti: l’uomo conosce delle verità, non la
Verità; possiede il lume dell’intelligenza che, illuminandola, fa la ragione giudice delle cose di
esperienza. Ogni singolo vero è concreto
vero, sintesi dell’universalità dei principii e
delle determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i principii in sè sono astratti, rispondiamo
che è astratto e perciò irreale il puro
particolare (almeno dal punto di vista specu-
lativo), mentre è concreto e perciò reale il particolare illumi- nato dai principii, dove trova appunto la sua
verità e con essa la sua realtà: la
rinunzia della filosofia all’universalità è
la rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione. Evidentemente la determinazione è limitazione
e perciò noi conosciamo i veri, ma non
la Verità nella sua pienezza, nè i veri
quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola determinazione, nè tutte insieme possono
esaurire l’infinita possibilità di
conoscere che è il pensiero umano; perciò niente può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun
vero, tranne la Ve- rità in sè; dunque,
è fatto per Dio, perchè solo Dio, l’unum
necessarium, può appagarlo. La vocazione dell’uomo è la stes- sa vocazione della filosofia; non per nulla è
uomo per il pensiero. Il lume d’
intelligenza e di ragione, universale e
infinito, è la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza che egli disponga della capacità di tradurla
in atto; l’immagi- ne di quel che è
l’assoluto Vero nella sua realtà. Per questo
il filosofare è ricerca e sforzo, non la sapienza a cui aspira. D'altra parte, partecipando l’uomo della
verità, porta conna- turata la molla che
lo spinge ad essa, conficcata la spina che
lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo che sia, è sempre infinitamente corto. È la
sua grandez- za e la sua miseria;
l’umana tristezza, la magnanima no- bile
angoscia del filosofo e della filosofia, mestizia confortata 64 Filosofia e Metafisica dalla speranza che non può non nutrire
chi veramente ama il vero ed insita
nell’eroico sacrificio della ricerca indo-
mabile. Perciò filosofare è moralità: implica l’impegno ini- ziale che il filosofo assume di cercare ex
veritate; l’umiltà del soggetto pensante
di fronte alla verità che cerca, già ama
e verso la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula filosofica, un concetto speculativo è opera
della mente, che con esso esprime un
valore assoluto; perciò è risposta a Dio,
sorgente di tutte le verità, Verità creatrice dei veri, Libertà creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che
è la filosofia è dunque decisione di
diventar buoni, di amare l’essere dovun-
que s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filo- sofica è la stessa legge della morale. « Non
ci par degna del titolo di Sapienza
quella cognizione che nulla opera sul cuore
umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente del- l’uomo mortale senza accrescergli i beni,
senza diminuirgli i mali e senza
appagare o consolare almeno di non menzognera
speranza, i perpetui suoi desideri » (°). Se non è così, la filosofia non è più tale:
è la caduta del pensiero, di tutto
l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, inizia-
zione alla verità, come Platone dimostra in più parti dei suoi dialoghi e soprattutto in alcune pagine
immortali e bellissime del Fedone. Ogni
vero trovato è anche acquisto di una virtù
intellettuale o pratica, norma regolatrice del nostro pensare e del nostro agire. Nè alcun vero si può
trovare se lo spirito non si è disposto
a trovarlo, se non è passato attraverso il
difficile esercizio della purificazione. Perciò la filosofia è perfezionamento della natura umana:
mortificazione, non compressione, delle
sue debolezze. Non è contro la na- tura
umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un arido moralismo di astratta ragione, ma
contro le sue mise- rie, affinchè sia
autenticamente umana natura, e il filosofo
quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel Teeteto: libero dalle passioni e dagli
inganni sensibili e per- (8) Rosmini,
Teodicea, n. 4. Filosofia e concetto
di filosofia 65 ciò riscattato
all’autentica sensibilità; libero dalla passione della ragione, che pretende di essere il vero
e si ribella di esserne scolara e perciò
ricco di verace ragione e di profonda
umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello razionale irragionevole. Gli è dunque
essenziale l’umiltà, ra- dice e guida
della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura e di amare in sè il Creatore, testimonianza
dell’Essere e del Bene, che cerca ed
ama; di amare la propria esistenza come
dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è legge d’amore, rende morali l’intelletto e la
volontà ed ef- ficace l'impegno di
vincere le nostre passioni e debolezze;
ci dà il senso del sacrificio purificatore a cui siamo chiamati per ascendere o filosofare. Pertanto è
sacrificio che accresce l’umanità
dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna
e vigorosa la pianta. La
filosofia è volontà di sacrificio: chi filosofa è consa- pevole di esser vittima della Verità. Perciò
è rinunzia a quanto ostacola l’amore e
il possesso interiore dell’unum ne-
cessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora uma- nissima. Provocatrice di essa, la filosofia è
choc, scuotimento di tutto l’essere
umano, frattura con quanto non è essenziale
al suo essere o è d’impedimento al raggiungimento della ve- rità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca, vuol
conoscerLo, posse- derLo. La filosofia è
charitas naturale, che si esercita col lume
della ragione, datoci da Dio come il solo che ci faccia desi- derosi di Lui e sia condizione per
conoscerLo. La Grazia, in- fatti, è data
soltanto alla natura intelligente: il lume sopran- naturale al lume naturale. Ma l’uomo da solo, per filosofo che sia,
sacerdote e sup- plice della verità, non
riesce ad esserne veramente vittima: le
miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non del- l’antico — modello di condotta nella sua
superiore e superba . imperturbabilità —
ma del cristiano, coscienza vivente di
dubbi e fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, pe- rennemente insoddisfatto e perennemente in
attesa di rice- 66 Filosofia e
Metafisica vere il dono che cerca.
Egli non impersona nè la sapienza nè una
determinata scienza, ma lo sforzo sublime verso la sa- pienza, l’appello perenne della creazione.
Attesta la realtà dell'Essere, i limiti
del pensiero, il gran benedetto e il gran
maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla verità, fatto per la verità e che pure è più
spesso sofisma e dubbio, negazione e
distruzione. Si sacrifica in una formula,
il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in
essa. Sacrificio senza successo, che non
vanta possessi o dominii; silenzioso, per-
chè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità del- l’anima; perciò autentico, che non rimpiange
le caducità per- dute, non attende dagli
uomini niente di male o di bene e
conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene tanto desiderato folgora la mente, il
filosofo sa che non lo potrà esprimere;
è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il
sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta inedita per tutti, tranne per colui a cui è
donata. Vi è nella filosofia
un’interiorità profonda, insondabile, che non
si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad essere filosofo (non è un mestiere): non lo
saprà mai chi non lo esperimenta. 5. — La filosofia come sforzo di « ascesi »
ed itinerario a Dio. Da quanto abbiamo
detto filosofia risulta essere: a) amore
per la Verità o per Dio, essenza di sforzo; b) possesso di veri parziali; c) ciascuno dei quali è acquisto di
bene morale; d) perciò è purificazione
ed ascesi, potenziamento non nega- zione
dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza del- l’autentico valore della creatura e della
creazione. La sua essenza è dunque
morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha
la stessa finalità della religione.
Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma alla porta, bussa e chiede. Platone, forse
per primo, nel Fe- Filosofia e
concetto di filosofia 67 done, vide
esattamente il problema e ne fissò i termini. Fi- losofia e religione, egli dice, hanno in
comune il fine di li- berare l’anima dal
sensibile e dalla schiavitù delle passioni,
ma mentre la religione « si affida ad una divina rivelazione », la filosofia invece «segue il raziocinio ed
in esso persiste ininterrottamente,
attendendo alla contemplazione del vero,
del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi, e da ciò trae il suo vital nutrimento ». Ebbe
torto Epicuro di eliminare dall’ideale
della perfezione morale la via religiosa
e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la ragione, meglio il pensiero che è l’uomo
nella sua inte- rezza, ma l’oggetto
ultimo della ricerca speculativa è la ve-
rità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto
della sua aspira- zione. La filosofia lo guida fino alle porte di
Dio; è sforzo di ascesi non assunzione
alla verità. L'essere assunti è un dono gra-
tuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente amata; è la charitas soprannaturale che si dona alla
charitas naturale, al filosofare.
L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma
l'apertura a Lui, come dice il Blondel. Ascendere fino ad un certo grado è in nostro potere;
l'assunzione no; dunque la ragione è il
dono naturale necessario, ma non sufficiente
avente lo scopo preciso (ma quanto defettibile!) di spingerci alla conoscenza ed al possesso della
Verità. La filosofia, « liberatrice
dell’anima » (secondo un’espres- sione
agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio, cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non
dipende da essa: è Dio che salva; a lei
compete soffrire, combattere ed amare,
nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del suo problema assoluto è nella religione
rivelata, nel gratuito folgorar della
grazia. È la grande verità di Agostino: la fi-
losofia prepara alla salvezza (moralità), non dà la salvezza (religione). Il problema della morale è
filosofico, la sua solu- zione è
teologica: i due ordini sono immensurabili. La fi- 68 Filosofia e Metafisica losofia, autonoma come ricerca —
ritrovamento dei veri e conquista di
virtù — non lo è come soluzione finale,
come salvezza, acquisto dell’unum mecessarium, che costi- tuisce la sua essenza di sforzo. Una
filosofia assoluta- mente autonoma è
senza salvezza: amore senza speranza e
senza fede; i saggi greci erano « senza speranza », come dice San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal, «
la vraie nature de l’homme, son vrai
bien, et la vraie vertu, et la vraie
religion, sont choses dont la connaissance est inséparable ». Significa
che la religione neghi la ragione e con essa an- nulli e snaturi la natura umana? Niente
affatto. La fede eleva, non uccide;
Grazia non destruit naturam sed perficit et ele- vat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si
legge: « Che se la ragione scorge l’uomo
al limite della fede, essa a questa
ancora il consegna, come a più certa guida e a più sublime maestra. — Macchè! La fede stessa lo
riconduce poscia alla ragione, che diviene
maestra sicura e guida infallibile quando
dalla fede è confortata e sorretta ». Evitare i « due eccessi »: «esclure la raison, n’admettre que la raison
», in quanto « si on soumet tout à la
raison, notre religion n’aura rien de my-
sterieux et de surnaturel; si on choque les principes de la raison, notre religion sera absurde et
ridicule » (Pascal). La ragione si dona alla fede, perchè riabbia da
essa quel che ha perduto e non ha più; e
la fede è sempre generosa genitrice
d’intelligenza, via di spirituale salute e di eterna beatitudine. CapritoLo II « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA?
»(*) |. — La filosofia come ricerca «
perennis » della verità. Domanda
quanto mai imbarazzante, questa. Sì, « conce-
pire » non è propriamente « definire », ma ogni « concezio- ne » porta implicita una « definizione ».
Ora, è tutt'altro che facile, ancora
oggi, dire « che è filosofia ». Il matematico sa da tempo che è matematica, il biologo che è
biologia; noi fi- losofi non siam così
fortunati, se pure quella è una fortuna:
non sappiamo ancora che è filosofia — dico, non lo sap- piamo in due parole, alla spiccia, come due
più due fan quattro —. Gli scienziati
ridono dell’imbarazzo del filo- sofo, ma
hanno torto: la filosofia non può chiudersi in
una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e rifles- sione è infinito, perchè nessuna formula può
esaurirne, «comprenderne », la totalità.
Perciò nessuna umana ricer- ca è tanto
perennis ed universale quanto quella filosofica. La filosofia come scienza del reale nella
sua totalità, evi- dentemente, è scienza
sui generis; nell’ordine delle scienze
umane è la sola autonoma: il suo rimando — fondamentale e non accessorio, intrinseco e non estrinseco
— è solo ad un sapere di ordine non più
razionale e naturale, ma super-ra- (*)
Il « Centre International de Synthèse » di Parigi ha pubblicato nel fasc. di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle
Série) della « Revue de Synthèse » le
risposte a questo tema generale proposto alla discussione, alla quale
fummo gentilmente invitati a
partecipare. Il testo italiano che qui si ristampa contiene qualche pagina in più di quello francese. 70 Filosofia e Metafisica zionale e soprannaturale. Nessun'altra
scienza è autonoma: la storia, per
esempio, ad un certo punto rimanda al problema
del suo significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli, ecc.; le scienze naturali pongono
invincibilmente numerosi problemi (che è
il mondo? quale la sua origine? ha una fi-
nalità ? che sono tempo e spazio?) che non compete ad esse risolvere. A questi e ad altri interrogativi
è chiamato a ri- spondere il filosofo e,
se anche lo storico o lo scienziato, non
in quanto tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si può dire che la filosofia è l’unità delle
singole scienze, scienza prima e ultima,
in confronto alle altre che sono seconde
o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia è ricerca della verità; se ricerca, non è la
verità, l’ogget- to che la trascende e
guida. D'altra parte, abbiamo detto che
è scienza del reale nella sua totalità; perciò dobbiamo dire del reale in quanto verità. Ancora: la
verità è di ordine spirituale; dunque la
filosofia è scienza dello spirito che cerca
— e nella ricerca è impegnato tutto l’uomo — la Verità to- tale o il Reale in sè, che fonda e fa essere
ogni altra verità o reale finito; è il
cammino dell’uomo, che dotato del lume
d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad esso adeguato, a cui perennemente tende, senza che abbia ad
osare di pre- tendervi. 2. — La filosofia e suoi rapporti con la
sua storia e la scienza. Ma è tempo
che rispondiamo direttamente a quel che il
Centre ci ha gentilmente domandato: fornire argomenti pro o contro l'orientamento del pensiero del
Cenzre stesso, il quale sostiene «une
certaine conception de la philosophie dan ses
rapports avec son histoire et avec la science ». Nessuno certo vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo
sentiranno il bi- sogno di precisarne i
termini; infatti, è necessario sapere cosa
s'intenda per storia della filosofia per poter poi stabilire i rapporti tra essa e la filosofia.
Precisazione anche opportuna,
Filosofia e concetto di filosofia 71 se si pensa che, in Italia, per esempio,
l’idealismo neohege- liano ha
identificato filosofia e storia della filosofia al punto di risolvere l’una nell’altra e tutte e due
nella storia della cultura, onde la
filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che è lo stesso, per non esser nulla, per non
avere più un oggetto proprio; se si
pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese
ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili (tanto che qualche volta verrebbe voglia
d’inventarsi un posi- tivista per averlo
aperto e sincero avversario al posto di altri
che si chiamano impropriamente «idealisti» e «spiritualisti»), ha concepito la storia della filosofia come
pura esposizione «oggettiva » di sistemi
e di « fatti» riguardanti la vita dei
filosofi: ci ha dato compilazioni spesso filologicamente pre- gevoli, ma aventi il torto di mettere da
parte la filosofia. Similmente, per
stabilire i rapporti tra filosofia e scienza è
altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e quali i rispettivi campi di competenza, per
evitare che la fi- losofia non spinga il
suo distacco dalla scienza fino al punto
da negare a quest’ultima la qualifica di « scienza »; 0, al con- trario, che la scienza non pretenda ridurre
la filosofia a sem- plice registratrice
dei risultati scientifici; ad una particolare
scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; al- l’insieme delle scienze, come se fosse
l’insieme delle specialità; alla
conoscenza della natura fisica, sulla base dei contributi delle scienze particolari, come se essa
dovesse restringere la sua indagine alle
percezioni e alle leggi naturali, dimentica dello spirito e dei suoi problemi, cioè di se
stessa, che, come ricerca filosofica, è
già scoperta della realtà spirituale e, per sua in- trinseca necessità, conseguente
approfondimento metafisico del suo
destino. Detto ciò, credo che il nostro
punto di vista appaia già chiaramente
molto diverso da quello proposto dal Cenzre, il
quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia come « synthèse des connaissances» «science
plénière ». Se « sintesi» e «scienza
plenaria» qui significano composi- 72
Filosofia e Metafisica zione o
unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo accettare questa concezione della filosofia,
la quale ha pro- blemi propri, estranei
alle altre scienze, ad ogni singola come
al loro insieme, anche se per i suoi problemi possa ricevere lumi ma non soluzioni dai ritrovati
scientifici, che, nel loro complesso —
il più completo e sviluppato — non esauriscono
‘e non esauriranno mai il contenuto della ricerca filosofica, la plénitude a cui essa aspira e per la
realizzazione della quale tutto
l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine Science con la maiuscola richiama il non
lieto ricordo dei tempi del positivismo,
quando si divinizzava la scienza, la si
profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e religiosi, con grave danno per la serietà
della scienza stessa, fatta idolo da
adorare, tanto che le cosidette réveries della me- tafisica facevano bella figura al confronto
con le nuove réve- ries....
scientifiche. La Science, intesa come sapere assoluto e totale, non è più tale, ma idolatria e
superstizione, fanatismo della scienza.
Il controllo della filosofia fa sì — ed essa è chia- mata ad esercitarlo anche sopra ogni vero
filosofico pretenden- te a porsi come
verità totale — che ogni verità scientifica e la scienza in generale acquistino consapevolezza
dei loro limiti e rinunzino ad una
pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbi- traria extrapolazione e maggiorazione a volte
aberrante di una verità parziale assunta
a spiegazione di tutto il reale. Duplice
dommatismo: di estensione — il sapere scientifico è esplicativo di ogni aspetto della realtà —; e di validità
— esso è assoluto. Il controllo critico
della filosofia rileva l’inconsistenza di tale
dogmatismo e svuota il funesto mito illuministico dell’infal- libile scienza onnicomprensiva e della
coincidenza tra pro- gresso scientifico,
progresso culturale e miglioramento spiri-
tuale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il più basso livello di cultura e una rudimentale
coscienza morale e religiosa possono
coesistere con la tecnica più progredita:
nessuna scoperta o invenzione scientifica ha mai fatto pro- gredire nello spirito un solo uomo e mai ne
ha elevato di un Filosofia e concetto
di filosofia 73 solo millimetro la
statura morale; anzi la decadenza della
cultura occidentale coincide con lo sviluppo della scienza e della tecnica moderna e il suo precipitare
nel fondo dell’in- cultura con il loro
vertiginoso progredire. Conveniamo con
il Centre che, nella successione delle
filosofie, vi è « une logique interne » e che « dans le retour méme des doctrines, un progrès s'est accompli
». Ma, dire che il ritorno di dottrine
filosofiche segna un progresso — oggi
come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o ari- stotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti
o hegeliani, mentre non si può essere
più, per esempio, tolemaici dopo Copernico,
Galilei e Keplero — significa affermare inconfutabilmente che la filosofia è una scienza diversa dalle
altre, non riducibile ad alcuna di esse
o al loro insieme, con problemi, soluzioni e ve- rità proprie, per cui non può essere la «
science plénière » nel senso di « somma
» (quanta meccanicità in questa parola!)
dello scibile. Si è che, tra filosofia e scienza, prima di stabi- lire un rapporto quale che sia — anzi
affinchè esso possa essere fondatamente
stabilito — riteniamo sia necessario
fissare una differenza non di quantità, ma di qualità. La filo- sofia, infatti, è conversione qualitativa di
esperienze e di fatti quali che siano,
trasposizione di essi in un piano diverso, in
un ordine superiore. — La
filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti
a rovesciarne i termini, la concezione
della filosofia proposta dal Centre e
cioè: «que la synthèse des connaissances s’est
constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que posaient les philosophies, depuis les
origines, pour substituer peu à peu le
positif à l'a priori, les vérités de la science aux imaginations ou aux réveries de la
métaphysique ». Che è questa « sintesi delle conoscenze » che si
propone rispondere 74 Filosofia e
Metafisica alle questioni che
pongono i filosofi « depuis les origines » ?
Per noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari delle singole scienze che pongono domande ai
filosofi, affin- ché costoro — da
filosofi, con metodo filosofico e con spi-
rito speculativo — rispondano. Non è la scienza chiama- ta ad esercitare un controllo sulla filosofia
(e quando lo esercita, esso si rivolge
alle stravaganze pseudofilosofiche o ai
sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza, i cui principii sottopone a critica. Secondo
le parole sopra ri- ferite, sembrerebbe
che il compito della scienza, nei con-
fronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano immaginari i filosofemi escogitati dai
filosofi e fanta- stiche le loro costruzioni
metafisiche, gli uni e le altre da
sostituire con « verità scientifiche ». A parte tutto, è facile ribattere che le « imaginations » e le «
réveries » della scienza, come comprova
la sua storia, non hanno niente da invi-
diare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le « rèveries de la métaphysique » e le «réveries de la science
»; ma come si avrebbe torto a dire che
tutta la scienza sia fantasticheria,
così si ha torto ad identificare la metafisica con la strava- ganza, quasi si trattasse di una
manifestazione patologica della mente
umana. Difendere la metafisica, per noi, è di-
fendere l’essenza stessa della filosofia: se la metafisica fosse fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche
la filosofia; ma si può affermare
dogmaticamente che le metafisiche e la
‘metafisica siano senz'altro fantasticherie? Se così, è fanta- sticheria la filosofia che, dalle origini ad
oggi, è stata sem- pre metafisica;
fantasiosa la ragione umana che pone, come
suo bisogno fondamentale essenziale e naturale, l’esigenza insopprimibile di un sapere metafisico. Mi
faccio forte del- l’autorità dello
stesso Kant che, nella «Prefazione » alla
prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come i « sedicenti indifferenti » per la metafisica
« finiscono per cadere sempre in
affermazioni metafisiche »; e ne traggo la
conseguenza legittima ed evidente: essenzialità della filosofia Filosofia e concetto di filosofia 75 e inessenzialità delle scienze. Il
sapere scientifico è infor- mativo; la
scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il sapere filosofico è formativo e terribilmente
impegnativo: risponde ad un bisogno
totale dell’uomo totale. Si può non
essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo sofia non ci si può sottrarre. L'avventura
della scienza si può correre e non
correre; l’avventura della filosofia è
obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la richiesta essenziale della sua umanità
profonda. L’uomo è naturalmente
compromesso a percorrere l’itinerario della
filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel mo- mento essenziale della ricerca essenziale. Di
qui la «se- rietà » dell’indagine
speculativa, l’intransigenza del filosofo.
La filosofia è « molesta » a chi filosofa e soprattutto a quanti si adagiano nelle consuetudini e negli ordini
costituiti; per- ciò rischia sempre la
cicuta, mentre la scienza in ogni epoca
è circondata di rispetto e protezione.
Ancora:
che significa « substituer peu à peu le positif
à 1° priori »? Che
s'intende per « positivo » e per «a prio-
ri»? Positivi sono i « fatti», dicevano i positivisti; noi, me- glio, che reali sono quae facta sunt, ma tra
le cose quae facta sunt vi è anche
l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale
«è positivo », ma è l’«a priori » di ogni fatto; infatti, non vi è « fatto », almeno nel senso filosofico,
che non sia anche coscienza del fatto.
Un fatto positivo, diceva Pascal, sono
anche Dio, la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il po- sitivismo questi « fatti»? A forza di
sostituire il positivo a l’a priori, nel
senso in cui i termini sono usati dai posi-
tivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo, pericoloso all’esistenza stessa della scienza
e misconoscitore dei diritti dello
spirito. Non vi è fatto positivo senza espe-
rienza nel senso più esteso della parola, ma non vi è cono- scenza intellettiva del positivo — degli enti
finiti che costi- tuiscono il reale
cosmico — senza un 4 priori; e il reale
finito, per ciò stesso, rimanda al problema dei suoi prin- 76 Filosofia e Metafisica cipii costitutivi, cioè alla metafisica,
che nessuna verità scien- tifica potrà
mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la me- tafisica, anche se, per sua buona sorte, non
è positivistica. 4. — Ancora sulla
distinzione fra filosofia e scienza.
Per il Centre, il filosofo è un gran peccatore contro la filosofia senza essere un penitente. Infatti: « Il explique
le réel par l’imaginaire. Il explique le
tout par une partie du réel. Il fait
prédominer la tradition ou le sentiment sur la
raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme personnelle, il rend la pensée floue ou
obscure. Il est poète, artiste, métaphysicien,
ou mage, au lieu d’étre le pur inter-
prète des résultats acquis par l’effort collectif des généra- tions pensantes ». Dato il modo come il Centre intende la filosofia, si può spiegare questa severa
requisitoria contro il povero filosofo;
dato il modo come la intendiamo noi sono
necessari chiarimenti e precisazioni.
Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti in- sieme non sono la filosofia (perisca il
filosofo, ma viva la filosofia), è anche
vero che, storicamente, i filosofi e i loro
sistemi lo sono; pertanto, i terribili peccati dei filosofi sopra elencati, sarebbero anche della filosofia. E
allora, perchè ce ne occupiamo, se essa
spiega il reale con umagiazio, sa-
crifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi po- trebbe assolvere il filosofo e la filosofia?
Forse la scienza, che non sarebbe
soggetta a questi traviamenti? E perchè,
nonostante tutti i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne hanno mai potuto fare a meno, mentre, come
dice ancora Pascal, possono fare a meno
di tutte le scienze? Perchè quando
l’uomo si trova di fronte a se stesso e al problema della sua consistenza, cioè quando veramente
pensa in al- tezza e profondità
(metafisicamente, appunto) non chiede
risposta alla matematica, all’astronomia o ad altra scienza, ma alla filosofia? Filosofia e concetto di filosofia 77 La requisitoria di sopra è dunque da
rivedere. Se il filo- sofo « spiega il
reale con l’immaginario » è da riprendere
subito; ma se s'intende per «immaginario » ogni principio a priori o metafisico, è da consigliare di
spiegare il reale con- tingente e
particolare proprio con i principii necessari ed uni- versali. Se sottomette la ragione alla
tradizione e al senti- mento è da
ammonire che la filosofia è ricerca razionale;
ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al pari della ragione. Se è poeta ed artista non
è certo filosofo, ma non è poi sì gran
danno poichè anche arte e poesia, come
tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero filosofo; e quanto ad essere « mago », credo
che questa pa- rola siastata messa
accanto all’altra di « metafisico » solo
per spirito polemico, senza che risponda ad una afferma- zione positiva che si presti ad essere
discussa. Se poi cerca l'originalità ad
ogni costo, invece che la verità, è da con-
dannare senz'altro, ma come « un originale » non come « un filosofo »; così pure se spiega il tutto con
una sola parte del reale, facendo
un'’illegittima maggiorazione d i un principio
arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto, è respon- sabile la scienza, per esempio, quando
presume sostituirsi alla filosofia e
risolvere problemi che non le competono.
Secondo il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo non pecchi, bisogna che sia «il puro
interprete dei risultati acquisiti dallo
sforzo collettivo delle generazioni pensanti ».
In parole mie, questa affermazione significa: « perchè il filosofo sia filosofo e non erri bisogna che
smetta di fare il filosofo ». Una delle
due: o egli si limita a registrare i
risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filo- sofia e nemmeno storia della filosofia; o «
interpreta » i ri- sultati acquisiti nel
senso che li ripensa, li fa propri per acqui-
sire nuovi risultati, che segnano un avanzamento della ve- rità rispetto ai primi, e in tal caso è
filosofo, se i suoi risultati sono
filosofici e non puramente scientifici. Pecche-
rei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una 78 Filosofia e Metafisica tale concezione della filosofia si considera
pacificamente sor- passata, se la mia
conoscenza, credo sufficiente, della filo-
sofia francese contemporanea non mi autorizzasse a dire che anche in Francia non pochi e non certo
trascurabili pen- satori sono del mio
stesso parere. Del resto, anche gli stessi
teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rap- porti tra scienza e filosofia sulla base di
una diversa con- cezione di
quest’ultima. In due punti il Cenzre
insiste sulla concezione della filo-
sofia come « sforzo collettivo », come «coopération à un grand oeuvre collectif »; purtroppo, nemmeno
questa volta posso trovarmi d’accordo.
Se scienza e filosofia s’identifi-
cassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di atti- vità da tenere ben distinte (anche se non
separate), ProprlO questo è uno dei
punti di distinzione: la scienza è opera
sforzo collettivo, la filosofia opera di sforzo personale. Mi spiego: uno o più scienziati iniziano la loro
ricerca dal punto in cui l’hanno
lasciata i loro predecessori e la spingono fino
ad un certo grado per lasciarla nelle mani di altri e così via; nè i successori rimettono tutto in
questione, ma accet- tano, come
acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ ogget- tività della verità scientifica è impersonale
e perciò la scienza è sforzo collettivo,
opera di collaborazione ed è bene che lo
sia. Non così la verità filosofica: è oggettiva, ma non imper- sonale; è impegno totale del filosofo, è la
sua (personale) verità oggettiva. Essa
non può essere accettata z0ut court da un
altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione è opera del singolo, non di più uomini. Ciò
dimostra non il soggettivismo o il
relativismo della verità filosofica, ma
il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qual- siasi verità scientifica; prova l’assoluta
spiritualità della filo- sofia, il suo
carattere d’interiorità e, diciamolo pure, la sua capacità creativa: se il poeta, il filosofo,
lo scrittore non cominciano da capo, non
usano le parole più comuni come nuove di
zecca, come se mai nessuno prima le avesse usate, Filosofia e concetto di filosofia 79 non c’è poesia, non arte, non filosofia:
non c’è opera di creazione. Ogni uomo
non è la sua scienza, ogni filosofo è la
sua filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze insieme non sono l’umanità o spiritualità
dell’uomo; la filosofia lo è, anche se
non può dare la soluzione totale: al
limite massimo si apre ad una verità che non è razio- nale ma superrazionale, non di ordine umano, ma
divino o soprannaturale. Ciò chiarito, consentiamo col Centre nel
deplorare il sog- gettivismo radicale di
certa filosofia contemporanea che si
perde in puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti di tormento e angoscia, specie di barocco
filosofico. Ma non tutto l’esistenzialismo
va condannato (per esempio, alcune forme
di quello francese meritano la più attenta conside- razione) e, in qualunque caso, di esso va
conservato il senso della persona umana,
il richiamo all'importanza della meta-
fisica che sia tale e non pura descrizione fenomenologica e, quando ce l’ha, quell’anima religiosa che ha
il merito di aver contribuito a
recuperare alla ricerca filosofica. Ma
è tempo che concludiamo senza più oltre abusare
della ospitalità che ci viene concessa. Lo facciamo come noi possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione
perenne nella filosofia dovuta a
Platone: non le cose sono reali, ma le
Idee, e non le Idee aspirano al grado di realtà delle cose, ma queste al grado più alto di realtà delle
Idee. Reale e positivo è lo spirito e la
filosofia è scienza dello spirito e lo
spirito è verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata dal Cristianesimo che ai concetti di reale,
verità, persona, Dio ecc. ha dato ben
altro significato. c) La filosofia è solo
scienza che è sapere e saggezza; pertanto i « réveils reli- gieux » e le « réveries mystiques », verso
cui il Centre sembra tutt'altro che
tenero, sono, i primi quanto mai benefici an-
che per una maggiore consapevolezza e coscienza critica della filosofia e le seconde tutt'altro che
«réveries». Da ultimo, diciamo che di
Scienza con la maiuscola non ne 80
Filosofia e Metafisica conosciamo
nell’ordine umano: vi è solo quella di Dio.
L’uomo, dice Pascal, non è capace di una scienza di ordine assolutamente perfetto, anche se, direbbe il
Blondel, vi aspi- ra necessariamente ed
incoercibilmente, ma sempre ineffica-
cemente. Certo, la scienza deve affermare la sua verità, ma non « sa vérité souveraine », perchè qualcosa
la sorpassa infi- nitamente: se è
scienza naturale, la sorpassa quella filosofica; se filosofia, la Scienza di ordine extra e
superfilosofico. CapitoLo III FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE Il filosofare implica due termini: la
ricerca e la verità, il soggetto
cercante e l'oggetto cercato. Un’analisi del con- cetto di filosofia s’identifica con quella di
questi due termini. Che è ricerca? Per definire questo termine è necessario
tener presente anche l’altro con cui è
in rapporto intrinseco e necessario; e
la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è
essenzialmente, assolutamente,
universalmente, necessariamente: chi cerca la
verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza;
dunque cerca il tutto dell’oggetto; non
può non cercarlo che con il tutto del
soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno di tutta la vita spirituale del cercante, che
è esso stesso im- pegnato nel cercato:
come realtà spirituale, e per il grado
di verità o di essere che è, egli non è fuori ma dentro l'oggetto cercato, la verità. Chi cerca,
dunque, cerca con’ tutto se stesso: con
il corpo e con lo spirito, con i sensi e
con la ragione, con l'intelligenza e con la volontà. Io cerco il positivo assoluto (l’essere-verità) con
tutta la positività di cui la mia natura
umana è capace. Cercare la verità o filo-
sofare è perfecte quaerere: non una astrazione che opero su di me, ma una concentrazione di tutto il
mio essere nel- l’atto del cercare.
Verità è unità; cercarla è orientare verso
82 Filosofia e Metafisica lo
stesso punto tutte le capacità e le risorse del cercante, è come raccogliere ed unificare tutti i suoi
atti; dunque la filosofia come ricerca
della verità è movimento di conver-
genza integrale dell’uomo totale verso la verità integrale. Movimento di coesione e compattezza, genera
la solidarietà di tutte le forme della
vita spirituale: quale che sia la ve-
rità che cerco (il bello, il bene, il vero ecc.), come verità presenta sempre gli stessi caratteri
dell’immutabilità, uni- versalità e
necessità; richiede pertanto lo stesso atteggia- mento spirituale; e quantunque a ciascuno di
questi veri s'indirizzi una forma
particolare di attività — la sensibilità
al bello, la volontà al bene, l’intelligenza al vero ecc. — tutto lo spirito collabora alla sua conquista e
scoperta. La filosofia come ricerca
della verità è dunque la stessa vita spirituale, impegnata nella ricerca totale della verità
totale. Questa la filosofia 4 parte
subiecti; e a parte obsecti? Lo spirito
che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto
per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è naturalmente indirizzato. Pertanto
l’espressione: «lo spirito che cerca la
verità cerca se stesso» non è affatto vera se
significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso che lo spirito trova ed attua tutto se stesso
nella verità: non è vera nel senso
dell’« immanenza », bensì in quello del-
l’« interiorità ». Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità e l’universalità del vero e cioè sempre che
esso non è lo spi- rito cercante, ma il
suo oggetto, dallo spirito distinto e indi-
pendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il reale in quanto reale è verità. Dunque l’oggetto
del pen- siero è reale, ma non l’ente in
senso generico, bensì l’ente in quanto è
suo oggetto e dunque verità. Ma il reale come
verità è il reale come intelligibile, come ciò che è vero; dun- que: realtà è verità; verità è ciò che è
intelligibile; l’intelli- gibile è
l’oggetto del pensiero. È la verità perenne dell’idea- lismo oggettivo: l’oggetto concepito in
termini di verità 0 realtà
intelligibile. Il soggetto non può essere concepito se Filosofia e concetto di filosofia 83 non in termini di pensiero; il suo
oggetto non può essere pensato e
conosciuto se non in termini di verità; dunque, la filosofia, a parte subiecti e a parte
obiecti, si definisce come la scienza
della vita spirituale. Ma a questo
punto è necessario approfondire ancora il
rapporto pensiero-pensante verità-pensata, gerarchico, di di- ndenza. Se lo spirito « tende », « aspira »
alla verità, ne è attratto e
dall’interno stimolato ad essa, significa che il suo oggetto gli è superiore; se è desiderio di
verità non è essa, che è eterna ed
immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè
immutabile è l’aspirante al possesso del divino, che gli è interiore come riflesso della Verità in sè
che lo trascende. D'altra parte, se lo
spirito la cerca vuol dire che è fatto per
la verità; in questo senso e per questa sua aspirazione è anch'esso qualcosa di divino: divino eros
della divina verità. Da ciò consegue che
non è il pensiero che pensandola la
pone, ma è la verità che pone il pensiero; dunque è prima ed indipendente da esso, è anche quando non è
pensata, anche se nessun pensiero la
pensasse. Infatti, era prima che le
menti umane fossero; e le menti umane non ci sareb- bero state se la verità non le avesse
create. Ma com'è possibile una verità
non pensata, se non c’è verità se non
per un pensiero che la pensa? Esatto, e
da ciò consegue che se la verità è eterna —
madre e non figlia dei singoli veri che pensano le menti umane — essa è sempre stata, è stata sempre
pensata, ma solo il Pensiero eterno ed
immutabile può eternamente pen- sare
l'eterna ed immutabile verità; dunque vi è il Pensiero eterno ed assoluto con cui s’identifica la
Verità eterna ed as- soluta; esiste la
Mente divina, il cui oggetto eterno ed im-
mutabile è la verità, anzi è essa stessa la Verità eterna ed immutabile, in quanto in essa il pensiero e
il suo oggetto s’identificano; esiste
Dio come verità eterna ed assoluta; Dio
che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere è verità, Pensiero, Mente.
84 Filosofia e Metafisica La
Mente-Verità assoluta crea — la verità è feconda per se stessa — menti o spiriti fatti per la verità,
ma proprio per questo le menti create
non sono la verità: Dio la Mente
pensante, gli spiriti le menti pensate alle quali per natura è essenziale pensare la verità loro oggetto,
cercarla e sco- prirla. Nella mente
creata la verità non s’identifica con essa;
dunque la verità come è data alla mente creata non è la Verità come è in sè; è come verità astratta
della Verità, im- magine reale di essa.
Nel mio pensiero leggo la verità, come
nello specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine non ombra, verità partecipata e perciò
conosciuta da me in maniera diversa da
come è conosciuta dalla Mente di- vina;
ma come verità è anch’essa assoluta.
L'immagine è nello specchio; dunque la verità data alla mente finita è in essa, ma, a differenza
dello specchio, la mente ha coscienza
del vero che intuisce come suo oggetto;
perciò è nella verità che le è interiore e la trascende. Non è la mente che giudica la verità, ma è la
verità che la fa capace di giudizi veri,
cioè necessari ed universali. La ve-
rità è sempre divina; umana è la sua scoperta attraverso la ricerca; umano è il leggere in essa. Ecco: leggere nella verità, raccoglierla
nella mente, fare che l’una sia presente
all’altra; è anche un raccogliersi di
tutto l’uomo, concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma rac- cogliere la verità e raccogliersi in essa è
acquistare coscienza di noi in un
duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che essa è in noi senza essere noi, pur essendo
la profondità di noi. Dunque leggere che
è filosofare: l’umano cercare e scoprire
è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo sofia è l'intelligenza della verità, la mente
pensante vi- vente nella sua luce. La mente non può pensare alcun oggetto se
non in ter- mini di verità, di ciò che è
intelligibile; dunque, quando penso
secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-. rità che è in me, e non è la Verità in sè:
non posso pensare Filosofia e concetto
di filosofia 85 me stesso nè
pensare (conoscere) il mondo se non in termini
di verità. Il pensiero passa sempre per la verità quale che sia l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie
nella sua verità, che è la sua
realtà. Ma allora pensando io penso
Dio, sempre, anche quando non Lo penso,
anche quando penso che non esiste; infatti,
quando penso e conosco un vero, penso e conosco quel che Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia
mente fosse mente, cioè capace di
pensare e conoscere. Dunque, io penso
perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non faccio essere la verità, ma essa fa che io
sia un essere pen- sante la verità,
quella che a me è consentito pensare e
conoscere, ma sempre tale che la sua presenza mi obbliga 2 trascendermi, a riconoscere che è più di me,
non è da me; è dalla Verità in sè o da
Dio, da cui è stata estratta per essere
donata alla mente creata, intermediaria tra la crea- tura e il Creatore. La verità che è in me è
la molla che mi spinge a trascendermi e
a trascendere essa che pur mi trascende,
mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni mente, rende insonne la mia ricerca. Se è così, la filosofia come ricerca della
verità è scienza di me che cerco la
Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io
e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’iden- tifica con la ricerca sulla vita spirituale
finita e creata che, scoprendo in sè la
presenza mediata della Verità assoluta
creante, si volge alla ricerca essenziale e totale dell’Essere infinito.
PARTE SECONDA CONCETTO DI
METAFISICA E SUA PROBLEMATICA
INTERNA CapritoLo I LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI l. — «Cris» ed essenzialità della
metafisica. Una banalità dire che il
concetto di metafisica è il più
complesso dei concetti speculativi, se il semplicismo di alcuni pensatori moderni e contemporanei non avesse
disinvolta- mente concluso che la
metafisica è una pseudoscienza filo-
sofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente esca- vazione critica che il pensiero, implacabile,
ha perseguito da Cartesio ai nostri
giorni. Chi fa questo discorso, defini-
tivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di aver concluso un discorso infinito si crede in
possesso di una sem- plificazione
estrema del concetto di metafisica e di un ap-
profondimento così totale di esso da poter affermare che metafisica non è, che è sogno — opprimente o
generoso — di un particolare filosofare
ormai irreparabilmente tramon- tato. Se
davvero i negatori della metafisica fossero riesciti a concludere definitivamente il loro
discorso, bisognerebbe considerarli
metafisici così consumati da consumare senza
residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da
far trasparire il suo vuoto e il suo
nulla: conosciuta e sondata profonda-
mente è risultata nient’altro che una tenace illusione pro- dotta dal dommatismo razionale. Altri
pensatori, meno im- prudenti, si sono astenuti
o hanno creduto di astenersi dalla
metafisica: non posizione antimetafisica, ma ameta- % Filosofia e Metafisica fisica, d’indifferenza o di
agnosticismo. Ma gli uni e gli altri si
sono addossati la responsabilità — conseguenza in- vincibile della loro posizione — di
considerare il problema metafisico come
non essenziale e necessario — e perciò acci-
dentale e contingente — alla filosofia. Infatti, se è possibile filosofia senza metafisica, questa non
risulta essenziale alla prima: solo per
accidente, contingentemente e quasi per una
sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha con- siderato fondamentale e ad essa connaturato
il problema metafisico. Libera ormai di
questa pesante ed inutile sopra-
struttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità «critica » e « problematica » che il suo
fondamento essen- ziale è altrove. Evidentemente per gli anti e gli
a-metafisici non si tratta di affermare
che alla filosofia non è essenziale questa o quella soluzione del problema della metafisica, ma
di concludere che non le è essenziale la
metafisica tour court. Alla filosofia è
essenziale, per esempio, il problema politico o quello del- l’arte o dell’economia, che l’umanità non
potrà non porsi fino a quando penserà,
ma non le è affatto essenziale il pro-
blema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi, da quando gli si è dimostrato che la
metafisica non è, non è scienza e non è
vera filosofia, di diritto e di fatto non ci
dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è perchè egli, oltre che di ragione, è dotato
di « immagina- zione »; per maturo che
sia, conserva sempre un grado irri-
ducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè non riesce mai a guarire dalla sua tendenza ad astrarre.
Ma proprio ciò prova come la metafisica
sia il prodotto di attività inferiori e
come la sua storia si possa identificare con quella degli errori dell’immaginazione e del dommatismo della
ragione astratta, ridurre magari ad un
capitolo della psicopatologia. In breve,
si afferma: a) si può (si deve) porre e risolvere il problema dell’arte o quello della economia o qualsiasi
altro, senza che sia affatto necessario
preoccuparsi della soluzione del .
Concetto di metafisica 9I
problema di quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo ha più interesse a sapere quale sia la forma
politica più giusta o meno ingiusta o se
l’arte sia un'attività alogica o logica,
anzichè conoscere che cosa egli sia, donde venga, che ci stia a fare nel mondo, dove vada.
Questi sono i pro- blemi inessenziali e
non necessari, senza dei quali, e meglio,
si fa — sempre concretamente, seriamente e con mente sana — della vera filosofia, poniamo, intorno
alla repub- blica o alla monarchia,
all’utile o al piacere! Antimetafisici e
a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della metafisica e si può dar loro ragione quando
si tratta, per esempio, di certe
metafisiche idealistiche o materialistiche,
ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettan- tismo vacuo dell’antimetafisica moderna e
contemporanea. Infatti, solo per
aberrazione o errore della mente (da al-
cuni amato e vagheggiato con lunghi pensieri) si può ne- gare che l’esigenza metafisica sia naturale,
essenziale e uni- versale. Già Kant
nella Prefazione alla prima edizione della
Critica della ragion pura osserva che «i sedicenti indifferenti finiscono per cadere sempre in affermazioni
metafisiche »; e il Gentile — il solo
dei neohegeliani italiani contemporanei
che abbia avuto mente di filosofo — rileva (La riforma della dialettica hegeliana, Messina, 1923, II
edizione, p. 110) che «c’è un momento
immancabile nello sviluppo ideale dello
spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della filosofia: quel momento in cui il contrasto
della morte con la vita, la differenza
tra il non essere e l’essere, spinge
l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? ». Questa domanda, che è la posizione più efficace del
problema metafisico, «suona nei secoli,
e riassume tutta la storia del pensiero
umano » (ici, p. 114). Perciò Aristotele, che
di essa ha dato la formulazione più profonda e più sem- plice, pone a fondamento di tutte le scienze
il problema che si aggira « intorno
all’ente in quanto ente» (#e9ì 705 4 +
” ovtos dv). 92 Filosofia e Metafisica Il problema metafisico si presenta così
essenziale al pen- siero (e perciò alla
filosofia) da fare osservare da qualche
studioso che, in fondo, tutti ammettono un concetto del reale, anche coloro che negano la metafisica
e si dichiarano antimetafisici: tutti
consideriamo realtà, ha scritto recente-
mente Mons. Olgiati in un articolo chiarificatore (Il con- cetto di metafisica, in « Riv. di filos.
neosc. », fasc. IV, 1945, p- 226) quel
che è in qualche modo, cioè che non è il puro
nulla; e perciò tutti concordiamo che qualcosa di reale c’è (ivi, p. 228). Dunque, « persino i negatori
della razionalità del reale, come
altresì i negatori della metafisica, fondano
le loro dottrine, e le vivificano in ogni momento di esse, su un loro concetto di realtà » (01, p. 232).
Se ogni sistema ha un suo concetto della
realtà in quanto realtà e « non può non
averlo, sotto pena di venire escluso dal mondo filoso- fico » e se tale concetto lo hanno tutti (chi
dice, per esempio, che la realtà è
storia, concepisce la realtà come storia; chi
tutto riduce a problematicità, definisce la realtà come proble- maticità), « ne risulta che ogni filosofo ha
una sua meta- fisica, non essendo
quest’ultima null’altro se non la scienza
che studia la realtà în quanto realtà » (p. 242). Se fosse vero quello che scrive Mons.
Olgiati — e vorrem- mo che lo fosse —
non si dovrebbe parlare, ormai da tempo
non breve, di una crisi della metafisica in generale, nè di posi- zioni negatrici di essa, ma soltanto della
crisi della classica metafisica
dell’essere e del conseguente succedersi di altre concezioni del reale in quanto reale, cioè di
metafisiche diverse da quella e tra
loro. A noi sembra invece che nel
pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio rifiuto e mépris della metafisica (non di
questa o di quel- la) e chi nega la
metafisica sic et simpliciter e si dichiara
antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire soltanto: «io nego la metafisica dell’essere
o quella del pensiero o altra che sia,
ma sono ugualmente metafisico,
Concetto di metafisica 93 in
quanto concepisco la realtà in un certo modo». Chi, per esempio, dice che il reale è il divenire
storico o la pura problematicità, nega
che esiste un principio assoluto, che al
di là del mondo «fisico» — nel senso di « questo » no- stro mondo — vi sia alcunchè, come pure nega
che in « que- sto» mondo vi siano enti o
sostanze che soztostanno alla pura
fenomenicità. Dal punto di vista dell’Olgiati, invece, la polemica antimetafisica, dal Kant e dallo
Hegel in poi, sarebbe puramente
apparente; in realtà si tratterebbe di una
serrata discussione tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi diversi di concepire la realtà in quanto
realtà. Al contrario, si tratta di
posizioni (se siano da considerare filosofiche o no è altro discorso), le quali negano
decisamente ogni prin- cipio assoluto,
qualcosa al di là del nostro mondo o al di
qua o al di sotto di quel che il divenire manifesta nel suo divenire; ammesso pure che è, negano che sia
conoscibile e dunque negano la
possibilità di una metafisica come scien-
za, cioè la validità di una risposta filosofica quale che sia alla domanda di che cosa è il reale in quanto
reale. E questo è negare senz'altro che
vi è una metafisica e non un sem- plice
contrasto su che cosa è realtà per il fatto che si nega l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale
che sia. Noi crediamo, dunque, che il
problema vada impostato in altro modo e
precisamente: 4) la filosofia come pura pro-
blematicità o si risolve nella contraddizione in termini di con- siderare il problema come soluzione — la
soluzione del problema è porre e
chiarire il problema stesso —; o, nel
porre i problemi, porta in sè invincibilmente l’esigenza e gli elementi reali della soluzione, cioè
delle risposte per cui i problemi han
senso e trascendono lo stesso problematiz-
zare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è necessario un principio assoluto, che la
ricerca può scoprire ma non creare; la
guida, trascendendola, anche come ri-
cerca dello stesso principio assoluto. In tal modo, la filosofia 94 Filosofia e Metafisica come problematicità rivela essa stessa,
intrinsecamente, l’esi- genza metafisica
(e non solo l’esigenza) del principio pri-
mo ed assoluto del sapere. 5) Similmente la filosofia come storicismo assoluto o divenire perenne, o si
risolve nella contraddizione in termini
di considerare l’essere come dive- nire,
oppure, nel momento stesso di porre il problema del divenire, sporge all’essere che il divenire
fonda e trascende: fa scaturire
irresistibilmente l’esigenza di un principio (e
non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del divenire stesso e della storia, che non è
storico nè dive- niente. La filosofia
del divenire, quale richiesta intrinseca al
suo stesso dinamismo, pone anch'essa l’istanza metafisica. c) Da ultimo, le filosofie immanentistiche in
generale, pur non potendosi dire tutte
anti o ametafisiche, quando hanno
perseguito e sviluppato fino in fondo il principio o demone dell’immanenza, solo arbitrariamente (e
dunque non razio- nalmente) possono
concludere per la sua verità, in quanto
qualunque sforzo, il più impegnato e critico, di autosuffi- cienza della natura e dell’uomo non è
sufficiente a vincere la consapevolezza
della nostra insufficienza e della contingenza
del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ric- chezza del nostro spirito e una sua
detonalizzazione — so- lo una concezione
non razionale e non razionalmente giu-
stificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque astratta — ci possono convincere della nostra
autosufficienza ed adeguazione alla
natura, che, a questo prezzo, è la no-
stra degradazione al finito senza aspirazione d’infinito, ad un destino puramente terreno, cioè di nulla.
È come se per dimostrare che gli uccelli
non son fatti per volare, taglias- simo
loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento in- naturale non spengerebbe in essi il desiderio
istintivo del volo. L'esigenza della
trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in
lui sono tutti i dati sufficienti e necessari per dimostrarne l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere
al posto del- . l’uomo reale e concreto
una sua figurazione immaginaria o
Concetto di Metafisica 95
un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso frutto della immaginazione e dell’astrazione.
In questo sen- so, conveniamo con mons.
Olgiati che anche — soprattutto — l’indagine
intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del
principio essenziale del reale, che non
può farsi con procedimento astrattivo, nè per enu- merazione (p. 229). Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una
prima con- clusione: non ogni negazione
della metafisica, anche la più decisa, è
sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o
ametafisica porta in sè immanente,
intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile
ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o
ametafisica per difetto di
approfondimento critico della natura del pensiero e del reale. Così non poche posizioni
speculative ci si pre- sentano, non come
tante diverse antimetafisiche pur meta-
fisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci — meglio come un solo sforzo che muove da diversi
punti di vista — di abolire la
metafisica, che rinasce, invece, dalla sua stessa negazione, invincibilmente. I tentativi
antimetafisici ci ri- sultano, dunque,
essi stessi, tante prove della ineliminabilità
dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti e l’ametafisica non possono e non potranno
mai escludere la possibilità della
metafisica, la quale è possibilità assoluta, il
risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica. E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo
accennato: quando dite all'uomo: «tutto
è problema », risponde: « sarà vero, ma
io son fatto per la soluzione »; « tutto è qui », confessa: « ed in me è reale e naturale l’ aspirazione
all’al di là »; « tut- to l'universo è
tuo », aggiunge: «ed io sono più dell’uni-
verso e vi è troppa dignità in me per potermene acconten- tare; anche se tutto l’universo fosse mio non
basterebbe perchè fossi me stesso e in
me stesso capissi fino in fondo »; « tutto è
relativo », obietta: « ed io sento di esser fatto per l’assoluto, % Filosofia e Metafisica so di avere in me stesso una presenza di
assoluto »; « tutto è divenire »,
protesta: «la mia vocazione è l’essere perchè
l’essere è la mia radice, il principio del mio pensare, il de- stino della mia esistenza ». Il discorso sul
finito non si con- chiude mai su se
stesso, ma rompe e dilaga, come la prima-
vera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino il discorso sul Nulla sottintende sempre un
silenzioso e per- ciò interiore,
appassionato e cocente discorso sull’Essere: chi dice: « nulla è di ciò che è », intende dire:
« solo l’eterno è reale ». L’assoluto
nihilismo è una disperata ma potente
apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi, piuttosto che con- siderare metafisiche anche le filosofie
antimetafisiche, pre- feriamo
considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano nelle loro istanze antimetafisiche delle
filosofie, in quanto, dove manca metafisica,
manca filosofia, che è indagine sul-
l’essenza della realtà in quanto realtà, ricerca del principio assoluto, risposta ai problemi che investono
la nostra ori- gine, il senso supremo e autentico
della nostra vita, il destino della
nostra esistenza. 2. — Metafisica e
trascendenza. Le istanze della interionità.
Questo discorso sottintende una equazione: metafisica uguale trascendenza, perchè tale è anche la
filosofia. Se filo- sofare è cercare,
l'oggetto della ricerca trascende la ricerca
stessa; se filosofia è scoperta del principio assoluto, questo fonda e condiziona ogni filosofare e perciò
trascende il pen- siero che indaga e
desidera scoprire; se filosofare è inappaga-
mento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso, è già trascendenza implicita e aspirazione
esplicita ad una realtà da e per cui è
tutto ciò che è ('). Perciò alla meta-
(1) L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in « Salesianum », genn.-marzo
1948) trova questa mia definizione della
metafisica « inadeguata perchè si ferma soltanto sull’esigenza della trascendenza, la quale
costituisce certamente l'elemento riso-
lutivo e il punto di arrivo di ogni metafisica autentica, ma non è tutta
la metafisica ». Esatto, purchè si tenga
fermo che non vi è metafisica senza tra-
Concetto di metafisica 97
fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-uni- versale e una relativa-particolare, di cui la
prima è il fon- damento. Di qui la
distinzione tra il sapere assoluto e un
sapere relativo, il primo condizionante ogni altro sapere, che da esso dipende. Parmenide per primo («
padre nostro » lo chiama Platone), in
maniera chiara ed esplicita, distinse la
realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli enti molteplici, il mondo dell’Essere puro
dal nostro conta- minato dal non-essere,
questo condizionato dall’altro, infe-
riore. La prima decisa affermazione del reale assoluto compor- ta, dunque, il « ridimensionamento » del
reale relativo, cioè è nata dalla
constatazione della contingenza e perciò della in- sufficienza di « questo » mondo e dunque
dalla necessità del pensiero di
trascendersi in un principio assoluto, fondamento di ogni reale e di ogni sapere. Parmenide è
la prima rivela- zione, in sede
filosofica, del pensiero a se stesso, l'esplicita consapevolezza che la filosofia o il pensiero
ha come suo oggetto di naturale
aspirazione un oggetto assoluto. Platone
raccolse l’eredità della netta distinzione tra « fisico » e « me- tafisico », tra il « sensibile » e l’«Idea »
o forma universale di ogni realtà
particolare, tra le Idee che essenzialmente sono ( 6vttws dvra ) sempre identiche a se stesse
( dei abtà x27 aòtà pévovta) e i
sensibili che sempre divengono e mai non
sono. Stabilì una gerarchia ancora più decisa: il « metafisi- co » sovrasta il « fisico », come ciò che è
assolutamente ciò che è relativamente e
condizionatamente, come l’eterno il
temporale; e sulla base di questa gerarchia fissò il fine del- l’anima umana nella « aspirazione » al reale
in sè, nell’Eros per il suo destino
ultraterreno, nella contemplazione dell’e-
terno Essere. Aristotele si propose di stabilire una relazione ontologica tra i due mondi, ma co nservò il
platonismo del principio assoluto della
scienza universale dell'ente in quan-
scendenza, se metafisica significa ricerca di ciò che è « al di là della
fisica ». In questo senso la trascendenza
gon è solo « punto di arrivo », ma è anche
implicita inizialmente nel punto di partenza. 98 Filosofia e Metafisica to ente, fondamento di ogni particolare
sapere. Noi crediamo che questa
distinzione tra il relativo e l’assoluto trascen- dente sia essenziale ad ogni costruzione
filosofica avente un nucleo metafisico per
cui, e solo per esso, merita il nome di
concezione filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio, quasi a giudizio unanime, le filosofie dette
postaristoteliche segnano la decadenza
del pensiero classico: la dualità di «
fisico » e «metafisico » vi diventa secondaria, la meta- fisica è fatta rientrare nella fisica e il
principio è identificato, in un monismo
opaco, con la realtà naturale. Le ali di Eros
si chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un mondo finito, accettato con l’indifferenza
che detta l’amor fati, ma senza la
serenità del convincimento persuaso. Per
lo stesso motivo facciamo cominciare col « terminismo » di Occam la decadenza della Scolastica. La
carenza metafi- sica, in qualunque epoca
del pensiero, si presenta come il
dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare il sensibile e il bloccarsi nell’esperienza
siano i pesi mortificanti la potenza del
pensiero, per sua natura doviziosamente ge-
neroso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino come l’ultima grande affermazione della
Grecia immortale e i grandi pensatori
della Patristica e della Scolastica come i
rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche veramente filosofiche sono quelle dei grandi
metafisici. Con ciò abbiamo segnato la
condanna, sia pure parziale, della
speculazione del nostro tempo.
Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essen- ziale e perenne che è l’anima stessa di ogni
vera metafisica: l'aspirazione al di lè
del fisico (trans-physica), divino Eros,
che è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione beatificante dell’Essere assoluto eterno;
platonismo essenzia- le che importa
distinzione e dualità di mondi: « questo » e
«l’altro» in un rapporto di relativo e assoluto, di contin- gente e necessario, di temporale ed eterno.
Platonismo, che è nostro, se trasposto
nei termini agostiniani di una meta-
Concetto di metafisica 99
fisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo pe- renne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con
la Verità che è; interiorità che non
abolisce il mondo, anzi, dal di dentro,
lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt
sono prova e testi- monianza. Agostino,
dunque, arricchito dalla tradizione del
, miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bo- naventura.
A noi sembra che l’istanza agostiniana, in una discussione intorno al concetto di metafisica coincidente
con quello di filosofia, specie nello
stato attuale, sia particolarmente signi-
ficativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è an- cora cosmologia e con l’idea cosmologica
identifica, in fon- do, l’idea
teologica: il Demiurgo e il Motore immobile
sono i due principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino, mediatore tra le Idee e la materia, l’altro,
Causa prima del movimento. È una
metafisica al servizio della natura fisica e
dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafi- sica, dunque, come scienza della natura, con
cui Aristotele identifica la realtà in
quanto realtà: l’« al di là » del mondo è
sempre un « mondo » e non lo Spirito creante. In esso manca il problema dell’uomo in quanto uomo, così
come lo si conce- pisce e lo si pone dal
Cristianesimo in poi con quell’interesse
quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo,
al quale nessuno, credo, vorrà negare il
diritto di cominciare, come dice E. Le
Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha
cominciato Agostino il suo discorso
metafisico e si è accorto che, quale che sia il pro- blema, la soluzione si trova sempre nella
Verità che è e nel- l’Essere che è la
Verità. Questo senso d’interiorità profonda-
mente umana di ogni problema filosofico non va perduto: in esso riponiamo principalmente l’avvenire
della metafisica. Anche la storia della
filosofia crediamo che su questo punto
ci dia ragione. La metafisica, come scienza prima della 100 Filosofia e Metafisica natura o ricerca dei principii primi del
mondo fisico, fino alla scoperta della
scienza moderna, non distingueva netta-
mente i due mondi; essa aveva ereditato il carattere natura- listico della metafisica aristotelica, per la
quale anche i pro- blemi di Dio
(teologia razionale) e dell’immortalità dell’ani- ma (psicologia razionale) si pongono sul
terreno della natura fisica. Di qui gli
inevitabili conflitti e i tentativi d’identifi-
care la visione «scientifica » con la visione « metafisica » della realtà. La critica kantiana della
metafisica è la critica della concezione
scientifico-metafisica del razionalismo da
Cartesio al Wolff e tende a distinguere la « teoria della scien- za » (Critica della ragion pura) dalla «
teoria della morale » (Critica della
ragion pratica), dove è legittimo porsi i pro-
blemi della metafisica. La reazione positivistica e neokan- tiana, contro la metafisica dell’idealismo
tedesco del primo Ottocento, è
giustificata dagli arbitri di quella « filosofia della natura », cioè di una costruzione
aprioristica (e in que- sto senso
metafisica) della scienza. La metafisica dell’espe- rienza interiore, di tipo
platonico-agostiniano, a noi sembra che
non si presti a questi equivoci: per essa il principio as- soluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo
stesso del pensiero; dall’escavazione
dell’uomo nell’uomo; dalla presenza
implicita della verità alla mente; dal conflitto della vita morale che sta alla base di tutta la
nostra vita spirituale e la cui
soluzione rimanda razionalmente alla trascendenza; dalla costituzione stessa del pensiero che è
capace di verità, in quanto la verità,
che lo fonda e trascende, è la sua vita
interiore, senza di cui non sarebbe pensiero e sarebbe morte. Contro queste istanze metafisiche non c’è
scienza o « critica » che valgano, in
quanto e la scienza e la critica, le più svi-
luppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità, che può essere solo negata — e perciò anche
questa negazione è pur essa conferma —
da un atto non razionale e dunque non
scientifico, non critico e, in definitiva, non filosofico. Si consideri ancora che, da quando scienza e
filosofia, Concetto di metafisica
101 fisica e metafisica, pur non
ignorandosi, seguono metodi pro- pri e
si pongono problemi diversi o almeno da punti di vi- sta differenti, per cui l’oggetto proprio
dell’una è diverso da quello dell’altra,
l’attenzione della filosofia si è concentrata
sull’uomo e su quelle che sono le forme della sua attività. La storia, l’estetica, la politica, l’economia;
le scienze morali in generale,
considerate speculativamente, sono oggi i problemi vivi della filosofia. È vero che essi,
proprio perchè posti come problemi
filosofici, importano sempre una visione totale della realtà, ma il reale fisico, in quanto tale,
interessa subordi- natamente al reale
umano e nei limiti in cui contribuisce alla
soluzione dei problemi dell’uomo. Le costruzioni metafisi- che, nel senso di filosofia della natura, si
debbono più agli RASTA che ai filosofi
veri e propri. Di questa esi- genza, che
possiamo chiamare « umanistica », una costru-
zione metafisica, oggi, non può non tener conto. Non che il mondo così detto fisico non debba
interessarla, quasi fosse apparenza
illusoria ed opaca materia, sorda alla luce del
pensiero; tutt'altro: la metafisica non può non essere che la scienza di che cosa è la realtà in quanto
realtà. Vogliamo dire che l’uomo
interessa all'uomo più di ogni altra cosa e
una presa di contatto della metafisica con il reale-uomo ri- porta i suoi problemi a quella interiorità,
che è sempre stata l'ispirazione
fondamentale della ricerca speculativa, e rende
la metafisica stessa aderente al problema-uomo — ai pro- blemi del donde vengo, chi sono e dove vado —
la cui solu- zione, in definitiva, sta
alla base di quella del significato e
del valore del mondo in generale. Da questo punto di vista possiamo dare in parte ragione al Carlini, il
quale tenendo presente una determinata
concezione della metafisica, consi- dera
tutta la metafisica scienza naturalistica che indaga in- torno al principio del mondo, quasi una
continuazione del- la fisica, scienza
dell’« essere » contrapposto allo « spirito ».
Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica, come sembra pensare il Carlini, in quanto vi
può essere (e 102 Filosofia e
Metafisica vi è nella storia della
filosofia) una metafisica dell’esperienza
interiore, dove «essere » e « spirito » non si contrappongo- no, dove resta primo il concetto del cos'è il
reale in quanto reale, ma dove il reale
non è più naturalisticamente inteso. In
questa metafisica, che è ancora scienza che non sta con- tenta al come, il problema del propter quid
importa l’im- pegno totale dell’uomo e
la partecipazione sua e delle cose ad un
comune destino, per cui il problema metafisico è innanzi tutto problema dell’uomo in quanto
uomo. L’in- tus legere (intelligere) che
è la filosofia o la metafisica non è
solo un leggere nell’inzus delle cose, ma è — in- nanzi tutto — un leggere nel nostro intus, in
interiore homine; solo quando questa
pagina sarà decifrata e chia- ra, sarà
possibile leggere, « metafisicamente » e non « scien- tificamente », anche il libro della natura,
decifrarlo e chiarirlo. Possiamo,
dunque, convenire anche con lo Hei-
degger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che la metafisica è sì questione sul senso
dell’essere « nel suo insieme e in quanto
tale », ma che l’ontologia è vincolata
all’antropologia: l’uomo che indaga è egli stesso oggetto primo della sua indagine, il ricercatore è
incluso nella sua ricerca. « Ogni
domanda metafisica racchiude la problema-
ticità della metafisica nella sua totalità », ma « nessuna do- manda metafisica può porsi se non è posto in
questione — come tale — colui, che fa la
domanda, se non diventa dun- que domanda
egli stesso ». (Was ist Metaphysik?, trad. it.
Milano, Bocca, 1942, p. 55).
Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non sono nè anti nè a-metafisici e ripongono sul tappeto
della più viva discussione filosofica il
problema della metafisica, pur ac-
cettando la posizione classica del problema stesso, ne accen- tuano l’aspetto umano, spirituale,
interioristico. Non si tratta
d’indulgere ad una moda, come se quel che è stata verità una volta non lo sia più, secondo la tesi di
un relativismo storicistico negatore
della verità e della filosofia, ma di
Concetto di Metafisica 103
cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che co-. stituiscono l’anima dell’indagine metafisica
e impediscono che essa si presenti sotto
l’aspetto (che è un aspetto) di scienza
puramente naturalistica, anzichè sotto l’altro, che le è più proprio ed essenziale, di ricerca interiore
dell’! di /à dello spirito umano, senza
di cui non sarebbero nè l’uomo nè le
cose e lo spirito stesso sarebbe materialità, passività e morte. Perciò noi ci siamo principalmente
preoccupati di cogliere la costante ed
insopprimibile esigenza metafisica, anche nei
sistemi anti o ametafisici, sia per provare la essenzialità ed universalità del problema, costitutivo della
stessa filosofia, sia per dimostrare,
conseguentemente, come nessuna nega-
zione della metafisica possa negare se non altro la possibilità della metafisica stessa, essendo essa il
primo iniziale che muove ogni indagine
speculativa e la sua realizzazione la
speranza suprema e dunque il fine del pensiero. Aderire alle istanze della filosofia moderna e
contemporanea ci sembra una condizione
indispensabile di ogni concreto filosofare;
nel nostro caso, per porre concretamente e criticamente il problema della metafisica. Le critiche e le
accuse, quando non sono dettate da
superficialità, incomprensione o sordità
costituzionale per certi problemi, servono a chiarire altri aspetti della questione e consentono al
metafisico di riporsi il problema con
maggiore consapevolezza, di vederlo in quella
complessità di momenti, che impedisce una visione par- ziale e non integrale di esso e perciò
astratta o unilaterale. L’antimetafisica
che quasi senza soste e a volte con accani-
mento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo del- l’illuminismo anglo-francese, risponde
anch'essa ad un’esigen- za del pensiero.
Essa impone, da un lato, la difesa ad ol-
tranza della metafisica in nome del diritto alla vita del- la filosofia e, dall’altro, il dovere, per il
metafisico, di riporsi il problema in
modo che l’istanza metafisica esca
vittoriosa dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici
aspetti, sic- 104 Filosofia e
Metafisica chè la sua risposta, più
ricca e complessa, comprenda in sè le
esigenze che sembrava escludere e che, solo apparen- temente, per un errore di prospettiva, si
erano poste contro la metafisica,
mentre, in realtà, la loro era opposizione ad
una determinata soluzione del problema metafisico, la quale trova in quelle critiche non la negazione
della sua verità, ma lo stimolo per
arricchirla in una più comprensiva. Quel
che è stato una volta verità, verità sarà sempre, ma è del- l'essenza della verità la vita e lo sviluppo
fecondo, il cre- scere continuamente di
e su se stessa, in modo da conqui-
starsi sempre più come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza critica del divenire e dello sviluppo dello
spirito, proprio per dimostrare come non
vi è verità che muoia e verità che nasca
per morire ancora, problema che si ponga per restare sempre problema, esasperatamente tale, ma che
vi è ve- rità perenne che perennemente è
vera, oggi più compren- siva di ieri,
perchè più matura e sviluppata. Ora è evi-
dente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese, la critica kantiana della metafisica del
razionalismo moder- no, la metafisica
cosiddetta del pensiero o della mente del-
l’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte me- tafisiche contemporanee dell’intuizione,
dell’azione, della vo- lontà, della vita
ecc., come pure le stesse negazioni radicali
di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro sterile (agli effetti dell’avanzamento della
questione) pole- mica contro la classica
metafisica dell’essere o della verità
trascendente o dell’oggettivismo o dell’intellettualismo, ma in quell’aspetto fecondo di positività che
esse hanno e cioè: nell’avere rilevato
esigenze nuove, nuove prospettive, di cui
la metafisica, come la scienza del che cos'è la realtà in quanto realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la
risposta sia dav- vero comprensiva,
direi, assorbente, di tutte le diverse istanze,
in quel che hanno di vero, e di esse l’inveramento concreto (?). (2) Di qui la nostra concordia discors (che
crediamo sia una forma di colla-
borazione feconda nella comune battaglia contro le negazioni della
metafisica) con la Neoscolastica
dell’Università Cattolica di Milano e, in special modo, Concetto di Metafisica 105 3. —- La filosofia moderna e
contemporanea di fronte ai pro- blemi
della metafisica. Al principio di
questo capitolo abbiamo rilevato la com-
plessità di sensi e problemi del termine metafisica, diffi- cilmente includibili in una veduta
comprensiva ed armoniz- zante di tutti:
non di rado si dà la preferenza ad un senso
o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La meta- fisica è conoscenza astratta, o la più
concreta? è opera esclu- siva della
ragione e perciò pura costruzione 4 priori? è sco- perta delle regole fondamentali del pensiero
e perciò valide per ogni scienza sia
fisica che morale? E potremmo ancora
continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafi- sici, siano d’accordo che essa, come la
definì Aristotele, è Za con Mons.
Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come si pone oggi il problema della metafisica (in
«Riv. di filos. neosc. », n. 1, 1922) l°
Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella forma aristotelico-tomista, la quale, dunque
resta come l’unica, intatta ed intan-
gibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa
affatto, perchè questa, fenomenistica,
considera fenomeno il reale in quanto reale e non col- pisce, in fondo, la concezione del reale in
quanto essere; dall’altro, la metafi-
sica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata.
A noi sembra che, anche ammesso e non
concesso che tutto il pensiero da Cartesio
in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema
della meta- fisica posto « oggi », di
vederc quali istanze la metafisica fenomenistica ponga contro (o a differenza di) quella dell'essere
e se questa non sia chiamata a tenerne
conto se vuol parlare un linguaggio significante per la filosofia moderna e contemporanea. « Tenerne conto » non
significa affatto rinunzia a quel che è
la sua verità, ma dimostrazione della sua fecondità e vita perenne
nell’unico modo in cui si può provare:
che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come verità comprensiva di esigenze diverse, di
essere sufficiente a risolverle ed aperta
a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre
meglio a se stessa, la confermano come
verità di ieri e di oggi e non soltanto di un
« ieri », che « oggi » può non interamente soddisfare. Per quanto qui è detto (e soprattutto per
quanto si legge in molti punti di questo
volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a me e agli altri collaboratori del « Giornale
di Metafisica », che nessuno di noi « si
preoccupa del problema critico, come se la metafisica non fosse mai stata messa in discussione » (« Rivista di
Filosofia », genn. 1948, p, 97). Precisa-
mente il contrario: in tutti noi è vivissima tale preoccupazione e il
nostro è un dialogo costante con il
problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo dire che, se un qualche interesse ha la mia
posizione speculativa, è precisamente
quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza
critica, si arrivi ad una soluzione
positiva e razionale dei problemi della metafisica. 106 Filosofia e Metafisica quosopia 736, la scienza dei principii
primi. Così intesa ebbe l’ultima grande
sistemazione scolastica dal Wolff con la
duplice divisione in metafisica generale od ontologia (scienza dei principii primi in generale e
dell'essere in quanto essere) e
metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza dell'anima — psicologia razionale —;
filosofia della natura — cosmologia razionale
—; esistenza di Dio e suoi attributi —
teologia razionale e teodicea). In verità il problema primo è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di
esso, in un senso o nell’altro,
condiziona quella degli altri problemi,
anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria della conoscenza (problema del fondamento
critico del sa- pere), la teoria
dell’essere, come pure il problema dell’im-
mortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto, di Dio, principio primo di ogni conoscenza e
di ogni essere. Di fronte a questi
problemi quali sono le posizioni fonda-
mentali della filosofia moderna e contemporanea? Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare
il pen- siero moderno, nella Prefazione
ai Principes, la considera «la racine »
dell’albero della scienza, avente però come og-
getto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per mezzo della « ragione naturale »
(Méditazions, Epitre dédi- catoire). La
metafisica si distingue così dalla fisica, dalla ma- tematica ed anche dalla morale e si presenta
come teologia e psicologia razionali.
Cartesio, in fondo, rivendica, anche se
ancora non in maniera netta e decisa, l'autonomia delle scienze fisico-matematiche e quella della
morale. « Imma- teriali » gli oggetti
della metafisica: dunque, non spaziali e
non sensibili come dirà Malebranche (Enzréziens, I): c'è, in fondo, in Cartesio — e di più in alcuni
cartesiani — un'istanza platonica.
D'altra parte, la certezza interiore del
Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà naturale restano nettamente distinte e con la
dualità sorge il problema del loro
rapporto. Dunque, ancora, platonismo.
Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la Concetto dî metafisica 107 soluzione del problema testè indicato:
la occasionalistica e la spinoziana,
l’una e l’altra però, a differenza di Car-
tesio, non escludenti l’etica. Si consideri che il problema della relazione tra le due res è imposto
dall’ente-uomo dove si trova
concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più sol- tanto ontologia e poco si preoccupa del reale
fisico o natu- rale (il mondo, per
Malebranche, è quasi superfluo ed è
un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto cono- scenza ed etica, determinazione delle
modalità del conoscere e del volere. Il
Leibniz sistemò diverse istanze del raziona-
lismo cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella me- tafisica la nota divisione scolastica. La crisi della metafisica razionalistica
comincia con la critica della conoscenza
— con la gnoseologia nel senso moderno
del termine — dell’empirismo inglese. Il bersaglio è preciso: il principio assoluto del sapere
così come il ra- zionalismo lo andava
sistemando. La risposta è radicale: ogni
realtà oggettiva o assoluta, che la metafisica presup- pone, se non si risolve (dissolve)
nell’esperienza sensibile, è un
inconoscibile o una credenza. Leibniz cerca di correre ai ripari: alla critica lockiana dell’innatismo
contrappone il con- cetto di virtualità,
al nominalismo la distinzione tra verità
di ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a
costruire una me- tafisica monadistica.
Infatti, ogni forma di empirismo è
sempre rivendicazione del concreto individuale, degli enti particolari; inoltre, come tale, implica sul
terreno gno- seologico la risoluzione di
ogni realtà oggettiva nella per- cezione
soggettiva. La realtà si pluralizza in infinite sostan- ze, in points métaphysiques, in points de
substance. Ciò ac- cade non solo per
Leibniz, che al posto dell’unica sostanza
dello Spinoza, mette un universo di monadi, ma anche per Berkeley, per il quale l’universo è
costituito di sostanze per- cepienti. Si
consideri che il Berkeley assolve, dentro l’em-
pirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz contro 108 Filosofia e Metafisica di esso, in nome degli stessi interessi:
la realtà degli spiriti e di Dio. Il
sostanzialismo spiritualistico del Berkeley s’in- tende meglio come critica dell’empirismo e in
rapporto al monadismo spiritualistico
del Leibniz. Contro l’uno e l’al- tro,
colpendo alla radice il principio del razionalismo (il cogito), Hume nega che vi sia una sostanza
pensante meta- fisicamente concepita
come sostanza in sè sussistente. Così
l’oggetto della metafisica, come mondo naturale e spiri- tuale, come essenza dell’essere e come
principio assoluto del conoscere, si
dissolve, attraverso un processo che va dal
Cogito di Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà, tutta la realtà, è soltanto l’attività
presente e momentanea del percepire o
dell’apparire. Quasi contemporaneamente
gli ideologi francesi del se- colo XVIII
(« l’àge barbare de la philosophie », come scrive il Lachelier) intendono il termine metafisica
nel suo signifi cato deteriore di
inutile logomachia, di vano ed oscuro filo-
sofare (« le roman de la nature » come la definisce Voltaire nell’articolo ironico « Métaphysique » che si
legge nel suo Dictionnaire
philosophique). Ignoranti com’erano del Medio-
evo, coinvolgono nella stessa condanna la grande metafisica della Scolastica e le sottigliezze fatue
della decadenza della Scolastica stessa
e del tardivo aristotelismo averroista, conti-
nuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in special modo propria dei filosofi-scienziati
del secolo XVII e alla quale erano
rimasti tutt'altro che estranei sia il ma-
terialista Hobbes che Cartesio e Spinoza. All’antica metafi- sica « teologica » ed astratta contrappongono
la loro, intesa, in opposizione alla
fisica (e qui sono cartesiani) come scienza
dello spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur
l'origine des con- naissences humaines)
«bonne métaphysique » la sua teoria
dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana; e il Destutt de Tracy distingue «l’ancienne
métaphysique théologique » dalla «
moderne métaphysique philosophique
Concetto di metafisica 109
ou l’idéologie ». Metafisica, in breve, è conoscenza dei prin- cipii generali di un'arte (un poeta o un
musico, che vogliono rendersi conto dei
principii della loro arte, ne fanno la meta-
fisica) e di una particolare scienza o di quanto non è oggetto dei sensi esterni come le «operazioni
e facoltà dello spirito », quali le
sensazioni, la memoria, la volontà, ecc.
D’Alembert, nel celebre Discours préliminaire de l’En- cyclopedie, poteva scrivere che Locke «créa
la métaphysi- que ». Così la definizione
cartesiana di metafisica (scienza degli
oggetti immateriali) e l’opposizione di essa alla fisica, la critica lockiana del concetto di sostanza
e la posizione critica del problema
della conoscenza, la negazione humiana
della realtà della sostanza estesa e pensante, l’identifi- cazione del concetto di « natura » con quello
di materia, il senso della concretezza
del particolare e della positività della
ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distin- zione della realtà in due aspetti: quello
naturale o fisico, oggetto della scienza,
sistemato nella concezione meccani-
cistica e deterministica e l’altro umano o « spirituale », 0g- getto della filosofia vera e propria, intesa
come analisi delle facoltà e dei
fenomeni psichici, teoria della conoscenza, mora- le, psicologia. Con tale analisi viene
identificata la metafisica, la quale non
si distingue dalla « gnoseologia » o dall’« ideolo- gia », intesa come «ricerca sulle facoltà
della natura uma- na », limitata
all’indagine dell’origine delle idee, dell’og-
getto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che la soluzione del problema gnoseologico
condiziona quella della possibilità
della scienza della natura o meglio della
scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo
nell’insieme delle sue facoltà
(sensoriali, intellettive e volitive) e come il pro- blema metafisico si ponga non nei termini di
che cosa è il reale in quanto reale, ma
in quelli di che cosa è l’incondi-
zionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura dello Hume lo pose di fronte a questo problema,
sospese la meta- 110 Filosofia e
Metafisica fisica razionalistica
leibniziano-wolffiana e si chiese: è pos-
sibile una metafisica come scienza?
Non vi ha dubbio che Kant, nel porsi questa domanda intorno al problema che restò centrale in
tutti i suoi inte- ressi di pensatore,
si proponesse sinceramente di ricostruire
l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza «critica », che gli aveva fatto sospendere la costruzione
« dogmatica » del razionalismo. Così il
suo primo problema no-n è quello di una
«teoria » della conoscenza, ma della «critica » del conoscere in generale per accertare i mezzi
di cui la ra- gione dispone per
costruire la metafisica. L'indagine critica
lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due aspetti della questione da tener distinti: 4)
vi è un problema della metafisica « come
filosofia dei fondamenti primi della
conoscenza » che s’identifica con la stessa critica, cioè con la fondazione assoluta dei mezzi del conoscere e
non con quello della metafisica nel
senso tradizionale, per la fondazione
della quale quei fondamenti dovrebbero essere strumenti; 5) vi è un altro problema della metafisica
come compren- siva di tutta la
conoscenza, vera o apparente, che appartiene
alla Ragione pura e costituisce, non una scienza nel senso della prima, ma una « scienza dei limiti
della ragione uma- na ». Non tener
distinti questi due aspetti del problema ed
applicare le forme del conoscere valide per la conoscenza del sensibile agli oggetti in sè, è mettersi
sulla via dell’er- rore e dei
paralogismi creando un sapere illusorio che si
avvolge nelle insolubili antinomie della dialettica. A_ questo punto, alla domanda, « che cosa è il reale in
quanto reale », Kant dà una duplice
risposta: 4) come reale fenomenico è il
« contenuto » della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello spazio e del tempo e le categorie
dell'intelletto sono le « forme »
trascendentali, valide solo per quel contenuto e come principii necessari universali e
assoluti per costruire la scienza
matematica e fisica. Con questa risposta Kant
vuole risolvere il problema della metafisica intesa come Concetto di metafisica 11} scienza dei principi primi del sapere,
dentro i limiti di un sapere come
conoscenza del sensibile e del fenomenico; e con ciò conclude il problema del valore del
pensiero e dell’analisi della conoscenza
umana posto da Cartesio e Locke e lasciato
in eredità a tutto il razionalismo e a tutto l’empirismo moderno. 3) Come reale assoluto o cosa in sè
è il « con- tenuto » di una forma che
non può essere alcuna di quelle
dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenome- nico (non ci sembra, dunque, che si possa
sostenere che, per Kant, la realtà sia
soltanto fenomeno), ma di un’al- tra
forma valida per un sapere o per una scienza che non è la matematica e la fisica. Tale scienza
è appunto la morale, di cui i problemi
della wolffiana metafisica speciale o
degli esseri sono i postulati indispensabili. Kant, dunque, non dice che non è possibile una
metafisica co- me scienza in generale,
ma solo come scienza nel senso di quella
della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Pro- legomeni necessari di ogni futura metafisica
che si presenti come scienza — senza
escludere, anzi includendo, che è pos-
sibile una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, le- gato al concetto di trascendentalità delle
forme a priori come pure funzioni o
condizioni del conoscere e preoccupato di
fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafi- sica, ma solo indicare gli oggetti di essa
come pure esi- genze e postulati. Tuttavia,
crediamo non vi sia dubbio che sia
questa l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai scrivere nonostante vi si sia provato —
esistono frammenti di questi tentativi —
una metafisica della natura, per il motivo
che questa era già stata risolta nella stessa critica, mentre potè scrivere la Fondazione della metafisica
dei costumi e la Metafisica dei costumi.
Di lui resta l'insegnamento, da met-
tere a profitto sulla linea della metafisica classica (non inten- diamo con questo termine solo le metafisiche
di tipo aristo- telico), che la metafisica
è una scienza indipendente dalle altre,
le cui « Idee » rivelano la loro efficacia, ineliminabile 112 Filosofia e Metafisica ed insostituibile, n ella costituzione
del mondo morale o, come noi diciamo più
comprensivamente ed esattamente, della « vi-
ta spirituale »; « Idee » che la « ragione pura », nel senso kan- tiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò
stesso una di- stinzione tra il regno
dello spirito e quello della natura, alla
cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha riportato la metafisica al suo oggetto
proprio e ha fatto dei suoi problemi le
questioni essenziali e fondamentali del-
l’uomo. Egli approfondisce («critica ») il senso cartesiano della metafisica considerandola un modo
speciale di pensa- re: i suoi oggetti
sono «immateriali » e perciò le eventuali
conoscenze, che di essi la ragione può avere, devono essere assolutamente 4 priori senza ricorso ai dati
della esperienza nè alle intuizioni
spazio-temporali. Tali oggetti così intesi
sono « pensati », ma non conosciuti secondo le categorie della scienza che è solo scienza (critica della
metafisica razionali- stica), ma ciò non
impedisce che possano, debbano essere
pensati e conosciuti come condizioni indispensabili ed asso- lute della «scienza » dei costumi (f). L’idealismo trascendentale post-kantiano
accolse l’istanza critica quasi
esclusivamente nel senso della metafisica « come scienza dei fondamenti primi della conoscenza
» e considerò principio assoluto il
concetto dell’attività creatrice dello spi-
rito. Di qui una duplice «interpretazione » di Kant e un duplice sviluppo: @) la metafisica
s’identifica senz'altro con la dottrina
della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto funzioni con cui il soggetto «costruisce »
l’esperienza: il soggetto «crea», con la
sua attività, forme e contenuto. Così la
metafisica s’identifica con il sapere e il soggetto « funzionale » di Kant si trasforma nel
Soggetto come en- tità metafisica e
teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Du-
plice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui — e non nei pensatori anteriori, soprattutto
in alcuni razio- (3) Altre considerazioni
critiche sul problema della metafisica in Kant si trovano soprattutto nella Parte III di
quest'opera. Concetto di metafisica
113 nalisti — un senso della
metafisica opposto a quello di Ari-
stotele: non la scienza dell’ente in quanto ente, ma la scienza della scienza in quanto scienza. Questo non è
più Kant, ma una forma di «kantismo »
che riporta il problema della metafisica
alla posizione prekantiana, quale si riscontra nel- l’empirismo inglese e in alcuni ideologi
francesi del secolo XVIII. A noi sembra
che l’idealismo empirico sia il padre
dell’idealismo trascendentale — tramite un’interpretazione non-kantiana di Kant: — l’esse est percipi è
trasformato nell’esse est percipere,
dove il percipere è l’assoluto spirito
che pone se stesso e il non-io. La posizione kantiana di uno spostamento della metafisica dalla fisica al
mondo morale è di nuovo perduta e la
metafisica ritorna ad essere « filo-
sofia della natura », cosmologia, di cui il principio creatore è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa
natura senza mai più potersi
riconquistare nella sua interiorità spirituale. Il na- turalismo neoplatonico (Hegel) e il
«riscoperto » Spinoza ritornano nella
formula del Deus sive natura, dove Dio è il
trascendentale e la natura la sua posizione, con la quale l’Io creante s’identifica (immanentismo). Così
l’idealismo riporta lametafisica sul
terreno della scienza della natura e costruisce
una nuova metafisica « dogmatica » nel senso kantiano come quella del razionalismo, con la differenza
che in esso l’«esse- re» è risolto
completamente nel «pensiero» creatore. Di qui
l'opposizione della «metafisica del pensiero» alla « metafisica dell’essere », di una filosofia della verità
che è tutta nel suo processo storico o
filosofia dello spirito — dove però lo spirito
non si coglie mai come tale, ma sempre nella sua media- zione con il non-io, cioè nel suo farsi
natura, esteriorizzarsi, non essere se
stesso — alla « dogmatica » filosofia della verità immobile. Il soggetto non è più problema, ma
principio as- soluto che tutto spiega:
resta estraneo alla ricerca metafisica,
che così gli si fa estrinseca, « materiale ». La realtà prima e ultima è il pensiero, che si fa tutto senza
essere mai pro- 114 Filosofia e
Metafisica priamente se stesso, che
nega ogni antecedente ontologico senza
riescire a conquistare la sua autentica soggettività. Compiuto con il Fichte il « salto » dall’Io
funzionale al- l’Io entità metafisica,
l’idealismo trascendentale elimina la
distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo della natura e di mondo morale, annullando
con ciò stesso i termini in cui Kant
aveva posto il problema della metafi-
sica: cade la distinzione tra scienza dell’assoluto e cono- scenza del fenomenico e la metafisica viene
identificata con la stessa teoria
critica del conoscere. Razionale e reale
si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il reale, in quanto il reale è lo stesso
dispiegarsi della Ragione. La metafisica
della natura s’identifica con quella del pen-
siero, dato che il principio del dialettismo antinomico è il fondamento assoluto dell’una e dell’altro.
Ogni aspetto del reale non è che un
momento del processo dialettico: i dati
dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo è nella concretezza delle sue determinazioni. Costruzione aprioristica e fantastica della
natura, disso- luzione della realtà e
degli enti nel processo dialettico della
Ragione e di questa nelle sue transeunti determi- nazioni, dommatismo e teologismo deteriori
determinarono la decadenza della «
metafisica del pensiero » e provocarono
una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana di fisica e
metafisica, di fenomeno e cosa in sè;
Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e
della religione, rivendica il concetto di «esistenza » o di « singolarità » e alla dialettica del
passaggio contrappone quella del « salto
», alla « ragione » l°« assurdo » della fede;
Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel
mondo dei fatti; il Neokantismo lancia
il grido di Keine Metaphystk mehr contro
la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca la posizione positivistica, imbaldanzita dai
successi delle scien- ze sperimentali.
Comte considera « abstrait » l’« état méta-
Concetto di metafisica 115 physique », ormai definitivamente
superato al pari di quello teologico
(naturalmente poi egli fa, per suo conto, della me- tafisica concependo la filosofia come sistema
delle scienze e della pseudo-teologia),
mentre Sully Prudhomme (Que sais-je?, p.
51) scrive: «Il n'y a de métaphysique dans
l’ètre que l’inconcevable. La métaphysique commence où la clarté finit ». Quando l’idealismo hegeliano
ai principi del secolo rinasce in
Italia, la metafisica del pensiero viene
rigettata da un epigono formatosi nell’ambiente positivistico e negli studi marxisti e accettata dal
Gentile, attraverso una « riforma »
della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spa-
venta), come metafisica dell’atto del pensiero pensante, anti- tetica a quella oggettivistica
dell’essere. In tutta questa reazione
violenta contro la metafisica, escluso
il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce con- tro la metafisica di tipo hegeliano,
identificata con la meta- fisica
senz'altro — solo arbitrariamente la condanna è stata estesa alla metafisica come tale; 2) si
rivendica, da un lato, la realtà, il
senso e il valore dell’esistente o singolo contro la « ragione speculativa » e di fronte
all’assurdo e allo « scan- dalo » della
fede religiosa (esistenzialismo teologico e tra- scendente) o come valore in se stesso, il cui
avvenire è nel- l'umanità
(esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dal-
l’altro, il concetto di scienza nel senso moderno, costruita con metodo sperimentale e non
aprioristicamente. Purtroppo l’identificazione
della metafisica con quella di tipo idealisti-
co; il prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione arbitraria di metodi e leggi valevoli per il mondo
fisico an- che alla spiegazione del
mondo dello spirito; il convinci- mento
derivante da un’interpretazione unilaterale della Cri- tica che, dopo Kant, non era più possibile —
e nemmeno se- rio! — tentare di
ricostruire una metafisica; il perdurare del
senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa pa- rola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII
contribuirono a far decretare una
condanna della metafisica, che apparen-
116 Filosofia e Metafisica
temente — quanta superficialità anche in pensatori di non me- diocre levatura! — è potuta sembrare
definitiva. Quasi inesi- stente, d’altra
parte, l’influenza della filosofia rosminiana
fuori d’Italia e pure da noi limitata, scarsa di sviluppi specu- lativi, prima ostacolata per motivi
politico-teologici e poi ar- restata dal
prevalere del positivismo o interpretata kantiana- mente, idealisticamente e immanentisticamente
sia dal pri- mo (Spaventa) che dal
secondo (Gentile) hegelismo. Eppure il
Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rap- presenta ancor oggi — e non solo in Italia —
la più vigo- rosa riscossa della
metafisica tradizionale, non ripetuta, ma
ripensata a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia aspetta ancora di entrare nel vivo del
pensiero mondiale. Com'è noto la reazione
idealistica contro il positivismo, altra
età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di rivendicare i valori spirituali e di
restituire la filosofia ai suoi problemi
e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di
questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico di quella classica, sia di tipo platonico che
aristotelico. Per il Bergson metafisica è un modo
speciale di conoscere e cioè il mezzo «
de posséder une réalité absolument au lieu de la connaître relativement, de se placer en elle
au lieu d’adop- ter des points de vue sur
elle, d’en avoir l’intuition au lieu
d’en faire l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute ex- pression, traduction ou représentation
symbolique » (Intro- duction è la
métaphysique, in « Revue de métaph. et de
mor. », I, 1903). In breve,
per il Bergson — a parte che egli
attribuisce questa capacità all’intuizione che contrappone al pensiero discorsivo — la metafisica è
conoscenza assoluta, ultima. Egli
riconosce che il suo oggetto è l’essenza in-
terna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui
delle immo- bili leggi delle scienze)
nell’intimo della creatività « indi-
viduale » degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-. chelier (Vocabulaire technique et critique de
la philos., IV Concetto di metafisica
117 ediz., vol. I, p. 456) si
augura che la metafisica possa ridiven-
tare «la science de l’étre, dans le double sens d’existence en général et de totalité des existences »,
ma alla « nouvelle condition » che la
chiave di questa scienza sia cercata « dans
la logique interne de la pensée» precisando che Dio e il nostro possibile destino fuori di questo
mondo non sono og- getti di scienza, ma
di fede. Il Gentile (op. cit., p- 123),
nei primi anni del nostro secolo, può scrivere 2a «oggi i vecchi nemici di essa [ della metafisica ]
cercano di scusare e di attenuare le
loro critiche di una volta... Oggi lo storico
della filosofia può parlare della metafisica classica, ossia della filosofia vera e propria di tutti i tempi,
con la certezza di toccare una corda che
risuoni nell’animo dei suoi ascolta-
tori ». E anche per lui metafisica è « spingersi al di là del fenomeno e fissare l’occhio nel reale»
(i22). Vi è in questi ed in altri
pensatori un’istanza comune: la
metafisica si giustifica come rivendicazione di quei valori spirituali (conoscitivi, morali ed anche
religiosi) che nessuna scienza
sperimentale può mai cogliere. Si tratta di una ri- valutazione dei valori umani (tipica della
Wertmetaphysik del Windelband e del
Rickert) sul terreno stesso dell’umanità
e della storia, @/ di Îè delle schematizzazioni della scienza naturalistica. Di qui la netta distinzione
tra scienza e meta- fisica: la prima non
può condurre alla seconda e questa, come
scrive il Liard (La science positive et la métaphysique, P. III, c. VII), « ne peut fournir à la
science un point de départ et des
principes régulateurs ». « Après les phénomè-
nes, nous voulons connaître l’absolu; après les conditions nous demandons la raison de l’existence. La
métaphysique serait la détermination de
cet absolu, la découverte de cette
raison » (ivi, Avant propos). Dunque « volontà » e perciò
esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora esigenza, della ragione dell’esistenza.
L’idealismo aveva ri- sposto dopo Kant,
ma « interpretandolo », a queste esigenze
con la nuova metafisica del pensiero, sul terreno dell’imma- 118 Filosofia e Metafisica nenza assoluta, ma senza appagare quella
« volontà » di as- soluto nè soddisfare
quella « domanda » di ragione dell’esi-
stenza. Siamo arrivati, ci
sembra, al punto cruciale, in seno al
siero moderno e contemporaneo del problema della metafi- sica. Si riconosce l’insopprimibilità per
l’uomo e dunque per il pensiero dei suoi
problemi; per conseguenza che bisogna
rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una « necessità interna» del pensiero, direbbe
Lachelier. Ora l’immanentismo, sotto
qualunque forma si presenti, è dav- vero
una (/a) risposta a queste esigenze di « assoluto » e di «ragione » dell’esistenza, o non piuttosto
l’assolutizzazione della ragione o del
pensiero e la negazione di ogni ragione
dell’esistenza? Nell’« assoluto pensiero » immanente e per-
ciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei ter- mini: il pensiero pone, intrinsecamente,
l'esigenza dell’as- soluto e esso stesso
si pone assoluto. O l’esigenza non c’è e
il pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e
il pensiero non è l’assoluto, ma
fondamentale, invincibile, universale esi-
genza dell’assoluto; ed è qui, e non nel pensiero, la « ra- gione » dell’esistenza. Questo ci sembra il
primo risultato positivo del travaglio
della speculazione da Cartesio ai no-
sti giorni: il riconoscimento razionale — e dunque critico del- la critica più rigorosa ed intransigente —
che l'assoluto oltre- passa il pensiero
di cui è pure il fondamento e il fine, la sua
ragione prima ed ultima, la ragione dell’esistenza come tale. L’immanentismo non è una risposta alla
metafisica, ma l’as- sunzione a
principio assoluto di un elemento (il pensiero uma- no) che è invece richiesta di assoluto e che,
solo in quanto tale, pone il problema di
una metafisica come «sforzo», dice James,
« unusually obstinate » di pensare «chiaro e conseguente- mente », soprattutto « consistently », come
bisogno di una Durchbildung energica del
nostro Lebdenskreis (Eucken). Dunque, il
travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro’ Concetto di metafisica 119 le sue premesse ma in armonia con le sue
ultime conclusioni, che non vi è
metafisica autentica dove non vi è trascendenza
(l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di immanenza e super-immanenza contrastano con
le con- clusioni stesse di quel pensiero
moderno o critico a cui si richiamano e
perciò sono essi delle sopravvivenze; 5) il pro- blema dell’assoluto come fondamento del
sapere e del vo- lere si pone innanzi
tutto, anche se non esclusivamente, come
problema della ragione dell’esistenza umana, valida non per l’umanità in generale, bensì per ogni
singolo uomo, cioè come problema
dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non
dell’« altro» mondo, come problema dell’a/ di lè dell’uomo (e perciò anche come suo destino) e non in un
senso soltanto naturalistico dell’al di
lì del mondo fisico. Se non vi è una
metafisica cristiana, vi è un modo cristiano d’intendere la metafisica; il Cristianesimo non è una
cosmologia, ma in- nanzi tutto, civitas
hominis, qui, Civitas Dei, « al di là »..
Questo modo d’intendere la metafisica non è soltanto no- stro ma predominante da quando la più recente
filosofia con- temporanea si è posto il
problema con insistenza e in termini
espliciti; da quando metafisica ed ontologia non sono più solo « ricordate » come mere parole cadute in
disuso ed ar- chiviate. Un ritorno della
metafisica non solo come esigenza ma
come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un as- soluto come principio dell’esistenza è la
posizione più vitale di una parte del
pensiero odierno, che non segna un salto in-
dietro nel processo della filosofia, ma è la continuazione del pensiero moderno, le cui conclusioni
autorizzano la più pro- fonda revisione
delle sue premesse. Noi diciamo dunque che
la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio della « creatività » dello spirito e
conseguentemente dell’im- manenza, ma la
riconquista, attraverso il processo critico,
della sua «creaturalità » e perciò della trascendenza, risco- perta nel suo autentico significato
spirituale datole dal pen- siero
cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasfor- 120 Filosofia e Metafisica mare quello cosmologico e naturalistico,
proprio della me- tafisica greca. 4. — Gli esseri e l’Essere. L’ Atto
creatore. La creaturalità — il
sentirsi creature — è l’atto primor-
diale della coscienza: nel momento stesso che avverto an- che confusamente di essere, avverto che non
sono da me, che sono «esistente », cioè
da altri; avverto, dunque, attra- verso
i limiti del mio essere, che un (/") « essere » non limi- tato, mi ha fatto «esistere ». La presenza di
me a me stesso importa la « presenza »
mediata analogica in me dell’Es- sere,
senza della quale non avvertirei il mio limite (e dun- que l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di
essere. Io-so- di-essere (cogito ergo
sum) in quanto la presenza dell’essere
in me, l’idea dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè fa che io sia un essere pensante. Penso
perchè mi è data l’idea dell’essere (non
che il pensiero la ricavi per astrazione o per
altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda
l’essere, ma l’es- sere fonda me
pensante, donandosi come idea o oggetto.
Io sono innato a me stesso nel senso che l’idea dell’essere per cui il pensiero pensa e ad esso è data è
quella per cui acquisto coscienza del
mio essere che è dall’Essere: «pen- so »
perchè « sono stato pensato »; e siccome non mi è dato l’essere assoluto — se così fosse, me lo
sarei dato io stesso in quanto è
dell’assoluto essere principio di se stesso — con quella del mio essere, ho coscienza del
limite e perciò dell’Es- sere da cui
sono io, essenza spirituale incarnata in un corpo, esi- stente concretamente, questa essenza qui. Il
pensiero — che è tale per la presenza
della verità — avverte una duplice presen-
za di essere: dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è dall’Essere necessario che trascende il mio
essere come l’as- soluto il relativo, e
il pensiero come il reale il possibile. L'atto
del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli es- Concetto di metafisica 121 seri e realtà dell'Essere, come importa
l’intuito fondamen- tale della verità,
fondante il pensare. Vi è dunque l’essere
come idea, gli esseri come esistenti, finiti e relativi, l’Essere come esistente infinito e assoluto: il
principio primo del sapere; gli oggetti
reali conoscibili tramite l’esperienza
sensibile, il Soggetto realissimo, fine di ogni conoscenza, ma, come tale, aspirazione infinita mai
appagata nell’ordine umano e naturale.
Ma aspirazione ben fondata, in quanto
l’Essere realissimo non è una possibilità, una pura Idea della ragione o un dover essere, ma è, esiste, come
attestano il mio esistere e il mio
pensare. Infatti, il mio esistere da —
la mia creaturalità — importa l’esistenza del 44 cui io sono, cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il
mio pensare, che è tale per la presenza
della verità che non è la Verità in sè,
importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207 costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di
intelligenza per mezzo dell’« astrazione
originaria » coincidente con l’atto
creativo. D'altra parte, l’essere io come gli altri esseri, una essenza esistenziata — questa qui — importa
che sono un essere singolo, persona;
dunque l’Essere che mi ha creato — mi ha
fatto e mi fa esistere — non può essere un gd, un essere impersonale, ma è anch’Egli Ego,
Persona, l’Altro assoluto, la Persona
assoluta da cui sono. Nel momento stesso
che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è
riconoscere che Dio è; sapermi è,
dunque, cogliere la mia realtà ontolo-
gica e con essa la sua radice; è ancora, come atto di « rico- noscimento », un sapere che è supremo atto
morale. Sapermi da è volermi per:
conosco che esisto da Dio e voglio esi-
stere per Lui: essere da e per l’Essere. Perciò l'oggetto del mio pensare è infinito come infinita è la
presenza della ve- rità in me, che
nessun essere creato adegua; del pari infinito
è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua forma, che nessun essere voluto compie e
appaga. Se in ogni mio atto di pensiero
e in ogni volizione io non so che Dio
122 Filosofia e Metafisica
esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè
desidero co- noscerlo anche quando
conosco e desidero altro, non so,
disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale, ho perduto il senso di me stesso e di ogni
realtà: è la caduta del mio essere nel
nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stes-
so e perciò al mio pensiero, per cui la presenza di Dio resta muta nell’assenza di me a me stesso. In questa metafisica — di necessità appena
accennata — il concetto fondamentale è
quello di creazione, non presup- posto
ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che esiste e non ha in se stessa il principio del suo
esistere, rimanda al principio che l’ha
prodotta; siccome le cose create sono
esseri viventi e pensanti secondo un ordine loro intrinseco, il Principio primo non può che essere
l’Intelligenza su- prema, la quale —
siccome ha voluto creare — è anche
suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il concetto di Ens realissimum non basta per una
metafisica che vuol tener conto della
teologia cristiana. La creazione è
dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli esseri, l’atto supremo dell’esistere degli
esistenti. Aristotele ha definito la
metafisica ocopia zowtn, la scienza
dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza degli elementi e delle condizioni
dell’esistenza in generale (ogni essere
è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla causa efficiente e dalla causa finale), ma
l’Essere o Dio è la condizione suprema
dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per
Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze (4) Anzi, per Aristotele, l'oggetto della
metafisica è soltanto l’ente divino e
perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con la puiocopla deodoyix. Ma si tratta — come ha dimostrato lo Jaeger — di
due fasi del suo pensiero. S. Tom- maso
intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore, fine ultimo, principio e giudice della
morale; immortalità dell’anima indivi-
duale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è identico a quello della
teologia (differi- scono nel modo di
conoscere). Di qui la definizione di S. Tommaso: aliqua scientia adquisita est circa res divinas
scilicet scientia metaphysica (S. T., II,
2, IX, 2 ob. 2). Concetto di
metafisica 123 concretamente
esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è
questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa, ma appunto è qualche cosa avente una certa
natura, qua- lità, quantità, ecc. Accettiamo
la definizione che il reale - individuo
è una essenza esistente, cioè avente certi carat- teri; ma, come sappiamo, per Aristotele, non
vi è scienza del reale individuale, in
quanto la scienza è dell’universale. La
razionalità è dell’essenza desistenzializzata e non del- l'essenza esistenziata, per cui alla scienza
o conoscenza di tipo aristotelico
l’esistente è indifferente: suo oggetto sono
le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è
mia e di altri, ma io non sono pura
essenza, bensì essenza mia, singola,
concretamente esistente. La scienza aristotelica trova nel singolo il suo limite esistenziale,
lascia aperto il pro- blema
dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo, la metafisica di Aristotele, dei due principi
del reale — forma e materia — guarda più
alla prima che alla seconda, all’es-
senza pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle sin- gole essenze che esistono; ma a me, essere
esistente, im- porta la mia essenza
esistente. Pertanto, il problema della
metafisica come scienza degli esseri, cioè di chi e che cosa è l’esistente in quanto tale, ci sembra quello
del supremo atto di esistere, del
principio primo dell’esistenza individuale, cioè l’atto di creazione. Io sono un’essenza-esistente: lio sozo — il
fatto che esi- sto — pone il problema
del mio esistere, pone me stesso come
problema. Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato; se mi ha pensato, sono da una sua idea;
dunque il Qualcuno è Intelligenza; se mi
ha fatto esistere, mi ha voluto, dun-
que è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole e mi ama ancora per il fatto che continuo ad
esistere. Jo sono un'idea di Dio, voluta
da Dio; tutti gli esseri sono idee di Dio,
volute da Dio: pensate e volute una per
una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e vo- 124 Filosofia e Metafisica luta da Dio. Il reale in quanto reale è
verità (ens e: verum convertuntur, in un
senso qui differentissimo da quello dello
Hegel), secondo l’immortale scoperta di Platone, che ab- biamo fatto nostra attraverso la
trasposizione di Agostino e il
ripensamento del Rosmini. Idea (verità) qui significa singolarità: Dio crea i singoli come singoli
e ciascuno di essi conosce e vuole come
singolo. Le idee divine non sono i no-
stri concetti astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, fac- tivae rerum. La conoscenza discorsiva 0 per
concetti non esprime questa singolarità,
ma solo un elemento dell’esistenza
concreta, la quale è espressa da quelle forme superiori di conoscenza, che pur la includono, come per
esempio l’at- to morale, in cui la
relazione è da persona a persona, da
esistente ad esistente; che è tale solo per la presenza del supremo atto di esistere, per cui il singolo
è singolo e rico- nosce l’altro come
altro. Questa consapevolezza non dà
però il possesso dell’atto supremo
dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta solo l’esistenza e accende nella creatura il
desiderio del pos- sesso: la conoscenza
dell’atto supremo di ogni esistente è il
limite assoluto della metafisica. Qui la filosofia si ferma e si apre alla religione, come quella che ha
scoperto l’uomo all'uomo, gli ha
rivelato la radice del suo essere, il
significato del suo vivere, la finalità del suo pensare e del suo volere. Questa filosofia è metafisica
sic et sim- pliciter, che non contrasta,
come crede lo Scheler, con la religione,
ma ne è la preparazione razionale. È vero, come
dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto che l’esistente non trova in sè ma sopra di
sè l’atto del suo esistere, scopre le
mie possibilità, il mio destino, ma non
nel senso della finitezza « inesorabile » e della « nullità » (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta
«sprofondato» (herabgesunken), bensì
nell’altro della. mia possibilità su-
prema di poter essere tutto il mio essere nella suprema aper- tura all’Essere. L’In-der-Welt-scin è
essere-nel-mondo, ma Concetto di
metafisica 125 per essere-per-Dio.
Proprio la finitezza implica il riferimento
all'infinito: non « chiude » ma «apre » l’orizzonte. Non dal nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il
mio essere, per cui il problema
dell’essere concreto « gettato nel mon-
do », non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere asso- luto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode,
certamente; ma in quanto la morte,
direbbe Platone, è passaggio all’evi- denza
di quell’ordine (il vero) ontologico, che, qui, l’uomo non può mai cogliere con le sue sole
forze. Realtà è verità: io sono una
verità di Dio e perciò so- no qualcuno
che è e non nulla. Dio è l’Essere Verità
creante, Logos, e ha fatto che io fossi, pensandomi e volendomi; Verità illuminante e perciò ha
voluto darmi il lume della intelligenza
e della ragione, affinchè di Lui leg-
gessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi la presenza in me, Lo volessi sempre senza mai
interamente pos- sederLo. Non posso
strappare il mio essere dalla sua radice,
staccarlo dalla sorgente; dunque sono attratto irresistibil- mente 4/ di lè: ogni uomo è per natura
metafisico. La ve- rità, dice Agostino
(De vera relig., XXX I, n. 66), è quella
quae ostendit quod est: per quel che io sono, sono vero. La verità assoluta è l’Assoluto Essere,
verità creatrice a cui le cose sono
simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî). Io ho dell’essere o del vero, non sozo
l’essere o il vero, ma appunto perchè ho
e non sono, sono per l’Essere o il Vero.
Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia finalità ultima, che l’intelligenza e la
ragione mi indicano, ma che non bastano
per farmela conseguire. Nello stato
attuale debbo cercare o amare — perfecte quaerere — ciò a cui tendo, ed oltrepassarmi. CapitoLo II DISCUSSIONE
INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA
|. — Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni. In un lunghissimo articolo di più che 60
pagine, I! con- cetto di Metafisica e lo
Spiritualismo cristiano, pubblicato
nella « Rivista di filosofia nescolastica » (1, 1949), il Rev.mo Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal
fascicolo (IV-V, 1947), che questa
Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre
che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto
in Italia e al- l’Estero sotto il nome,
del quale sono responsabile, di « Spi-
ritualismo cristiano ».
Naturalmente terrò presenti in questa risposta solo le obiezioni che mi riguardano direttamente e di
esse in spe- cial modo quelle che
toccano l’essenziale. Debbo ancora dire
che, alcune di esse hanno già avuto risposta, spero chiaritiva, in molte pagine raccolte in
questo volume. Ciò mi obbliga a non
dilungarmi oltre il necessario, sia per-
chè i punti della discussione si possono precisare e chiarire brevemente, sia per non ripetermi. Premesso
qualche rilievo, accennerò ad alcune
questioni marginali; m’intratterrò da
ultimo su quattro punti essenziali.
Monsignor Olgiati riconosce onestamente che la posi- zione metafisica che io difendo e sostengo
rappresenta « un così largo e diffuso
indirizzo di idee » che, se dovesse valere
Concetto di Metafisica 127 il
criterio della maggioranza, Aristotele e S. Tommaso « non raccoglierebbero oggi se non pochi voti »; e
aggiunge: « For- tunatamente nel campo
nostro non contano le adesioni, ma le
ragioni » (p. 18). Mi permetto domandare a Mons. Olgiati: e che pensiamo delle ragioni senza adesioni?
fino a che punto valgono? la verità è
sterile o è feconda? le adesioni, guan-
tunque da sole non costituiscano la verità di un princi- pio, non sono indicative della sua presa e
della sua forza? Si aggiunga che queste
adesioni non mancano da oggi, ma ormai
da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Uma- nesimo in poi, ancora continua efficacemente
il pensiero tradizionale ed ha avuto
influsso nel corso della civiltà, è
platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fio- rentino, Cusano e Campanella, Malebranche e
Pascal, Vico e Rosmini, Gratry e Blondel
ecc. ecc. Si faccia eccezione di Suarez
e di Balmes ed oggi di qualche studioso di primo piano e mi si dica quale è stata ed è
l’influenza feconda e fecondatrice del
tomismo negli ultimi sette secoli del
pensiero occidentale. Ho detto del tomismo, non di S. Tom- maso, che è operante anche nella tradizione,
diciamo co- sì, agostiniana, come
Agostino è profondamente operante nel
pensiero del Santo di Aquino, secondo che hanno dimo- strato gli spiritualisti cristiani e non
pochi eminenti to- misti. Sarei quasi
tentato di dire che il tomismo, almeno
storicamente, sia in buona parte responsabile della poca efficacia di S. Tommaso. Ecco perchè io non
metterei così insieme, quasi due
fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate
se non altro per non compromettere quest’ultimo addossan- dogli indiscriminatamente alcune
responsabilità non sue. 2. — Questioni
marginali. Ed ora qualche accenno a
questioni marginali. a) Mons. Olgiati
nel suo articolo ritiene indispensabile
innanzi tutto richiamare il concetto di metafisica « sia come 128 Filosofia e Metafisica è inteso da Zui secondo i principî della
filosofia classica », sia come è inteso
da me (p. 4). E il mio, che si appoggia
a Platone ed Agostino senza affatto trascurare Aristotele e S. Tommaso, non è inteso secondo i principî
della filo- sofia classica? o i principî
della filosofia classica sono quelli di
Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una vir- gola, monopolio della Neoscolastica di
Milano? b) Secondo Mons. Olgiati, io
(e il Blondel) non ho il «concetto del
concetto »; ma come avrei potuto formulare
lo stesso tema: « Che cosa è metafisica » (cioè qual'è il con- cetto della metafisica), se questo ben
dell’intelletto mi fosse mancato? Il
concetto del concetto non è mai mancato a
nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate scoprisse il concetto: si tratta solo di intenderlo in
maniera astratta o concreta. Nè io nè
Blondel neghiamo il valore della ragione
o dell’intelletto, senza di cui l’uomo cesserebbe di essere uomo, la filosofia filosofia e il pensiero
pensiero. E ciò ho detto e ridetto in
ogni circostanza, perchè questo ritornello
mi è stato cantato altre volte; altrettante è stato da me detto e ripetuto che dalla ragione non si può
prescindere e che il problema primo è
quello della verità senza di cui non c’è
neppure carità. Credo superfluo insistere su questo punto, non senza però cogliere l’occasione di dire
che è mio desi- derio che venga tenuta
distinta la mia posizione, quale che
sia, da quella del Blondel. Che io abbia simpatia per il pen- satore francese è vero; che il Blondel abbia
contribuito a formarmi intellettualmente
e da me sia stato difeso a vi- so aperto
da fraintendimenti ed accuse infondate, è anche
vero; ma che io l’accetti in pieno e sia blondeliano è asso- lutamente gratuito. Perciò non comprendo come
l’Olgiati possa scrivere che rispetto al
Blondel io sia «ancora nel periodo del
primo entusiasmo » (p. 61). Niente affatto: non
« primo » perchè l’influenza diretta ed evidente del Blondel c'è già nelle Linee di uno spiritualismo
critico di tredici anni or sono (1936);
nè « entusiasmo » (ma che Mons. Ol-
Concetto di metafisica 129
giati pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entu- siasmo per nessuno, ma solo per la Verità e
dunque per ogni pensatore, quale che sia,
per quel tanto di verità che contiene.
Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta
che ho difeso la filosofia blondeliana in più di una cir- costanza ed ho polemizzato contro quanti
Blondel hanno spesso criticato senza
neppure leggerlo. La verità va rispet
tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere
in vista quel poco di verità che
contiene lo Spiritualismo cristiano degli
altri e mio, quel minimum comune, fondamento per inten- derci anche attraverso la discussione e i
dissensi. I casi sono due: o lo
Spiritualismo cristiano ha una sua verità ed è bene partire da questo consenso fondamentale; o
non ne ha alcuna ed allora è inutile
discuterlo. c) In un punto del suo
articolo (p. 38) l’Olgiati scrive che io
posso replicargli che « non afferra » la mia «idea precisa colui che mi muove simili critiche ». Sono
costretto a dirgli, dopo aver letto
attentamente il suo articolo, che egli ha pro-
prio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non abbia afferrato la mia idea precisa. E lo
dimostrerò repli- cando sui punti
essenziali, oggetto di questo nostro dibattito. 3. — Se hanno una metafisica anche le
filosofie che la negano. Il primo
punto di dissenso, pur non così radicale come
crede l’Olgiati, concerne i concetti di filosofia e metafisica. Per Mons. Olgiati, vi è una metafisica
iniziale presente in ogni filosofia,
quale che sia: non c’è filosofo che possa
filosofare senza avere, sia pure implicitamente, una sua con- cezione del reale, cioè senza avere risposto
alla domanda metafisica di che cosa è la
realtà in quanto realtà; ma chi ha una
concezione del reale quale che sia, ha una sua meta- fisica; dunque non c’è filosofo o filosofia —
anche quei filo- sofi e quelle filosofie
che si dicono antimetafisiche — che non
130 Filosofia e Metafisica
nutra nel suo seno una metafisica, altrimenti « non potrebbe mai aspirare ad una spiegazione filosofica
della realtà » (p. 5). Questo il punto
di vista di Mons. Olgiati, il quale certa-
mente si meraviglierà che io dica di essere d’accordo con lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia
tale, la quale non sia metafisica, come
vado ripetendo da anni, dal Pro- gramma
metafisico, redatto assieme all’Aliotta, della Rivista «Logos» del 1937, alla Necessità di una
coscienza meta- fisica, articolo
pubblicato nello stesso « Logos» (1939) e ri-
prodotto e discusso in quell'epoca da una decina di riviste. E allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me
oggi è diffusa, e purtroppo anche
accreditata, la pretesa che si possa fare
filosofia abolendo la metafisica, cioè esimendosi dal rispon- dere alla domanda considerata inutile o
inesistente, di che cosa è la realtà in
quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribat-
tere: «ma questa non è filosofia ». Appunto: è proprio quello che ho detto anch'io nell’articolo che
si discute come altrove, e qui ripeto. È
proprio qui la crisi della metafisica o
della filosofia: non nell’avere anche inconsapevolmente una quale che sia concezione della realtà in
quanto realtà, ma nel rinunziare
consapevolmente a questo problema e
pretendere di fare ugualmente filosofia e di spacciare per vera quella che abolisce o ignora il problema
metafisico. La crisi di una disciplina è
manifesta quando si nega il suo oggetto
proprio e ad essa essenziale perchè di essa costi- tutivo e si continua a dire che, anche così
negata nella sua es- senza, è ancora
viva come quella disciplina. Nel caso nostro
si dice che è filosofia « la non filosofia », cioè il suo
contrario; è come dire che è falso il
vero ed è vero il falso. Quando nego che
queste « filosofie » hanno una metafisica, contro l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene
il contrario, e con ciò che siano
filosofie, voglio chiarire un equivoco dan-
nosissimo e richiamare l’attenzione di questi cosiddetti filo- sofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e
a me: « prescin- dete pure dalla
metafisica ma non parlate più di filosofia in
Concetto di metafisica 131
quanto questa cumincia con la domanda metafisica; voi do- vete ancora incominciare a filosofare, anche
se vi chiamate filosofi o anche se la
gente ignara e volgare vi considera tali
». Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi punti — e non può non esserlo perchè
l’accordo c’è: una pura descrizione fenomenologica
o empiricamente psicologista è
metafisica o filosofia? No di certo, perchè non pone nè sottintende il problema metafisico; eppure
quante di queste descrizioni oggi si
dicono filosofie e passano per tali? Una
pura ricerca metodologica, scientifica o storicista, è metafi- sica? I metodologi non dicono che il reale,
in quanto reale, è il fatto storico o
altro, ma in altro modo e cioè: « noi ci
interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un
reale o no»; ed aggiungono che questa è
filosofia. Io dico di no, che non lo è,
appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il problema metafisico. Evidentemente la
filosofia incomincia (e perciò non è
scienza, nè storia, nè economia, nè altro,
quantunque questi problemi possano — debbano — essere posti filosoficamente come problemi del
valore e del senso ultimo — metafisico —
della scienza, della storia ecc.), quando
non ci si ferma al fatto e alla descrizione di esso, ma si va al di là, se ne cerca metafisicamente la
intelligibilità pro- fonda, la sua
verità nella verità. Riassumendo: Mons.
Olgiati vuole mettere i cosiddetti anti
o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della filosofia, non potete sfuggire alla domanda
metafisica di che cosa è il reale in
quanto reale, perchè tale domanda è essen-
ziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la meta- fisica, siete in contraddizione con voi
stessi, perchè la filo- sofia, ogni
filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece voglio dimostrare loro che chiamano filosofia
quella che non è tale. E su questo punto
mi pare di aver ragione: a chi abolisce
il problema metafisico e la domanda di che cosa è la realtà in quanto realtà, non si può dire
che sia in con- 132 Filosofia e
Metafisica traddizione, ma gli si
deve dire: quella che voi chiamate
filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della meta- fisica fa a meno della filosofia; voi
spacciate per genuina una merce falsa.
Che siano in contraddizione glielo con-
cedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede infatti l’Olgiati che i «filosofi »
dell’assurdo e del nulla temano di
essere in contraddizione, loro che ormai hanno
paura dell’essere e della verità? Gli dicono che appunto la loro è una metafisica della contraddizione e
del nulla e 1’Ol- giati dovrà
acconsentire che anche questa è una metafisica,
cioè che è metafisica la negazione dei due elementi essen- ziali di ogni metafisica: l’essere e la
razionalità. L’Olgiati si meraviglia
come non riesca a capacitarmi che « filosofia
senza metafisica è un assurdo » (p. 6); mi consenta che io mi meravigli come egli non si accorga che
sono perfetta- mente d’accordo con lui.
Ma io aggiungo che oggi si pre- tende di
fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimo- strare che tante cosiddette « filosofie »
odierne, più che con- tradditorie ed
assurde perchè si dicono antimetafisiche men-
tre una metafisica ce l’hanno, non sono filosofie affatto perchè di fatto rinunziano ad averne una.
Aggiungevo però: pur privi di una
metafisica, come posizioni di un pensiero
quale che sia, portano in loro « immanente, intrinsecamente, l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile
della metafisica ». E questo perchè si
può sospendere la risposta alla domanda
metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che pensi, non si può sopprimere la sua esigenza.
Mi pare che la mia critica sia più
efficace: negare ad ogni filosofia che
rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di con- siderarsi tale e d’altra parte costringerla a
riconoscere nello stesso tempo che pure
ad essa, come ad ogni posizione di
pensiero, è intrinseca l’esigenza metafisica, che si può mi- sconoscere solo per difetto di
approfondimento critico. Ma si è che
Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di « esigenza », quasi questa parola sia una sgrammaticatura
insopportabile dalla correttezza dei
linguaggio filosofico. Concetto. di
metafisica 133 4. — Metafisica e
trascendenza. L’Olgiati è rimasto
quasi scandalizzato — qualche tomi- sta,
com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati, si è meravigliato come io abbia potuto
prendere simili ab- bagli — della mia
affermazione che « metafisica è uguale tra-
scendenza »; d’altra parte, io accetto la definizione aristote- lica della metafisica come « scienza di che
cosa è la realtà in quanto realtà ». Il
mio critico obietta: tra le due tesi c'è
contraddizione (p. 30); poi si avvede che, almeno per me, contraddizione così grossolana non c’è e
si sforza di intendere meglio il mio
punto di vista. Io non vedo, se mi si fa
dire quello che dico, dove sia mai la contraddi- zione. L'equazione da me affermata e chiarita
di metafisica e trascendenza non può
essere intesa alla maniera dell’Olgiati
e cioè: «bisognerebbe concludere che la metafisica non è la scienza dell’ente in quanto ente, perchè
non ogni ente è il Trascendente » (p.
30). E’ evidente; ma con simili in-
terpretazioni la discussione non farà mai un passo apprez- zabile. La mia affermazione significa solo
questo: se meta- fisica è scienza di che
cosa è la realtà in quanto realtà essa
porta implicito il problema del fondamento primo incon- dizionato del reale, e dunque è implicitamente
trascen- denza, in quanto il fondamento
del reale non può essere immanente al
reale stesso e della sua stessa natura perchè,
in tal caso, sarebbe ancora un elemento del reale e non il fondamento primo di esso. Le soluzioni
immanentistiche pertanto sono
apparentemente metafisiche, in questo senso:
se il fondamento primo del reale, che è anche la sua finalità ultima, è immanente e della sua stessa
natura, noi ancora ci poniamo il problema
della « fisica » e non quello della « me-
tafisica », che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là della fisica e dunque trascendente il reale
dell’ordine natu- rale. Con ciò volevo
dimostrare che le filosofie immanen-
tistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il problema 134 Filosofia e- Metafisica metafisico, in realtà non pongono questo
problema, ma, es- sendo immanentistiche,
ripongono come problema metafi- sico
ancora quello « fisico », risolvendo così (cioè dissol- vendo, negando) la metafisica nella
gnoseologia, nella scien- za. Detto ciò,
è chiaro che non bisogna ridurre tutta
la metafisica alla trascendenza, nè confondere il concetto di « filosofia » con quello di « metafisica
», ma è anche evi- dente che non c’è
metafisica vera che non concluda razio-
nalmente alla trascendenza del Principio primo della realtà, nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è
la sua essen- zialità, in quanto
condiziona ogni altro problema filosofico.
Che poi la mia « trascendenza » (p. 32) me la concedono tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci
credo affatto, o meglio me la
concederebbero se essa fosse come la intende
il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso. Mons. Olgiati mi ammonisce che « per avere
una trascen- denza compatibile con uno
spiritualismo cristiano... occorre che
tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal dato e dalla totalità del dato stesso » (p.
32). E chi ha mai detto diversamente?
Nel passo che egli cita, infatti, parlo
di oggetto della ricerca che trascende la ricerca stessa e se la trascende non dipende da essa ed è di
altra natura; di un principio assoluto
che fonda e condiziona il mio ed ogni
filosofare e perciò trascende il pensiero e se lo trascende è di natura diversa dal pensiero e dalla
totalità di tutto l’or- dine naturale ed
umano. Ed è questa la trascendenza che
mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che l’Olgiati interpreta tutto il mio passo
immanentisticamente. Un momento: non mi
ha poco prima, se non ricordo male,
rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza? Dunque, secondo il mio illustre
contradditore, io dico che metafisica è
trascendenza e poi riduco la trascendenza alla
immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obie- zioni tra loro contraddittorie. Chiariti
questi punti essenziali, Concetto di
metafisica 135 posso risparmiarmi
di rispondere alle altre intorno allo stesso
argomento, che ne sono la conseguenza.
A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati mi fa due domande perentorie: 1) « E’ vero o
non è vero che ogni pensatore ha di
fatto e non può non avere un concetto di
realtà, il quale influenza ogni concetto del si- stema? » (p. 35). Mi pare di aver risposto
sopra abbastanza chiaramente e di aver
dimostrato come vi siano delle cosid-
dette filosofie che di fatto aboliscono il problema della me- tafisica. 2) «E’ vero o non è vero che il
problema della trascendenza non è il
prius, ma si collega al problema del
concetto di realtà in quanto realtà? » (p. 36). Ho risposto già anche a questa domanda, chiarendo in che
senso per me metafisica sia uguale a
trascendenza. Non è questione di prius
nè di posterius, ma di insidenza del concetto di trascendenza nella stessa domanda metafisica.
Se metafisica è, in fin dei conti,
ricerca del principio primo del reale,
cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso la metafisica è implicitamente ricerca del
principio trascen- dente del reale
stesso, in quanto l’immanenza del principio
fa di questo un elemento o la totalità degli elementi del reale naturale e come tale non più transfisico. In
questo senso, le soluzioni
immanentistiche del problema essenziale della me- tafisica, cioè del principio primo, sono
metafisiche solo ap- parentemente, in
quanto, se il principio non è transfisico, se
non trascende, non è ancora il cercato principio primo del reale, ma il reale stesso posto come
principio di sè a se stesso. Soluzione
erronea e dunque apparente, perchè l’er-
rore non è reale ed è reale solo la verità. E la verità della metafisica è la trascendenza, senza che
ciò signifi- chi che tutti i problemi
della metafisica stessa si ridu- cano a
quello della trascendenza, quantunque resti vero e dimostrato che il problema del principio
primo li subordini tutti. Quanto all’altro avvertimento di Mons.
Olgiati che l’esi- 136 Filosofia e
Metafisica genza non basta perchè
non è dimostrativa (evidentemente) ed è
necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio
quando egli scri- veva queste sue
critiche, avevo già redatto il mio studio
sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel « Giornale di me- tafisica ». Se l’Olgiati avesse tenuto
presente, oltre all’arti- colo sulla
metafisica, altri miei lavori, credo che le sue
obiezioni avrebbero avuto un’altra impostazione e parecchie di esse le avrebbe risparmiate a lui e a
me. 5. — L'interiorità come l'opposto
dell’immanenza. Più gravi
fraintendimenti son costretto a lamentare a
proposito delle obiezioni che Mons. Olgiati muove al con- cetto di interiorità, considerato in rapporto
alla metafisica. Egli parla di «
esigenza » dell’interiorità (pp. 4, 36 e passim); dell’interiorità come « aspirazione », «
anelito » ecc. (p. 34); ma l’interiorità
è molto di più e di diverso: è presenza e
vita della verità in me.
Evidentemente io parlo di « metafisica dell’esperienza interiore » nel senso agostiniano dei
termini; e dunque qui non si tratta di
origine psicologica della ricerca filosofica
nè di cose simili, bensì di una metafisica che muove dal dato reale più ricco ed eminente nell’ordine della
natura, che è la vita spirituale; ed è
proprio dall’analisi del dato reale-uomo
(o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore non è altrettanto esperienza e più valida di
quella esteriore ?) che scaturiscono la
trascendenza e la dimostrazione dell’esi-
stenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La meta- fisica è scienza della realtà in quanto
realtà; tra gli enti reali c'è l’uomo
che è spirito e lo spirito è realtà; dunque perchè non posso prendere le mosse dall’uomo inteso
come realtà spirituale e dallo spirito
come interiorità nel senso agostinia-
no? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi « metafi- sica uguale trascendenza con l’altra di una
metafisica in- Concetto di metafisica
137 teriore (ossia di una
metafisica uguale immanenza) ...» (p. 37).
Sfido che non lo vede se mi scrive che interiorità è uguale ad immanenza; ma che colpa ho io se lui non
vede? Proprio l’opposto, infatti:
l’immanenza è la negazione dell’interiorità,
la quale, intesa correttamente, importa la trascendenza non fondata su dati puramente psicologici, ma sul
dato reale che è lo spirito; non sui
sassi e le zucche, per usare i termini
adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo una domanda precisa: l’interiorità di Agostino è
trascendenza o è imma- nenza? Se è
trascendenza, la mia è trascendenza e la sua
obiezione non riguarda il mio modo di concepire l’inte- riorità; se invece per lui è immanenza,
ebbene, con tutto il rispetto che ho per
la sua autorità, resto con Agostino, si-
curo di non rischiare l’immanenza e lascio a Mons. Olgiati la responsabilità delle sue gravi
affermazioni. La verità è che l’Olgiati
tiene presente l’interiorità così come è intesa
dal pensiero moderno e contemporaneo. Infatti, a pag. 43 egli scrive: « la metafisica classica, ben
lungi dallo svaloriz- zare l’interiorità
o dal trascurarne le esigenze, è la sola che
salva l’una e può appagare le altre mentre, sotto le appa- renze mendaci dell’interiorità, la filosofia
moderna e con- temporanea è orientata
verso l’esteriorizzazione ». D'accordo: la
filosofia moderna, che ha creduto di approfondire l’in- teriorità riducendola all’immanenza, ha
negato l’interiorità autentica, la ha
esteriorizzata. E non è stato e non è ancora
oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, con- tro la mendace interiorità del pensiero
moderno, la verace interiorità
agostiniana? Proprio su questo punto ho manife-
stato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini, a proposito di una discussione intorno al Vico
tra lui e il pro- fessor F. Amerio («
Giornale di metafisica » nn. 5-6, 1948).
Sono costretto a riportare alcuni passi che mi sembrano la più soddisfacente risposta a quanto mi
obietta Mons. Ol- giati: « Vi è qui un
problema storico e uno teoretico, distinti
evidentemente, ma non separati e separabili: 1) tutto il pen- 138 Filosofia e Metafisica siero medioevale-scolastico è irretito
nella metafisica greca (aristotelica) e
nel carattere cosmologico di quest’ultima? Evi-
dentemente no, e il Carlini, maestro di storia della filosofia, lo sa meglio di noi; nello stesso S. Tommaso
vi è più di Agostino che di Aristotele,
più di metafisica cristiana che greca,
più senso d’interiorità di quanto non sembri a prima vista... 2) Aggiungo ancora — ed il Carlini
si scandalizzerà — che il pensiero
moderno, pur combattendo la Scolastica, ha
ereditato dalla Scolastica proprio l’aspetto di essa più lon- tano da quell’interiorità che tanto sta a
cuore al Carlini e a me, cioè il suo
cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato
tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gen- tile che la trascendentalità idealistica è
condannata all’este- riorità, a
disperdersi nel mondo, a negarsi come inte-
riorità? che lo storicismo idealista è, in ultima analisi, po- sitivismo ed anche empirismo, dove quel che
non si salva è proprio l’interiorità
dello spirito ?... È qui il punto della que-
stione: l’idealismo immanentista ha decapitato l’interiorità cristiana; ne ha accettato il lato, diciamo
così, immanenti- stico, ma l’ha privata
della trascendenza che le è essenziale,
del trascende et te ipsum, che è il suo principio e il suo fine e senza di cui cessa di essere interiorità
autentica e si perde nella scientificità,
nella storicità, cioè nell’empiria. Su que-
sto punto noi non possiamo non essere che critici intransi- genti del pensiero moderno proprio per
recuperare quell’in- teriorità che esso
ha finito per perdere » (Sciacca, Il pen-
siero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi per- metta ancora l’Olgiati di rimandarlo anche al
vol. I del mio S. Agostino (Brescia,
Morcelliana) per risparmiargli la fa-
tica di continuare a portare vasi a Samo. E giacchè siamo su questo tema, desidero
pregarlo di non rimproverare più, almeno
chi scrive, che lo Spiritualismo cri-
stiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che questa obiezione (parlo sempre soltanto di
me), fino a qual- che anno fa, mi poteva
essere mossa; oggi non più. Se la mia
Concetto di metafisica 139
personale posizione, quale che sia la sua minima importanza, ha un significato nella filosofia
contemporanea e soprattutto dentro lo
Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini, è precisamente quella di aver tentato di
oltrepassare la posi- zione esigenziale:
i miei ultimi scritti credo che non lascino
più dubbi a questo proposito. Desidererei che Mons. Olgiati o altri ne tenessero conto. L'ultimo argomento dall’Olgiati discusso
riguarda «il progresso a proposito del
concetto stesso di metafisica » (p. 9).
A questo proposito possiamo essere brevi. In tutto il mio studio, come ha rilevato lo stesso Olgiati,
ho tenuto fermo il concetto
aristotelico, che è anche platonico, della metafisica come scienza della realtà in quanto realtà:
questo il concetto di metafisica e non
c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà
in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente. Su questo punto l’Olgiati concede (p. 58) che
«è certo che nella storia della
metafisica classica S. Agostino e S. Tom-
maso non sono puramente e semplicemente ripetitori di Ari- stotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in
qual modo! Chi non sa che è tollerabile
parlare di S. Agostino, come del Pla-
tone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cri- stiano, solo a patto di riconoscere nei due
nostri pensatori uno spirito
essenzialmente diverso e non paragonabile a
quello dei due pensatori greci? Potrebbe quindi sembrare che la storia deponga a gran voce contro di
me. Anche per- chè, prescindendo da ciò
che io penso a proposito della inte-
riorità cristiana in metafisica e delle tesi di Armando Car- lini, è indubitato che dai principî della
metafisica greca i grandi filosofi
cristiani hanno saputo far sgorgare conse-
guenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene non vi aveva intuito. Il problema del male e
il concetto filo- sofico di creazione,
nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, se-
gnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... ». Dunque per la riduzione del concetto di realtà al
concetto di ente progresso c’è stato e
ci potrà essere ancora, senza che ciò
140 Filosofia e Metafisica
faccia che non sia verità quello che di verità si è scoperto. È evidente che questo non significa progresso
del concetto di metafisica, di cui non
c’è progresso, come non ce n'è, per
esempio, del principio di contraddizione. Mi pare però che subito dopo l’Olgiati confonda i due
problemi del con- cetto di metafisica —
senza progresso, una volta scoperto — e
della metafisica aristotelica, quando scrive: «come non pro- gredisce la definizione di triangolo o di
circolo, quando un matematico scopre un
nuovo teorema a proposito dell’uno o
dell’altro, pur essendo tale teorema contenuto nel con- cetto di quelle due figure geometriche, così
non si può par- lare di progresso nel
concetto di metafisica, quando, ad esem-
pio, si vede che il concetto di ente in quanto ente, nel caso di un rapporto di non identità tra essenza ed
essere, conduce mediante un ragionamento
ad ammettere la creazione... » (p. 58).
Che il concetto di creazione non importi progresso. nel puro concetto della metafisica è vero; ma
qui si tratta di sapere se non ne ha
importato nella concezione metafisica
aristotelica. È stata tale rivoluzione il concetto di creazione, che non si vede affatto come possa reggere
l’esempio del triangolo o del circolo.
Teniamo distinti i due problemi ed il
progresso della metafisica da Aristotele a quella di Ago- stino e Tommaso è innegabile ed immenso. 6. — Ultime precisazioni. Mons. Olgiati a pag. 43 scrive: «lo
Sciacca... ha rac- comandato di non
compromettere la realtà spirituale per
amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristote- lica, della filosofia come cosmologia, ossia
per amore di una metafisica pagana ed il
Carlini aderisce toto corde a tale
preoccupazione. Ma che importa se la scienza dell’ente in quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè
nè pagana nè cristiana; è umana. Che la
sua scoperta sia dovuta ad un pagano
nulla toglie al suo valore, il quale non ha nes- Concetto di metafisica 141 sun rapporto col paganesimo. A noi
sembra che non è lecito qualificare come
naturalistica la metafisica aristotelica. Non
ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era quello di un santo medievale come lo era
quello di S. Tom- maso ». Tutto quello
che non sembra preoccupare ed inte-
ressare Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltis- simo. Precisiamo il nostro punto di vista:
quando il Car- lini ed io parliamo di «
metafisica pagana » e qualifichiamo come
« naturalistica » quella di Aristotele, intendiamo dire che, dopo il Cristianesimo, quella concezione
metafisica — non diciamo il concetto di
metafisica — va integrata: si tratta non
di abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S. Tommaso. Evidentemente in questo
completamento i termini assumono un
significato che, senza tradire quello che dà ad
essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa opinione). Per esempio: di fronte al concetto
di creazione, che è il problema
esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può restare aristotelismo nella lettera e nello
spirito? Altro esem- pio: il Dio di
Aristotele è fine totale come lo è il Dio crea-
tore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo
dal campo strettamente filosofico; gli
rispondo subito (e credo di essere
tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono restare estranee l’una all’altra, almeno per
uno spiritualismo che ci tiene a
qualificarsi cristiano. Il Dio creatore
per amore, insegnato dalla fede, è una
verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata porta una rivoluzione metafisica, che è
appunto quella appor- tata prima da
Agostino nella metafisica dei cosidetti « Plato- nici » e poi da S. Tommaso in quella di
Aristotele. Ecco per- chè il Carlini ed
io chiamiamo cosmologica e naturalistica
la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teolo- gica e spiritualistica quella di Agostino e
Tommaso (quali che siano poi le
differenze tra i due pensatori) ed ogni altra
che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo 142 Filosofia e Metafisica — e certamente Mons. Olgiati lo sa meglio
di me — che molti tomisti oggi sono
orientati a mettere in luce l’originalità di
S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare più gli appro- fondimenti e gli avanzamenti anzichè le
identità. La Neo- scolastica italiana ci
tiene proprio tanto a restare ferma ad
un S. Tommaso abbarbicato tutto allo Stagirita e ad addos- sare al gran Santo le responsabilità della
filosofia aristotelica; a restare in un
isolamento — anche rispetto a tutte le altre
correnti di pensiero cristiano-cattolico, tomista o no — che comincia a diventare molto (troppo)
significativo ? Parrebbe di sì, se Mons.
Olgiati, con una espressione che mi ha tur-
bato, arriva a dire che « neppure gli stessi nobilissimi com- piti dell’apostolato » (p. 63) smuoveranno la
Neoscolastica che egli rappresenta. E a
che cosa la Neoscolastica non vuole
rinunziare? Ecco: al « primato della Luce che è Vita, ma che è Vita appunto perchè è Verità e Luce».
Certo; ma questa Luce, che è Vita perchè
la Vita è Verità e Luce non è più
Aristotele; e se Aristotele leggesse queste parole o le intenderebbe a modo suo, paganamente e
naturalisticamente, o vi capirebbe poco
o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella
natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e lo trova nella intimità dell'anima (spiritualismo
cristiano), nell’interiorità dello
spirito, senza che ciò significhi abolire la natura, il concetto, la ragione. Nello spirito la
cerca anche S. Tom- maso, che è
cristiano prima di essere aristotelico. Concludo con il Gilson: S.
Tommaso «on l’a beaucoup commenté, mais
fort peu suivi. La seule manière de le suivre
vraiment serait de refaire son oeuvre telle que lui-mème la ferait aujourd’hui à partir de mémes
principes et d’aller plus loin que lui
dans le méme sens et sur la voie mème qu'il a
Jadis ouverte » (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pa- gine 321-322). Non è questo un compito molto più proficuo che ripetere S. Tommaso invece di farlo
avanzare e di- fendere lo spirito
cosmologistico e naturalistico della me-
tafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a scuola, Concetto di metafisica 143 il Gilson e il Blondel, tomisti come De
Finance e tanti altri, la Neoscolastica
di Lovanio e gli spiritualisti cristiani italiani, tutti a scuola: da chi? Evidentemente alla
scuola dei grandi pensatori classici e
cristiani, di Platone e Aristotele, di Ago-
stino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella scuola dove già sono stati e nella quale
desiderano rimanere. 7. — Replica ad
una replica. Nel fasc. IV, 1949, della
« Rivista di filosofia neoscola- stica »
(pp. 401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del Carlini e mia. Lo ringrazio della
considerazione in cui ha voluto tenere
le mie pagine e di quanto scrive in questa
sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni accento polemico e limitandomi ad alcuni
chiarimenti e pre- cisazioni. Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle
concessioni: « E quanto, dal punto di
vista storico, si dice che l’amimus di
Aristotele era volto al mondo, all’empiria, alla realtà spe- rimentale, dalla quale assurgeva, come a
spiegazione finali- stica, all’Atto
puro, da lui riguardato in rapporto col mon-
do, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini, come lo Sciacca, hanno perfettamente ragione
» (pag. 406). E aggiunge che questo, più
che Aristotele filosofo, è lo scienziato,
quello che « anche quando... parla del mondo
intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo sensibile, all’espe- rienza, ossia, come io direi, con
preoccupazioni empiriche » (iv:). Resta
da vedere fino a che punto l’Aristotele « scien- ziato » influenzi Aristotele « filosofo » e
lo condizioni; se il filosofo, almeno un
filosofo che oggi si dice « cristiano »,
non debba proprio fare all’inverso, cioè: anche quando parla del sensibile farlo con l’occhio volto sempre
all’intelligibile e cioè, direi io, «con
preoccupazioni non empiriche »; così
come fa Platone, che pure non è cristiano, anche se l’Acri ha voluto farne il pagano profeta di Cristo. 144 . +» . Filosofia e Metafisica L’Olgiati pensa che Aristotele, partendo
dal sensibile, «ci ha invitato a
riguardar quella realtà sensibile o speri-
mentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro tutti co- loro — Hume e Kant compresi — che avrebbero
dichiarato l'impossibilità di superare
con i nostri concetti l’esperienza,
Aristotele ci ha insegnato — mediante la sua metafisica — concetti e leggi, che, quanto alla loro
origine, hanno le radici
nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e non possono non verificarsi in ogni realtà ed
in ogni mo- mento di qualsiasi realtà,
anche non sperimentata, nè da noi
sperimentabile » (p. 407). Dubito che, se tutti i concetti e le leggi hanno, quanto alla loro origine,
le radici nella esperienza, possano poi
verificarsi, quanto al valore, in ogni
realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile; credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e
le leggi hanno aristotelicamente le
radici nell’esperienza, avrebbero qual-
cosa da dire proprio intorno alla possibilità di oltrepassare coi nostri concetti l’esperienza stessa;
tranne che non si di- mostri che tutta
la critica della conoscenza e il concetto
critico di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni stiano a provare soltanto che il pensiero
moderno di quella metafisica ha capito
niente o pochissimo; che è come dire che
quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fon- damentalissimo, non contano affatto. Credo,
invece, che, a questo proposito, vadano
poste due precise domande: 1) quell’«
origine » (l’esperienza sensibile) rende davvero pos- sibile che, in quanto al « valore », concetti
e leggi si verifi- chino universalmente,
anche in una realtà insperimentata ed
insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che non ha radice nell’esperienza sensibile,
rende proprio es- so possibile la
formulazione dei concetti e ne garantisce
il valore? 2) La posizione aristotelica, al cui insegnamen- to Mons. Olgiati ci incita, non è forse
almeno in parte responsabile di quella
critica della metafisica, a cui il pen-
siero moderno è stato gradualmente portato? In altri ter- Concetto di metafisica 145 mini, è da chiedersi se il pensiero
moderno non sia un ari- stotelismo
critico, cioè un giudizio su Aristotele o un appro- fondimento spinto fino alla negazione della
possibilità di una metafisica come
scienza, se aristotelicamente impostata.
Oppure ancora così: il razionalismo e l’empirismo moder- ni come il criticismo kantiano concludono col
« sospendere » la metafisica, in quanto
si allontanano da Aristotele e l’in-
tendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto ereditano proprio la mentalità «scientifica »
del « filoso- fo» Aristotele e sue preoccupazioni
empiristiche che, quanto sembra, non lo
abbandonano mai, anche quando costr
uisce la sua metafisica come scienza dei principi pri- mi del mondo fisico, che si continua in
quello celeste e cul- mina nel Motore
Immobile? L’Olgiati riconosce ancora
che il Carlini ed io abbiamo ragione («è
verissimo ») di sostenere che S. Tommaso non
è Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e « l’uti- lizzazione di S. Agostino. Son lieto di
rilevare quest'altro pun- to di accordo
con il mio illustre contraddittore (stiamo in-
fatti discutendo da circa un anno), il quale così continua: «La creazione implicava per lui [S. Tommaso]
l’impos- sibilità di ripetere a riguardo
delle forme la parola citata dagli «
Analitici » res ita est et non potest aliter se habere: no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio,
Libertà assoluta, le avesse create
diverse » (p. 407). Mi domando se il con-
cetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e propria rivoluzione metafisica; ma basta solo
quel « Dio Libertà assoluta ». Ora, se
le cose stanno come anche l’O.
riconosce, che resta della «costruzione » metafisica aristo- telica? Il concetto di metafisica, scienza
della realtà in quanto realtà? Ma
concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica, resta da vedere se quella che egli costruisce
sia vera e fino a che punto, se identica
a quella di S. Tommaso e defi- nitiva.
Non mi pare che l’O. stesso sostenga questa tesi, in quanto ammette tra la metafisica aristotelica
e quella 146 Filosofia e Metafisica tomista differenze profonde. E questo
non è progresso? Perchè allora mi
ribatte quando parlo, e non in senso stori-
cistico, di progresso in metafisica? L’O. precisa ancora: « L’animus di S. Tommaso non è più
indirizzato verso l’em- piria; meglio,
studia anche la realtà fisica, ma con ben altra
preoccupazione che non Aristotele, e cioè con un orienta- mento metafisico » (p. 408). Se l’animus di
S. Tommaso non è più indirizzato verso
l’empiria, si ammette che lo sia quello
di Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra preoccupazione di quella dello Stagirita « e
cioè con un orien- tamento metafisico »,
significa ancora, proprio secondo l’O.,
che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è me- tafisico, ma, come sosteniamo il Carlini ed
io, cosmologico e naturalistico, cioè
scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son
grato a Mons. Olgiati delle differenze che egli segna tra Ari- stotele e S. Tommaso, le quali confermano
autorevolmente il mio punto di vista. Ma
tre righe più sotto si legge: « Fe- dele
ad Aristotele, egli [S. Tommaso] non perde mai il con- tatto con la realtà: nella realtà sta il suo
punto di partenza, la via da lui
percorsa e il punto d’arrivo ». Quale realtà?
quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che
vuol dire che l’animus del grande
Dottore non è più indirizzato verso
l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento metafisico? Francamente su questo punto
vorrei vederci chiaro e perciò
semplifico la questione: i concetti di « crea-
zione », della realtà come verità, di « spirito », di « libertà », ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo
e utilizzati da Sant'Agostino, una volta
introdotti da S. Tommaso nella
costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzial- mente intatta sì o no? Se tali concetti sono
operanti nella metafisica tomista, come
in quella di ogni pensatore cri- stiano,
non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica e non lo è sostanzialmente; altrimenti
bisogna ammet- tere — l’O. sembra
contrario — che il Cristianesimo e
Concetto di metafisica 147
l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente
identica a quella di Aristotele. Qui non
si fa questione del « concetto » o della
definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica di Aristotele; infatti, non basta dire che il
concetto di me- tafisica è identico nei
due pensatori, nè che vi è accordo circa
il concetto della realtà in quanto ente. È da questo punto che comincia la questione: che è
realtà? che è ente? Ora i concetti di
realtà e di ente che elabora Aristotele sono
quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione metafisica dei due pensatori è identica o no? i concetti di
analogia, potenza, atto, Motore immobile
o Dio sono identici nelle due me-
tafisiche o no? Se l’O. risponde di sì mi permetta di do- mandargli dove e in che modo S. Tommaso
utilizza S. Ago- stino e il
Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto rispetto allo Stagirita. Se risponde di no
deve concedermi che, pur sulla base del
concetto aristotelico di metafisica, la
metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e diversissima cosa da quella aristotelica, e
che, come sostengo, è
naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scanda- lizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed
atto, Motore immo- bile ecc. in S.
Tommaso hanno ben altro senso, sono pre-
gnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con quello della metafisica dello «scienziato »
Aristotele. Ma pare che l’O. voglia
limitarsi al puro concetto di
metafisica. In tal caso, però, si ferma alla definizione gene- rale senza entrare a considerare una
costruzione metafisica concreta, cioè
una concezione del reale e dell’ente ed è
costretto a limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto aristotelico-tomista è della metafisica come
scienza della realtà in quanto realtà. E
poi? L’O. mi obietta: « Il Prof. Carlini
è logico perchè mi respinge tale concezione del
reale. Invece il Prof. Sciacca dice di ammetterla e poi mi ostracizza come naturalistica la metafisica
costruita su quelle fondamenta » (423).
Credo di essere « logico » anch'io — non
148 Filosofia e Metafisica
come il diavolo dantesco, spero —: accettata quella definizio- ne della realtà in quanto ente, resta da
costruire la metafisica ed io ostracizzo
come naturalistica quella aristotelica; altro
è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è (o sbaglio?) accettare una determinata
costruzione metafisica. Non accetto
quella aristotelica — e desidererei sapere se S. Tommaso l’accetta così com'è — appunto perchè
naturalistica e perciò lontana da una
metafisica che tenga conto del Cri-
stianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste non trovo una sola risposta precisa in tutto
l’articolo di Mons. Olgiati. Infatti,
rispondendo al Carlini, egli dice che S.
Tommaso, « qualsiasi questione affrontasse... la pro- spettava metafisicamente »; e così esemplifica:
« discusse il problema della libertà
umana, ma non fu ad un argo- mento
psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’ar- gomento morale (l'impossibilità di
un'attività etica qualora non fossimo
autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto
alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del concetto di ente. Discusse il problema di
Dio: m a non fu al consenso dei popoli e
della storia, non alle aspirazioni del-
l’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale od alla vita che egli si indirizzò per le sue
vie, bensì ad un ente constatato ed alle
leggi dell’ente. Persino la teologia di
S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’ela- borazione del dato dogmatico in funzione
della metafisica dell’ente? » (p. 409).
Mi permetto osservare: ha ragione S.
Tommaso di rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette da parte l’argomento psicologico, quello
morale, le esigenze della vita ecc. ha
torto, perchè anche questi sono argomenti
che hanno il loro peso, e la convergenza degli argomenti è un argomento probativo; ha ancora torto
perchè questi ar- gomenti, se
approfonditi, hanno anch'essi una portata meta-
fisica; anche la vita psicologica e morale sono esperienza (lo è la spiritualità nella sua totalità ed
integralità) e vi è me-. tafisica
dell’esperienza interiore, dalla quale, a mio avviso, de- Concetto di Metafisica 149 vono passare quelle « vie » che
dimostrano l’esistenza di Dio. Inoltre,
concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i pro- blemi in funzione del concetto di ente e
della metafisica del- l'ente, resta da
precisare se la sua concezione metafisica sia
quella di Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come egli abbia fatto a trarre fuori da essa un
concetto di «li- bertà », delle prove
dell’ « esistenza di Dio » e persino una
« teologia » che traducono tutta la profondità e l'originalità di significato che questi termini hanno nel
Cristianesimo. Questo punto non lo vedo
chiaro e desidererei precisazioni ben
fondate. Ancora una domanda: Mons.
Olgiati a più riprese, nel- l’articolo
che discutiamo e in quello precedente, dice che
S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (p. 419); che non si può comprendere il significato
della parola es- senza, che pure è
indispensabile per dichiarare cos'è l’ente,
se non si « esulta » prima dinanzi alla « bellezza fulgente » del concetto agostiniano della realtà come
verttas; aggiunge che S. Tommaso non
ripete Aristotele; che utilizza il Cristia-
nesimo (per es. il concetto di creazione ecc.) ed Agostino. Desidererei che egli mi dicesse non così, in
generale, ma con- cretamente come S.
Tommaso completa, senza rinnegarlo, S.
Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se accetta il concetto agostiniano della realtà
come veritas « in- teriore »j che cosa
accetta della metafisica di Aristotele e do-
ve la modifica profondamente, cioè in quali tesi non è aristo- telico; se la sua metafisica, con la
introduzione di concetti cristiani ed
agostiniani, mancanti in Aristotele, si possa
chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo spirito profondo. Credo che un chiarimento
preciso su que- sti punti sarebbe molto
utile, soprattutto a me; e lo dico
sinceramente. Il lettore forse
non si sarà ancora accorto che fino ad
ora non ho risposto, tranne che in un punto, alla parte del- l’articolo dell'O. che mi riguarda
direttamente, bensì all’al- 150
Filosofia e Metafisica tra diretta
al Carlini; ma i punti toccati interessano anche me e perciò ho creduto opportuno
occuparmene. D'altra parte, il modo
d’intendere e di valutare la me-
tafisica di Aristotele come la questione dei suoi rapporti con quella di S. Tommaso sono i punti in cui
il Carlini ed io concordiamo quasi del
tutto, se si eccettua qualche giu- dizio
carliniano sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io, in alcuni punti fondamentali, dissentiamo
profondamente, come lo stesso Olgiati ha
qua e là rilevato e come si può vedere
dalla stessa risposta del Carlini all’Olgiati, dove il mio illustre amico ne ha anche per me. Ma è
bene che io qui mi limiti a rispondere
solo a Mons. Olgiati, altrimenti si
finisce davvero per confondere le lingue; e poi, contro due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole!
All’amico Carlini ri- sponderò a parte
nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘):
i dissensi in famiglia — e credo che siano forti — è bene che ce li discutiamo tra noi con il garbo e la
serenità che si con- viene tra amici e
che del resto, malgrado qualche espressione
vivace da ambo le parti, sono stati conservati anche nel di- battito con Mons. Olgiati. Che il dissenso con il Carlini sia rilevante
appare subito da queste mie affermazioni
categoriche: ritengo, anche dopo la
critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo la critica al massimo delle sue possibilità,
1) che si possa fondare una metafisica,
con cui identifico la filosofia nel
senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa metafisica sia quella della verità (dunque
punto di partenza è l’uomo nella sua
integralità), di cui Agostino è il maestro,
ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella linea della metafisica classica. Non esssermi
stato riconosciuto ciò dall’Olgiati è la
cosa — lo dico con tutta sincerità — che
più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare {non « gridare », come dice l’O.) di essere
stato frainteso; ma torniamo alla
discussione vera e propria. (1) La
risposta è stata data indirettamente in altra occasione. Concetto di metafisica I5Ì Mons. Olgiati dubita che io abbia avuto tra
mano (« se il prof. Sciacca prenderà tra
le mani» p. 421) il volume che
l’Università Cattolica pubblicò nel ’31 in occasione del centenario agostiniano. Lo rassicuro subito:
nel mio S. Ago- stino (volume I), da
poco pubblicato, lo cito una ventina di
volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta,
prego io l’Ol- giati di « prendere tra
le mani » questo mio volume e di leg-
gerlo con un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel Convegno di Gallarate del ’46, come
presentatore del tema « Agostinismo e
tomismo » sostenni, tenendo presente il Ma-
snovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità dei due grandi pensatori (« Atti del II
Convegno dei filosofi cristiani di
Gallarate », Milano, 1947). Ma lasciamo questo
punto secondario anche per evitare di continuare a consi- gliarci, l’O. a me ed io a lui, la lettura di
libri che cono- sciamo benissimo. L’Olgiati si mostra ancora preoccupato della
mia affer- mazione: «l’ontologia è
vincolata all’antropologia », in quanto
crede che essa apra le porte al relativismo; e aggiun- ge: «È il valore di assolutezza della verità
— tesi primale di S. Tommaso, di S.
Agostino — che ci sta a cuore» (pag.
423). A me invece, secondo l’O., starebbe a cuore il soggettivismo e il relativismo della verità;
a me che da quasi quindici anni combatto
l’uno e l’altro; distinguo — e ciò fa
arrabbiare persino il mio amico Carlini — tra « idealismo spurio » (soggettivo) ed «idealismo autentico
» (oggettivo) e contrappongo
energicamente alla tesi della « verità come
sviluppo » l’altra della «verità come scoperta », ecc. Ma tant'è, a me starebbe a cuore non il valore
oggettivo della verità, ma un assurdo
Cristianesimo «colorito di relativi smo
» (pag. 432). Se così fosse non avrei capito niente di Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei
ancor testa e piedi nel soggettivismo
idealista. Evidentemente le parole
«l’ontologia è vincolata all’antropologia » vanno intese diver- 152 Filosofia e Metafisica samente da come le intende l’O. che,
chissà perchè, quando mi fa l’onore di
discutermi, interpreta le mie espressioni in
senso idealistico e mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco, infatti, come intende quell’affermazione: «Il
nostro sapere sarebbe fatalmente
relazivo al soggetto; noi non potremmo
conoscere se non ciò che appare all'uomo in quanto uomo; ossia il relativismo si imporrebbe e non vi
sarebbe nessuna verità di valore
assoluto » (p. 423). Questo è inventare e non
criticare, per il gusto di far passare tutti da « fenomenisti », tranne Mons. O., unico interprete di S.
Tommaso aristotelico. Io dico
perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della cono- scenza umana non è dato dal soggetto ma
dall’oggetto, cioè dalla verità che è
presente (inzeriore) alla mente e per-
ciò è sempre verità di un soggetto pensante, senza che ciò significhi che è ad esso relativa. Ma il
soggetto pensante è l’uomo; dunque egli
è il soggetto del filosofare, avente co-
me oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante: non è il pensiero che fa essere (pone) la verità,
ma è la verità che fa che il pensiero
pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto
della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa, 1) non vedo dove stia il relativismo, in
quanto 2) la mia espressione «
l’ontologia è vincolata all’antropologia » signi- fica precisamente: l’ontologia è vincolata
all'uomo in quan- to soggetto di una
verità oggettivamente valida, di cui ha
profonda interiore esperienza. «Se noi siamo chiusi nel- l'antropologia, siamo e resteremo incatenati
nella esperien- za» (p. 425). Desidero
(posso sperare di riescirvi?) tran-
quillizzare l’Olgiati che #07 restiamo chiusi nel carcere del- l'antropologia perchè è presente alla mente
dell’uomo la ve- rità che lo spinge a
trascendersi fino a quando non abbia
trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon siamo e 207 resteremo incatenati nell’esperienza appunto
perchè quella in- teriore è esperienza
della verità oggettiva. Ho i miei dubbi che
questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue «preoccupazio- ni empiriche » e con quel suo star «sempre
volto al mondo Concetto di metafisica
153 sensibile, all’esperienza »,
dove «concetti e leggi... hanno le
radici »; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, in- vece, che il pensiero umano ha le sue «radici
» nella verità che gli è interiore
(esperienza, dunque, ma non la sensibile,
almeno in questo caso) e che tale verità ha il suo Prin- cipio ultimo, la Radice assoluta, in Dio.
Perciò, non è vero, come dice l’O., che
io « protesti di essere nello spirito » del-
l’aristotelismo e del tomismo, se per tomismo s’intende l’ari- stoteliimo di Aristotele; al contrario, non
vi tengo affatto ad essere nello «
spirito » dell’aristotelismo, e rifiuto il Mo-
tore immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se
anche S. Tom- maso, per l’O., sia
proprio nello « spirito » dell’aristotelismo
e se il suo Dio sia il Motore immobile aristotelico. Di passaggio rilevo un’altra espressione: «
Tuttavia dire spiritualità è dire,
almeno almeno, potenzialità della concet-
tualizzazione » (p. 427); ma la spiritualità, nel senso pre- gnante e profondo, è una verità cristiana,
ignota al pen- siero greco. E l’attività
dello spirito è solo potenzialità della
concettualizzazione? Per Aristotele sì, ma per la filosofia cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me
la piglio con «una scienza puramente
nozionale e di astratti ed esangui
rapporti o balletti logici». Se si identifica la spiritualità con la concettualizzazione o con quella che
Platone chia- ma la È:zvorx, sono
costretto a mantenere il mio punto di
vista e a contrapporvi una spiritualità più ricca e con- creta, la vénets, che del resto non nega
affatto il valore del concetto ed è
sempre molto meno della spiritualità cri-
stiana. Non credo che sia
necessario insistere nel chiarire l’altra
mia espressione « metafisica uguale trascendenza » dopo quanto ho detto in proposito nelle pagine
precedenti; nè mi sembra che quanto ora
aggiunge l’O. mi costringa a ritor- nare
sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia posizione non è sufficiente per arrivare alla
trascendenza, 154 Filosofia e Metafisica come non lo è quella dello Hegel, che
resta nell’immanen- tismo (p. 435).
Debbo anche questa volta ripetere che io sono
ben lontano dalla posizione idealistica, in cui l’O. mi vuol cacciare a qualunque costo. Passando ad altro argomento, non credo che
io abbia «confuso » (addirittura!)
«immanenza » con «immanenti- smo » (p.
436), ma ho semplicemente usato il termine im-
manenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno anche gli immanentisti. Perciò escludo che
interiorità sia uguale ad immanenza e
preferisco, appunto per evitare « con-
fusione », parlare di « presenza » od «interiorità » della ve- rità, anzichè di immanenza, termine ormai
compromesso. Che sia così, lo dimostra
proprio il fatto, ricordato dall’Ol-
giati, che per avere parlato di « méthode d’immanence » i filosofi dell’azione, quelli non modernisti,
si son visti ac- cusare di immanentismo
e si son tirate addosso una se- quela di
obiezioni e polemiche non di rado ingiuste e
infondate. Mons. Olgiati osserva
ancora: «se metafisica significa scienza
della realtà in quanto realtà, la realtà interiore io non la posso, in un primo momento, riguardare
in quanto interiore, ma solo in quanto
realtà ed allora avrà i concetti e le
leggi valide per ogni qualsiasi realtà e non solo per la realtà interiore. A questa difficoltà il
prof. Sciacca non ha risposto » (p.
437). La risposta, invece, è data da un buon
numero di miei scritti e la dà indirettamente lo stesso O. a p. 438: «E quando il pensatore d’Ippona mi
dice che la realtà è veritas ontologica,
è raggio che m’invita a conoscere il
Sole, mi dà un concetto che vale per ogni realtà, anche per quella che Platone disprezzava come
fenomenica, an- che per la realtà della
natura ». Da ultimo l’O. torna an- cora
sulla questione del « progresso in metafisica »; e, in fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne
sia stato. Queste le sue parole: «E
questo atteggiamento doveroso ci mostra,
sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una con- Concetto di metafisica 155 quista nuova, la quale però mon segna
necessariamente un progresso in
metafisica, ma può realizzare progressi in altri campi, sia della filosofia come della
scienza, come della storia » (p. 439).
In tutti i campi, sì, si può parlare di pro-
gresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a san Tommaso, tutta compiuta. Non che la
metafisica escluda come tale il
progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san
Tommaso, il quale «implica e supera le conquiste platoni- che ed agostiniane » (p. 424); dopo non più.
E perchè? Perchè mai, se delle
conquiste, come quelle precedenti a S.
Tommaso, hanno potuto essere implicate e superate, a detta dell’O., nella metafisica tomista, le
conquiste di que- sta non possono poi
essere ulteriormente implicate e supe-
rate? Così quella verità metafisica resta là senza progresso, come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto,
come di- cono i tomisti, mentre noi
diciamo che di perenne vi è solo il
filosofare come progressiva e sempre perenne sco- perta della verità inesauribile. Perciò noi
ripetiamo all’O. che non facciamo la
glorificazione e l’esaltazione di nessuno,
nè di Platone, nè di Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel, ma solo li consideriamo, pur con le loro differenze
(e chi potrebbe negarle?) uniti in un
animus di filosofare affine al nostro e
che non è l’arimus o lo spirito del filosofare
aristotelico per il motivo semplicissimo che è quello cri- stiano. Io mi sono occupato di questi
pensatori e battuto affinchè siano ben
intesi e non fraintesi, senza omettere di
rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro manchevolezze e insufficienze o punti oscuri
da chiarire. Certo il concetto agostiniano
di veritas non è quello blon- deliano di
vita, ma credo che i due concetti non si esclu-
dano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nel- la verità oggettiva e non si penetra la
verità oggettiva, che è fonte di vita
spirituale, se non vivendola. E se l’O. dice
che non è così, mi scusi, ma mi vengono subito in mente la «scienza puramente nozionale » e i
«balletti lo- 156 Filosofia e
Metafisica gici », a costo di
sentirmi ripetere che mi manca «il con-
cetto del concetto ». 8. —
Ultima replica. Sotto il titolo « A
conclusione d’una polemica » (« Riv. di
Filos. neosc. », IV, 1950, pp. 356-364), Mons. Olgiati ha risposto alla mia ultima nota, concludendo la
discussione (tale per me è stata e non
una polemica) che s'è svolta tra lui da
una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la posizione carliniana molto distante dalla
mia. Anche da me con queste poche righe
la discussione è considerata conclusa.
La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia precedente, ma ripete cose che egli aveva già
detto ed io controbattuto. Gli avevo
posto domande precise sui rap- porti tra
Aristotele e San Tommaso e le loro costruzioni
metafisiche, come su quelli tra Agostino e Tommaso. Mons. Olgiati ripete ancora che «la costruzione
metafisica com- pleta è certo diversa in
Aristotele e in San Tommaso », ma non mi
dice se, poste queste diversità, per me profonde, quella tomista si possa dire, e fino a che
punto, aristotelica; ripete che il tomismo
completa la definizione platonico-ago-
stiniana del reale, ma non mi dice se con questo comple- tamento siano conservate le tesi
essenzialissime per cui l’ago- stinismo
è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Ro-
smini; e potrei continuare. In
compenso, oltre a volermi insegnare alcune cose di cui, per la verità, ho discusso in alcuni
mici libri proprio alla maniera
dell’Olgiati anche, se non con la sua compe-
tenza — coincidenza di idee che l’O. non sembra gradire — dichiara di aver trovato nella mia risposta
«la chiave per spiegare le difficoltà »
che c’'impediscono d’intenderci sul
concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei sotto il mio agostinismo « un concetto di
realtà che non è nella linea della
metafisica classica, bensì in quella dell'innatismo Concetto di metafisica 157 razionalista » (p. 361); e per due fittissime
pagine continua a svolgere questa sua
interpretazione-chiave per concludere
opponendo la concezione della r'eritas agostiniana alla mia, che riduce «la realtà in quanto realtà al
contenuto del- l’idea » e va a finire
difilato nel « fenomenismo raziona-
lista » (p. 363). Lo dicevo io che, volente o nolente, sarei dovuto andare nel « fenomenismo », le «
malebolge » a cui l’O. condanna tutti
quelli che non la pensano come lui. In
quali miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia letto queste cose, lo ignoro; il passo che
riferisce dalla mia precedente risposta
va inteso all’opposto da come egli lo
intende. Non confuto la sorprendente interpretazione, come non confuterei un critico che dicesse
che io sono spenceriano, marxista o che
so io; d’altra parte, dovrei riesporre
quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo volume su S. Agostino e in Filosofia e
metafisica (*), cosa superflua. Bisogna
riconoscere che Mons. Olgiati presenta
la sua interpretazione in forma molto dubitativa: « posso sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere
eventualmente, il mio errore, del quale
— 4 priori — se fosse tale, chiedo scusa
all’egregio amico » (p. 361). Mi permetto dirgli che si è proprio sbagliato e sinceramente non riesco a
comprendere come abbia potuto
interpretare il mio concetto di realtà, clas-
sicamente agostiniano, nella linea dell’innatismo razionali- sta, da me ripetutamente confutato, e credo
in modo che dovrebbe riscuotere anche
l’approvazione dell’Olgiati. Concludo
questa discussione con una battuta scherzosa,
come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono: trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia
qualcuno che voglia fare delle nuove
scoperte nella conoscenza dell’Africa
svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia, che egli legga alla rovescia quanto vado
scrivendo, comin- (2) Quest'opera era
stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due ultime battute della discussione. 158 Filosofia e Metafisica ciando dall’ultima sillaba dell’ultima
pagina, come raccon- tano facesse Pico
della Mirandola nel ripetere un testo per
dar prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire in me non so quale «innatismo » o «
fenomenismo razio- nalista » e farmi
esplorare l’Africa in America.
Carrtoto III CULTURA E
TRASCENDENZA Il problema della cultura
e del rispetto delle culture, oggi, si
presenta piuttosto come problema della « crisi », profonda, della prima e di quella, minacciosa, del
rispetto delle cul- ture. A nostro
avviso, questa duplice crisi (le culture in crisi sono sempre intolleranti ed intransigenti: la
crisi è un po’ decadenza e il pericolo
del crollo rende spesso dommatici), è la
conseguenza di un’altra ben più profonda, di portata metafisica, della crisi della trascendenza.
In altri termini, la crisi di una
cultura è l’aspetto appariscente — ed in questo
senso superficiale — di quella dei suoi radicali fondamenti metafisici, che spesso si perdono di vista e
non si consi- derano. Per esempio,
quella della cultura greca espressa dalla
« sofistica » fu indubbiamente la crisi della metafisica cosi- detta presocratica e specialmente delle due
sue più alte posi- zioni, di Parmenide
ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle
filosofie dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica pla- tonica ed aristotelica. La crisi del pensiero
moderno, nel suo ormai secolare sviluppo
attraverso molteplici crisi dentro la
crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica. Se ben si osserva, le tre forme di crisi che
abbiamo addotto ad esempio, pur nelle
loro notevolissime differenze e diver-
sità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti, sia la sofistica come le filosofie
postaristoteliche e quelle dal Ri-
nascimento in poi — malgrado, com'è noto, non manchino 160 Filosofia e Metafisica metafisiche della trascendenza, in
questo senso dette « anti- moderne »,
reazionarie, conservatrici o tradizionali — sono posizioni filosofiche d’immanenza,
preoccupate di giustificare la realtà
fisica e quella umana, come anche il loro valore e significato, immanentisticamente, cioè da e
con se stesse, senza ricorso ad una
Realtà trascendente di ordine super -
fisico e super-umano. Trascendenza significa dualità, imma- nenza, monismo: la prima fonda «questa»
realtà — gli uomini e il mondo in cui
vivono — su di un’ « altra » che
trascende questo mondo; la seconda fonda « questo » nostro mondo su se stesso, cioè afferma che la
realtà umana e naturale si origina, si
regge secondo sue leggi immanenti, e si
giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’imma- nenza, anche se si presenta come metafisica,
a nostro av- viso, è sempre una
posizione antimetafisica, oppure, se lo si
preferisce, trova il suo sviluppo coerente ed ultimo nella ne- gazione della metafisica, la quale, infatti,
importa, affinchè sia tale e non
pseudo-metafisica, una concezione dualistica
della realtà: «questa » (fisica) e un’ «altra» che la tra- scende e la fonda. Metafisica significa
trans-physica, scienza dell’2/ di là,
che, come tale, trascende quel che è « di qua »; di un «lassù » 44/ quale il « quaggiù »
dipende e nel quale ha il suo
fondamento, il suo significato e il suo fine. Natu- ralmente noi, oggi (lo accenniamo di
passaggio), dopo il Cri- stianesimo e lo
stesso svolgimento del pensiero moderno,
non possiamo più concepire questo « al di là » in senso pu- ramente o prevalentemente naturalistico o
cosmologico, ma lo pensiamo come
l’assoluta Realtà spirituale, da cui la no-
stra dipende, come l’ « Al di là » interiore e trascendente. Al contrario, per le filosofie
immanentistiche — e come tali
non-metafisiche perchè non-dualistiche — quella realtà che è l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se
stessa: l’unica umana è la realtà
storica, la cui espressione più alta ed assoluta è stata, a volta a volta, identificata con
l’attività morale (mo- ralismo) o
l’artistica (estetismo), con la filosofia (panfiloso- Concetto di metafisica 161 fismo) o con l’attività politica
(politicismo), con quella eco- nomica
(materialismo storico), con la storia nel suo com- plesso (storicismo) o con le varie culture
(culturalismo); in qualunque caso con un
valore puramente umano, mondano,
terrestre, laico, areligioso, finito e relativo, che in tal modo è stato assolutizzato. Mondanismo e
areligiosità sono ap- punto i caratteri
della « cultura » moderna e contemporanea
in generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto, si presenta come antimetafisica ed
antidualista e perciò anti-
trascendentista. In questi caratteri va cercata, per noi, la causa profonda della crisi della cultura del
nostro come di tutti i tempi, che perciò
è crisi della metafisica e della tra-
scendenza teologica; in una parola, crisi di fondamento, di un fondamento assoluto del pensiero, in
quanto il pen- siero umano, limitato e
relativo per sua natura anche se
assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se stesso, non può autofondarsi, perchè non può
autoautenti- carsi: la sua
autenticazione è nel pensiero, nella Verità
assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma, come fondante e assoluta, lo trascende. Una delle conseguenze più deprecabili,
perchè dannosis- sima dell’immanentismo
della filosofia e della cultura mo-
derna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto tra le varie culture. Negata la Verità
assoluta e trascendente — dico una
verità oggettiva che misuri il pensiero e non
ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indi- pendente ed anteriore e non da esso creata
attraverso la ricerca — € fatta la
verità di un prodotto e non una scoperta della ri- cerca stessa, un risultato storico e perciò
contingente, non è più possibile evitare
il soggettivismo della verità. Inconsistente la
distinzione tra «io empirico » ed « Io trascendentale » : l’Io trascendentale è sempre il pensiero
dell’ordine naturale ed umano (storico)
e perciò mutevole e finito e, come tale, in-
sufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificata- mente fondamento di se stesso,
autosufficiente, è privarlo 162
Filosofia e Metafisica del suo
fondamento assoluto: il soggettivismo e il relati- vismo risultano ugualmente inevitabili.
L’aforisma prota- goreo (« l’uomo è la
misura di tutte le cose ») inteso, empi-
ricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o idealisticamente, nel senso dell’umanità in
universale, non perde il suo essenziale
soggettivismo, perchè è sempre l’asso-
lutizzazione fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il carattere prevalentemente soggettivo delle
dottrine, la pretesa di ciascuna
d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di ogni punto di vista, non come una prospettiva
parziale, ma come l’adeguazione della
verità totale. Noi non diciamo che i
valori relativi e i punti di vista parziali non abbiano alcun valore, ma diciamo che, solo
arbitrariamente e per irra- zionale
estrapolazione, possono essere identificati ciascuno con il valore o con la verità assoluta. In
tal caso il rispetto che si deve a
ciascun valore si trasforma, una volta che lo
si assolutizza in fanatismo intollerante. Impossibili, per conse- guenza, la cooperazione delle culture e il
loro rispetto reci- proco come
l’avvicinamento, perchè manca il fondamento
comune di una verità oggettiva, la sola che possa rendere possibile, pur nella diversità dei vari punti
di vista, l’incontro di esse, il loro
interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il
loro cooperare fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si è venuta a creare una miriade di culture,
ciascuna « stato a sè », sovrana, che
perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pen-
satore identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la verità e da questa condizione di « pontefice
massimo » lan- cia scomuniche contro l’«
eretico » che la pensa diversamente.
Così siamo diventati tutti pontefici e tutti eretici nello stesso tempo: dommatismo assoluto e insieme
assoluto scetticismo. Quando si nega
l’esistenza di una verità asso- luta — e
non è tale se non è trascendente il nostro pensiero — non c'è più possibilità d’intendersi perchè
manca un punto di riferimento assoluto
da noi indipendente anche se a noi
interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una Concetto di metafisica 163 questione di umiltà: sentirci non i
creatori della verità, ma gli umili
servitori di essa, legati dal comune amore per la verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo
in questo amore comune, unico stimolante
ed unico fine, le culture possono
trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione, come tanti punti di vista sollecitati dalla
stessa aspirazione, tendente
all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di mora- lità radicale, metafisico anch’esso, ma non
vi è moralità autentica dell’uomo (e
dunque anche della cultura che è mondo
umano) senza trascendenza teologica, senza metafi- sica nel senso di sopra precisato e chiarito.
Oltre che di umiltà, è anche questione
di onestà, chiarezza filosofica:
riconoscere che i valori metafisici e la metafisica come tale non possono essere frammenti di esperienza
umana per se stessi non assoluti,
elevati al grado dell’assoluto e con esso
identificabili. In questo senso, pur conservando la profonda umanità della filosofia e della verità, è
necessario correggere ogni forma di
pseudo-metafisica antropomorfica e chiamare
le cose con il loro nome: relativo quel che è relativo, e asso luto quel che è assoluto. Non vi è dubbio che cultura è la capacità
dell’uomo alla libera attività: dove
manca questa libertà non vi è cul- tura;
decade o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spi- rituale: la schiavitù, come negazione della
libertà, trova la sua condanna nella sua
« incultura ». Perciò, in questo senso,
è vero che il progresso della cultura è progresso morale, in quanto la libertà spirituale sta a fondamento
dell’uno e del- l’altro; ma è anche vero
che, sulla base dell’immanenza, non vi è
libertà — e dunque non più moralità e cultura — in quanto si limita, usandogli violenza, il fine
dell’uomo al- l’angusto spazio terreno e
al breve tempo storico (tutto lo spazio
è sempre angusto e tutto il tempo è sempre breve), snaturando le sue aspirazioni fondamentali,
reali, naturali e sempre attuali; e in
quanto si viene a negare il fondamento
stesso della libertà, che è autentica nel riconoscimento dei 164 Filosofia e Metafisica suoi limiti (della trascendenza che la
fonda e garantisce) e non nell’illimitatezza
indefinibile dell’arbitrio, in cui tutto
diventa lecito, perchè manca il limite della trascendenza, come avviene in ogni filosofia immanentista. Di qui possiamo trarre due ordini di
considerazioni: 1) Non vi è cultura
(perchè decade in forme decaden-
tistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo e alla storia — immanentismo e umanesimo assoluti
e come tali astratti —-; se un
misticismo eccessivo e perciò nihilista
cancella il tempo e nega la storia (apocalitticismo). In altri termini, non vi è cultura dove tutto è tempo
(negazione del- l'eterno o di Dio) o
dove si nega il tempo — negazione della
storia e dei valori umani. Per conseguenza, la condizione della cultura risulta essere ancora la
concezione dualistica di « questo »
mondo e dell’« altro », del mondo dell’uomo
e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si rompe questo equilibrio, vien meno la condizione che rende
possibile la cultura e le sue forme. La
cultura moderna ha cercato di abolire
l’ultratemporale (il metastorico) ed ha segnato con ciò la decadenza della cultura occidentale,
diventata culturali- smo soggettivo,
caotico e ormai infecondo. Per un motivo
opposto non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi è stata per la duplice tendenza apocalittica
e nihilista (prima prevalentemente
religiosa ed oggi assolutamente atea), che
porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è assorbito nel problema finale del mondo,
storico o metasto- rico che sia, vede
nella cultura un ostacolo e non una zia
attraverso cui si conquista il fine ultraterreno, si purifica e si riscatta l’attività mondana dello
spirito. La Russia, in questo senso,
quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente;
nell’uno e nell’altro caso un misticismo
apocalittico, che nega il mondo umano.
L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra soddisfatto della sola cultura, risolve
l’essenza della vita spi- rituale nella
storia: la cultura è la salvezza. Oggi quest’ap- Concetto -di metafisica 165 x
pagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e perciò l'Occidente è malcontento, isterico,
decadente, sofi- stico. Gli è rimasto un
simbolismo della cultura, senza una vera
cultura reale, ontologica, metafisica. Ciò è in certo senso l’autocondanna dell’immanentismo, anima del
mondo mo- derno, e l’indizio dell’ansia
di escire dalla zona « mediocre » di una
cultura che si è sganciata dall’eterno (da Dio) per tuffarsi tutta nella storia, cioè per
ricadere pesantemente su se stessa,
afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di slanci metafisici. L’Occidente moderno ha
voluto risolvere l’eterno nel tempo,
l’essere nel divenire, la trascendenza
nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo, anticulturalistico, ha preteso negare il
tempo, la storia, l’uomo in una eternità
astratta, in un misticismo religioso
antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il dualismo ontologico è distrutto: assoluto
umanesimo è nega- zione di Dio e perciò
anche dell’uomo; assoluto teologismo è
negazione dell’uomo e perciò anche di Dio: due forme di monismo opposte ma approdanti allo stesso
risultato. Entrambe sono atee e
inumane. 2) L'altra considerazione,
non meno rilevante della prima, riguarda
la struttura radicale di quella che comu-
nemente si chiama «civiltà occidentale »; «radicale » per-
chè sta proprio alla radice, alle sue origini greco-cristiane. La concezione greca della vita, quella della
migliore ed au- tentica grecità, è
dualistica: vi è una realtà fisica ed una
realtà metafisica che trascende la prima, « questo » mondo e l’« altro». Platone e il platonismo sono
l’espressione più alta e significativa
del mondo classico. Dualistica è anche la
concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato, senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi
reali nel loro in- trinseco rapporto.
Dualistica è ancora la concezione cri-
stiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo del- l’uomo e il Regno di Dio, « questa » vita e
l’« altra », anzi questa vita per
l’altra, l’uomo per Dio. Concezione dualistica, 166 Filosofia e Metafisica non solo, ma anche gerarchica: il
«quaggiù» guidato, orientato,
subordinato al «lassù »: due realtà, l'una dipen- dente dall’altra. Ciò spiega perchè la
Rivelazione cristiana, pur nella sua
assoluta originalità rispetto alla concezione
greca e romana della vita, abbia visto, in un primo tempo, nel pensiero greco il suo precedente e la sua
base naturale e, in un secondo tempo,
abbia potuto realizzare la gran- diosa
trasposizione in termini di filosofia cristiana prima del platonismo (Agostino) e poi
dell’aristotelismo (S. Tommaso); così
pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della concezione giuridica di Roma. Il fondamento
dualistico, co- mune alla verità
razionale e alla Verità rivelata, rese
pos- sibile l’incontro e la loro
continuità. Grecità, Romanità e
Cristianesimo sono i tre elementi costitutivi della civiltà occidentale (europea); dunque la struttura
autentica, la fisio- nomia essenziale di
essa è dualistica. L'esigenza immanenti-
stica non le è propria, anche se non completamente estranea. Essa è tipica della civiltà germanica, che
non è propria- mente una forma di
civiltà occidentale: la Germania non è
mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la strut- tura della sua civiltà, dallo spirito della
grecità, nè da quello della romanità e
del Cristianesimo; infatti, è la terra del
monismo e del panteismo: monistiche e panteistiche la sua filosofia, la sua mistica, la sua
letteratura. L’immanentismo,
caratteristico del pensiero moderno e contemporaneo, è pe- netrato anche nella civiltà occidentale,
fortemente influen- zata dalla cultura
tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha
corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla trascendenza l’im- manenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente
abolito Dio: «Dio è morto », conclude
Nietzsche, «e l’abbiamo ucciso noi ». In
un primo tempo lo ha surrogato con l’uomo,
capovolgendo i termini del dogma cristologico: non Dio Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la
ragione (Hegel) o uno dei tanti valori
umani: l’arte, la morale, l'economia, la
politica ecc.; in un secondo tempo, ai nostri giorni, per- Concetto di metafisica 167 duta la fiducia nell’assolutezza dei valori
umani (com’era inevitabile una volta
negata la concezione metafisica duali-
stica) senza riacquistare la certezza dell’esistenza dell’As- soluto trascendente, ha perduto ogni fiducia
ed ha con- cluso che non esistono
valori, dato che non vi è di essi un
fondamento assoluto nè divino nè umano. Fatalmente l’im- manentismo, perduto Dio, doveva perdere anche
il concetto dell’uomo come persona (il
nazismo o altre forme politiche simili).
I due elementi fondamentali della civiltà occidentale risultano negati e così con essi la civiltà
che avevano pro- dotto e fecondato
(1). Di derivazione germanica,
immanentista — e non della genuina
civiltà occidentale — è il bolscevismo russo. Il co- siddetto marxismo o materialismo dialettico o
storico, im- portato in Russia, ha
subìto una notevole trasformazione a
contatto con l’«incultura» di quel Paese, cioè con l’opi- nione negativa che gli scrittori più
qualificati avevano sempre avuto della
cultura, come di qualcosa di mediocre, di un
ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspet- tazione del fine assoluto. Il misticismo
russo, con il bol- scevismo, da
religioso si è fatto ateo, il fine assoluto dal
cielo si è spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica e nihilista è rimasta intatta. In un certo
senso il bolscevi- smo è la coerenza
spietata e brutale dell’immanentismo: è
l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un «al di là» e se vi è solo un « quaggiù », se non
c’èdualità e trascen- denza,
l’assolutamente assoluto è il « quaggiù », tanto as- soluto da costituire il fine ultimo, di
fronte al quale ogni cultura (in prima
linea quella occidentale, dualistica e perciò
nemica), ogni forma di vita diversa da quella della nuova (1) Dico di passaggio che una cultura, la
quale esprime una concezione
immanentistica della vita, è condannata, proprio perchè manca della
trascen- denza, ad identificarsi con la
« politicità » nel senso più vasto del termine e dunque a materializzarsi e a sboccare nella
violenza, che è la negazione della
libertà e perciò della cultura.
168 Filosofia e Metafisica
apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere sacrificati, annullati. Così il nihilismo
religioso russo, l’« in- cultura » e l’«
antistoria », che negava il mondo rispetto al
fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della sua antitesi), si è fatto immanentista,
restando sempre nihi- lismo a carattere
mistico; assolutizza il mondo al punto da
negarlo come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto che è come un mondo al di là di quello
storico e di questo negatore, nega la
cultura da cui è nato nella sua nuova forma
di « incultura ». L'immanentismo germanico aveva concluso « Dio è morto », prima che con il Nietzsche
con lo Hegel, il cui Dio è il Gost im
Werden, il « Dio che si fa», e Marx
deriva da Hegel; « se Dio è morto », argomenta il bolsce- vismo, anche « l’uomo è morto », è nulla
rispetto al suo fine, l’Uomo assoluto di
domani, l’uomo del millenarismo ateo.
Ci sembra ormai evidente che l’immanentismo, germa- nico e russo (pur così diversi: l’uno nega
Dio per il mondo e l’altro lo stesso
mondo per un mondo nuovo di un do- mani
assoluto), per il fatto che è immanentismo, è la mi- naccia più grave, la morte, della civiltà
occidentale, la cui radicale struttura,
come abbiamo detto, è la dualità, la tra-
scendenza, la metafisica nel senso vero del termine. Natu- ralmente la crisi ci ha pure insegnato
qualcosa: che la trascendenza è una
verità interiore e non di ordine esterno
e naturalistico (l’interiorità della verità è quanto va conser- vato dell’immanentismo, ma l’interiorità non
è immanenza) e che, d’altra parte, essa
non va mondanizzata o annacquata in un
umanesimo troppo umano o in un culturalismo che è adorazione della cultura; ed è quel che ha di
positivo 1°« in- cultura » russa. Non
dobbiamo respingere questi insegna-
menti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero della civiltà occidentale, la quale può
superare la crisi e salvarsi soltanto
con la restaurazione di quella metafisica
dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che co- stituisce la sua essenza primale. O tale
restaurazione e fedeltà ’ Concetto di
metafisica 169 saranno il « piano
Marshall », ben più importante di quello
economico, della cultura occidentale, o anche per noi, inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per
sempre sep- pellito. Sarà allora
possibile realizzare il più olimpico ri-
spetto delle culture per il semplice motivo che nel mondo non vi sarà più cultura (7). (2) Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla
cultura anglosassone, ma il discorso
sarebbe stato necessariamente troppo lungo e forse più « scandaloso » di
quello che qui ho fatto. CapitoLo IV CULTURA E METAFISICA Il titolo di queste pagine può sembrare
curioso; e certo, di primo acchito, non
si vede un nesso preciso tra « cultura »
€ « metafisica ». Avvertiamo subito che qui il termine « me- tafisica » è usato nel suo significato più
pieno e precisa- mente di ricerca del
principio primo e del fine ultimo di ciò
che è in quanto è. Per conseguenza, tutto quanto è nel- l'ordine umano e naturale involge il problema
metafisico, in quanto implica quello del
suo principio e della sua fi- nalità,
dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra, ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi
sia un problema metafisico della
cultura, come di ogni altra forma di at-
tività dello spirito umano. Vi è
per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri condiziona, orienta ed unifica: quello che è
l’uomo a se stesso, il problema di sè
che l’uomo pone a se ste sso: della sua
destinazione, del senso totale, integrale ed assoluto della sua esistenza. Questo problema, sottostante
anche se im: plicitamente ed
inconsapevolmente ad ogni ricerca, costi-
tuisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, l’u- manità essenziale della scienza e dell’arte,
della attività conoscitiva come di
quella morale ecc.; dunque anche della
cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un valore di immortalità: ne fa un momento, con
gli altri concorrente e solidale, del
processo di conquista che l’uomo fa di
se stesso nella realizzazione della sua finalità trascen- Concetto di metafisica 171 dente il processo stesso. In questo
senso tutto ciò che è, è vero ed è
valido di una verità e di una validità sua, ma che sporge e tende verso il Valore e la Verità
che sono il suo fondamento e il suo
fine, e dunque il suo significato ultimo o
metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno e, col tempo, ogni opera e pensiero
dell’uomo. E la cultura è opera
dell’uomo; ma egli non ne intende il significato profondo fino a quando non la giudica per il
contributo che essa porta alla soluzione
del problema della sua verità di uomo,
che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi è pensiero ed opera di uomini vi è quel
problema, così con- naturale ed
essenziale allo spirito umano. Una
cultura fine a se stessa — la cultura per la cultura — non è più tale, ma culturalismo: superstizione
e mon- dana idolatria, mito e non
realtà; è i! fazto, non il valore della
cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa, si assolutizza e con ciò stesso si nega nella
sua validità essen- ziale. Opera
dell’uomo, la cultura porta, ad essa immanente,
il problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo prin- cipio e fine di se stesso? Rispondere
affermativamente (im- manentismo) è
assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è negarlo,
dire quello che non è; è definire il suo non-essere e negare il suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa
di tutto ciò che pensa e fa e che, in
ciò che pensa e fa, attua come suo fine,
tutto l’uomo che è, ma che non è principio primo e incondizionato di ciò che pensa e fa (del
suo essere) e che, realizzando tutto
l’uomo che è, attua un fine che non è
fine a se stesso, ma la condizione affinchè possa realizzare la sua finalità suprema trascendente l’ordine
del tempo, è dire la verità metafisica
dell’uomo, cioè rispondere adegua-
tamente al problema non solo dell’essere o della verità umana, ma anche a quello dell’Essere o della Verità
che è fonda- mento e finalità
trascendente del suo essere e della sua ve-
rità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il fine della sua intelligibilità metafisica, è
sopprimere il pro- 172 Filosofia e
Metafisica blema metafisico e con
esso ridurre, contro l’ordine del pen-
siero e della natura umana in generale — e dunque con un atto irrazionale — il problema del suo
destino e del signi- ficato assoluto
della sua vita al problema del suo destino con-
tingente e della sua significanza storica. Ma così non si ri- solve il problema-uomo, ma si immagina il
mito-uomo e in questa miticità ogni
pensiero ed opera sua son mito. Mito
anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta fina- lità di sè a se stessa, pura temporalità,
ogni forma di cul- tura si pone autonoma
incondizionata assoluta e nega le altre:
la collaborazione delle culture si risolve nel con- flitto e nell’incomprensione tra le varie
culture. La super- stizione della cultura,
principio e fine a se stessa ed assoluta
come l’uomo che ne è l’artefice, porta inevitabilmente al fanatismo e con ciò all’urto tra le culture,
all’incomunicabi- lità: cessa il
colloquio. Questa conseguenza è fatale:
negare la realtà trascen- dente del
Principio assoluto fondante l’uomo ed ogni ente
e dell’uomo e di ogni ente finalità suprema — cioè il pro- blema primo e ultimo della metafisica,
connaturale alla realtà umana — è negare
l’uomo ed ogni cosa e perciò ogni
pensiero ed opera sua; è degradare dall’ordine della ragione a quello della irrazionalità passionale;
negare l’origine di- vina dell’uomo e la
sua finalità soprannaturale e con ciò
stesso fare della realtà spirituale una cosa tra le cose, fuori del suo ordine, contro il suo ordine, contro
ogni ordine. L’uomo divinizzato è
feticcio; ed è primitivismo raffinato e
sottile — direi sofisticato — ogni forma d’immanentismo; è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri
ogni forma di cultura, per raffinata e
scaltrita, che di quell’immanentismo è
espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sa- pere la verità del suo esistere, del suo
pensare e volere, e la cultura si fa
l’espressione di questa colpevole inconsa-
pevolezza. Da quanto abbiamo
detto risulta chiaro che, dal nostro Concetto
di Metafisica 173 punto di vista,
non basta dire «che cosa è» cultura — è
ancora problema di conoscenza — ma è necessario, defi- nitone il concetto, indagare sulla sua verità
profonda, cioè dire qual’è il suo senso
ultimo, il fondamento e il fine
assoluto; ed è questo il problema metafisico della cultura. Ma è evidente che la soluzione di questo
problema può essere data ed è data dalla
soluzione del problema-uomo: risolto il
problema del principio e del fine dell’uomo è
implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di tutto ciò che è umano, conformemente,
univocamente, alla soluzione del primo
problema. Per conseguenza, il senso o la
verità di tutto ciò che è umano è identico al senso o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il
suo senso o la sua verità nel Principio
che lo fonda, lo fa essere, orienta e
stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel
Principio e in quel Fine. Il Vico su questo punto vide esattissimo: la
verità della storia (del mondo umano)
trascende la storia. Vi è un du- plice
problema che investe lo stesso oggetto d’indagine: dell’accertamento del fatto o
dell’avvenimento e dell’invera- mento di
esso: accertare è constatare e documentare; inve- rare è spiegarne il significato, scire per
causas. Ora l’uomo è causa della storia
e perciò di essa ha scienza, ma non è
principio di sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso (la verità) di sè al di là di se stesso, nel
Principio assoluto o Dio che lo crea
uomo, così la storia, che è la sua opera o
il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al di là di essa, al di là del tempo e di ogni
tempo, nell’ordine eterno che la fonda e
la guida ed essa imperfettamente ripro-
duce affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la storia, realizzi il suo destino, da cui tutto
trae senso, super- storico ed
extratemporale. In questa metafisicità immanente in ogni pensiero ed opera umana, che è la
metafisicità immanente e naturale
dell’uomo nella pienezza della sua 174
Filosofia e Metafisica realtà
spirituale, è anche il senso profondo della cultura. Perciò noi nel segnare i limiti del culturalismo
(la cultura fine a se stessa ed essa
stessa il tutto) e nel denunziare la sua
insignificanza sostanziale — sono i limiti di un uma- nesimo che fa della cultura, dell’uomo e
della sua opera in generale l’assoluto
dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e
finalità — richiamiamo l’attenzione sulla presenza del pro- blema metafisico al problema della cultura
(quel proble- ma è presente all'uomo in
quanto tale e in ogni forma della sua
attività) e concludiamo che non è possibile porre il problema della cultura e del suo
significato senza porre l’altro del
significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che è, abbiamo visto, il problema metafisico nel
senso che noi diamo a questa parola,
cioè della intelligibilità suprema del-
la realtà umana e dunque anche della cultura, che è opera dell’uomo.
* * * Della nostra cultura attuale,
nel suo ultimo libro (L'uomo e la
cultura, Firenze, « La Nuova Italia », 1947), Huizinga scrive: « più ricca e possente che non mai,
ma le manca un genuino stile, le manca
una fede unitaria, le manca l’intima
fiducia della sua propria durevolezza, le manca la misura della sua verità, le manca, infine,
l’armonia, la dignità e la divina quiete
». Vi è del vero — e in duplice senso — in
questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca, ricchissima di motivi, interessante anche nei
suoi aspetti più sconcertanti, nelle sue
contraddizioni, nella sua consapevolez-
za critica esasperata, nel suo stesso scetticismo; interessante soprattutto perchè ricca di esperienza di
vita, per cui — nelle sue manifestazioni
migliori — non è pura esperienza cultu-
ralistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali; 5) ma è altrettanto vero che le manca una
norma interiore, costitutiva della sua
struttura, quasi la sua interna e salda
armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una finalità suprema — e perciò dispersa,
frammentaria e come Concetto di
metafisica 175 sparpagliata — la
cultura ripete il frammentarismo e l’insi-
gnificanza, la mancanza di fede e della misura della sua verità. Privata la vita della sua norma, cioè
del suo essere e del suo consistere,
anche la cultura è privata di consistenza,
mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa con- vergente verso un fine, la cui realizzazione
è la sua verità, che, misurandola, le dà
significato e scopo, appunto perchè essa
può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è pre- sente, ma che in essa non si esaurisce.
Quando la vita espri- me la sua verità,
il suo essere, la verità e l’essere che la ra-
dicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è espres- sione essenziale e sostanziosa, unitaria e
vera, della verità e dell’essere della
vita; anche essa si sostanzia della stessa intelli- gibilità metafisica che chiarifica il destino
dell’uomo e il senso della storia. Il Medioevo espresse meravigliosamente
questo ideale di vita e di cultura:
consapevolezza, in un’armonica ed inscin-
dibile simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come fiduciosa realizzazione di una finalità
trascendente, come convergenza e
solidarietà in Dio di tutte le energie della vita nel loro dinamismo integrale. Il migliore
Rinascimento, sen- za negare questa
concezione cristiana dell’esistenza, espresse il suo ideale di cultura nella serena ed
armoniosa operosità umana tesa a
realizzare unitariamente i valori della bellezza, della dignità della persona, della scienza
come conquista del mondo, per cui quel
di divino che l’uomo e la natura
esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza della loro origine da Dio e della loro
finalità in Lui. Il pen- siero moderno,
sviluppando fermenti ed elementi impliciti
nello stesso Rinascimento, ha rotto questa armonia e del mon- do umano e naturale ha fatto tutta la realtà,
avente in se stessa il suo principio e
il suo fine e perciò autosufficiente :
fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possi- bilità dell’uomo, artefice incondizionato del
proprio destino e del suo mondo. Per
circa tre secoli la cultura occidentale
176 Filosofia e Metafisica
ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il senso della trascendenza e la coscienza religiosa
per conquistare quello della immanenza e
su di esso costruire, al posto della
religione il cui oggetto è Dio, la superstizione dell’uomo as- soluto principio e fine di se stesso. Così
l’uomo è stato ade- guato alla realtà
naturale e chiuso nella finitezza dell’espe-
rienza: costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero, principio e fine metafisico del reale, ha
finito per perdere il vero concetto di
metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.
La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attra- verso un processo di autocritica, si è
gradualmente sfaldata; in tal modo egli
è rimasto privo di una fede e di un destino tra- scendente, privo di una fede e di un destino
immanente. La perdita della metafisica
si è conclusa fatalmente nella per- dita
della realtà e della verità dell’uomo e, per conseguenza, nella perdita della fede e della serietà
della cultura. Invano si è cercato trovare
la verità dell’uomo e delia cultura in
uno dei valori mondani arbitrariamente assolu-
tizzato (nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il materialismo storico — ultima e legittima
conseguenza del- l'immanentismo — cerca
di trovare l’unità e la verità dell’uo-
mo e della cultura nel valore economico-politico-sociale. Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo
e della cultura è la conseguenza del
fallimento delle precedenti forme cul-
turali a carattere immanentistico: non è in crisi una forma culturale immanentista, questa o quella, ma è
in crisi l’im- manentismo come tale.
Perciò qualunque forma culturale im-
manentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa nei poteri dell’uomo, è essa stessa
espressione della crisi e non di essa
risolutrice; è ancora, anche se del presente,
espressione di una cultura del passato, che la crisi del pre- sente, che è la sua crisi, nel suo travaglio
si sforza di oltre- passare perchè
rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la
cultura non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto . ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente
dei concetti stessi Concetto di
metafisica 177 di uomo e cultura e
fatalmente avviato all’urto delle culture
nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’imme- diato passato e la «cultura» sovietica
dell’oscuro presente ci sono di
ammaestramento e di ammonimento. Una
conclusione scende legittima ed inoppugnabile dalle nostre premesse ed argomentazioni: l’uomo non
è il crea- tore della sua verità nè
l’artefice del suo destino; la verità e
il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e na- turale, traggono origine e realizzano il loro
fine al di là e al di sopra di esso.
Solo in Dio l’uomo autentica la verità
della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene l’intelligibilità metafisica del suo essere:
qui la sua unità, la verità della verità
che egli è. Solo esprimendo questa realtà
umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consi- stenza, cioè la sua norma e il suo
significato. Eliot ha scritto che una
cultura presuppone una religione ed è
vera se è vera la religione su cui si fonda. Ora non vi è religione senza Dio: le religioni del
progresso, della scienza, dell’umanità,
della libertà, del collettivismo ecc.,
adorano un Dio che non è tale e perciò son forme di ido- latria: il mondo moderno è idolatra, di
religioni false e dunque di false forme
di cultura. Religione è fede nell’Es-
sere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa esistente. Non solo per l'Occidente, ma per
ogni uomo che ne viene a contatto,
questa religione e questa fede non pos-
sono non essere che la religione e la fede cristiane, perchè il Cristianesimo è l’unica religione vera;
dunque solo una cultura cristiana è
vera. E se la cultura occidentale ha an-
cora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e disintegrazione, riesce ad avere una sua
certa unità e a valere più di altre forme
culturali, lo si deve al fatto inne-
gabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura cristiana. Ancora oggi i popoli
dell’Occidente respirano e vi- vono in
un’atmosfera cristiana, anche se viziata e corrotta. Nessuno potrebbe parlare di « persona », «
libertà », « amo- 178 Filosofia e
Metafisica re» e «carità» se il
Cristianesimo non avesse insegnato
questi concetti e se ancora oggi, pur tra tanti travisamenti, non fossero presenti alla coscienza
occidentale. A questo punto ci sembra
che si presenti un dilemma perentorio: o
la cultura esprime la verità dell’uomo, quel-
la da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegi- bilità metafisica del suo essere, ed ha la
sua verità; o ne è l’espressione
sofisticata e allora, espressione di una falsifica- zione della natura umana, è altrettanto
falsa. Ma una cultura che esprime la
verità dell’uomo è sempre conforme alla verità
cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio del Cristianesimo. La cultura è sempre
l’espressione più alta della civilità e
non c'è civiltà più alta di quella cristiana:
quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile. Come segno di una civiltà non esteriore la
cultura ha una funzione altissima e
dinamica: informare dei suoi valori il
mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la sua finalità sociale. Una cultura sociale in
senso diverso, nel senso del
collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura, senza senso. CaritoLo V VI E’ UNA FILOSOFIA DELLA STORIA? L'espressione « filosofia della storia » —
e naturalmente anche il problema — è
recente: che io sappia, per primo, la
usò il Voltaire e, successivamente, lo Herder la intro- dusse in Germania. Ha dunque appena due
secoli di vita; e di vita molto
contrastata. Non è senza significato
che si sia cominciato a pen- sare ad una
« filosofia della storia » nell’età dell’Illumini- smo, considerata comunemente come l’età
dell’anti-storia; forse proprio perchè
antistorico, per primo l’Illuminismo
pensò ad una filosofia della storia. Il secolo dei lumi aveva un suo programma da realizzare: il regno
dell’uomo sulla terra, da instaurare con
la sola ragione, autonoma, asso- luta,
cioè indipendente da qualsiasi principio superrazio- nale, trascendente l’ordine della natura
umana e fisica. Come la scienza si era
costituita autonoma, così ogni altra forma
di attività (il diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni altro settore dello scibile dovevano
costituirsi separati dalla religione e,
in generale, da ogni teologia, il cui contenuto
non si risolvesse perfettamente nell’ambito dell’umana ra- gione. Si pensò dunque a una «filosofia della
storia », cioè a una spiegazione
puramente razionale del cosmo umano, a
una sistemazione di esso sulla base di un certo
numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non aveva forse l’« oscurantismo » medioevale
accettato la con- 180 Filosofia e
Metafisica cezione agostiniana
della storia, secondo le grandi e mae-
stose linee del De civitate Dei? Ebbene, questa di Agostino e del pensiero cristiano posteriore non è «
filosofia », ma «teologia » della
storia, cioè la storia del mondo umano
interpretata e spiegata sui dati della Rivelazione, per cui la « storia terrena » trova la sua spiegazione e
il suo signifi- cato non in se stessa,
ma nella «storia sacra» e nell’or- dine
soprannaturale. Anche la storia bisognava separare dalla religione; dunque non la storia spiegata
teologicamente (super-razionalmente), ma
filosoficamente, dentro l’ordine della
ragione. Ma si possono ricondurre i fenomeni storici ad un piccolo numero di princìpi direttivi
essenziali ed irriducibili? Si può
costruire il « sistema» della storia? Lo
Illuminismo non sembra che sia stato di questa opinione e: o condannò la storia mondo oscuro ed
irrazionale delle passioni, o non
oltrepassò la concezione di essa come or-
dine cronologico (d’Alembert). Non così in Germania dove, a cominciare dallo Herder, fin dagli albori
del romantici- smo, la «filosofia della
storia » ebbe ben altra fortuna ed
elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue sorelle, le molte « filosofie »: della religione, del
diritto, dell’arte ed ultima, col
d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio
la nascita di tante « filosofie » segna l’agonia e poi la morte, anche se apparente e transitoria, della
«filosofia ». Se la storia, la religione,
il diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno
ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo oggetto proprio e problema irriducibile? Il
sorgere di tutte ueste filosofie è
l’effetto e insieme la causa della «crisi »
della filosofia, della sua dissoluzione. Evidentemente per filosofia cominciava ad intendersi qualcosa
di ben diverso da prima. Infatti basta porsi il problema di una
«filosofia della storia » per ritenere
almeno possibile una scienza del par- ticolare,
del singolo, del contingente. Tale possibilità è esclusa dalla filosofia classica, greca e
cristiana; perciò il Concetto di
metafisica 181 pensiero antico e
quello cristiano non si posero mai il pro-
blema di una filosofia della storia, quantunque il Cristia- nesimo abbia posto in prima linea proprio il
problema della storia. Evidentemente
grecità e Cristianesimo hanno un con-
cetto di filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che vi possa essere filosofia che sia filosofia
della storia e storia che possa essere
tutta esplicata con e in un sistema di prin-
cipi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la filosofia è sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993
b, 21) avente per oggetto l’universale e
per strumento la ragione; la storia è
invece ammasso di documenti, pura raccolta generale di fatti da distinguere dal lavoro di
spiegazione o di sistema- zione e dai
trattati teoretici. « Phslosophia individua di-
mittit », dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II, I, 4) e come tale essa si oppone alla storia
che « proprie individuorum est, quae
circumscribuntur loco et tempore » (ivi,
II, 1, 2). La storia è conoscenza dell’individuale ed ha come strumento essenziale la memoria; la
filosofia lo è del- l’universale ed ha
come strumento specifico la ragione; dun-
que la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della storia è una contraddizione nei termini, in
quanto si assegna alla filosofia un
oggetto che non le è proprio, è l’opposto
(l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo stru- mento (la ragione) ad un oggetto per il quale
è adatto un altro (la memoria). La
filosofia, continua Bacone (:24, II, I,
4), «neque impressiones primas individuorum, sed no- ziones ab illis abstractas, complectitur »;
la storia invece è proprio conoscenza
delle « impressiones primas individuo-
rum ». Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto
i dati di fatto nella loro singolarità,
particolarità e contingenza; l’al- tra
le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ra- gione. Sono possibili relazioni costanti e
generali nei fatti storici? È possibile
una scienza della storia? Alcuni moderni
hanno parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma 182 Filosofia e Metafisica evidentemente intendono storia e
filosofia in maniera, come dicono, «
moderna ». Il pensiero moderno, a
differenza di quello greco e me-
dioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il particolare, il concreto: per il concreto
fisico e il concreto umano; perciò le
scienze naturali e la storia sono una sua
conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un
immenso sviluppo e sono state
scientificamente sistemate assieme ‘alla
cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero moderno è stato ed è ancor oggi
prevalentemente « questo mondo », «
questa terra » ed i loro fatti concreti; non per nulla con Occam incomincia quella che si
chiama la de- cadenza della Scolastica.
È evidente che la filosofia, gradual-
mente, doveva essere portata o costretta a porsi come suoi problemi quelli del concreto, cioè dei fatti
di questo mondo, naturali ed umani. E
solo dei fatti; dunque non più ricerca
dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dap- prima, la rivolta contro la metafisica
tradizionale e poi contro la metafisica
senz’altro; la sostituzione della « metafisica
dell’essere » con la « metafisica del pensiero » o della mente; di qui la metafisica del pensiero intesa come
costruzione delle scienze della natura
(positivismo). In tal modo, da un lato,
la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole scienze umane o naturali, e, dall’altro, il
concetto di storia, il cui oggetto è il
concreto o il particolare per eccellenza, ha
assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la filosofia ha cessato di essere una scienza
autonoma e si è trasformata in
metodologia: o delle scienze (positivismo)
o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia senz'altro (storicismo); ha cessato di essere
filosofia dal giorno che la sedusse il
demone dell’immanentismo e volle farsi
mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se stessa e si snaturò. Ma anche così, per limitarci al nostro
problema, è pos- Concetto di
metafisica 183 sibile una filosofia
della storia? Non propriamente il Vico
ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una spiegazione razionale totale della storia e dello spirito
umano nei mo- menti del suo divenire:
per lo Hegel, la ragione può spie- gare
(e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico ed umano, la storia senz’altro, senza residui.
Ma la storia è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto:
è l’autorivelazione di esso, che,
attraverso il processo dialettico, chiude il cir- colo su se stesso. Da questa storia resta
fuori, al principio e alla fine del
processo, proprio... la storia! La Ragione hege- liana, il Dio immanente creatore, si
sostituisce alla creatura e la nega come
tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve)
in sè: il concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo antinomico hegeliano, è il non-reale, il
non-razionale, il non- vero, lo
strumento caduco di cui l’Idea si serve e che la stessa Idea sopprime. La storia è la storia
dell’Idea, non degli uomini singoli e
delle cose; quella di Hegel è una filosofia
della storia che nega proprio la storia. Ecco perchè il positivi- smo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso
della storia, è stato anti-hegeliano; e
un contemporaneo epigono italiano dello
Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha ne- gato che vi sia una «filosofia della storia»
ed ha identi- ficato con la storia la
filosofia. In tal modo, il positivismo e
uesta forma di storicismo empiristico hanno costruito o una «filosofia della storia » senza filosofia
(il positivismo) © una storia che dice
di identificarsi con la filosofia solo per-
chè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè perchè in partenza la nega come filosofia. Già lo
Schopenhauer ave- va negato che vi possa
essere filosofia della storia (!). (1)
« La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in nes- sun modo essa conosce il particolare per
mezzo dell’universale, ma deve attin-
gere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata
a stri- sciare sul terreno
dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per oggetto che il particolare, il fatto individuale e lo
ritiene la sola realtà, essa è tutto
l'opposto e l’antitesi della filosofia, che considera Je cose dal punto
di vista più generale ed ha per oggetto
specifico quei princìpi, sempre identici attraverso tutti i casi particolari » (Die Welt als
Wille und Vorst., vol. II, cap. 37).
184 Filosofia e Metafisica
Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno di costruire una filosofia o scienza della
storia (cioè il ten- tativo di spiegare
tutto l’uomo senza Dio) dimostra come una
filosofia della storia in questo senso sia impossibile e fa attuale, esso, antiteologico, la concezione
della storia di Agostino e della
filosofia cristiana; attuale, ma dopo la con-
cezione che della storia ha avuto il pensiero moderno, la quale non va negata ma assunta come problema
della filo- sofia, come il problema
dell’uomo, del suo significato e del suo
destino. Posto ciò, esiste il problema
della storia (del singolo, del- l’uomo
concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristoteli- smo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è
il particolare, il concreto, il
contingente non risolvibile, come tale, nelle
leggi che pur lo governano; se i fatti umani sono contin- genti in se stessi, cioè di una contingenza
obiettiva, asso- luta; e se, d’altra parte,
l’oggetto della filosofia è l’univer-
sale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è nemmeno problema da questo punto di vista, in
quanto non si può porre il problema di
quali siano le leggi razionali,
universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti,
per Aristotele, come per Platone e per
il pensiero greco in generale, della
storia non c’è scienza e non c’è neppure problema specula- tuvo: è il mondo del sensibile, del passionale,
dell’arazionale. Il singolo come singolo
ed il fatto umano nella sua concre-
tezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il singolo è inoggettivabile. Perciò nella
concezione greca la storia non ha
progresso nè svolgimento: è circolo, eterno
ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze, non quello degli individui. Gli uomini
tendono a Dio, ma restano sempre fuori
di Lui, come Egli è estraneo a loro ed
alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno; son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla
ananche, e preci- pitano nella notte
inesplorabile della morte. Il Cristianesimo
Concetto di metafisica 185.
gettò luce su questa concezione della vita, serena per la sag- gezza della disperazione e attaccata alla
gioia di vivere per lo sconsolato
convincimento che la vita e la morte non
hanno in loro nulla che veramente persuada, con il con- cetto di creazione che spiega appunto le
origini da Dio della storia e dell’uomo.
E pur essendo il concetto di creazione
anche una verità di ragione, esso entrò nel mondo con la Parola soprarazionale. Per la filosofia nasce a questo punto un
problema fonda- mentale: se oggetto
della ragione sono le essenze universali
desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli uomini (quell’essenza singola che è ogni
singolo), l’uomo e la sua vicenda — la
sua origine, la sua vita, il suo dolore, il
suo bene e il suo male, la sua morte — restano fuori della filo- sofia, sono il limite della ragione. Accettare
questa conclu- sione sarebbe cancellare
la storia e gli uomini, come, in fon-
do, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della pura ragione nozionale, sia il razionalismo di
tipo plotiniano o spinoziano, sia quello
di tipo hegeliano. Pertanto, una filo-
sofia che considera razionali solo le essenze universali si trova di fronte, imponente, ineliminabile ed
inesorabile, il problema della storia,
cioè il problema dell’uomo. Può la filosofia
risolverlo? Lo ha tentato con la
filosofia della storia, ma, come ab-
biamo visto, il tentativo è naufragato: ha soppresso la filo- sofia (positivismo) o ha soppresso la storia
(Hegel) nel mo- mento stesso che tentava
di ridurla a razionalità; pertanto
l’uomo o la storia nella sua integralità non può essere spie- gato dalla sola filosofia. Ma fino a che
punto può essa spiegarlo ? Indubbiamente vi è nella storia una relativa
razionalità e precisamente quella che
deriva dalle leggi eterne della matura
umana e dalle connessioni causali derivanti dal con- tatto di questa con l’ambiente che la
circonda. Ma, tale razionalità, ben
lungi dal rendere interamente razionale
186 Filosofia e Metafisica
la storia, si lascia ancora sfuggire proprio quel singolare concreto che esige spiegazione. La storia è
veramente com- prensibile e
persuasivamente spiegata solo quando spiega,
in maniera non contraddicente la ragione e le esigenze fon- damentali e sempre attuali dello spirito
umano, il significato ed il destino di
ogni singolo uomo e, con esso, quello del-
l’umanità globale del passato, del presente e del futuro. Quale dialettica governa il mondo? Quale il
piano della storia? Hegel rispose: è
l’autorivelazione dell’Assoluto. Ma ciò
non spiega la storia, bensì afferma che essa è stru- mento dell’Idea e con ciò le nega ogni
significato e realtà; con ciò si
cancellano, senza risolverli, il problema del male, del dolore, della morte ecc. La « filosofia
della storia » non può dunque pretendere
di spiegare il piano della storia stessa.
Ogni tentativo in questo senso è una pretesa infondata della ragione iperbolica: giustamente A. Franchi
(Ultima critica, p- 190) chiama la
filosofia della storia « vanità della vanità ». Ma il suo fallimento non lo è della
filosofia; anzi è il recupero della sua
autenticità. La filosofia si incontra con
il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma,
come abbiamo accennato, non lo è ad una
filosofia delle pure essenze, che
identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico, puramente intellettualistica e nozionale. Per
una ragione delle essenze,
dell’eidezica, il singolare, la storia, l’uomo in carne ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa
si chiude nelle essenze e chiude in
parentesi il concreto. Ma questa ragione
non è tutta la ragione, che non è tutto il pensiero vivente, l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito
che è insieme ed inscindibilmente essere
sentire conoscere volere. Per lo spi-
rito concreto la storia è la sua storia; il significato e il de- stino della storia sono il suo significato e
destino. Il proble- ma scaturisce dal
suo dinamismo interiore, gli è intero: è
il problema della sua stessa interiorità. Il problema specu- lativo della verità manifesta la sua
solidarietà con quellò Concetto di
metafisica 187 pratico del destino
umano; nasce il problema ultimo della
loro unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo av- viarne la soluzione integrale, che è quella
della storia inte- grale, cioè può
cercare a quali condizioni è possibile quella
unità. È il problema dell’adazzamento del nostro essere con- creto alla sua finalità interiore e
trascendente, che è l’Essere. Tale
adattamento è atto razionale della ragione vivente e concreta, con cui ricorosce (e dunque è
anche atto volon- tario) che la dinamica
del pensiero è orientata all’Essere che
la trascende e che la soluzione del problema della vita e del destino dell’uomo o della storia
trascende l’ordine ra- zionale umano e
naturale; dunque l’atto con cui la ragione
riconosce che il piano della storia è divino, è atto razionale e perciò razionale è il passaggio dalla «
filosofia » alla « teo- logia » della
storia. A questo punto si rivela chiara ed evi-
dente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il si- gnificato della storia è nella Parola
rivelata ed incarnata, in Cristo. È la
soluzione di Agostino, la cui teologia della sto- ria, punteggiata dai momenti della creazione,
del peccato originale,
dell’Incarnazione, della Redenzione attraverso la Croce, del dolore come conseguenza del
peccato, del gran Sabato nella fine dei
tempi, resta e resterà sempre, nelle sue
linee maestre, la verità perenne sul problema della sto- ria. E, se verità, sempre attuale; più che
mai oggi dopo che il pensiero moderno ci
ha educati all’interiorità della ricerca
e della verità. Ma deve essere una interiorità auten- tica: quella che « attesta » e non che « pone
» Dio. Nella trascendenza teologica è il
senso della storia e dell’uomo: « Beau
de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de César... Qu'il est beau de voir, par les
yeux de la foi, Darius et Cyrus,
Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,
sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! » (Pascal).
CapritoLo VI ESISTENZA E
CONSISTENZA I. — L'esistenzialismo o
la rivolta contro l'essenza. Il primo
dei due termini è antico quanto la filosofia:
occupa un posto primissimo tra i termini tecnici, già appro- fondito e direi scavato in mille guise,
codificato. Il secondo non è tecnico,
non ha una tradizione speculativa, manca nei
dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede filosofica, un problema la cui soluzione
totale e unica spetta alla religione. Il
primo ha un antico e glorioso passato, ma
di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro; infatti, per noi, il problema dell’esistenza
trova autentico chiarimento e soluzione
ultima — ad esso interiore ed es- senziale
— nel determinare quale sia la « consistenza » del- l’« esistenza » stessa. I termini «esistere », «esistenza»,
«esistente», « esi stenziale » hanno una
risonanza infinita. Che cosa, infatti,
non appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filo- sofie sono state esistenziali: o hanno
trattato dell’esistenza o speculato su
di essa, ma proprio questa constatazione, che
del resto va presa entro certi limiti, impone il problema non della riduzione di tutta la storia del
pensiero all’esisten- zialismo o quello
di una interpretazione unilaterale di essa,
bensì l’altro, meno grossolano in quanto sa distinguere, del perchè solo da circa un trentennio vi sia una
filosofia detta « esistenzialista » o
almeno che si dichiara esplicitamente
Concetto di metafisica 189
tale. Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si
presenta con una sua peculiarità in quel
che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si
tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo sofica del concetto di esistente, di una
filosofia quasi galva- nizzata
totalmente da questo problema, posto in termini
nuovi; in breve, di un particolar modo di concepire l’esi- stenza. Il movimento in questione non si
caratterizza come filosofia
dell’esistenza, ma come quella determinata conce- zione di esso, che si chiama appunto
esistenzialismo. L’esistenzialismo è una
posizione di pensiero; ogni posi- zione
di pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta è decisione dichiarata di dire di no a
qualcosa o a qualcuno. Ma è anche dire
di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa
il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si riconosce più tale è l’affermazione di un
altro, considerato valore. A che
l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza
onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto (che è tutto) la ragione speculativa può
conoscere e com- prendere, chiudere
nell’orizzonte della pura razionalità. E
quel che resta fuori? Il « conoscere oggettivo » e la « ragione speculativa » o lo negano, o non se ne
curano. Comincia l’as- sedio alla
fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta preme contro i bastioni della filosofia
speculativa; preme ed attacca, pone
istanze, formula domande, mette in questione
tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra. L'’esistente che dice di no ed interroga si
pronuncia sulla Conoscenza o Ragione. I
termini del rapporto filosofia spe-
culativa-esistente sono capovolti: non si tratta più di sapere che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma
che cosa l’esi- stenza della Ragione;
anzi, giacchè l’esistenza è ancora un
termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della filosofia speculativa. Non più la ragione
rende problematico l’esistente, ma
l’esistente problematica la Ragione; quel che
per quest’ultima era un non-problema — l'esistente, l’acci- 190 Filosofia e Metafisica dentale che non importa all'essenza
intelligibile — è ora po- sto come il
problema assoluto, che la filosofia speculativa è costretta a riconoscere come proprio limite.
Essa perciò è chiamata non a risolvere
un problema per essa insolubile perchè
non razionale, ma a chiarirlo sempre più come pro- blema, ad esasperarlo quasi scavandone la
radicale proble- maticità
insormontabile; e con ciò, in pari tempo, la ra- gione si fa essa stessa problematica di
fronte alla irriduci- bilità o non
razionalità dell’esistente. In questo porre l’esi- stente come interrogante la Ragione e come
colui che dice quel che ne pensa, credo
risieda la caratteristica fondamen- tale
di ogni vera filosofia esistenzialistica, ammesso che sia possibile una tale « filosofia » nel senso
che, come pura filo- sofia, possa
risolvere integralmente il problema, quel com-
plesso di problemi che è l'esistente.
2. — L'incontraddittorietà dell'essenza e il problema della metafisica.
Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso sulla scorta di Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice
sotto l’aspetto il più universale
significa considerarla sotto la categoria del-
l’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il
reale è reale e senza di cui il reale
non è reale. Ente è id cui competit esse
e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al
reale hic es nunc, che l'Ente fa
esistere, pone con una sua essenza. «Fa
esistere », «pone»; dunque all’esse compete anche l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma
è proprio l’espe- rienza molteplice che
sembra smentire l’essere dell’esse o
dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno stato ad un altro, in una successione di stati diversi,
per cui questo ente diviene non questo
ente. L'esperienza, ha osservato Aristo-
tele, e prima di lui Platone e Parmenide, come divenire da Concetto di metafisica 191 questo a non questo, è esperienza di
contrari. Ma non per ciò è
contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nel- l’esperienza è testimonianza della identità
dell’ente a se stesso, in quanto non vi
potrebbe essere movimento da questo ente
a non questo ente senza l’unità e la permanenza del- l’ente, cioè se l’ente non restasse identico
a se stesso. È questo ente che è
contrario al ron questo ente, ma l’ente, sia del questo che non questo, è sempre lo stesso
identico ente. Se l’ente potesse divenire
il non-ente, ogni ente diverrebbe la
negazione di se stesso e non vi sarebbero più nè enti nè que- sto ente che diviene non questo ente. Se tra
ente e non-ente vi fosse rapporto
dialettico (nel senso di una dialetticità che
investe la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi s’irradica nella sua essenzialità) non vi sarebbe più
possibilità di sta- bilire i termini di
una qualsiasi antitesi; infatti è possibile
un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane
l’ente, sempre identico a se stesso, che
da questo diviene non questo. In altri
termini, il principio di identità, piuttosto che negare il divenire dell’esperienza molteplice, è quello
che ne giustifica e ne spiega il
dinamismo, facendo che i contrari siano mo-
menti dell’ente, senza che la contraddizione infirmi l’ente in se stesso, cioè quella sua positività
essenziale e perma- nente, la quale sola
rende possibile il divenire e nello stesso.
tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente
uno e ciò che di- viene dell'ente uno è
quel che può diventare o disparire (
cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto ( xwpic tic 70ò broxerpevov 0I0PÀg ). Non sempre noi facciamo un uso preciso dei
termini «esistenza » ed «esistente »,
anzi tendiamo spesso ad iden- tificarli;
ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come tale non è oggetto di esperienza sensibile:
proprietà co- mune a tutti gli esseri, è
una nozione astratta. L'esistenza non
esiste; esistono gli esistenti, cioè quanti esseri hanno 192 Filosofia e Metafisica l'esistenza a tutti comune dal loro atto
di esistere o atto per il quale un essere
è, atto assolutamente primitivo e fon-
damentale, come scrive il Gilson (Les limites existentielles de la philosophie), a cui tutto va rapportato e
condizionato, non solo ciò che un essere
è o fa, ma anche tutta la conoscenza che
possiamo averne. L'atto di esistere fa che ogni essere sia e, per il fatto che è, sia conosciuto;
non è una proprietà dell’essere, ma
tutte le trascende in quanto tutte le condi-
ziona. L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per il suo atto di esistere, dove l’esistere non
è una delle tante sue proprietà, ma la
dimensione immensurabile per cui l’es-
sere che è, è ciò che è. La definizione dell’essere così for- mulata implica due elementi logicamente
distinguibili, ma metafisicamente
indissolubili. Vi è una ontologia e vi è
un’eidetica dell’essere: per l’ontologia l’essere è «ciò #1 quale è », ciò che, per il suo atto esistenziale,
esiste; per la eidetica l’essere non è
«ciò il quale è», ma oggetto da conoscere,
cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui è da dire che cosa è, di cui va definita
l’essenza. Ora, per tale definizione, la
riflessione filosofica prescinde dall’atto
esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto es- sere e delle sue proprietà in quanto essere.
L'esistenza o la non esistenza di un
essere o dell’essere in generale lascia
indifferente la eidetica, in quanto l’essere concettuale, a pre- scindere che l’essere esista o no, è solo la
sua essenzialità. L'essere è considerato
nella sua possibilità pura di cui l’esi-
stenza non è una necessità intrinseca, ma come un comple- mentum, superfluo per definirla, anzi
ostacolo alla sua tra- sparente
intelligibilità. La filosofia non è
forse filosofia prima o metafisica,
scienza dell’essere in quanto essere?
Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e non solo di quello dell’eidetica. Ora l’essere in senso
ontologico è l’es- sere che è, che
esiste in virtù del suo atto esistenziale, l’es- sere reale (non l’essere possibile), il cui
fondamento assolutò Concetto di
metafisica 193 l’atto
dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica l’essere reale, l’essenza esistenzializzata,
il cui esserci c'è per l’atto di
esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è scienza dell’esistere come tale? Non c’è di
esso scienza eide- tica, in quanto
l’atto per cui un ente è o esiste non è oggetto
concettuale; l’esistente in questo senso è inoggettivabile. L’es- sere in senso ontologico è soggetto (oggetto
è il concetto o la forma o l’essenza), il
quale non si oggettiva, se oggetti vato
cessa di essere soggetto; come soggetto, è eidetica- mente inassimilabile. D'altra parte, il ciò
che è o ente, è « ciò #1 guale è » come
un che cosa che è: l’esistere non è
l’insignificante esistenza di nulla, ma il significante esistere di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza;
perciò il problema dell’esistere non va
posto come problema della pura esistenza,
ma dell’esistenza di un quid. Dunque «ciò il quale è », è ed esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere:
non vi è esi- stente che non sia
l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.
L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo
senso più pieno, è sintesi di essenza ed
esistenza, è l’essenza concretamente
attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è particolare e contingente, ma con una sua
essenziale strut- tura, senza della
quale sarebbe impossibile ogni riduzione
cidetica, la quale ne coglie l’essenza desistenzializzata e fa che il reale sia concettualizzabile. In
questo senso l’eidetica è la verità del
reale, quella che lo definisce nella sua essenza, lo «raccoglie » nel suo ordine, lo fa oggetto di
ragione e dun- que di conoscenza
filosofica. La definizione aristotelica della
metafisica come scienza dell'ente in quanto ente — dove scienza significa intelligibilità dell’ente
stesso o definizione della sua essenza
desistenzializzata — può, su questo punto,
concordare con l’altra platonica della metafisica come scienza dell'ente in quanto verità, cioè di quel che
può essere ed è oggetto dell’intelletto.
Ma nè la definizione di Aristotele nè quella
di Platone esauriscono il problema della metafisica, in © 02
194 Filosofia e Metafisica
quanto l’oggetto di essa non è l’essenza, ma l’essenza-esi- stente, non il concetto oggettivabile, ma il
soggetto come soggetto, cioè come
essenza esistente, inoggettivabile in quan-
to esistente, includente l’atto di esistere, fondamento asso- luto di ogni essere reale. Evidentemente la
posizione di Ari- stotele va integrata e
sorpassata: è vero che lo Stagirita sem-
bra interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste, ma in realtà la sua metafisica si comporta
come se il pro- blema dell’esistenza di
ciò che esiste non si abbia a porre.
Naturalista, Aristotele parte dal concreto; metafisico, sembra dimenticarsi della pluralità degli individui
viventi e dive- nienti e rifugiarsi
nell’essenza immutabile, una ed identica
a se stessa. Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità che non va perduta, comune a Platone e ad
Aristotele: una inclinazione naturale
spinge il pensiero a ciò che è puro e
semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità delle cose, al distacco dall’accidentale
diveniente, condizione per cogliere ed
intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è
platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso specu- lativo che manca o almeno è diverso in
Aristotele: inten- dere ciò che una cosa
è, coglierne l’essenza, è penetrare la
sua intimità, la verità definitiva che l’esistenza manifesta. Se poi questo linguaggio platonico lo
traduciamo in quello del platonismo
cristiano di Agostino, in cui la intimità si
traduce nei termini della interiorità e la verità in quelli del vero come forza operante, attiva e creatrice
e ancora uni- ficante, il concetto di
essenza si arricchisce di un significato
dinamico e, come verità, si traduce nei termini della spi- ritualità. L’essere concreto è determinazione
esistenziale della sua unità vivente
nella sua unità reale. Ma a questo
punto si può domandare: il problema della
metafisica è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il necessario, l’accidentale e non l’essenziale?
Chi formula que- sta domanda dimentica
che l’atto di esistere fonda ogni essere
reale e che l’esistente non è solo contingenza ed acci- Concetto di metafisica 195 dente, ma è l’esistere di una essenza.
Il reale mi si presenta come insieme di
soggetti, cioè di essenze universali deter-
minate in esistenze particolari. L'oggetto della metafisica è l’esistente nella pienezza dei suoi elementi,
di cui l’essenza è intelligibile;
dunque, una metafisica che, per intenderci,
possiamo chiamare esistenziale, non può non porsi questo problema, in quanto il problema dell’eidetica
o dell’essenza porta immanente,
costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto
di esistere, per il quale è tutto ciò che è. Questo discorso, condotto con un uso di termini che riteniamo
tecnico, è tut- tavia bisognoso di
ulteriori precisazioni. Esistere è
manifestarsi, esserci, ma è presenza di qualche
cosa, di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza en- tra nel mondo, si consolida, per dir così, in
un hic et nunc, i cui mutamenti sono non
nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò,
se è vero che l'esistente o il soggettivo è l’« incarnazione » di un'essenza, è anche vero che fo non sono
il mio corpo, in quanto esso ritiene
l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque
io che esisto, mi manifesto, per il corpo, sono più del mio corpo, più del mio esistere, perchè sono
essenza che esi- ste. In questo senso
l’esistente, non l’esistenza, che è una
notazione universale, si distingue dall’essenza, che è concet- tuale e non sensibile e a cui si unisce
qualcosa che la determi- na. L’essenza
senza esistenza è universale, l'esistente è partico- lare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza
è quo quid est: il nunc diveniente non
ci sarebbe senza il nunc permanente, che,
a sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di esistere. Ciò prova, non solo che il divenire
postula l’essere, ma che il divenire
stesso ha un suo essere formale per cui
è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determi- nato, ma, perchè vi sia la determinazione, è
necessaria l’es- senza da determinare e
perchè l’essenza non sia puro pos-
sibile, è necessaria la determinazione esistenziale. Ciò non dovrebbe dimenticare nessuna filosofia che si
dice esistenzia- lista od esistenziale
(due cose molto diverse) la quale, quando
1% Filosofia e Metafisica si
pone l’esistente come problema e lo contrappone alla pura essenza, dovrebbe ricordarsi del nunc
permanente che sot- tostà al r4nc
diveniente e porsi dunque sempre come onto-
logia e non come pura descrittiva degli elementi esisten- ziali, quasi che l’esistente sia pura
particolarità senza uni- versalità. Una
filosofia del solo esistente, cioè del solo aspetto particolare dell’ente, non ha senso, non è
filosofia (sarà de- scrizione empirica o
fenomenistica o anche fenomenologica) e
non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In
questo senso fa dell’esistente
un’astrazione. L'espressione di
Heidegger che l’essenza della realtà uma-
na consiste nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt in seiner Existenz), intesa nel senso che
l’esistenza è priva di essenza, non ha
senso; e non lo ha perchè non si capisce
più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una pura « possibilità », un’astrazione. Il suo
manifestarsi è il manifestarsi del suo
nulla e, come tale, un niente di manife-
stazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli esisten- zialisti dicono che è pura libertà e
temporalità, intesa la pri- ma come
l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esi- stenza. La libertà, in tal modo, non «
appartiene » all’esistente, lo «
costituisce »: è della libertà dare la propria natura a se stessa e con ciò farsi essenza. Dunque,
precede l’essenza: noi stessi
costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo. Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura
possibilità è pura libertà; ma la
libertà come pura possibilità è libertà di nien- te perchè è il nulla di libertà. Concediamo
che sia e che siamo come noi stessi ci
affermiamo. Ebbene, che significa io «
sono » come mi affermo, « mi do un’essenza » ? che sono io a farmi uomo, liberamente? che potrei anche
non farmi uomo? Parole senza senso. Se
mi potessi liberamente fare uomo, non mi
farei uomo per il semplice fatto che sarei
Dio! E neppure Dio, dato che posso anche farmi « libera- mente » non-uomo; e Dio non può fare che un
uomo non Concetto di metafisica
197 sia uomo, appunto perchè è
libertà autentica e non l’Assur- do.
Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenziali- smo, sono esistenza assurda e libertà
assurda. Inoltre, se « noi siamo come ci
affermiamo » significa che l’esistenza come
possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè la sua essenza, qui « essenza » evidentemente
vuol dire altro da quel che è il senso
tecnico del termine e cioè: l’esistenza
ora si dà una determinazione, ora un’altra essendo infinita possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il
particolare, la de- terminazione, e
l’esistenza, possibilità infinita, l’universale: si sono cambiate le carte in tavola e si
crede di aver vinto la partita. Ma ogni
determinazione è contingente; come tale
non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determi- nandosi, non si essenzializza e dunque resta
vuota; si nega sempre come esistenza,
non esiste perchè non è. E che sia così
appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esi- stenza e temporalità: il divenire temporale
s’identifica con l’esistenza, che non è
altro che il suo processo temporale; dun-
que l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è come dire: l'essenza dell’esistenza e la sua
contingenza, cioè il suo stesso
esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così tornia- mo sempre allo stesso punto dell’esistenza che
non è, che è il nulla di essere. Giustamente osserva il
Maritain nel suo Court traité de
l’existence et de l’existant (p. 12): se voi « suppri- mez l’essence, ou ce que pose l’esse, vous
supprimez du méme coup l’existence ou
l’esse, ces deux notions sont cor-
rélatives et inséparables, et un tel existentialisme se dévore lui-méme » ('*). Esasperare l’antinomia di
essenza ed esi- stenza, al punto da
rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste-
(1) Nella stessa pagina il Maritain distingue tra « esistenzialismo
autentico », che « affirme la primauté
de l’existence, mais comme impliquant et sauvant les essences ou natures, et comme manifestant
une supréme victoire de l’in- telligence
et de l’intelligibilité »; ed «esistenzialiimo apocrifo », quello di oggi, il quale « affirme la primauté de
l'existence, mais comme détruisant ou
supprimant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme
défaite de l’intelligence et de
l’intelligibilité ». Un’ontologia
completa, osserva il Girson 198
Filosofia e Metafisica rilizzarle
entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kier- kegaard, a volte, è l’astrazione di
un’astrazione. A chiarire meglio questo
punto soccorre la considerazione dei
termini nel loro rapporto e distinti nel loro uso metafi- sico e logico. L'essenza (0dcia ) è ciò per cui un essere è
quello che è. Metafisicamente è ciò che
forma il fondo dell’essere; lo-
gicamente o concettualmente è l’insieme delle determina- zioni che definiscono un oggetto di pensiero
(Ar., Met., VII, 7, 1032b). Ci sembra
evidente che il significato metafisico non
esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto è vero che essa, così intesa, da alcuni pensatori è posta
nell’universale, da altri
nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il fondo dell’essere, per ciò stesso, non è
tutto l’essere sia perchè esclude gli
accidenti, sia — e questo è più impor-
tante — perchè l’essere metafisico importa l’atto di esi- stere, è l’essere che è. In questo senso
l’essere è il fatto di essere o
esistenza: esiste — altrimenti non potrebbe esi- stere un solo momento — per l’essere, ma è un
fatto di essere «in quanto è atto di
esistere ». Evidentemente l’ente finito
riceve tutto quello che ha di reale e di vero dell’Ens reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il
solo la cui essenza implica necessariamente
l’esistenza: Ens ex cujus essentia
sequitur existentia, secondo la definizione che il Leibniz ha dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini,
solo l’Ens reglis- simum è l’Ente
concreto, essendo gli altri esseri « astratti »
da Lui e postulanti il principio che li fa essere, per cui di ogni altro ente si può dire: ens ex cujus
existentia sequitur essentia). In breve,
non vi è essere reale che non sia esi-
stente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e
nell’altro caso l’essere e (L'étre et
l’essence, Paris, Vrin, 1948, p. 234) non può concepire l'esistenza come tale, nè eliminarla. « Une philosophie qui ne
renonce pas au titre de sa- gesse
devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui
. de la réalité » (ivi). Concetto
di metafisica 199 l’esistenza sono
il fatto di essere, dove essere ed esistere non
si oppongono. A definir l’esistenza non basta la sua astua- lità, ma è necessaria la permanenza, in
quanto nel pas- saggio, come abbiamo
detto, da «questo ente » a « non- questo
- ente » permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, co- me il fatto di essere, non solo si oppongono
all’essenza (co- me il fatto di essere
alla natura dell'essere), ma anche (nota
il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al nulla, come l’affermazione alla negazione.
Infatti, se af- fermo che un essere è,
non posso nello stesso tempo af- fermare
che non è. È, come sappiamo, l’identità, scatu-
riente dagli stessi contrari dell’esperienza. Da quanto abbiamo detto si conclude: 4)
l'esistente non è il mero particolare,
ma è l’essere determinato e, come tale,
reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere determinato è universale esistente e dunque
permanente nelle sue mutazioni; c) come
ente che è, importa l’esistenza, in sè e
da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così con- cepito (essere esistente o essenza
determinata) è l’oggetto della
metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza o concetto (eidetica), non più come esistente
bensì come es- senza desistenzializzata
e, dall’altro, risale dall’ente che è
all'atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale; e) di fronte a questo problema, la metafisica
non cerca più di definire il reale, di
coglierne l’essenza o il concetto, per
cui il reale è giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma si sforza di cogliere il reale che è insieme
nunc perma- nente e nunc diveniente,
essere esistenziale; f) in quest’ul-
timo punto la metafisica si pone il problema supremo dell’atto dell’esistere, il problema della «
consistenza » del- l’esistenza ed è metafisica
esistenziale, cioè che non si appaga più
della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere da essa, si sforza di cogliere l’essere come
reale, di ri- spondere non più alle
esigenze della sola ragione, ma a quelle
dell’esistenza concreta, alle istanze che l’essere esi- 200 Filosofia e Metafisica stente — in quanto essere e in quanto esistente
— pone co- me universalità determinata o
come particolare esistere di un'essenza
universale; cioè pone come soggetto integrale,
completo. Può rispondere la metafisica a questo problema? Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile
del soggetto? Col problema
dell’esistenza, così impostato, in che rapporto
sta quello che oggi si chiama l’esistenzialismo ? Contro quale concezione dell’esistenza o filosofia esso
protesta? Cerchiamo prima di rispondere
a queste ultime domande. 3. — Critica
dell’esistenzialismo.
L'’esistenzialismo — quali che siano le sue forme — è una filosofia dell’esistenza o meglio
dell’esistente e vuol essere una
metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in
quanto sog- getto, singolarità e
soggettività; per contro non è una filo-
sofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, ogget- tiva e concettuale. Esso dunque, contrappone
la filosofia detta « esistenziale » a
quella detta « speculativa » o « essen-
zialista » come contrapposizione dell’essenza all’esistente, del- l’oggetto al soggetto, dell’universale
astratto al singolare con- creto. In
questa contrapposizione chiede alla filosofia spe- culativa o concettuale di dare una risposta —
se può — alle istanze del soggetto, al
grido del singolo, come oggi si dice per
drammatizzare il problema e colorirlo con il linguaggio della poesia. Perciò l’esistenzialismo è la
rivolta contro la filosofia
dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione cristallina che ordina e sistema forme,
contro l’eidetica e qual- siasi aspetto
della realtà spirituale che si presenti nei ter- mini della razionalità pura, conclusa,
definitiva e definiti vamente
definiente. È contro la scienza che,
pur definendosi conoscenza del fatto
concreto, prescinde, come pura conoscenza scientifica, dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto
che si può avere © Concetto di
metafisica 201 una descrizione
scientifica della natura, senza che mai si
ponga, dice Eddington, la questione di attribuire all’universo fisico quella proprietà misteriosa che si
chiama « esistenza »; d’altra parte, si
costruiscono ontologie, senza che il concetto
di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corri- sponda ad una esigenza naturale e spontanea
della ragione assimilare le essenze e
classificarle, eliminare l’esistenza, osta-
colo alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in poi, ogni filosofia è come se abbia avuto
sempre inizio dalla paura dell’esistenza
e riposto la saggezza nella liberazione
da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile di forme assolute nella dimenticanza totale
dell’esistenza inintelligibile. La
filosofia è nata come svalutazione dell’esi-
stente molteplice contingente e rifugio nella contemplazione dell'essere in sè. L’esistente è il
non-essere; l’esistente, per la ragione,
non è. In questo senso, la filosofia si è preoccu- pata più della felicità della ragione che di
quella dell’uomo pretendendo, nello
stesso tempo, di far coincidere perfetta-
mente la felicità di quest’ultimo con quella della prima. Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle
ragioni dell’esi- stenzialismo)
l’ineliminabile problema dell’esistenza s’im-
pone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od arti- stica, filosofica o religiosa; soprattutto
s'impone per la meta-. fisica, in quanto
s'inserisce profondamente nella sua stessa
struttura. La metafisica come eidetica non può non seguire l'inclinazione naturale della ragione di
stabilire, in base al principio di
contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro. proprietà; non può non desistenzializzare
l’essere, renderlo esistenzialmente
neutro al punto che sia indifferente al suo
concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra
parte non può non tener conto degli
esistenti, della relazione tra un esistente e
un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze, in quanto, nelle questioni di fatto, è
possibile il contrario. senza che
implichi contraddizione, a differenza che nelle 202 Filosofia e Metafisica relazioni tra le idee, .che il solo
principio di contraddizione basta a
giustificare; e soprattutto non tener conto del pro- blema fondamentale dell’esistere per cui
l’esistente è tale. Tra l’essere come
pura essenza e l’essere esistenziale non solo
sembra stabilirsi un’opposizione, ma addirittura instaurarsi un conflitto: l’uno diventa la negazione
dell’altro. È l’astrat- tezza di una
metafisica come pura eidetica, o di una filo-
sofia che riduce l’essere alla sola esistenza. Infatti nel primo caso, la metafisica non
può definire nemmeno l’essere come
essere. Platone avvertì chiaramente la difficoltà
nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come nel Parmenide aveva avvertito le aporie del
rapporto tra l’év e i ro), dove rileva
che il Medesimo (taòdtov) è an- che il
Diverso (èresov ) in quanto, proprio perchè è il « me- desimo », è «diverso» da ogni altra cosa. D'altra parte, «come osserva ancora acutamente il Gilson,
«l’étre ne peut se réduire à l’identique
sans se dévolouer lui méme en tant qu’étre,
car è partir du moment où cette réduction s’opère, il dépend du ”’ mèéme” comme de sa condition,
et, par con- séquent, il s’y subordonne
comme la conséquence au prin- cipe ». L'essere non è più la nozione prima, ma come
prin- cipio intelligibile si subordina
ad un altro anteriore che intel-
ligibile non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là del- l’essere (come Platone vi aveva posto il
Bene), al di sopra di ogni razionalità,
trascendente ogni forma di conoscenza;
in tal modo l’essere soffre esso stesso della inconcettualiz- zabilità dell’esistenza. Sono i limiti
esistenziali che l’esisten- zialismo
pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere identico a se stesso. Tali limiti, fin dalle origini, l’esistenzialismo
fece valere contro la Ragione hegeliana,
contro la dialettica dei «tre stomaci »,
come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia
trascurato di interessarsi dell’esistenza; anzi il Dasein è per lui un momento ideale della dialettica, la
quarta categoria della logica dopo
l'essere, il non-essere e il divenire; ma-
Concetto di metafisica 203 per Kierkegaard è proprio nell’onnivora
dialettica il peccato d’origine della
hegeliana filosofia speculativa. Niente, per
lo Hegel, è al di sopra o al di fuori della Ragione univer- sale, la quale adegua interamente e
perfettamente il reale. La conoscenza è
la Ragione, che è il Sapere, il frutto del-
l’albero della conoscenza del bene e del male (come scrive lo stesso Hegel nei Vorlesungen tiber die
Geschichte der Philosophie), il principio
generale di ogni filosofia. La legge
della hegeliana Ragione è quella del serpente, che provocò la caduta di Adamo: tutta la sua realtà è la
storia. La ragione non è fatta per
servire l’uomo, ma per assoggettarlo, come
la Storia non è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia. Anche nei contemporanei epigoni dello
storicismo questo concetto negatore della
persona è stato gelosamente conser-
vato, anzi « umanisticamente » perfezionato. Lo Hegel parla spesso di esistenza (Dascin) ed anche di
esistente (Seiende), proprio negli
stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla Heidegger, cioè di un essere finito, gettato,
abbandonato, ma gli nega qualunque
diritto in sede filosofica: la filosofia
dell’Idea, come tale, non riconosce il « finito come essere vero ». I lamenti e le grida dell’io sono
sterili pianti senti- mentali, di cui
l’Io non può tener conto se non come del
negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi s’installa dentro, in quanto conquista la sua
verità proprio nell’assoluta negatività,
la sua vita inserendosi dentro la « ir-
realità » della morte. Lo Spirito che si colloca nel negativo, come si legge nelle prime pagine della
Phénomenologie des Geistes « trasforma
il nulla in essere ». È precisamente con-
tro questo « potere magico » (Zauderkraft) di risolvere vio- lentemente — e dunque di dissolverlo —
l’esistente-negativo nello
Spirito-Positivo che si ribella la filosofia esistenziale. Essa protesta che non vi è risoluzione
dell’esistente nel Po- sitivo assoluto,
che l’esistente ha il diritto d’interrogare la filosofia speculativa e di gridarle in faccia
le sue sofferenze; che non vi sono «
passaggi » dialettici, ma « salti » scanda-
204 Filosofia e Metafisica
lizzanti la ragione. L’infelicità e il dolore dei personaggi del- la tragedia greca non sono «intelligibili »,
come dice lo Hegel, in quanto la
necessità di ciò che loro accade appare co-
me la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra di ogni razionalità, permangono infelicità e dolore
incomprensibili per la ragione, per essa
« non veri », ma non perciò « non reali
». Di qui la rivolta di Kierkegaard, la rivolta dell’« an- goscia » contro la « ragione speculativa »,
il mo dell’esistente contro il sì
assorbente dell’Idea. L’esistente mette in di-
scussione la filosofia e cita in giudizio l’onnicomprensiva conoscenza razionale, affinchè si rassegni ad
ascoltare che cosa pensi di essa, per
dirle che si rifiuta d’ « immagi- narsi
felice » come richiede la Ragione universale; che non intende, imaginandosi tale, di diventare un
mito; che si appella, malgrado la
ragione, all’Assurdo. Obiezione fon-
damentale questa dell’esistente: la ragione non si trova sulla stessa linea della realtà, costruisce un uomo
che non è l’uo- mo, per cui la categoria
del pensare risulta diversa da quella
del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed implorante; per il singolo è un mito la
ragione universale e soddisfatta. È un
mito la Ragione — l’Idea o l’Essenza — o
è un mito l’esistenza, il mondo delle cose e degli uomini? Una risposta che riconoscesse la miticità di
uno di questi due mondi non sarebbe
tale, ma la catastrofe definitiva, un
decreto oscuro e silenzioso di morte.
In questo conflitto tra filosofia speculativa ed esisten- ziale, che abbiamo colto all’origine
(quantunque esso non nasca con la
polemica anti-hegeliana di Kierkegaard, ma
abbia natali più vetusti e non meno nobili, almeno nella po- lemica Abelardo-S. Bernardo — dei dialettici
e degli anti- dialettici — e poi in
quella Pascal-Descartes e, sotto certi
aspetti, nelle altre Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone
delle istanze che meritano la migliore
attenzione, anche perchè esse servono a
riportare in primo piano quella metafisica che sembrava Concetto di metafisica 205 morta e sepolta e lo sembra ancora oggi
ad alcuni superfi- ciali pseudo-filosofi
italiani e anglo-americani; a ridare di-
gnità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che l'immanentismo aveva creduto di aver
definitivamente dis- solto; a chiarire,
su basi rinnovate, i rapporti tra filosofia e
religione e a cercare nella morale — che è pratica ed è teoria, azione e pensiero — la soluzione dei problemi
della metafisica stessa. Perciò noi che
abbiamo criticato, a volte anche aspra-
mente e continueremo a criticare certi atteggiamenti sterili, di maniera, pseudo-filosofici e decadentisti
di cui abbonda la letteratura
esistenzialista, siamo pronti a riconoscere l’impor- tanza che ha l’esistenzialismo come momento
della filosofia contemporanea; ma prima
di accennare al nostro punto di vista
sul tema del nostro discorso, riteniamo necessario pre- cisare alcuni punti dentro l’esistenzialismo
stesso. Innanzi tutto esso deve
decidersi se vuole essere una filo-
sofia dell’esistente o una filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff, nelle Cinque meditazioni, ha già osservato
che, a differenza della kierkegaardiana,
quelle di Heidegger e di Jaspers so- no
filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Chemine- ments et Carrefours) lamenta che la
fenomenologia esisten- ziale « sous la
responsabilité d’un Gabriel Marcel, d’un Hei-
degger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre ui lui rend la terre ferme: l’existant
s’efface et cède la place à l’Existence
»; più recentemente il Fondane (Le lundi exi-
stentiel et le dimanche de l’histoire) afferma che una filo- sofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai
una filo- sofia esistenziale, «car c’est
précisément è l’existant seul qu'il
appartient de faire connaître son point de vue; à lui de decider ce qui est negatif et ce qui est
positif... ». La di- stinzione è esatta
e fondamentale: una filosofia dell’Esi-
stenza non è una filosofia esistenziale, in quanto l’esistenza è ancora un astratto, una nozione
concettuale; una filosofia esistenziale
non può non essere che filosofia dell’esistente. Resta a vedere fino a che punto essa sia
possibile, in quanto 206 Filosofia e
Metafisica filosofia; se quella che
la Bespaloff giudica una « manovra »
insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heideg- ger e Jaspers, non sia invece una necessità
intrinseca alla filosofia, che, in
quanto tale, è bisognosa della « terre fer-
me ». Resta confermato, per ora, che una filosofia esisten- ziale non può essere che filosofia
dell’esistente, ma per- mane ancora
aperto il problema se non sia costretta ad oltre- passare se stessa. Già come ausilio alla risposta ci soccorre
la seguente consi- derazione. Filosofia
dell’esistente, colto soltanto nella sua
finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così concepito è ancora il negativo, il nulla? È
il niente che « po- ne » il positivo? In
tal caso, si è negata la positività del-
l'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La stessa obiezione che si può muovere allo
Hegel — il Non- Essere come Non-Essere
non può costituire termine di an- titesi
(se ne accorse Platone nel Sofista, dove stabilì la zoweviz tra l’Essere e il Non-Essere) — si
può ritorcere contro l’esistenzialismo:
dell’esistente come negativo non c’è
discorso, per il fatto che è negativo. Di qui la necessità di tener fermo quanto abbiamo chiarito
precedentemente: l’esi- stere è
l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si può prescindere, altrimenti si prescinde...
dall’esistente stes- so! Di qui l’altra
necessità di non poter fare a meno della
filosofia speculativa, anche se questa non può bastare. Kier- kegaard alla dialettica hegeliana, la quale
conclude al « non riconoscimento del
finito come essere vero », oppone l’ango-
scia e dice che essa precede la logica, il particolare l’uni- versale, l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si
appella l’angoscia se la ragion vien
dopo o non viene mai o è venuta prima e
non ha saputo rispondere? A chi grida? L’esistente inter- roga la ragione e dice quel che pensa di
essa: benissimo; ma con che cosa
l’esistente interroga la ragione e dice quel
che ne pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione che interroga se stessa intorno al problema
dell’esistente. Concetto di metafisica
207 x . Scartata la ragione, la filosofia non è più
tenuta a rispon- dere ed è inutile
quanto ingiusto protestare contro di essa.
Non la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esi- stente sulla ragione, dicono gli
esistenzialisti. Per dire che cosa? Che
la ragione non deve sopprimere l’esistente, non
assoggettarlo, non imporgli d’ « imaginarsi felice »? Queste giuste richieste possono significare solo due
cose: @) porre un limite alla ragione;
5) svalutare fino alla negazione la ra-
gione stessa. Nel primo caso, non c’è da porre un limite alla ragione, in quanto è essa stessa che
riconosce il suo li- mite esistenziale e
tale atto di riconoscimento è sempre ra-
zionale. Dunque, non si tratta di una presa di posizione contro la ragione, ma di una posizione della
ragione di fronte all’ esistente, di un
suo atto di sufficienza (positivo e
razionale) non autosufficiente. Non reazione dell’ esi- stente alla ragione, ma presa di posizione
originale dell’esi- stente, che è ancora
presa di posizione della ragione di fronte
ad un problema che non le contraddice e reclama risposta. Nel secondo caso, così frequente in quelle
forme di esisten- zialismo
esasperatamente irrazionalista, pronunziato il giu- dizio il più negativo sulla ragione, che
resta da fare all’esi- stente? Non ha
più nemmeno la soddisfazione di dispe-
rarsi, perchè niente ha più senso. Si pone come problema eterno eternamente insolubile, che ne
accumula altri infiniti, tutti del pari
eterni ed insolubili; la problematicità assoluta adegua così l’umano sapere. Ma il senso della
filosofia ha perduto ogni senso:
all’inizio non è più il problema (am-
messo e non concesso che all’inizio non sia la verità, oscura quanto si voglia, per cui è vero, come dice
Agostino, che ogni uomo cerca quel che
sa) e alla fine la soluzione, ma il
problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito come problema, per cui il compito della
ricerca è quello di «concludere » ad un
problema che, nella conclusione, è più
problema, più problematico di quanto non lo fosse in principio. Ma questo è dare il problema per
soluzione, con- 208 Filosofia e
Metafisica fondere le lingue,
anche se a volte con una perspicacia c
un impegno degni di miglior causa. Così l’ultima parola della filosofia sarebbe la problematicità per
la problema- ticità, che, ad esser
chiari anche se non perspicaci, significa
l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo per eccellenza, non risparmia alcuna critica
rimprovero con- danna alla « iniqua
logica », alla « pigra e vile » ragione, a
quanti si sottomettono alla sua « ontosa schiavitù ». Ma, a questo punto, la ragione e la logica possono
tranquilla- mente obiettare: «se come
voi dite (Exercitia spiritualia) quel
che più importa si ritrova al di là del limite del com- prensibile e dell’esplicabile, vale a dire al
di là dei limiti di ciò che può essere
comunicato con la parola, perchè ci
rimproverate? Quel che voi cercate non ci appartiene; ci rivolgete una domanda che dovreste
indirizzare ad altri. Potete farlo, ma
solo in quanto la ”’ vile ’’ragione e la ”’ ini- qua” logica vi autorizzano a ciò »; ma
l’esistenzialismo irra- zionalista
respinge proprio questa autorizzazione. Non gli
resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filo- sofica nè religiosa; o l’assoluto
scetticismo, non come posi- zione
speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto angosciante quanto sterile. Oppure, accettata
la frattura fra il momento morale e
quello teoretico, concludere che la
logica non è essenziale alla filosofia, che deve « attraver- sarla »; che la filosofia è « edificante » e
non vi sono di va- lide che le filosofie
edificanti; ma edificano solo le filosofie
edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e con essa.
Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esi- stente; dunque non lo rivela, tranne che
l’esistente non s’iden- tifichi col nulla
e allora non c’è problema: l'angoscia che
rivela il nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Inter- rogata, non potrebbe dare altra risposta;
interrogante, non ha senso che
interroghi sulla negatività dell’esistente: solo l'esistente come positivo reclama
spiegazione. Quando l’an: Concetto di
metafisica 209 goscia svela il
nulla dell’esistente, che la ragione dissi-
mula («l’imaginarsi felice ») non pone un problema o un limite alla ragione, ma... dà ragione alla
ragione di disin- teressarsi di lui. Il
niente esistenziale se si pone come niente
dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che mai ha neppur tentato alcuna filosofia
speculativa. Non al- lora il nulla
dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la
félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente im- plica la sua positività, allo stesso modo che
il male, come negatività o privazione, è
concepibile rispetto a qualcosa che è.
Positivo è l’essere, guesto essere, il cui « nulla » la privazione di un grado più pieno di
realtà; dunque l’esi- stente è, è un
essere, il cui non-essere o nulla è la man-
canza di quel che non ha. Evidentemente la sua insuffi- cienza gli pone il problema (di qui l’«
irrequietezza » e l’« in- quietudine »)
della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esi- genza naturale essenziale ed universale della
sua compiu- tezza. Questa negatività ha
un senso in quanto è l’aspira- zione di
una positività al suo compimento, ad un più di
essere del suo stesso essere — non ad essere un altro essere — ricerca della consistenza dell’esistente. Non
si vede perchè quest’ultimo, che tale
esigenza ha avvertito più o meno
chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba scio- gliersi in lacrime, affliggersi in
interminabili ed angoscianti lai,
piuttosto che riflettere seriamente su se stesso secondo le buone regole del pensiero e della ricerca
speculativa: oggi certo esistenzialismo
è diventato una specie di nevrastenia
filosofica. O forse si vede, ma per motivi che contraddicono all’esistenzialismo stesso: perchè posto
l’esistente come nega- tivo o votato al
destino del nulla, implicitamente l’esisten-
zialismo accetta la posizione hegeliana del non riconosci- mento del finito come essere vero; e perchè
la filosofia, in un’epoca come la nostra
di spiriti decadenti, ha amato com-
promettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se stesso compromesso e forse ormai di
maniera. 210 Filosofia e
Metafisica Ciò non nega, anzi
conferma, il merito dell’esistenziali-
smo di avere richiamato l’attenzione sul problema dell’esi- stente, interno ed essenziale alla ricerca
filosofica. L’ideali- smo, se, da un
lato dissolve il singolo nell’onnivoro Scggetto
trascendentale o nella Storia, dall’altro, pone il soggetto stesso come principio di spiegazione e non
come problema, ma con ciò sopprime ab
initio il problema dell'esistente. Alla
radice, l’idealismo è una evasione dal limite esisten- ziale; perciò è anche un’evasione
dall’interiorità: il sog- getto è sempre
cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascen-
dentalità idealistica è essenzialmente mediazione); perciò l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il
problema del- l’esistente, posto il
soggetto come principio di spiegazione e
non come esso stesso problema, « mostro » direbbe Pascal, tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il
limite della ragione è soppresso alla
radice: tutto è incluso nella trasparenza della
Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è motivo che il soggetto si trascenda: risolto
il problema che l’uomo è a se stesso,
che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora la
natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo). Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la
Scienza, Dio è la Storia, ecc. Ponete,
invece, il soggetto, il singolo, l’esi-
stente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo come problema e la trascendenza scoppia fuori
come la far- falla dalla crisalide.
L’esistenzialismo, contro una tradizione
filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascen- denza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso
non ha dimen- ticato di essere, malgrado
tutto, figlio dell’idealismo trascen-
dentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte di esso, quella meno direttamente figlia di
Agostino, Pascal, Kierkegaard,
Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza,
col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso, non accorgendosi che così dà per risolto il
problema del soggetto, dell’esistente, e
ricade nella stessa posizione dei-
Concetto di metafisica 211
l’hegelismo (?). Recentemente il Camus (Remarque sur la révolte) ha distinto la sua trascendenza
«orizzontale » da quella « verticale » o
di Dio, che egli esclude; vedremo tra
non molto come un esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi alla trascendenza teologica non abbia
significato. Nella ri- volta contro la
Ragione, ammesso per un momento e non
concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia- (2) Bisogna tener presente che Îla protesta
kierkegaardiana in nome del- l'esistente
o del singolo contro la Ragione universale dello Hegel, non restò, fin d'allora, isolata. Contro l’Idea
hegeliana, la concreta realtà della natura (gli
uomini e le cose, gli esistenti particolari) è rivendicata dal Feuerbach
e dal Marx. Le istanze kierkegaardiane,
mosse da esigenze etico-religiose, sono la pro-
testa della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del
Feuerbach e del Marx, mosse da bisogni
di ordine naturalistico-economico, in nome di un umanesimo depotenziato a felicità terrena,
sono la protesta del contingente per un
immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le
due forme principali di esistenzialismo
— teologico e laico — che oggi si riscontrano
nella filosofia contemporanea si ritrovano alle origini della polemica
antihegeliana, o più esattamente di
hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello hegelismo in opposizione ad altri. Hanno in comune
l’istanza della rivalutazione dell’esi-
stente o del particolare; si dividono sulla questione del fine da
assegnargli, cioè sul problema della
consistenza. Ciò importa fin dalle origini un rapporto equivoco tra marxismo ed esistenzialismo, oggi
diventato abbastanza palese. La questione
è complessa e non è qui il luogo di trattarla adeguatamente; ma è
opportuno, anche nei limiti del nostro
tema, qualche chiarimento. Porre il
problema dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il soggetto posto di fronte a se stesso come un
problema da spiegare, rimanda ad altro,
pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha assunto due posizioni fondamentali: 4)
l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro
(trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio
della religione, ma il limite
dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua fini- tudine (trascendenza esistenziale). Per il
marxismo l’altro dall’esistente è l’altro
uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo, per Feuerbach, è fine a se
stesso e il suo fine è la propria
felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in quanto ha un #, un d/tro con cui entra in rapporto
acquistando coscienza della pro- pria
umanità: l’io è tanto più se stesso quanto più partecipa, nel rapporto con l'altro, dell'umanità che è presente in lui.
Anche per il Marx l'altro dall’io è
l’altro uomo: l’uomo è l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta
marxista francese contemporaneo. La
solidarietà dei lavoratori è l'umanità di Marx:
ogni lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila
alla « clas- se », alla « massa » dei «
compagni ». Il « rovesciamento della prassi », con la con- seguente eliminazione del capitale privato e
l'avvento dello Stato socialista, renderà
reale quella condizione di « felicità collettiva » nella quale l’uomo è
tutto per l’uo- mo. La struttura
economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta, per Marx, come è noto, non di intendere il
processo storico, ma di cambiarlo con la
«rivoluzione »: la filosofia non deve più limitarsi ad «interpretare il mondo »; « ora si tratta di cambiarlo ») la
nuova società non più afflitta dalle
212 Filosofia e Metafisica
mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella cui aspirazione l’esistente «consiste », in
cui si riassume, si ricapitola in una
presenza totale. Di fronte a questa consa-
pevolezza :/ resto è un niente, che l’esistente può, si sente di sacrificare; ma c’è il sacrificio del
resto, solo in quanto bb ® . . c'è il Tutto che chiama. Bisogna vedere le
cose alla luce della morte, come dice
Platone; ma la morte non è la notte sovrastrutture della morale e della religione
borghesi. — Nella prima posizione
esistenzialista c'è una trascendenza autentica; nella seconda una
pseudo-trascen- denza; nella posizione
marxista l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima sono, da questo aspetto, incommensurabili; la
seconda c la terza differiscono in
quanto l’una si rifiuta di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude
di poter salvare ancora i valori morali
e una certa vaga religiosità. Nel loro rap-
porto vi è un duplice equivoco: 4) da parte del marxismo quello di
credere di poter risolvere il problema
dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esi- stente-uomo in quanto tale) solo con la «
giustizia sociale » identificata con la
struttura economica, senza tener conto dell’infinita ricchezza delle
esigenze dello spirito, per soddisfare
una sola delle quali ogni uomo, se veramente posto di fronte a se stesso, sarebbe disposto ad
accettare la più pesante schiavitù econo-
mica; è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di
avere rotto il cerchio della dialettica
hegeliana conservando la pregiudiziale immanentista e di salvare quei valori che il marxismo rigetta
accettando la stessa pregiudiziale.
Indubbiamente il marxismo è più coerente: se c’è immanenza, sia
radicale; « liberiamo » l’uomo da ogni
norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’
evidente che l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a
metà: porta in prima linea il problema
dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo della ricerca fino al punto a cui mette capo,
cioè alla trascendenza teologica.
Permane però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i
marxisti integrali e denunziano (vedi la
costante polemica nella rivista comunista fran-
cese La Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista:
l’esistenzialismo, anche se si proclama
ateo, è sempre un forma di misticismo: gli appelli della ‘persona umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad
un qualunque Dio che li possa ricevere;
dunque esso non può essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le alimenta, le « superstizioni » religiose, le
evasioni illudenti dal terreno mondo
degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero « umanesimo », anzi è il
solo che sia tale, perchè il solo che
punta sull’esistente, lo completa nella legge umana del lavoro e l’appaga nella felicità terrena. Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di
un marxismo come filosofia
dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette
sovrastrutture e ridotto alla sola
struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (im- miserimento) della persona umana, l’esistente
così concepito costituisce un pro-
blema? Perchè l’uomo diventi problema — insieme di problemi — fino al
punto da mettere la ragione in stato
d’accusa e di gridare in faccia alla logica che
egli ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre
delle istanze che lo oltrepassano — che
oltrepassano l’uomo in generale — che, dunque, si pongono al di là e al di sopra della società,
della storia, dell'economia, della
terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti
nell’ambito del’ soggetto stesso o della
classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente Concetto di metafisica 213 oscura senza fondo solo in quanto la
illumina la speranza dell’ immortalità e
la gloria in Dio. Il sacrificio « del re-
sto » per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molte- plice, la garanzia assoluta dalle illusioni
deludenti. Nella negazione «del resto» è
implicata l’affermazione di un Valore
assoluto, la trascendenza al soggetto, quella « verti- cale », la sola per cui trascendo la piccola
grande storia della x così com’è posto dall’esistenzialismo
contemporaneo e come è stato sempre posto
nei suoi remoti o prossimi antecedenti storici. L’economismo e
l’immanentismo marxista sopprimono alla
radice il problema della persona e la persona come problema; tutto vi è risolto come nella
dialettica dello Hegel. Sopprimono la
persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra considerazione. L’esistenzialismo si proclama filosofia
dell'esistente, ma lo coglie nella sua nega-
tività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica
addirittura col nulla; esso strappa
l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale per porlo di fronte al suo nulla, mutolo
nell’angoscia di un peso enorme di
problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del
non-esistente, in quanto l'esistente è
positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo. Il mondo moderno, così impregnato di
umanesimo laico e cristiano, non si ras-
segnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo
e in partenza vi si oppone. Da questo
punto di vista l’esistenzialismo è « anti-moder- no », anche se dopo tante esaltazioni della
mondanità e della vita esso sia stato
buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul
momento della riflessione sia pure smorzata
da un permanente stato « poetico ». Il marxismo, da parte sua, filo- sofia dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si
colma sulla terra, spinto dalla logica
inesorabile del materialismo dialettico, conclude all’annullamento della persona nella opacità compatta e spessa della
« massa » e nell’onnipresenza dello
Stato. Conserva la più rigorosa « mondanità », ma proprio perchè
rigorosa, di- mezzata dell’altra metà,
da quella che sporge fuori e al di sopra di questo mondo. Due filosofie dell’esistente che
concludono alla sua nientificazione, che
colgono l’esistente nella sua negatività, nell’involucro esterno e vuoto
perchè mancante del pieno della «
consistenza ». « Contemporaneo », invece, il Cristia- nesimo, non contraddice alle esigenze
fondamentali dello spirito: positività questa
vita, positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la
sola « mondanità » significante. Vi è
nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia: quel che conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente
non è reale, è il negativo. E’ un
agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza
spe- ranza: non si redime, accetta il
suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e pla- tonismo antiplatonico il marxismo: reale è
l'individuo, ma è reale nella com-
pattezza della massa, quale dente della macchina statale o del Partito.
La cordi- zione presente dell’uomo è
proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un futuro immancabile, ma questo futuro e questa
felicità non sono in un dltro mondo.
Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le crea- ture, beni positivi in quanto creature
dell'Amore divino e assetate d’amore per
il Creatore. L'alternativa immanentistica, o Dio o io, o c'è Dio e io
sono nulla o non c’è Dio ed io sono
tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è; io sono innovatore perchè in Lui
m’innovo. 214 Filosofia e
Metafisica mia anima, tutta la
storia. Dopo tanta orgia di immanenza,
dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti e perciò steri- lizzanti della vita spirituale, dopo tanti
universali mondani — dell’economia e
dell’arte, della storia e della politica —
la «trascendenza » e la «solitudine » esistenzialista sono state, se non altro, un energico richiamo e
un salutare ri- sveglio. Ma niente più
di questo, in quanto l’uomo non è
soltanto singolarità, ma anche universalità di essenza, di ra- gione, di verità. Prima di essere singolo è
uomo e non è singolo se non è uomo. La
sua verità è anche verità degli altri,
deve esserlo: è la sua responsabilità suprema; e la verità è ricchezza e la ricchezza del signore
è generosa ed umile: accetta i doni e li
ricambia. Nella verità, che è mia perchè
di altri, gli uomini realizzano l’unica consistente ed indissolubile solidarietà. L'affermazione di
un valore non è mai individuale: chi si
sacrifica per esso, si sacrifica per
l'umanità intera. Nell’essenza della singolarità e di essa costitutive vi sono una universalità ed una
solidarietà me- tafisiche. 4. — Esistenza e consistenza. Al punto in cui abbiamo condotto il nostro
discorso, una prima conclusione appare
evidente: non si tratta di negare la
filosofia — o è anche razionalità o non è — ma di vedere come essa possa e debba giustificare
l’ esistente, se e come possa avviare il
problema alla sua adeguata solu- zione.
Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que ste pagine: il punto di partenza della
filosofia non può es- sere che la ricerca
razionale ed è esigenza naturale della
ragione e dunque dell’uomo cogliere la razionalità del reale; e la razionalità filosofica, il conoscere, è
il concetto, l’uni- versale. Basta
all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa
la problematica filosofica? No, tranne che per un raziona- lismo assorbente, astrattizzante, cieco di un
occhio. Pascal. Concetto di metafisica
215 lo obiettò a Cartesio (se a
torto o a ragione qui non im- porta
stabilire): «il cuore ha delle ragioni, che la ragione non conosce »; « l’ultimo atto della ragione
è di riconoscere che molte cose la
oltrepassano ». Non ho accostati a caso i
due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza l’altro: la ragione non conosce le ragioni
del cuore, ma conosce (« riconosce »)
che ci sono e la oltrepassano. Il pro-
blema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla stessa ragione, è razionale come problema, anche se
la soluzione è super-razionale, e, come
tale, non irrazionale, non contrad-
dicente la ragione. Le pascaliane ragioni del cuore -— prima che pascaliane, agostiniane, e dopo
rosminiane e oggi blon- deliane — sono
le ragioni dell’esistente, del singolo, del sog- getto hic et nunc. Esse sorgono, dunque,
indomabili senza che il conoscere
razionale possa pienamente rispondere, ma
senza poter fare a meno di esso e sulla base di questo stesso conoscere; irrompono assetate di risposta,
quando ogni inse- gnamento è finito, ma
sempre dalle pagine del libro aperto
della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato integrale e nel suo destino assoluto si pone
al limite della filosofia e come suo
limite, ma non contro la filosofia; si
pone e con sè pone la filosofia come « apertura » alla reli- gione. Vi è allora una «filosofia
esistenziale »? Sì, come problema
dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso; no, come soluzione integrale, totalitaria e
unitaria: filosofia esistenziale, ma il
cui fondamento, iniziale e finale, è teolo-
gico, perchè teologica è la soluzione assoluta del problema dell’esistente. Nato dalla ricerca
filosofica, sulla guida di essa e del
sapere speculativo, illuminato dall’intelligenza e dalla ragione, per cui l’uomo è uomo, esso non può
sommergermi nella disperazione e
nell’angoscia infeconde ed incompren-
sibili, bensì m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel senso autentico della mia esistenza; al di
sopra di me stesso, scopre la mia
consistenza. Nato dalle viscere più profonde
della ragione e dell’intelligenza non mi getta a morire nel 216 Filosofia e Metafisica nulla, ma mi raccoglie integralmente
nella realtà della mia vita. Pascal
all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di
approfondire queste anticipate, ma non inaspettate conclu- sioni.
Io ho quel che sono: l'avere adegua la mia esistenza e l’essere la mia consistenza. Non posso avere
senza essere, non posso essere soggetto
senza avere; e 4 chi ha sarà dato. Signi-
fica che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il mio essere è fatto da e per l’Essere, che la mia
positività limi- tata, che in questo
limite o mancanza è negatività, tende
alla Positività assoluta. È in ciascuno di noi una realtà essen- ziale; di essa abbiamo coscienza, che è la
nostra autoco- scienza. Consapevolezza
di consistere, oltre che di esistere,
coscienza che siamo una realtà distinta dai nostri atti, che la persona non è soltanto le sue azioni o le
sue cognizioni. L’agostiniano e
tomistico intelligimus nos intelligere non
prova soltanto che il realismo dei due pensatori è tutt'altro che ingenuo, ma che «intelligiamo » il nostro
stesso inzel- ligere; lo penetriamo così
profondamente al punto da com- prendere
che il nostro comprendere (conoscere) non com-
prende (« non conclude ») tutta l’essenzialità del roi e sfocia nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto
ci origina, ci guida, ci conclude e
sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è
censapevolezza del limite, ma come consapevolezza è già al di là di esso. Il problema di Dio è di
diritto quello dell’ul- timo fine: la
scienza è tendenzialmente sapienza: intenzio-
nalmente il problema dell’universo è considerato sempre in vista del problema della vita. Smarrire il
senso del fine è votarsi al non-senso
della fine, è rinunziare alla « consisten-
za » per consegnare l’« esistenza » alla morte. Sed ego co- nabar ad te et repellebar ab te, ut saperem
mortem. Tendere a Dio è sapere la vita,
per Agostino; essere allontanati da Lui
o allontanarsene è sapere la morte. Ut saperem mortem, affinchè conoscessi la morte, perdessi la mia
consistenza, fa- cessi esperienza del
nulla del mio esistere una volta privato del
Concetto di metafisica 217
mio consistere, che è durare perenne, durare, senza riposo o stanchezza, nel tendere all’Essere per cui
esisto e sono; è la libertà della mia
vocazione essenziale; il mio volere to-
tale, il senso assoluto del mio. contingente esistere. L’esi- stente esiste el tempo, ma non è del tempo:
re-siste al giorno che passa e alla
notte che copre le cose del giorno (oppone
il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè il suo stare è garantito e sorretto da un
fine; per cui la tem- porancità si
conserva nella temporalità e il tempo volge alla eternità intemporale. L’esistente è
persistente ed è persona — questa e non
un’altra — perchè persiste; e persiste in
quanto consiste. Il mutamento di «questo ente » in « non questo ente » è il manifestarsi di un ente,
la temporaneità di una sostanza che dura
nella temporalità, la contradditorietà
che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere permanente. Il durare dell’esistente implica,
dunque, suc- cessione, sviluppo.
L’esistente non è perfetto ma perfetti-
bile, dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua attuazione. La sua incompiutezza pone il
problema del suo compimento e nello
stesso tempo attesta l’Incondizionato
(omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula che è comune ad Agostino e a Tommaso).
L’esistente è in ogni momento la sua
consistenza, ma in ogni momento, n07 è
mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infi- nita, perchè è un’aspirazione totale.
Interiorità di sè a sè, come tale, .è
interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, pe- renne sforzo d’interiorizzazione, di
conquista di sè nel- l’Altro. La
soggettività profonda non è un dato, ma il rea-
lizzarsi di se stessa, la conquista di sè nell’abbandono a Dio. La povertà del soggetto, infinitamente
arricchentesi ed infi- nitamente povera,
è la sua ricchezza autentica. 5. —
L'essere e il problema teologico.
L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là dell’essere, è tuttavia nella linea dell’essere ed omogeneo
con esso. L'’esi- 218 Filosofia e
Metafisica stere, infatti, è
l’«atto proprio » di «ciò che è»; è la ra-
dice dell’essere. « Le nom méme d’essenzia que dérive de l’esse, traduit le fait que l’essence
constitue le point d’effleu- rement, sur
le plan de l’étre objectif et concevable, de l’acte premier en vertu duquel ce qui est, est, ou
existe ». Così ancora il Gilson da noi seguito su questo
punto, che ha posto bene in luce i
limiti esistenziali della filosofia, fa-
cendo, tra l’altro, notare come le nozioni di causa finale ed anche di causa efficiente si rendono
indispensabili allorchè si pongono i
problemi di esistenza. Infatti, in un certo senso, il punto di vista della finalità resta
esteriore all’ordine della chiarificazione
razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte,
il solo che spieghi il senso di un essere e di ogni essere. Si- milmente nella causalità efficiente, la
natura della causa spiega l’essenza del
suo effetto, ma non la sua esistenza. Il
pensiero analitico non può non spiegare da questo esi- stente l’apparizione di un altro esistente:
se l’effetto fosse identico alla causa,
non se ne distinguerebbe e non sarebbe.
Dalla causa all’effetto vi è sempre una specie di creazione ex nihilo, « dove qualcosa sembra sorgere
spontaneamente dal nulla ». Problemi
interni al pensiero filosofico; problemi
ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le que- stioni della provenienza (donde viene) e
della destinazione (dove va)
dell’uomo. È necessario che, a questo
punto, la filosofia entri in conflitto
con l’esistente che le pone dei problemi non rien- tranti nell’ordine della pura conoscenza
scientifica o ra- zionale? Il conflitto
c’è stato tante volte: la filosofia ha
negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente ha giudicato in blocco la filosofia come «non degna di
un’ora di fa- tica ». Conflitto che, in
verità, non ha ragione di essere e porta
in sè gli elementi per essere composto. Infatti, nè l’esistente può fare a meno della filosofia,
nè la ragione speculativa può sopprimere
l’esistente, in quanto il soggetto
indomabile sbuca sempre fuori anche dal più fitto tessuto Concetto di metafisica 219 di sillogismi e dalla più rigorosa ed
indifferente analisi di essenze
concettuali. La filosofia non può comportarsi come se l’esistente non esistesse per i problemi
interni che esso le pone e per gli
ostacoli che incontra nell’esplicazione della
nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non può vivere con la sola filosofia, non può del
pari vivere senza di essa. Le istanze
che egli pone alla ragione e gli appelli
che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione pone a se stessa. Dunque, vani ed
ingiustificati i rimpro- veri rivolti ad
una ragione, la quale riconosce i suoi limiti esi- stenziali. È la ragione stessa che guida l’
esistente, che al punto limite lo
convince a mettersi assieme in cammino per un’al- tra via, non contraddicente la ragione, ma
che la oltrepassa e segue metodi che non
sono più quelli della pura ricerca
razionale. Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra la ragione e l’esistente, la buona ragione e
l'esistente che non rinuncia al lume che
lo costituisce, si uniscono nell’apertura
alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva, una problematica religiosa; una fenomenologia
esistenzialista è, costitutivamente, di
carattere religioso. Pertanto, a nostro
avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta religiosa che il Cristianesimo dà del
problema dell’esistenza, è senza senso,
estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente a se stesso. Si tenga presente che ogni qual
volta la filosofia speculativa ha
cercato o preteso di dare da sola una risposta al- l'esistente e ai suoi problemi, ha concluso,
inesorabile, per la loro soppressione. I
tipi di saggezza platonico, anche se fino
ad un certo punto, epicureo, stoico, neoplatonico, spino- ziano ecc., concludono tutti che è saggezza
la liberazione dall'esistenza: è saggio
chi « ascende », dalla zona dell’esi-
stere, all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Ri- sponde invece diversamente una filosofia
della persona la quale non può essere
che cristiana: non sopprimendo questi
problemi, ma autenticandoli.
Essere non è solo l’essenza, anche se il termine è spesso 220 Filosofia e Metafisica usato per indicare l’essenza; essere è
essenza ed esistenza. Identificare
l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’es- senza, o con la sola essenza esclusiva
dell’esistenza, è negarlo. Una filosofia
puramente essenzialista deve concludere che
l'essenza non esiste e dunque negare il reale (è la conclu- sione di un platonismo spinto agli estremi,
alla quale non sfugge, malgrado tutto,
Aristotele); allo stesso modo una
filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una possibilità vuota, deve concludere con la
negazione dell’esi- stenza stessa.
L’originalità del reale o dell'essere è precisa- mente nella unione di essenza ed esistenza:
non il puro con- cetto nè il puro
esistere sono l’equivalente del reale. L’esisten- zialismo ha fatto ben comprendere
l’insufficienza del puro es-
senzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso esistenzialismo ci ha fatto ancor più avvertiti che non si può
prescindere dal- l’essenza: essenza ed
esistenza costituiscono la struttura del
reale. L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che pertanto va ricavata dall’esse; di qui il
primato dell’esistenza non sull’essere,
ma sull'essenza zmell’essere.
Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica, scienza del concetto o dell’essenza, come
tale, riconosce che, al di là
dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualiz- zabile. Per conseguenza, per cogliere il
reale, non si può partire dalla pura
ragione; è necessario muovere dall’uomo,
che è già cogliere il reale immediatamente, cogliere me reale nell’atto di acquistarne coscienza.
L’autocoscienza in questo senso è
giudizio esistenziale immediato, l’atto sin-
tetico che coglie unitariamente la dualità interna della struttura del reale. Ma ecco dal dato reale,
che è il mio essere, nascere un altro
problema: quello dell’esistere del mio
essere. Qui il problema dell’atto di esistere (actus essendi) si pone come richiesta di sapere se io sono
il principio di esso, cioè come problema
del suo fondamento assoluto. Se fossi il
principio del mio esistere, sarei il creatore del mio essere e l’atto di esistere del mio essere
s’identificherebbe Concetto di metafisica
221 con l’Atto assoluto
dell’esistere che fa essere ogni ente che
è: la mia essenza sarebbe identica alla mia esistenza. Ma io non sono il creatore di me stesso; dunque
l’atto autoco- sciente con cui colgo
immediatamente il mio essere nella sua
struttura di esistenza ed essenza, pone il problema del principio del mio essere stesso: è il
problema assoluto della metafisica, il
problema teologico o dell’esistenza di Dio, il
supremo Esistente. Il principio della Creazione è indispen- sabile all’ontologia, che dall’interno è
orientata verso la teologia. Su questo
punto la metafisica non essenzialista di
S. Tommaso sopravanza infinitamente quella essenzialista di Aristotele. Bisogna pertanto distinguere il
problema degli esseri già costituiti
(come sono) dal problema della loro
origine primale o della loro costituzione stessa, che è il problema dell’esistenza di Dio o del
principio assoluto del reale, della sua
suprema intelligibilità metafisica. Dio
l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che l’esistenza sia nel- l'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò
questo pro- blema; la metafisica
cristiana, in questo senso, è una « rivolu-
zione » rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fonda- mentale: per una metafisica dell’essenza, il
problema del- l’esistenza del reale non
si pone; non ha senso porlo; e perciò
non ha senso porre neppure il problema dell’esi- stenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di
termini, non lo pone: vedere le idee in
Dio rende superfluo il mondo reale. Questa
posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo, le si oppongono ma da essa derivano:
l’esistenza non è per- fezione e non
aggiunge niente all’essenza; dunque, non
solo dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione
kantiana del- l’agnosticismo metafisico
e della pura noumenicità della Cosa in
sè (l’ontologismo critico del Carabellese è la for- mulazione rigorosa di essa).
L’esistenzialismo immanentista, figlio
dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema metafisico dell’Atto supremo di esistere ed
ha considerato 222 Filosofia e
Metafisica l’esistenza come pura
possibilità o libertà; così l’ha pri-
vata anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esi- stenza resta sospesa a se stessa, senza
fondamento, vuota nel vuoto,
insignificante nulla. Tali affermazioni assurde
confermano che il problema del reale va posto come pro- blema del reale autentico che è essenza ed
esistenza, il qua- le pone, per la spiegazione
metafisica, il principio del suo
esistere, cioè il problema teologico.
E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filo- sofia se la trova interna e ad essa
essenziale. Metafisica per definizione —
per sua natura — la filosofia non può essere
che scienza dell’essere o della verità, nel senso più esten- sivo ed universale del termine. Ma, come
abbiamo già ac- cennato col Gilson, ogni
essenza è l’essenza di un atto, del- l’atto
dell’esistere; d’altra parte, è evidente che, senza l’essen- za, l’esistenza mancherebbe della sua
razionalità; dunque, in una ontologia
esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile, il possibile che è per l’atto dell’esistere.
(Un esame della dot- trina del Rosmini
della insessione delle forme dell’essere sa-
rebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad
eccezione di Gabriel Marcel, non sembra
vogliano saperne di ontologia, quan-
tunque facciano molto uso del termine; si fermano al di qua dell’essere, alla descrizione dell’esistenza
e si rifiutano di obbiettivare l’essere,
come se ciò compromettesse la sua
esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai l’esistenzia- lismo debba rifiutare un’ontologia
esistenziale, la quale ri- conosce il
primato dell’esistere e, per un'esigenza interna della filosofia e perchè l’esistere stesso
possa avere un signi- ficato
comprensibile sia pure come problema, accetta l’es- senza come costitutiva dell’esistenza. Un
esistenzialismo che rigetta questa conclusione
conserva ancora una nozione negativa
dell’esistente e distrugge in partenza il proble- ma che lo giustifica come posizione di
pensiero. L'atto di. esistere non può
essere considerato fuori dell’ordine dell’es-
Concetto di metafisica 223
senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esisten- ziale, di un universo di atti di esistere, la
sola filosofia è in- sufficiente a
risolvere tutti i problemi esistenziali che essa ne. Una filosofia che reclama questa pretesa
è la pseudo-filo- sofia della ragione
non autentica, e tale in quanto si arroga
compiti che la sorpassano; è la filosofia del razionalismo assoluto, della religione della ragione, cioè
una pseudo-reli- gione. L’esistente
nella sua originarietà resta il problema in-
terno della filosofia, quello che la apre alla trascendenza; un universo di atti di esistere è già, come
tale, dipendente dal supremo Esistente.
L’esistere, come abbiamo visto, importa
sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex mnihilo, il cui esserci è l’«evidenza sensibile » del
Creatore. Filosofia e religione, come
scrive il Masnovo (La filosofia verso la
religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo stesso termine reale di conoscenza — l’Essere
unico, sorgente di tutte le cose — il
cui svolgimento è diverso nella ragione e
nell’atto di fede, senza che l’una contraddica all’altro. 6. — Conclusione. Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se
stesso, la persona alla persona. I
concetti dell’uomo figlio di Dio, creatura;
della dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo; del conflitto morale tra il bene e il male,
al cui esito è legata la perdizione o la
salvezza; della libertà e del peccato, diedero
un senso dell’esistenza che — se il pensiero greco aveva in parte preparato — giungeva del tutto
nuovo. La vita come dramma interiore,
attrice di una lotta morale impe-
gnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo; nessuna concezione incentra la riflessione
filosofica sull’e- sistente e i problemi
esistenziali quanto quella cristiana.
Tutta la filosofia agostiniana punta diritta sull’esistente e i suoi problemi: pochi pensatori hanno
problematizzato co- me Agostino
l’esistente e vissuto con tanta intensità il dram- 224 Filosofia e Metafisica ma interiore dell’uomo. Se in S. Tommaso
il senso della in- teriorità è men vivo,
il dramma della persona è vissuto al-
trettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa. Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due
grandi, ha scoperto nella forma morale
dell’essere il punto di unione
dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale determinato; la morale rosminiana è una
soluzione da tener presente dei problemi
dell’ontologia esistenziale, la cui con-
clusione è ancora quella di Agostino e Tommaso. Oggi la concezione dell’uomo come dramma, del
soggetto come pro- blema da spiegare e
non come principio di spiegazione, è
tornata alla ribalta della discussione filosofica; al dramma si è cercato di togliere ogni carattere
teologico e si è ten- tato risolverlo
nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone
il suo problema e lo risolve da sè; ogni altra soluzione è fittizia ed illusoria. È la conclusione di
ogni forma d’imma- nentismo, il dogma
della filosofia marxista. L’uomo il suo
problema lo risolve da sè: non c’è posto per il superfluo, l'inutile della trascendenza. L’uomo deve
sacrificarsi all’uo- mo (individuo,
famiglia, società, Stato): è contrario alla sua
natura sacrificarsi a qualcosa che non sia umano, che lo trascenda. L’immanentismo, di qualsiasi
specie o sottospecie, si rivolta a Dio,
gli dice di no. Dunque dice di no a Qual-
cuno: altrimenti a chi direbbe di no e a chi si ribellerebbe? Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di
ribellione di una parte cospicua del
pensiero moderno, la sua alta protesta con-
tro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribel- larono a Giove, nell’atto stesso, riconobbero
la esistenza di Giove, tanto da tentarne
l’offesa e da sperimentare la po- tenza
della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da meno, ma siccome si è rivoltato al Dio di Cristo,
ha sperimentato l’infinità del suo
Amore. La rivolta contro la metafisica,
portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle deviazioni acritiche, non può non risolversi
che in una con- sapevolezza invincibile
dell’esistenza di Dio, la quale è in-
Concetto di metafisica 225
sita al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al vertice del conoscere razionale, pone ancora
il suo proble- ma, quello della sua
destinazione. Con esso è tutto il co-
noscere razionale che chiede la sua autenticazione in un sapere che trascende la ragione senza
contrastarle. L’esi- stente scopre la
sua consistenza: l’esistenza degli esseri ri-
manda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una
«contingenza ini- ziale », come dice il
Blondel, che li accompagna nel loro
processo evolutivo e costitutivo. Cercare la loro consistenza in quel che hanno di fatto in un dato momento è
cercarla — per mai trovarla — nel loro
aspetto esterno e non nel loro ordine
interno, nella zorma interna che li trascende, la quale « costi- tuisce la vivente e secreta armatura degli
esseri in cerca della loro vera e
completa realizzazione » (L'’Etre et les étres). L'es- sere-persona è capace di autosufficienza, di
realizzazione com- pleta e totale? Può
erigersi ad Assoluto come singolo o come
collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e ca- pace di conoscere, al limite del suo
conoscere, pone se stesso come problema;
ed è questo l’atto ultimo della ragione, conte-
nente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esi- stenza dell’Esistente assoluto. All’estremo
di tutte le sue possibilità, al massimo
della soddisfazione dei suoi bisogni, è
ancora bisogno, grida, come dice Hello, «io ho bisogno ». Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha
tutto. Sco- pre al limite di ogni
possibile ricerca, con la convalida e la
garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine che lo trascende, di tendere ad un
perfezionamento che lo oltrepassa. Il ne
varietur della religione costituisce la pedana
di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, per- chè la fede religiosa non è cieca, nè è
un’avventura da anima romantica. Senza
essere «una passione inutile », come lo
definisce banalmente Sartre, l’uomo è amore per l’Esisten- te, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto
di essere per sè è perpetuo progetto di
fondarsi da sè ed è perpetuo fal- 226
Filosofia e Metafisica limento di
esso, perchè è progetto contro la consistenza
dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni di se stesso, della sua vocazione naturale, essenziale ed
universale. La tendenza all’Altro è
invincibile ed è tendenza a Dio. L’esi-
stere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine di ogni soggetto. La consistenza della
persona è nel rap- porto con l’Essere
assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi
stessi è consapevolezza, con tutti noi stessi, di essere inca- paci da soli di attingerLo; la nostra «
generosità » autentica, « coraggiosa ed
insaziabile », come la chiama il Blondel, che
l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà premiare. Ma dipende da noi farci simili al
cristallo, secondo la magnifica
espressione di Caterina Mansfield, affinchè la
luce di Cristo brilli attraverso di noi. « Dio si conosce me- glio ignorandolo », secondo la formula della
teologia mi- stica fatta propria da S.
Tommaso, ma inconosciuto nella sua essenza,
è da noi conosciuto come e in quanto incognito. La consistenza degli esseri ci è dunque
risultata risie- dere, seguendo il
dinamismo interno del pensiero e senza
rinunziare o condannare il conoscere razionale, nel loro rap- porto con Dio, al limite dei limiti, in un
fine senza fine. L'ultima parola della
ragione è la prima della religione:
l'estremo appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla ragione, ma, sul fondamento della ragione, a
Dio. Dunque, a rigor di termini, non vi
è una «filosofia esistenzialista », nel
senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filo- sofia, come tale razionale, che pone il
problema dell’esi- stente a faccia a
faccia con la soluzione teistica, che apre
alla fede religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è meta- fisica. L’esistente, nell’atto stesso
d’interrogare la ragione e
problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da seguire. Non c’è materia per drammatizzare o
vilipenderla; c'è il più saldo
fondamento per sperare con il suo assenso.
L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due mo- tivi: 4) perchè essa indica la strada per la
soluzione del pro- Concetto di
metafisica 227 blema
dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone la ragione stessa come problema, dato che la
filosofia è per sua natura
imprescindibile razionalità, invano si arrovella a mettere insieme una «filosofia »
esistenziale. (Ecco per- chè gli
esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi psicologiche — « moralisti» —, ma non di
indagini filo- sofiche vere e proprie).
L’esistenzialismo è la «crisi» della
filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro, che è il Qui, che la ragione stessa riconosce
al suo limite; l'istanza esistenziale
ritorna sempre come istanza religiosa.
L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa a se stessa di fronte al problema
esistenziale, il suo « con- vergere » in
Dio; dunque ancora filosofia con soluzione tei-
stica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende estranea la ragione al problema
dell’esistente, la fa convinta
dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con la natura della ragione stessa. L’esistente «
inesistente » nel- l’ordine del
conoscere razionale, ma «esistente » come pro-
blema-limite della ragione, « inesiste » come soluzione nel- l’ordine teologico, in quanto la spiegazione
e la autentica- zione di ogni atto di
esistere è nel supremo Esistente. La
ragione non spiega tutto l’esistente, ma gli spiega come e dove spiegarsi: è sempre la luce
dell’esistente, la sua intel- ligenza,
che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza
mettere il cervello al servizio della
nostra umanità la più profonda ed essenziale (*). (3) Il P. D'Amore in una breve nota
pubblicata nella rivista « Sapienza »
(n. 1, 1948, p. 132), a proposito di queste pagine, mi osserva che,
senza riescirvi, io mi sforzo « di
completare la Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo, cioè con il problema
posto dagli esistenzialisti, non con la
soluzione che essi danno ». E aggiunge: « Egli crede che il problema
dell’esi- stenza com’è posto e risolto
da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura total- mente astratta e resti nel puro campo
dell’astrazione, della essenza o concetto»
dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè
delle pure essenze ». Francamente non
riesco a spiegarmi come P. D'Amore, pur sempre
attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi
rilievi. Sarebbe da parte mia uno sforzo
davvero inintelligente quello di e completare
la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo
», in quanto 228 Filosofia e
Metafisica questo problema non
avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scola- stica per me pone il problema dell’esistenza
in termini più veri e speculativa- mente
più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara:
l’essere non è riducibile nè alla pura
essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua struttura è duplice. Inoltre io non dico
affatto che quella di S. Tommaso è una
metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una
metafisica dell’esistenza; e su questo
punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristo- telica da quella tomista; o forse P. D'Amore
vuole identificare S. Tommaso con
Aristotele, a tutto svantaggio del primo? MICHELE FEDERICO SCIACCA Filosofia
e Metafisica VOLUME II MARZORATI - EDITORE - MILANO FILOSOFIA E METAFISICA I
due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro- fonde
che lo Sciacca ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dal- lo
«Spiritualismo cristiano» alla «Filosofia dell’integra- lità». In essi si
possono leg- gere saggi di rilevante inte- resse teoretico come quelli sul
concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull’esistenza di Dio,
che or- mai si allinea tra i testi clas- sici della filosofia contem- poranea. Lo
stile avvincente e chia- ro, il vigore del pensiero in- sieme profondo e
cristalli- no, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Auto- re di
rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistemati- ca
senza pesantezza, sta una lettura appassionante e pro- ficua. Zursaran - S.
Tommaso visita S. Bo- naventura. OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA Volumi
pubblicati: 2. 3. 4. 5. L'interiorità oggettiva, III edizione italiana
riveduta, pag. 120, L. 1000. Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta,
pag. 224, L. 1200. Interpretazioni rosminiane, II edizione riveduta e
aumentata, pag. 272, L. 2000. L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag.
292, L. 2000. Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 6-7. La
filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata, 8. 9. 10. Il. 12. pag.
980, L. 6000. La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180, L.'
1500. Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. La
clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160, L. 1300. In
Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500. Dall Attualismo allo
Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 13-14. Filosofia e Metafisica, 2
volumi, III edizione riveduta e aumen- tata, pag. 478, L. 4000. 15. Pascal, V
edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 16. Dialogo con Maurizio
Blondel, pag. 160, L. 1300. 17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L.
1000. Volumi in preparazione: 18. Sòren Kierkegaard e il « malessere » della
cristianità. 19. La filosofia italiana, II edizione. 20. 21. Il tempo e la
libertà. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia. 22-23.
Platone, II edizione. 24. 25. 26. Studi sulla filosofia antica, II edizione. Chiesa
cattolica e mondo moderno, II edizione. Il pensiero italiano nell'età del
Risorgimento, II edizione. 27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo
storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, INI edizione. 30. Le mense di
Cristo. MICHELE FEDERICO SCIACCA FILOSOFIA E METAFISICA Terza edizione riveduta
e aumentata Volume II Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI MILANO — via privata
Borromei, 1 B/7 Proprietà letteraria riservata © Copyright 1962 by Marzorati -
editore, Milano Stampato in Italia - Printed in Italy 1962 Tipo-Lito P.
Pasquetto - Miiano L' illustrazione è opera del pittore fiorentino Primo Conti.
La caravella dalle vele crociate, che attraversa le Colonne d’ Ercole,
simboleggia l’aspetto essenziale della filosofia dello Sciacca: non vi sono
ostacoli per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se esso cammina e
procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. PARTE TERZA ATEISMO E
TEISMO SEZIONE PRIMA L’ATEISMO CaprrroLo Î PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA
I. — Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine. Una mattina, il re Gerone
domandò a Simonide che gli dicesse chi fosse Dio; Simonide gli chiese un giorno
di tem- po per pensarci sopra; l'indomani, a corto di una risposta soddisfacente,
gliene chiese due, poi quattro e così di se- guito. Alle meraviglie del re per
il moltiplicarsi continuo dei giorni, Simonide rispose che più ci pensava, più
il pro- blema gli sembrava oscuro. Le pagine che seguono si propongono di
vagliare le ri- sposte di quanti, a differenza di Simonide, affermano in vario
modo che «Dio non è», cioè vogliono essere un breve esame storico-critico delle
forme più significative di ateismo, un’analisi e valutazione delle dottrine che
impli- citamente o apertamente si dicono atee ( #Seos= senza Dio). Problema
difficile e complesso, non solo per le sfumature che presenta, ma anche perchè
quanti son atei spesso negano di esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra
cosa (!). «Avevo sentito dire molte cose di lui già in passato, e fra (I) Per
esempio, il Comre (Système de polit. pos., t. I, p. 48) scrive che l’ateismo è
«una cosa rara »; il Renouvier (Derniers Entrétiens, Paris, p. 102) che «il n’y
a que très peu d’athées »; lo stesso Le DantEc non si considera ateo
(L’Athfisme, Paris, 1906, p. 56) e aggiunge che la gran maggioranza degli uomini
« est imbue de l’idée de Dieu » (p. 19); da parte sua il Blondel afferma che
l’ateismo è « une thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction notionnelle,
mais non une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire qu'il y a
ou des anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il n’y
a pas d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par
l’affir- 8 Filosofia e Metafisica l’altro che era ateo: è un uomo realmente
molto istruito, e mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre a
ciò, è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me proprio come a persona
del tutto uguale a lui per cultura e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia
una cosa mi colpì: che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di
tutt'altra cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per quanti
miscredenti avessi incontrato e per quanti libri del genere avessi letto, mi
era sempre sembrato che parlassero e scrivessero cose del tutto diverse,
sebbene in apparenza fosse il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non
in modo chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nul- la... Senti,
Parfén, poco fa tu mi hai fatto una domanda, eccoti la mia risposta: l’essenza
del sentimento religioso sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi
ateismo; c’è in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è in
esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che par- leranno eternamente
di tutt’altra cosa ». Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non senza
una sottile ironia verso il «vero scienziato » « molto istruito » e dall’«
educazione rara », il quale crede di negare Dio e parla « di tutt’altra cosa »:
la sua « cultura » e « intel- ligenza » hanno come limite l'ignoranza di ciò
che negano; conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere vera- mente
sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo vol- gare: vi sono atei che
filano le prove classiche dell’esistenza di Dio meglio di tanti credenti; le
ripetono anche a se stessi, e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insuf-
mation au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’» (La
querelle de l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la « Société frangaise de
Philosophie », nel vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion,
Paris, Presses Universitaires de France, 1951, pp. 212-213). Anche S. Agostino
scrive: « Si tale. hoc hominum genus est, non multos parturimus; quantum
videtur occurrere cogitationibus nostris, per- pauci sunt, et difficile est ut
incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est Deus... » (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge: « Dio è
così naturalmente pre- sente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti
nel vizio possono ne- garlo » (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr. 106, c.
17, n. 4). L'ateismo 9 ficienza della volontà e al «profitto» o al « piacere»
di non convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intel- lettuali, di
cui il principale è appunto che, parlando di Dio e negandolo, parlano di
un’altra cosa. Similmente, come abbiamo accennato, altri protestano di non
essere atei; tut- tavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inade- guata
o contrastante la sua essenza. « Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole »;
al con- trario, secondo Bayle, è possibile una « società di atei»; ai nostri
giorni si parla di « ateismo di massa» e non più di una élite (ateismo
individuale o di setta) e alcuni stati e governi si proclamano « ufficialmente
» atei e areligiosi; non manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi
nella sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è «razionale » negare
l’esistenza di Dio, anche se l’ha fatto con una pas- sione da « credente senza
Dio », spiegabile solo con un sot- terraneo e invincibile sentimento religioso.
Problema dun- que complesso, soprattutto se considerato nel pensiero mo- derno
e contemporaneo, che va trattato con un interesse pari alla sua importanza,
anche se, come vedremo, l’ateismo, sotto qualsiasi forma si presenti, non è
razionale perchè intrin- secamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo
alla sua stessa natura (?). 2. — Abuso del termine «ateismo ». E’ necessario
distinguere ateismo in senso assoluto e in senso relativo: nel primo caso si
nega Dio in qualsiasi modo lo si concepisce; nel secondo si giudicano atee
alcune parti- (2) Ciò è confermato anche dai cosiddetti « fatti » tanto
importanti per gli empirici, i materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le
forme più primitive di reli- gione sono monoteiste e il politeismo, il
feticismo, ecc. sono forme derivate di corruzione o degenerazione. D'altra
parte, l’ateismo in quanto tale non è originario: come momento negativo,
presuppone quello positivo, l’affermazione di Dio, cioè nasce dal fatto che
l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo perchè c'è il credente, il «
positivo », che può stare senza il « negativo », che, invece, non è senza
l’altro. 10 Filosofia e Metafisica colari maniere di concepire la divinità, o
si dissente su par- ticolari questioni di culto e di carattere
religioso-teologico. Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani e per i
cri- stiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici i
protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII se- colo, s'affanna a
provare (*) che tutti gli scolastici sono stati assolutamente atei; da parte
sua, il gesuita Hardouin, nel libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo
Descartes, Arnauld, Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna
reli- gione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da essa
disformi. Per conseguenza, secondo alcuni, la defini- zione del termine «
ateismo » è puramente verbale, in quanto il contenuto del concetto di ateo
varia secondo le diverse concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_
volte basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una determinata
epoca, per grossolane ed empie che siano, per essere accusati di ateismo e
condannati. Celebri, in questo senso, nell’antichità, il processo e la condanna
di Socrate; notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di fronte
alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una concezione della
divinità più conforme al suo concetto, e credente l’indovino Eutifrone, che
attribuisce agli dèi ogni specie di malefatta e se li rappresenta in maniera
empia e volgare in conformità con le credenze popolari ufficialmente accettate
(9). Qui vi è un abuso della parola «ateo» dettato quasi sempre da conformismo
opportunistico o da una politica di tornaconto, e un’errata impostazione del
problema. L’abu- (3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, disp. 2,
cap. 2. (4) Opera varia, Amsterdam, 1719. (5) Vocabulaire technique et critique
de la philos., IV ediz., Paris, 1938, vol. I, p. 73. (6) In questi casi, l’« ateo » è il vero
credente, colui che protesta contro le concezioni volgari o superstiziose e le
pratiche sconvenienti, si mette « contro l'opinione comune » (il « paradossale
»), che offende Dio e il suo culto. L'’ateismo (3 so, già molte volte rilevato
e criticato da scrittori di varia tendenza ("), si può riassumere, per
quanto riguarda la pra- tica religiosa, in questi termini: è ateo chi non è
rigida- mente conformista al culto ufficiale di un paese in una de- terminata
epoca. Ma qui non si tratta più di un problema teoretico o speculativo, ma di
una questione di prassi, tipica, per esempio, della Grecia antica, il cui
politeismo, privo di dogmi e di una vera e propria teologia, era quasi soltanto
culto controllato dallo Stato. Roma, cue per mancanza di autentico spirito
religioso e opportunismo politico era tol- lerante con tutti i culti, li
reprimeva sotto l’accusa di ateismo, quando contrastavano con le direttive
politiche e l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo teore- tico in
quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico perchè non si vive come se
Dio non esistesse; si fa que- stione intorno alla prassi religiosa e per motivi
ad essa estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed an- che i
cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; con l’editto
imperiale del 380, invece, furono definite atee tutte le religioni non
cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). Altra la questione riguardante il
diverso modo di con- cepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può
parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si possono dire
eterodossi, ma non atei); se della concezione di Dio in generale, bisogna
distinguere: a) non sono atee le concezioni primitive e rudimentali in quanto
manca la co- scienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo sono,
invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo nome un ente che non lo è
(la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma nei due casi si tratta sempre di « insipienza
»; infatti, 1r51- piens — pronunzia la parola e pensa ad altro — non è solo chi
nega Dio, ma anche colui che Lo concepisce in modo so- i (7) Cfr., per esempio,
Vottatre, Dict. philos., Paris, Flammarion, s. a., voce « Athée, Athéisme »,
pp. 35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. (8) Jos. Frav.,
Contra Apion., II, 16. 12 Filosofia e Metafisica stanzialmente sconveniente
alla sua essenza. Anzi quest’ul- tima forma di ateismo, non soltanto Lo
offende, ma ostacola la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’« ateo » ha
la funzione benefica, anche se negativa, di demolire gli « dèi falsi e bugiardi
». 4 Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti concludono che
il termine ateo non ha alcun significato teo- retico definitivo o definibile,
ma solo un eglore storico da determinare caso per caso secondo i diversi culti
e le parti- colari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni forma di
ateismo — tutto si ridurrebbe a reciproche accuse tra sistemi teologici e culti
diversi, a chiamare atee forme di religione rudimentali o meno progredite — ma
che teismo ed ateismo, in quanto temi di polemiche religiose, siano pro- blemi
appartenenti alle discussioni filosofiche; in altri ter- mini, si nega che
l’esistenza di Dio sia un problema teo- retico e lo si relega tra le
controversie intorno al culto. Af- fermazione insostenibile, storicamente e
teoreticamente, la quale non distingue il problema del domma e del culto da quello
filosofico vero e proprio. Infatti, dal punto di vista storico è facile
constatare che, in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi hanno affron-
tato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico il problema
dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi non c’è stata e non c’è
filosofia che non si sia posto il pro- blema, così intrinseco alla stessa
ricerca da definirsi, secondo la risposta affermativa o negativa, teistica,
agnostica, atea, ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente
degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre in- trinseca alla
ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso filosofico, al punto da far dire
che il termine « ateismo » non ha un significato teoretico definitivo, è privo
di un suo con- tenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende decisamente
a ridurvisi? L'ateismo 13 Dal punto di vista teoretico, come giustamente
osserva il Lachelier (9), «ce qui varie est moins le contenu philo- sophique »
dell'idea di ateismo « que l’emploi plus ou moins malveillant » che si fa del
termine contro una particolare dottrina o una determinata persona. Altro è il
contenuto filosofico pressochè invariabile, altro l’uso pratico del ter- mine;
dunque, il senso storico o pratico variabile va distinto da quello teoretico
immutabile. Chi nega che i termini «ateismo » e « teismo » abbiano un senso
speculativo e pre- tende con ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle
ri- cerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli soltanto alle
controversie religiose, muove da una posizione di pen- siero, da un presupposto
che ha già concluso per suo conto che il tema dell’esistenza di Dio è del tutto
estraneo alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non costituisce un
problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in modo da non far posto
all'idea di Dio e, in questo senso, da una filosofia atea. Per conseguenza, la
sua affermazione che il termine ateismo non ha un contenuto teoretico defi- nibile
ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, senza essere dimostrata,
nella sua iniziale posizione filo- sofica che, in partenza e aprioristicamente,
esclude dal campo dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo in
quello delle questioni religiose, solo in quanto il sistema non ne «tollera »
la presenza: ci troviamo di fronte ad uno scoperto e filosoficamente
intollerabile :dolum theazri. Chi dice in partenza, confondendo l’uso pratico
del termine atei- smo con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non - esistenza
di Dio non è un problema filosofico ha già deciso; per lui, la ragione, come
ragione filosofica, è atea o almeno agnostica. Ma questa affermazione è una
soluzione del pro- blema in questione, non un’argomentazione valida per dimo- strare
che quello teologico non ha un significato teoretico; (9) Vocabulaire ccc.,
cit., p. 72. 14 Filosofia e Metafisica anzi per il fatto che dà già una
soluzione, vera o falsa che sia, prova con ciò stesso che il problema
appartiene all’in- dagine filosofica e non soltanto alle controversie
religiose. Dunque esso va riportato in sede speculativa come quello che, non
solo appartiene alla ricerca razionale, ma è il problema primo della metafisica
e perciò intrinseco ed essenziale alla filosofia come tale. Ma daccapo: quando
l’ateo dice « Dio non esiste », quale Dio nega? Pensa veramente a Dio? Ne nega
l’esistenza sen- z’altro, o nega quella di un Dio immaginato in una deter- minata
maniera? Si è teisti soltanto se si ammette l’esistenza di Dio concepito
nell'unica maniera vera e atei quando, pur non negandolo senz’altro, se ne
concepisce uno in un modo diverso dall’unico per cui ci si possa dire teisti,
in quanto il solo concepirlo diversamente ne implica la negazione? Problemi,
questi ed altri, da tener presenti in una valuta- zione filosofica
dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di una «ragione atea »; dunque, ai
fini della validità dell’atei- smo stesso la domanda decisiva è una sola: è
razionale una ragione atea? CapiroLo II L’ATEISMO PRATICO I. — Di alcune sue
forme. L'’ateismo pratico non è autonomo e originario ma dipen- dente e
derivato: ogni sua forma ne presuppone una di atei- smo teoretico: la volontà
atea, sia pure implicitamente, è conseguenza della ragione atea. Perciò la sua
validità di- pende da quella dell’ateismo teoretico, la cui confutazione implica
inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. Vi è un ateismo, scrive Bossuet, «
caché dans tous les coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on compte Dieu
pour rien » ('). È l’attitudine di
quanti vivono e orga- nizzano la propria vita come se Dio non esistesse; e non
se ne « preoccupano » (”). Non ne negano in modo esplicito l’esi- stenza;
vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano che Dio, esista o no, possa
avere una qualsiasi efficacia va- lida sulla nostra condotta e aiutarci nella
soluzione dei pro- blemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento sottostà
una tacita convinzione: niente nel mondo cambie- (1) Pensées détachées, II. (2)
E’ più una questione di indifferenza che d’ignoranza; a volte di pi- grizia,
d’insensibilità, di ottusità spirituale; infatti, di Dio sentono parlare e ne
parlano, ma vivono egualmente come se non esistesse. Non si tratta soltanto di
essere sopraffatti dalle passioni terrene o dall’urgenza della vita — il la- sciarsene
sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi — nè
dall’influenza dell'ambiente o dell'educazione: il fatto che se ne lasciano assimilare
è prova che mancano di una vera esigenza religiosa ed implica una accettazione
che è sempre, almeno implicitamente, frutto di una sia pure ele- mentare
riflessione e di un atto volontario sia esso di mera acquiescenza. 16 Filosofia
e Metafisica rebbe in bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la morte
e tutto il corso dell’umana esistenza non muterebbero di segno: dunque che vale
ammetterlo o preoccuparsi di risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi
ragio- na in questo modo, di quale Dio non si preoccupa sa- pere se esista o no
ed agisce, in privato ed in pubblico, come se non esistesse? Di un Dio la cui
esistenza non avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso della
vita; che è dire di un Dio che non è tale, anzi che è meno dell’uomo, il quale
in un certo modo riesce ad in- fluire sulle sue azioni e a dare una risposta a
certi problemi. È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno teoretico,
cioè del concepire Dio come non Dio, che è ne- garne l’esistenza; dunque,
affinchè esso possa giustificarsi deve prima provare la validità razionale
della negazione teo- retica su cui si fonda e da cui deriva. Vi è una forma di
ateismo pratico più radicale ed oggi di moda: la vita non ha senso, è assurda;
dunque Dio non esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso presuppone
che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio ne- gare ogni senso alla vita e
nello stesso tempo ammettere che Dio esiste — in tal caso si pensa ancora
all'esistenza di un Dio che non è tale —; come non si può ammettere l’esistenza
del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. La negazione non
è una conseguenza del fatto che la vita non ha senso, ma la premessa teoretica
da cui scaturisce l’atei- smo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce
da questa affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice che la vita non
ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già negato. « Dio non esiste » è la
premessa, anche se taciuta od omessa, dell’altra proposizione «la vita non ha
senso», dalla quale non consegue la negazione di Dio; quando la si pronuncia si
è già negato Dio, anzi la si formula solo in quanto si è negato. L'ateismo 17 L’ateismo
pratico, anche in questo caso, è conseguenza di quello teoretico; dunque non è
valido fino a quando non si sarà razionalmente dimostrata la validità di
quest’ultimo. Del resto, è nota la critica di Sartre all’« ateismo assurdi- sta
» del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si autonega, in quanto è sistema
ben ordinato del disordine, una specie di razionalizzazione dell’assurdo
perfettamente sistemato; piuttosto che negare l’Assoluto lo implica senza
spiegarlo. Ma questa critica vale anche contro l’ateismo del Sartre. Se il male
e i cattivi sono premiati a che giova credere nell’esistenza degli dèi e
adorarli? Si potrebbe credervi se attraverso il trionfo del giusto si
manifestasse la loro giu- stizia; ma nelle cose del mondo avviene proprio il
con- trario. Questa forma di ateismo pratico, presente in tutti i tempi (*) e
presso tutte le società, può così riassumersi: se l'ingiustizia fosse punita e
il male vinto, non si potrebbe non credere nell’esistenza degli dèi o di un
Dio; invece, l’ingiu- stizia è premiata e il bene sconfitto, dunque non esiste
la divinità, o almeno tutto sta a provare il contrario; ammesso che esista, è
impotente o malvagia. Questa forma di ateismo pratico è la semplificazione em- pirica
di un problema metafisico di grande portata e preci- samente di quello del male
e della sua origine: Si Deus est, unde malum? La presenza del male nel mondo è
una delle cause principali dell’ateismo, come ci attesta la dolorosa esperienza
del nostro e di tutti i tempi. La stessa missione di Cristo è stata
interpretata in questo senso: il Getsemani, la cattura, il processo, il
supplizio e la morte sta- rebbero a testimoniare come il giusto soccomba e il
bene sia sempre sconfitto dal male trionfante. (3) Se si onorano le azioni
cattive ed ingiuste, a che adorare gli dèi — tl del pe xopesetv — ? (SorocLe,
Edipo re, 895); se l'ingiustizia è più potente della giustizia non si può
credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra, 583). La stessa tesi è sostenuta dai
sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto i libri I e IM). 18 Filosofia e
Metafisica Ma in che senso si dice che il male vince ed è premiato e, dunque,
Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in questo mondo, su questa terra,
il bene non è vittorioso ed è perseguitato. In altri termini, si esige che la
giustizia di- vina si avveri in questa vita, qui si puniscano i cattivi e si premiino
i buoni, qui si compia il destino dell’uomo; che questa vita non sia prova, ma
compimento pieno dell’esi- stenza nell’episodio mondano, con cui viene in tal
modo ad identificarsi tutta. Ma ciò implica la negazione di un’altra vita, dove
si attua la piena giustizia divina, e la identifica- zione di tutto l’essere
con la realtà mondana; cioè presup- pone la negazione teoretica di Dio e di un
Regno divino, del resto superflui una volta che nel mondo può trionfare la
perfetta giustizia e l’uomo avere felicità eterna. Infatti, se si ammette che
Dio esiste come Provvidenza e giustizia as- soluta, è contraddittorio affermare
che il male trionfa sem- pre ed è premiato; bisogna dire invece che, anche quel
che sembra male è a fin di bene e la giustizia, anche se scon- fitta e punita
in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nel- l’altra; cioè, che la vera si
attua in un altro mondo. Il fatto che il male trionfa sulla terra e il giusto
vi è perseguitato e punito non autorizza la conclusione negativa dell’esistenza
di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica del- l’uomo che acutizza
il problema, fa riflettere sul signi- ficato dell’esistenza e stimola al
convincimento positivo. Pertanto, la vera forma del ragionamento ateo non è:
«vi è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto, dunque Dio non esiste
», ma quest'altra: « Dio non esiste e non vi è una giustizia divina
ultramondana, dunque il male è de- finitivamente vittorioso nel mondo e il bene
sconfitto ». L’atei- smo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il
problema: si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha ne- gato Dio, si
pone in questi termini: « ammesso Dio, come si spiega il male?»; per chi Lo ha
già negato, in questi al- L'ateismo 19 tri: «se nel mondo c’è il male
trionfante, Dio non esiste ». La conclusione solo in apparenza è tale; in
realtà è la pre- messa: « Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e vi
trionfa ». Infatti, se si nega un regno ultramondano ed ultraumano, il male è
invincibile ed impossibile una giu- stizia perfetta; ma proprio perchè già...
si è negato Dio! Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha suc- cesso e
il bene è perseguitato, è dare eccessiva importanza al giudizio degli uomini e
attribuire valore assoluto a quel che il mondo può darci, altrimenti non si
potrebbe conclu- dere a quella negazione, contraddittoria con la relatività
del- l'umano giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spet- tarci; ma
sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e i beni che possono
dispensare o interdire, è già negare Dio. Basta convincersi che, meno le
essenzialissime, le cose hanno solo l’importanza che attribuiamo loro, per non
disperare di fronte al male premiato o al bene perseguitato e per rimettere ogni
giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. Invece, la forma di
ateismo pratico che stiamo discutendo importa la negazione radicale del
cristiano Regnum Dei, della verità delle parole di Cristo: « Il mio Regno non è
di questo mondo ». Conseguenza pratica di una posizione teo- retica
immanentistica — non vi è un al di là trascendente, l’unica realtà è questo
mondo — afferma che v'è solo il regnum hominis, dove si attua il cosiddetto
Regnum Dei. Ma è un umanesimo ateo « disincantato »; non crede nella potenza
dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di felicità e dalla negazione
teoretica di Dio conclude all’in- vincibilità del male e al suo trionfo tra gli
uomini. Ciò prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni vali- dità
anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni con- tingenti, e non
abbia più senso nemmeno essere onesti per sentirsi in pace con la coscienza. Su
questa radicale negazione della concezione cristiana. 20 Filosofia Metafisica dell’esistenza
si fonda l’interpretazione, sopra accennata, del- la vita di Cristo come
esempio della sconfitta del bene e della vittoria del male. Se la si accetta
per vera, se Cristo sta a provare che il male è assolutamente invincibile e il
bene soc- combente e crocifisso, non si sfugge a questa conclusione: Cristo sta
a dirci che Dio non esiste, che non è Suo Figlio, nè è venuto a testimoniare
del Padre; abbandonato perse- guitato crocifisso, è la prova che non vi è
alcuna giustizia, nè Dio, convalida l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, nonostante
le cose che ha detto del Padre, è stato un ateo tristissimo e sconsolato! Tali
le conseguenze assurde di questo ateismo pratico che possiamo chiamare anche
dell’insuccesso: il bene è sem- pre in perdita, il male sempre in vincita,
dunque Dio non esiste. Ma, daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di Dio
si conclude che il male vince e il bene perde; altrimenti, se quella negazione
non fosse presupposta, dall’insuccesso mondano e contingente del bene si
ricaverebbe quest'altra conclusione: quando il bene si purifica attraverso la
rinun- zia, la sofferenza e la sconfitta terrena, quando sfida il mar- tirio,
si assicura la vittoria, vince con e nel sacrificio di chi gli si sacrifica,
gli rende testimonianza. Invece, il male, apparentemente vittorioso, perde
terribilmente nel momen- to che uccide il giusto, perchè vince come male,
perchè costretto a commettere ingiustizia: è sconfitto proprio per il suo
successo. La punizione della legge ingiusta, come dice Gandhi, sta
nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, nelle sue ingiustizie e nelle
sue vittime (*). Bruto che, dopo la sconfitta di Filippi, giudica la virtù «un
nome vano » e si uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e ne aveva
sempre misurato il valore e il significato dall’even- tuale insuccesso o
successo, anzi dal suo personale. (4) Per un approfondimento di questi temi
cfr. il nostro volume Come si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz.,
1962, Il* delle « Opere com- plete ». L'ateismo 21 Vi è in quest’ateismo
pratico anche un fondo di superbia satanica: la pretesa che l’uomo faccia
trionfare il bene e la giustizia con la sua opera, come se fosse egli il
creatore e il garante dei valori. « Noi facciamo sempre come se aves- simo il
compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo solamente quello di
combattere per essa» (Pascal). Simil- mente il nostro dovere è di essere giusti
al servizio della giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla trionfare,
perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo compito è già ateo: affida a
sè il trionfo del bene, non ce la fa, e conclude che se il bene perde e il male
vince, non c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un « dunque »
apparente perchè non è tale, ma la premessa del- l’assurda pretesa di far
trionfare il bene, di misurarne la vittoria o la sconfitta dal suo terreno
successo o insuccesso, di pretendere che l’ordine divino si attui nel mondo e
si iden- tifichi con quello umano, anzi sia lo stesso nostro ordine. Da ultimo,
non vogliamo tacere di una forma molto dif- fusa di ateismo pratico, quello di
quanti dicono di credere in Dio e ne negano l’esistenza in ogni loro azione,
cioè agi- scono come se non Gli credessero, o non esistesse. Affermano di
credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il denaro; immersi nelle cose,
la loro credenza religiosa è solo una specie di polizza di assicurazione,
pagata con il tributo del culto esteriore, sicuri, con questo supplemento di
comodità, di star bene in questa vita e meglio nell’altra. È l’ateismo pratico
della Messa della domenica e del segno della Croce, magari, per non sciupare
quel frammento di tempo, pen- sando a qualche « buon affare ». Anche in questo
caso, l’atei- smo pratico presuppone quello teoretico, in quanto la « fede » di
questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e manca di ogni
fondamento razionale; è pura consuetudine alimentata dal timore del « non si sa
mai ». Vi è l’angoscia bruciante e tormentata dei « buoni » atei; vi è
l’ateismo so- stanziale dei cattivi credenti. 22 Filosofia e Metafisica 2. —
Inconsistenza dell’ateismo pratico. Come abbiamo detto, l’ateismo pratico non
prova la nega- zione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal mo- mento
pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esi- stes in realtà
quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel mondo vince il male e perde il
bene, dunque Dio non esi- ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e
non la premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il male sono
inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono inspiegabili appunto perchè Dio si
è negato. Leopardi esorta gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare
il peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sen- tono la vita come
un peso assurdo solo se si presuppone che nessuno si cura di loro, cioè se si è
già atei. Vana illu- sione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una
comunità di disperati non può dare speranza ad un solo uomo! È evidente il
sofisma dell’ateismo pratico: da una valutazione negativa del mondo conclude
che Dio non esi- ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della seconda.
La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se il mondo è fatto così) è in
realtà la premessa di cui l’altra è la conseguenza. D’altra parte, come abbiamo
accennato, se il male potesse essere sconfitto definitivamente in questo mondo
e l’uomo realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una superiore
giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene sarebbe risolto in questa
vita e l’esito immanente della lotta, tutto in potere dell’uomo, renderebbe
superfluo quello al di là di essa e dipendente da un intervento, che
s'inserisce nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto di
vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, proprio gli insuccessi
del bene e l’incertezza dell’esito defi- nitivo del conflitto, sempre sospeso
tra il bene e il male, fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia
L'ateismo 23 divina trascendente e di una Provvidenza regolatrice della vita di
ogni singolo e dell’ordine universale. L’ateismo pratico, inoltre, arriva a
conclusioni opposte, ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione
dell’esistenza di Dio e di una giustizia superiore conclude, come alcune odierne
forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il male e la vita è miseria,
assurdo, nulla; d’altro lato, dalle stesse negazioni, che, proprio liberandosi
da quelle « super- stizioni », l’uomo realizza in terra la giustizia e la
felicità perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: ab- battere il
vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di una esistenza ultraterrena
e ricostruire una società nuova, fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che,
immancabil- mente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per ogni
uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno di Dio si attuerà su
questa terra in un futuro immancabile, di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo
(5). Il mito illumini- stico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra
forma e la spinta di nuovi problemi, come mito della futura « società omogenea
», instauratrice del « nuovo » uomo marxista e del «nuovo » umanesimo senza
Dio. È facile che tale ottimi- (5) Il d’HotsacH fa consistere la felicità
nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi la glorificazione: vi sono atei più virtuosi
dei cristiani, capaci di macchiarsi dei più turpi vizi; una società di atei,
non solo è concepibile, ma sarebbe su- periore ad una cristiana; anche
l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi mar- tiri. L'Ottocento, a sua volta,
crea il mito dell’ateo, modello di onestà, sal- dezza e coerenza morale, quasi
una prova apologetica della verità dell’ateismo. Essere atei e onestissimi
diventò una specie di srob, una patente, oltre che di alte virtù civili — e ciò
fino ad un certo punto è vero —, anche di grande nobile coraggio morale, quello
di sfidare il nulla della morte e di sapersi reg- gere, torre che non crolla,
sulle sole leggi immanenti della coscienza; e ciò non manca del ridicolo che
accompagna ogni bravura, oltre che di un buon grado di infantile superbia ed
ingenuità, quella di chi crede che, negato Dio, vi possa essere un'assoluta
legge morale. Ottimistico ateismo « borghese » che il pessimistico ateismo «
antiborghese » del ’900 ha distrutto con spietata coe- renza, anche se è
riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. Ma già nell’antichità
Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e fe- licità del saggio il
liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle preoccupazioni
dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esi- stenza degli dèi;
li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza a cui l’uomo
deve tendere. 24 Filosofia e Metafisica smo, una volta affidato all’uomo il
compito di realizzare quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità
di tradurre in atto le sue « disumane » aspirazioni, ritorni alla posizione
dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di tutte le concezioni edoniste
(9), le quali assolutizzano il rela- tivo — il piacere o l’utile economico, —
che, come tale, può essere assoluto solo per un’arbitraria ed ingiustificata
estra- polazione e per un depauperamento al minimo delle finalità dell’uomo. (6)
Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci sbocca in
un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il « persuaditor di morte »
(merarddvatoc). Alla stessa dialettica ubbidiscono alcune teorie del « pia- cere
» e del « dolore » del secolo XVIII. CapitoLo III L’ATEISMO TEORETICO I. —
Schema delle sue principali forme. L’ateismo teoretico, presupposto da quello
pratico, è un giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; dunque
dovrebbe essere la conclusione di un processo raziona- le da certe premesse.
Possiamo distinguere: a) ateismo dom- matico o negazione pura e semplice
dell’esistenza di Dio; b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo,
il quale nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne co- munque
l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema del- l’esistenza di Dio,
dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà insolubili, come la realtà del
male e del dolore, per cui, quando si crede di averlo risolto, non si è risolto
niente (!); c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razio- nali
dell’esistenza di Dio — la posizione di Kant nella Cri- tica della Ragione pura
— che tuttavia non è negata (ateismo attenuato), anzi la si ammette per
esigenze morali: forma di fideismo, non religioso, ma come atto di fede
razionale; d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, il
panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esi- stenza, sono
considerate atee per il modo come Lo concepi- scono. Certo, se come sostengono
alcuni non può dirsi ateo chi ammette una realtà assoluta comunque concepita,
non (1) Réponse aux questions d'un provincial, 1706, t. III, cap. LXXIV. 26
Filosofia e Metafisica vi è forse pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il
concetto di Dio risulta puramente verbale, cioè mancante di un con- tenuto
proprio e avente quello che ogni filosofia gli attri- buisce. D'altra parte,
l’« Assoluto» come è concepito da alcuni filosofi non sempre è veramente tale,
nè basta il ter- mine per qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la Materia
o l'Energia cosmica intese come principio assoluto? l’hegeliano Assoluto « che
si fa », o un Dio limitato? Inoltre, la nozione di Dio, come quella che non
appartiene solo al pen- siero filosofico ma anche e soprattutto alla coscienza
religiosa, deve soddisfare le esigenze della ragione e della fede. e) Atei- smo
come negazione dell’altenazione religiosa o liberazione definitiva dall’idea di
Dio e riconquista dei diritti e dei poteri integrali dell’uomo. 2. — L'’ateismo
assoluto o dommatico. L’ateismo assoluto, negazione vera e propria
dell’esistenza di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teo- retico.
I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi l’ateismo, in questa
accezione, è combattuto... proprio dagli atei, come quello che è una mera
credenza: «credo ferma- (2) Nella Grecia antica sono considerati atei sotto
questo aspetto alcuni so- fisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma
satiresco Sisyphos, SExT., Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker,
Il, fr. 25, p. 319 della IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura
invenzione. Atei, oltre a Teodoro, Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti
per tradizione Diogene di Apollo- nia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il
quale gli dèi non sono che antichi re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei
tempi moderni, più che veri e pro- pri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici
e scettici; oppure dommatici nega- tori di Dio che non si son mai posto
speculativamente il problema; o ancora so- stenitori di dottrine
materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio, muovendo da un ateismo
preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla forma dommatica di
rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è ritenuta « im- pensabile
», « impossibile »: non si criticano le prove, si passa oltre, come di un
problema che non ha senso logico nè interesse. Questo ateismo si può ri- portare
a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio, di Le Dantec): insensibilità
per il problema e inconcepibilità dell'idea di Dio. Più che di una teoria
filosofica si tratta di una situazione psicologica; perciò di un «caso » da
trattare in altra sede e non di un problema da discutere filosoficamente. L'ateismo
27 mente che Dio non esiste ». Di fronte ad una simile affer- mazione dommatica
e « fideistica » non c’è che da scrollare le spalle fino a quando non venga
trasformata in problema, in un interrogativo su cui portare la discussione. Le
si può contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, quella
del teista dommatico: «La mia impossibilità di provare che non c’è Dio, mi
svela la sua esistenza» (La Bruyère). Per Voltaire questo ateismo è una forma
di dommatismo «quasi sempre fatale alla virtù » al pari del fanatismo (*). In
questo senso, ha a suo modo un'anima religiosa, quella propria dell’ateo che
vive intensamente il suo problema reli- gioso, antitesi dell’« indifferente »,
che appartiene ad altra forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi
cattolico, di nuovo protestante e difensore dell’ateismo: il problema religioso
lo interessò sempre profondamente. Come dice il Rensi, che dell’ateismo ha
scritto l’apologia, c'è « maggiore affinità di spirito fra un religioso
fervente e un ateo il quale viva appassionatamente la sua negazione o
rassegnata o di- sperata, che non tra il primo e un credente per consuetu- dine...»
(‘); lo stesso autore si considera ateo «per religione» : «...solo l’ateismo è
puro e pio, solo l’ateismo è la grande vera religione » (*), quella del Nulla,
atteggiamento mistico che si spinge fino alla negazione di Dio (°). Come tale,
a parte quanto vi può essere di positivo in un’anima sincera- mente tormentata,
non è una posizione filosofica da discutere, ma uno stato d’animo irrazionale
ed angoscioso, il quale, più che essere confutato, va « smontato » come ogni «
passione », dimostrando razionalmente vera la tesi teistica, che è ripor- tare
l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli non dimo- (3) Dictionnaire
philosophique, Paris, Flammarion, s. a., p. 45. (4) Rensi, Apologia
dell’ateismo, p. 98. (5) Ivi, p. 101. (6) Anche nell’India moderna (prima metà
del sec. XIX) abbiamo un esem- pio di ateismo assoluto, quello di BakHravar,
autore del Sunisar (« Essenza del vuoto »), dove è esposta la « dottrina del
vuoto » (sinyavada) o del Nulla. 28 Filosofia e Metafisica stra che Dio non
esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo A gr: ì puro, che è una specie di
idolatria par choc en retour. Intatti, chi crede nel proprio ateismo finisce
sempre per ado- rare e temere qualche altra cosa, una forza della natura o la
materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato, lo stesso male (?). Ciò
prova indirettamente che nell’uomo il sentimento religioso può deviare ma non
si può estirpare e come, più che sull'esistenza di Dio, vi sia questione sul modo
di pensare tale esistenza e Dio stesso senza contraddi- zione, cioè in maniera
idonea e non sconveniente. C'è una forma di ateismo assoluto non nuova, ma oggi
di moda a causa della fortuna di un certo esistenzialismo che offende anche il
più elementare buon senso; vi abbiamo ac- cennato, ma l’aspetto che qui
consideriamo si distingue sottilmente dall’ateismo assurdista del Camus. Il
mondo è assurdo; se si potesse provare che Dio esiste, avrebbe un senso; ma Dio
è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. Ateismo dommatico: muove dal
presupposto che il mondo è assurdo e pretende contraddittoriamente che solo
l’esistenza di Dio potrebbe dargli un senso; senza badare che quel pre- supposto
implica, comporta e presuppone la sua negazione. Infatti, un mondo assurdo ne
esclude l’esistenza, perchè è contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a
meno di non concepirLo come l’Assurdo, che è parlare non di Lui ma di un’altra
cosa, cioè avere una concezione assurda di (7) In questo senso, la
superstizione è la vendetta della religione: gli atei, i più spregiudicati,
sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una fantasticheria da donnicciuole, la
dommatica un prodotto dell’immaginazione « fabulatrice » di menti bambine e
immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura che il gatto nero
che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella coscienza
primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e perciò
anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il con- tenuto,
resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addot- trinato.
Nel primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla co- scienza
primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo svi- luppo
mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dal- l’ateismo,
trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la fede
cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che sono
anche le sue. L’ateismo 29 Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è
assurdo, come si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche essa
bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sa- rebbe. Ma evidentemente
chi dice che, se si potesse provare l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe
assurdo, ammette almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, altrimenti
non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò stesso, che il mondo è assurdo.
Ma tant'è, l’esistenzialista ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi
si crogiola dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; si
perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 3. —
L’'agnosticismo. Nel pensiero moderno, specie con il positivismo e attra- verso
le interpretazioni empiristiche e positiviste di Kant, l’agnosticismo, parola
usata per la prima volta da Huxley nel 1869 e di cui l’inglese Leslie Stephen
nel 1876 pubblicò l’apologia (An Agnostic’ Apology) (*) è una delle forme più
diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine in opposi- zione a gnosi: « non
saper nulla » intorno ad un argomento e trovarsi di fronte ad un problema
insolubile. Più esplici- tamente lo Stephen: la conoscenza umana ha dei limiti
e quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi costruisce un sapere
fantastico; la teologia è al di là dei limiti dell’umana conoscenza; dunque è
un tessuto di chi- mere. Ma è necessario precisare quali sono questi limiti — per
un positivista sono diversi da quelli segnati da un idea- lista e i limiti di
entrambi differenti da quelli di uno scet- tico —; se la negazione o
l’affermazione dell’esistenza di Dio cade dentro o al di fuori di essi; che
cosa s'intende con la parola « teologia », dato che ve n’è una naturale o
razio- nale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra (8) Ma
l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora: « quanto agli
dèi, ignoro se sono o se non sono e quale aspetto abbiano » (Dros., IX, 51). 30
Filosofia e Metafisica fare queste distinzioni e perciò confonde ordine
religioso ed ordine filosofico. Nessun filosofo teista ha contestato i limiti
della cono- scenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano nell’affermare
che l’uomo non ha cognizione diretta della essenza di Dio; ma il problema che
qui si discute non è quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua esistenza che
non è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude che tale problema
sia razionalmente solubile perchè muove da un suo modo di concepire i limiti
della conoscenza; dunque la sua conclusione agnostica è un idolum theatri ine- rente
al suo «sistema»: il problema dell’esistenza di Dio non è insolubile in se
stesso e in qualunque caso, ma lo è solo rispetto alla sua teoria della
conoscenza, cioè è una questione interna della sua filosofia. Perciò è
arbitrario dalla proposizione, « la conoscenza umana ha dei limiti », dedurre la
conseguenza, « dunque non sappiamo se Dio esiste », in quanto: 1) si limita la
conoscenza umana al di qua dei suoi stessi limiti, cioè alla pura esperienza
dei fatti o dei fenomeni sensibili; 2) si fa dell’esistenza di Dio un problema di
pura fede; 3) si nega la possibilità di una conoscenza diversa da quella dei
fatti e perciò di un sapere poetico, morale, ecc.; della metafisica in quanto
tale e, con ciò stesso, di un sapere filosofico. L’agnosticismo in questo senso
è la negazione della stessa filosofia che, depauperata e depoten- ziata, è
ridotta alla pura conoscenza scientifica o dei fatti fisici, o alla pura
conoscenza storica o dei fatti umani. Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo
(Locke, Ha- milton, Mansel, ecc., fondatori di quello moderno, non si possono
dire atei), molti che si dicono agnostici lo sono, come Hume, d’Holbach e
altri; d’altra parte, è facile da esso passare all’ateismo per affinità tra le
due attitudini. L'affermazione, « al di là dei dati della nostra esperienza non
sappiamo nulla », può trasformarsi facilmente, anche se L’ateismo 3 si dice
cosa molta diversa, nell’altra; « al di là dei fatti della nostra esperienza
ron esiste nulla » ("). In tal caso l’agno- sticismo diventa ateismo
dommatico e contraddice se stesso, in quanto, negando Dio, oltrepassa quei
limiti che segna alla conoscenza umana e si spinge ad un’affermazione
ripugnante alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità di dimostrare
l’esistenza di Dio, non può concludere, senza contraddirsi, alla sua negazione
esplicita ('°). D'altra parte, egli non può, proprio perchè agnostico, controbattere
le critiche di quanti pretendono dimostrare la contraddittorietà dell’esistenza
di Dio in se stessa e ?n rap- porto con la concezione che se ne ha; per
esempio, non può opporre nulla a chi sostiene (Strauss) che se Dio è infi- nito
non può essere personale, perchè infinità e personalità si contraddicono; a chi
afferma (Stuart Mill) che se fosse onnipotente e buono non dovrebbe esistere il
male; a chi dice (Vacherot) che i due concetti di infinità e perfezione escludono
l’esistenza, la quale non si addice a Dio, che è solo (9) E. Navitce,
Philosophies négatives, Paris, 1900, p. 85. (10) Di ciò, in verità,
l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno scritto coloro che credono
di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy (Essay, London, 1898, t.
I, p. 245) sarebbe «il peggio, se non fosse sorpas- sato dalle assurdità ancora
più grandi dei filosofi che cercano di provafe che Dio non esiste ». La
filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè negare o affermare è
oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto l’ateo « n'est
point un esprit véritablement émancipé; c'est encore, à sa ma- nière, un
théologien; il a son explication sur l’essence des choses... » (E. Lit- tré,
Paroles de philosophie positive, pp. 31-32). L’agnosticismo ha la sua
formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L. , per il quale Dio non è
assolutamente concepibile come assoluto e infi- nito, in quanto l’« Assoluto
non può essere concepito né come cosciente, né come incosciente, né come
complesso né come semplice; non può essere definito né per mezzo di differenze,
né per mezzo della loro assenza; non può essere iden- tificato con l’universo,
né può essere distinto » (The Limits of rel. Thougt, p. 30). Ma tutto ciò
riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel ag- giunge, per
influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del no- stro spirito
ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale credenza,
oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dal- l’inconoscibilità
dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due pro- blemi diversi;
il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della ragione e
fideismo puro; in definitiva, ateismo. 32 Filosofia e Metafisica un’Idea
("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai nostri giorni dal
Carabellese, che identifica Dio con l’Og- getto puro della coscienza e taccia
di ateismo coloro che lo considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad
usi errati del termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è disarmato ed il
suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur razionalmente agnostico, ha fede
nell’esistenza di Dio viene a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere
nell’Essere di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica con- traddizione:
come fa a credere ancora stando in questo dubbio, quasi contro la ragione, o
almeno senza che questa porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede,
il pro- blema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano in- differenti e
tacitamente opera dentro di sè il « salto» dog- matico dal « non so nulla » al
« non esiste nulla » al di là dei dati dell’esperienza, spingendosi a un tacito
ateismo teoretico e a un manifesto ateismo pratico. Sono possibili anche un
agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un ateismo pratico (mi comporto
come se non esistesse); o un (11) «Il perfetto non esiste »; questa la tesi del
VacHEROT nell’opera La métaphysique et la science (Paris, 1858), dove non si
trova più il monismo evo- lutivo di derivazione hegeliana sostenuto
nell’Histoire critique de l'École d’ Alexan- drie del 46: l'evoluzione di Dio
nel mondo è « progrès. continu de l’étre infime dà l'étre par excellence, de la
matière è l’esprit pur, à l’intelligence » (t. III, p. 328). Ne La métaphysique et la
science egli mette la teologia di fronte a un aut-aut perentorio: 0 un « Dieu
parfait », 0 un «Dieu réel». « Le Dieu parfait n’est qu’un idéal; mais c'est
encore, comme tel, le plus digne objet de la théologie: car, qui dit idéal, dit
la plus haute et la plus pure vérité. Quant à Dieu réel, il vit, il se
développe dans l’immensité de l'espace et dans l’éternité du temps; il nous
apparaît sous la variété infinie des formes qui le manifestent: c'est le Cosmos
» (t. II, p. 544). Successivamente
(Nouveau spiritualisme, Paris, 1884) ammette un solo Dio reale, Essere
universale e ne- cessario, Causa prima e Fine ultimo del mondo, ma appunto
perchè reale, non perfetto, in quanto perfezione e realtà implicano
contraddizione: l’idea del- l’Essere perfetto è solo un'idea, la più alta della
mente umana. Ma il Vacherot non è mai riescito a dimostrare la
contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, mentre è facile provare che
proprio questa presunta contraddittorietà contraddice alla ragione. Infatti,
egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di esperienza che
tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere diversamente
quando identifica « toute réalité » o tutto ciò che esiste con il « phénomène
qui passe »? Dà una definizione empirica dell’esistenza in ogni ac- <ezione
e poi trova che è incompatibile con la perfezione di Dio! L'ateismo 33 agnosticismo
teoretico e, diciamo così, un teismo pratico: non so se Dio esiste, ma vivo
come se esistesse. Quest'ultimo è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio
e agisce in con- seguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in alcuni
valori morali, a cui uniforma la sua condotta, affer- mati oggettivamente
validi (rigorismo morale dogmatico e ateo), o rigorosamente rispettati pur nel
convincimento che la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con rigorosa
eticità laica) (12). Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo crede
nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, alla quale però dà
soltanto un valore prammatistico o rego- lativo, come alcuni modernisti, per
esempio il Le Roy. L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui; d’altra
parte legge che Dio « vuole » che si creda che è Padre onnipotente, Provvidenza
onnisciente ecc., e crede tutto ciò. Evidente contraddizione: l’agnostico dice
di non sapere niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è « volontà », cioè
persona; quando afferma «Dio vuole che...» non è più agnostico tranne che non
ammetta anche questo per pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non
ad altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione può dire di Dio,
il contenuto di qualsiasi formula teologica gli dovrebbe essere indifferente;
se invece crede in una pro- posizione piuttosto che in un’altra, significa che
una delle due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnostici- smo, in
quanto ammette un fondamento razionale della fede. Più coerente Kant (La
religione dentro i limiti della sola ragione) che non accetta la rivelazione e
dà delle sue for- mule un’interpretazione puramente morale. L’agnostico, che
afferma di non sapere niente di Dio — se esiste, o se non esiste — e nello
stesso tempo Gli crede per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo
e (12) Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 34
Filosofia e Metafisica la religione ad un sentimento soggettivo di vaga
religiosità. Ma non c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera reli- giosità
può riempirsi indifferentemente di qualsiasi conte- nuto, di Giove o di Cristo.
L’agnostico, se non vuol con- traddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo
stesso piano: negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere ad
una piuttosto che a un’altra, non gli resta che il fatto soggettivo del
credere. D'altra parte, non può tener ferma neanche questa posizione ed è
costretto a contraddirsi. Infatti, implicitamente e contraddittoriamente
ammette di sapere chi è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque,
un'idea di Dio; ma se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qual- cosa di
Lui in contraddizione con il suo agnosticismo. Anzi, stranamente, non è più
agnostico circa il problema del « che cosa è » Dio (quid sit) e continua ad
esserlo circa l’altro del «se è» (an sit). In altri termini, è costretto a
ragionare così: « Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei. razional- mente
che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. », cioè ad am- mettere che ha l’idea di
Dio e, nello stesso tempo, a dire che non sa niente di Lui e della sua
esistenza! Il solo pen- sarLo è già non essere agnostici; una volta pensato
(l’agno- stico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, nei
termini della Rivelazione), la questione non è se sia impossibile o
contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, ma se sia contraddittorio
pensarLo senza ammetterLo esi- stente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia
già prova della sua esistenza per necessità razionale. A questo punto e prima
di proseguire è opportuno pre- cisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo:
1) impossibile provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la conoscenza
umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 2) a fortiori nulla si può dire
intorno alla Sua natura intrin- seca; 3) dunque i problemi dell’esistenza e
natura di Dio, dato che Egli non è un fatto fisico nè un personaggio sto- L'ateismo
35 rico, non sono oggetto della scienza e della storia, che si occupano solo di
questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non ha un posto nel sapere umano in
generale ed è oggetto della pura fede, il cui contenuto ha solo una validità
pratica o regolativa. Ma escludere Dio dalla scienza e dalla storia, da ogni
atti- vità umana, significa pretendere che l’uomo possa attuare se stesso, il
suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno di Lui, anzi senza mai pensarci
e sentire il bisogno di ricor- rere a questa «ipotesi », sicuro di realizzare
il suo ordine fino al compimento perfetto. Ma così l’agnosticismo con- traddice
se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale che la nostra conoscenza in
ogni forma e grado ha dei limiti. Una delle due: o ha questi limiti e perciò
stesso, insufficiente ad appagare l’uomo e le esigenze intrinseche «al suo
ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della quale non può fare a meno; o
non li ha ed è autosufficiente, tanto da estraneare Dio dalla scienza e dalla
condotta uma- na, e resta contraddetta la posizione dell’agnosticismo. Per- tanto,
muovendo dalla tesi agnostica, si può arrivare alla conclusione opposta:
proprio perchè la conoscenza umana ha dei limiti, pone il problema della Verità
assoluta, di Dio. Infatti, se fosse perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei
limiti impediscono di provare la Sua esistenza, in quanto non so- no affatto
segnati dall’esperienza sensoriale come l’agnosti- cismo pretende. D’altra
parte, se per Dio non c’è posto nell’umano co- noscere e fare, l’agnosticismo è
ateismo in partenza, in quan- to il tentativo di costruire una scienza senza
Dio Lo esclude fin dall’inizio: ateismo dommatico anche se mascherato. Più coerenti
coloro che, come il Croce e il Brunschvicg, escluso Dio dalla natura e dalla
storia, concludono che il suo è un pseudo-problema e la religione frutto dell’«
immaginazio- ne », anche se il loro ateismo iniziale è solo presupposto e non
dimostrato. 3% Filosofia e Metafisica In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè
il principio su cui fonda il sapere non gli consente di ammetterLo se non come
qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente che è solo oggetto di fede e di cui è
possibile avere soltanto una qual- che rappresentazione simbolica. Ma c’è
conoscenza solo dei fenomeni e delle loro leggi? Può identificarsi con essa
tutto il sapere, anche quello filosofico? La fisica o altra scienza naturale
hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi, ma ciò non significa che ogni
altra forma di conoscenza — mo- rale, artistica, filosofica — debba ridursi a
questo modello, secondo l’affermazione arbitraria del positivismo e dello scientismo.
L’agnosticismo metafisico e religioso è una con- seguenza del metodo e del
sistema scientista: la scienza positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni
naturali e le loro leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio non
è qualcosa di cui si possa avere esperienza positiva; dun- que niente si può
dire di Lui, nè che è nè che non è, nè che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni
forma di sapere alla conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, al- meno
fino a quando non si sarà dimostrata la verità del sistema. Ancora una volta ci
troviamo di fronte ad un ido- lum theatri: il sistema non consente che si ponga
il pro- blema di Dio, dunque non si può porre. Sì, in quel sistema e
relativamente ad esso; no, in un altro che riconosce i di- ritti e l’autonomia
della ricerca filosofica e si rifiuta di identificare l’essere con i fenomeni
di esperienza senso- riale. L’agnostico, in questo caso positivista — nel
dupli- ce senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di positivismo
storicista o dei fatti umani — non riconosce i limiti del sistema; vittima del
suo amor per esso, che non gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di
Dio ed averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica o immaginaria,
conclude che la sua esistenza è indimo- strabile e Dio l’assolutamente
inconoscibile. Ma chi ha di- mostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo
che qual-. L’ateismo 37 cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più
agnosticismo! Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo positivista — senza o
con il « neo» — è ateismo vero e proprio, almeno in pratica. Dall’« ignorare »
se Dio esiste ricava la norma: « agisci come se non esistesse ». Dio è
inconoscibile e inve- rificabile « scientificamente »; alla sua idea non
corrisponde alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente natu- rale e
sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, perchè il suo
«accantonamento » non arreca impedimento alcuno all’« organizzazione » della
nostra vita nel mondo — anzi la facilita — per la quale valgono solo «
strumenti » e «tecniche », non interessa neppure se vere (altro pro- blema
questo della verità da mettere da parte), purchè più valide rispetto ad altre,
più efficacemente « operative » e ido- nee ad una vita sempre più tecnicamente
organizzata, so- cialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola la
tua vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come se Dio non esistesse,
senza pensarvi. In breve: «ometti l’idea di Dio ». Per Comte, l’idea di «
Umanità » col tem- po eliminerà « irrevocabilmente » quella di Dio: per altri tale
eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progres- so, dalla futura «
società comunista » ecc.; naturalmente, sempre e in ogni caso, con gran
vantaggio degli uomini, che conseguiranno la vera felicità sulla terra. Ma
quello teologico non è problema di felicità terrena; Dio non è chiamato a
soddisfare bisogni materiali, ma ad appagare profonde esigenze spirituali; il
suo problema si pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i pos- sibili
bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffo- carlo si è costretti a
sostenere che non ha importanza sa- pere se vi è una verità che dà senso alla
vita dell’uomo e merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto strumenti
che hanno efficacia pratica per problemi solo mon- dani, economici, sociali,
politici, ecc.; che la logica vale nella 38 Filosofia e Metafisica misura in
cui è una tecnica, tante « tecniche » capaci di or- ganizzare fenomeni
psicologici, sociali, giuridici, senza preoc- cuparsi se vi è un’anima
personale, una verità comune acco- munante, un diritto perenne, ecc. D'altra
parte, si afferma che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della no- stra
maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in termini « antropologici
» e «scientifici » i « miti» di Dio e di una beatitudine celeste. Dunque, da un
lato, più che abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dal-
l’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la umana esigenza
religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insop- primibilità di quest’ultima e si
creano «idoli» e «miti», si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo,
intran- sigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si presenta
come idolatria e mitologia dell'Umanità, della Scienza, del Progresso, della «
Società » sempre migliore con questa o quella « democrazia »; alla teologia
sostituisce un deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio discuterlo.
Persino Bayle, il formulatore del « paradoxe », così lo chiama Voltaire ('*),
che può esistere una società di atei, crede con Plutarco che è meglio non avere
alcuna opi- nione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, non
c’è peggiore « religione » di quella che divinizza valori mondani per fini
terreni, in quanto si risolve sempre in una diabolica e rovinosa divinizzazione
dell’umano o dell’infra- umano e scatena il fanatismo. 4. — Il fideismo come
forma di agnosticismo. Non vi sono prove razionali od oggettive dell’esistenza di
Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il fideismo, forma di agnosticismo
non laico ma religioso. Tipico del (13) VoLtAIRE, op. cit., p. 39. (14) Barie, Pensées
diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è l’occasion de la cométe qui part
au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $ 118 della. Continuation. L'ateismo 39 protestantesimo, è anch’esso
molto diffuso, conseguenza di più di un secolo di agnosticismo filosofico e del
convinci- mento che non è possibile una metafisica come scienza ra- zionale. Il
fideista crede nel Dio di cui la ragione non può dimostrare l’esistenza, del
quale, anzi, può essere anche la negazione; in quest’ultimo caso continua a
credere contro, nonostante la ragione dica il contrario! Fideismo disperato, fede
a qualunque costo: credo nell’esistenza di Dio, mal- grado la ragione sia atea;
irrazionale ed assurdo come quello di molte pagine di Unamuno e di Chestov:
pascalianesimo barocco e antipascaliano, razionalmente infondato almeno quanto
l’ateismo dove rischia di sboccare, perchè è molto difficile conservare la fede
senza o contro la ragione e, se la si perde, dato che la credenza di Dio poggia
solo su di essa, non soltanto si cessa di essere cristiani, ma si diventa senz'altro
atei. Il fideista confonde due questioni che vanno tenute ben distinte: le
ragioni o le prove razionali dell’esistenza di Dio e la fede propriamente
detta, cioè l’adesione intellettuale e libera al contenuto della Rivelazione.
Egli riduce tutto alla fede e nega a tal punto la capacità della ragione
(quando addirittura non gliela contrappone quale nemica, come per esempio il
Chestov) da non poter dare alla prima alcun fondamento razionale; in questo
senso è un ateo credente contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è
contrario alla sua stessa essenza, come non è razionale ridurre tutto alla
ragione: fideismo assoluto e assoluto razionalismo sono antitetici, ma hanno in
comune la ragione atea, che è con- traddittoria. Religione e filosofia devono
temere ugualmente l’assolutizzazione della ragione e la sua totale
svalutazione, l’una e l’altra negazione della natura dell’uomo e dei suoi po- teri
conoscitivi: l’ordine della fede è assicurato solo se « l’or- dine della
ragione è conservato » (9). Il fideismo si dibatte in (15) L. OLLé LarrunE, Ce
qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, p. 30. 40 Filosofia e Metafisica una
contraddizione teoretica, e anche vitale: è ateismo teo- retico e teismo
pratico; come dire, l’uomo diviso in due. Vi è ancora un fideismo non
propriamente di carattere religioso (non fa dell’esistenza di Dio un atto di
fede), non laico, nè riducibile senz’altro all’agnosticismo. Esso si fonda su
una specie di «senso interiore» di Dio, tanto forte, universale e naturale da
costituire una prova della sua esi- stenza, superiore, secondo i suoi
sostenitori, a quelle razio- nali, che sono pressochè superflue esercitazioni
logiche; per questo « senso » l’uomo è chiamato irresistibilmente a Dio. « Io
sento che Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. Tanto mi basta; ogni
ragionamento è superfluo. Concludo che Dio esiste. Questa conclusione è
inscritta nella mia natura » (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo il quale
Dio è una presenza, un’evidenza: « ...l’esistenza di Dio l’ho approfondita; non
posso essere ateo, e perciò sono ri- condotto e trascinato nella mia religione,
irrecusabil- mente » (!?). Tesi d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma non di
Agostino e neppure di Pascal, in quanto nel primo vi è questo e molto di più,
come di più, anche se meno di quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo
senso inte- riore di Dio è estremamente indicativo e attesta una disposi- zione
ontologica, e non puramente psicologica, dell’uomo verso l’Essere supremo; ma
da solo non è dimostrativo, nè rende superflua la prova razionale, anzi la
esige proprio per la sua forza. In altri termini, non basta il senso interiore
di Dio per provarne oggettivamente l’esistenza, in quanto da solo resta un dato
soggettivo; è necessario approfondire la natura dell’uomo per vedere se esso
s’inscrive in un elemento oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e
origine di quel sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata oggettivamente,
non dal senso di Dio stesso, ma da quell’ele- (16) Moralisti francesi, Milano,
1943, p. 67. Questa forma di fideismo ha avuto le sue espressioni più
significative nel pensiero filosofico-religioso francese. (17) Ivi, p. 69. L’ateismo
4} mento oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua volta, non è un
puro dato nozionale, ma un’Idea, direi, vita- lizzata, vissuta nell’interiorità
di quel senso interiore, da essa illuminato. Perciò, han torto il razionalismo,
che, per una esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza della
ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’inte- riorismo che, forte
del senso interno, vuol fare a meno della forza del ragionamento. Invece, è
autenticamente agostiniana, perfettamente rispondente a quella del Rosmini e,
dentro certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posi- zione
che esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spi- rituale e illumina
questa nella luce dell’Idea. Ma, anche presa da sola, la tesi dell’esistenza di
Dio come evidenza dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non degeneri
nell’ontologismo o nel panteismo. Invece, pur non potendo essere ridotta
all’agnosticismo laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinun- ziare,
è più pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che am- mette l’esistenza di
Dio, razionalmente indimostrabile, per pure esigenze della volontà: la ragione
teoretica è agnostica;. tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se
Dio esi- stesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri termini:
l’esistenza di Dio è un atto «soggettivo» della volontà rispondente alle sue
esigenze profonde, ma non è una verità « oggettivamente » valida. Questa
posizione kan- tiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai valori
morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, mette in pericolo
anche i valori spirituali (19). 5. — Il deismo. « Un deista è un uomo che non
ha avuto ancora il tempo- di diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un
certo (18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione
kantiana, come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza,
Sezione II di quest'opera. 42 Filosofia e Metafisica punto ha ragione, perchè
il deista, in fondo, è un ateo che non vuol dirsi tale. D'origine italiana, il
deismo, dopo essere passato in Fran- cia, si trapiantò in Inghilterra, dove
trovò il clima che gli si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in
suolo trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può chiamare
deista, attraverso le forme molteplici che il deismo presenta nella storia del
pensiero, la dottrina che nega ogni religione positiva e rivelata e fa di Dio
un puro ente di ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura o
con la Natura stessa (in questo caso non si distingue dal panteismo), con il
Principio o la Causa che regge e governa il mondo. In tal senso, si possono
dire deisti nell’antichità Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai
nostri giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Her- bert di
Chirbury, Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso Kant, ecc. Nel secolo che fu il
suo, il deismo è la manife- stazione più significativa, anche se non la più
audace, dello spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onni- potente
ragione; infatti, polemizza contro ogni religione positiva (cattolica,
protestante, ebraica), contro ogni forma di culto, il dogma e il
soprannaturale. E’ chiamato anche «religione naturale », ma in più sensi: in
quanto 2) am- mette solo quelle verità che si possono attingere e dimostrare con
la sola ragione (esistenza di Dio, immortalità dell'anima, ecc.); 5) ha il
culto della natura, madre benigna, dove tutto è bene ed accade secondo la legge
del bene che viene ad identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea,
istin- tiva, senza costrizioni e comandamenti. Religione, in un certo senso,
facile, a cui la ragione aderisce senza sforzo, senza un superiore atto di
fede, culti speciali, mortifica- zioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi
confermata la (19) P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino, 1946,
pp. 269-70. . L'ateismo 43 propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che
Dio, pur così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel corso delle
cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, liberatrice dall’
inquietudine del peccato, dall’ attesa della grazia, dall’incertezza della
salvezza, da un giudizio divino. In breve, la religione deistica è la negazione
del Cristiane- simo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarna- zione,
del riscatto. Religione di un Dio lontano, che inter- viene raramente, fa
comodo alla ragione, a cui serve per meglio assicurare la libertà e la potenza
senza esserle mai d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio
della fede: «attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il Bayle; « la
differenza tra gli atei e deisti è quasi nulla » (?9). Esso s'inserisce in quel
processo di autonomia dalla religione di ogni forma di attività umana,
caratteristico dei secoli XVII e XVIII, allo scopo di liberare l’uomo dalla
soggezione della Verità rivelata e della Chiesa. La scienza con Galilei e
Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il giu- snaturalismo, la
filosofia e la morale con il razionalismo, l’empirismo e Kant, si costituiscono
separate dalla religione, tenuta lontana da ogni forma di attività umana, che
si pone autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si viene a negare la
religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione, soltanto umana,
razionale, naturale, che non menoma l’au- tonomia dell’uomo, anzi la conferma e
completa: liberare la religione dalla religione, che comporta o la sua
negazione, o la sua affermazione... contraddittoria (7). (20) P. Hazarp, op. cit., pp.
274; 275. (21) Molti elementi, di
cui è necessario tener conto, concorsero al nascere e al fiorire del deismo, a
definirne il contenuto: «) la già detta tendenza di eman- cipare l’uomo da ogni
religione positiva e dalla Chiesa; 4) la reazione al gianseni- smo che
assoggettava, fino a negarla, la volontà umana, colpita dal peccato e decaduta,
alla grazia soprannaturale, imponeva un rigorismo esagerato e la rinun- zia al
mondo, una concezione cupa della vita: c) il desiderio di far cessare le lotte
religiose, che avevano insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro contenuto
religioso) poteva dividere ed armare l'una contro l’altra le varie con- fessioni,
donde il farsi strada del nuovo concetto di « tolleranza » e la polemica contro
il « fanatismo » (il VoLtarrE, op. cit., p. 45, lo considera più funesto dell’ateismo);
d) motivi politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi- 44
Filosofia e Metafisica Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla concezione
che della Natura e della Legge universale ebbero la scienza e la filosofia dei
secoli XVII e XVIII: Dio - Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e regge,
Dio- Ordine della Natura sostituiscono il Dio cri- stiano rivelato, Padre,
Creatore, Amore. La natura so- stituisce anche Cristo; è la « mediatrice » che,
con la sua bontà, le sue provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela Dio agli
uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, questa si autorivela attraverso
l’uomo, quello del raziona- lismo moderno e dell’Illuminismo,
scienziato-filosofo, che di essa scopre le leggi, l’ordine e le provvidenze,
rapisce i segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di felicità, tutto
costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo si trasforma in panteismo
cosmico (divinizzazione della Na- tura), che, in ultima analisi, è
divinizzazione dell’uomo, rivelatore dell’ordine e delle leggi che governano la
Natura stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola, s’impossessa per farla
servire al suo fine supremo: la costruzione del Regnum hominis, luogo
dell’unica sua felicità perfetta. Una religione senza misteri per un'esistenza
senza enig- mi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non è nimo
l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del Principe. Non è,
del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività politica della
Chiesa. come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed anche di ateismo.
Vanno aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che, facendo conoscere
nuovi costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità di alcune credenze
e generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi, ai climi. Si
imma- ginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è assurdo;
si esaltano: repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di provare con
il calcolo che la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così si dubita
di tutto, meno di quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo del Locke
è il sistema adatto. alla bisogna (cfr. P. Hazarp, op. cit., pp. 1} e sgg.; 21
e sgg.). Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo
cristiano, ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano
all’umano. sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che
oltrepassa i dati dell'esperienza sensoriale (« affinchè io creda
nell’esistenza di Dio, lasciatemi toc- carlo!» dice Diderot); l'elemento
primario del reale è la materia e la coscienza uno. secondario da essa
derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. far conoscere la
natura e i suoi fenomeni. L'ateismo 45 tale, ma è filosofia atea al servizio di
una vita facile, arbi- tra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non
porsi problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive preoccupazioni
religiose, di essere felice in questo mondo. Il deismo, in fondo, è più ateo
dell’ateismo dichiarato: lo ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette
per identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il sapere
umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, mistero, dolore e male
inspiegabili, il deista per ogni dove vede chiarezza ed evidenza razionali,
felicità e bene; l’ateo è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è
un con- tento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sa- pienza
divina: quel che può sembrare un mistero, per lui, è soltanto una difficoltà
provvisoria, che il progresso irre- sistibile della scienza supererà. Deisti
ante litteram furono i « libertini », sempre pronti ad assimilare posizioni
filosofiche anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali, ribelli, epi- curei,
fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto nelle novità,
tranquillamente scettici e calcolatamente edo- nisti, privi di senso
metafisico, pronti a non prendere in considerazione i problemi difficili,
ostici per la loro cultura da raffinati. Diventati deisti, «si chiamano per
eccellenza gli esprits forts » (?), ma non cessano di essere superficiali, anche
se alimentati ed incoraggiati dall’« ateismo », di ben altra tempra, dello
Spinoza (*). Il Settecento deista e « razionale » è ingenuamente con- vinto che
ilpassato sia un cumulo di assurdità e compito del nuovo secolo dei lumi quello
di « scoprirne gli errori »; (22) Bavyce Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX.
(23) Esempio vistoso della fatuità di pensiero di alcuni tra i più rinomati deisti
è John Toland, sul quale cfr. le belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp nell’op.
cit., pp. 154-159; la superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata egregiamente
dimostrata da M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: La vita, le
opere e i tempi di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. Ci sembrano
opportune e da meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca al vecchio
Karamàzov: « sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per frivolezza che non
crediamo, perchè ce ne manca il tempo... » (I fratelli Karamdzov, Milano,
Corticelli, 1944, p. 147). 46 Filosofia e Metafisica errore principe da
denunziare e abolire la religione cristiana e il suo Dio, sostegno della
tirannide e strumento di op- pressione dei popoli, « superstizione » che ha
impedito allo uomo di conoscere e mettere in opera le sue immense possi- bilità
per il progresso individuale e sociale. Deisti e « liberi pensatori » non si
domandano mai perchè per secoli e se- coli gli uomini abbiano creduto e la
filosofia si sia sforzata di attingere una verità razionale non disforme da
quella religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione. Orgogliosi,
i « razionali » disprezzano i «religionari» (i due termini sono del Bayle),
come il sapiente l’ignorante testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto:
che non vi è rivelazione e non ve n’è bisogno; che nessuna fede religiosa è
veritiera e necessaria; che Dio è lo stesso ordine della natura conoscibile
pienamente dalla ragione, che in certo qual modo lo fa essere. In una parola,
hanno scoperto la verità totale, costruito la scienza perfetta, dispensatrice agli
uomini di felicità e liberatrice da ogni oscurità ed er- rore, dalle imposture
dei frati. Così negano Dio senza nem- meno porsene seriamente il problema, e
divinizzano l’uomo: « seguendo la ragione » — scrive uno dei «razionali» — «noi
dipendiamo soltanto da noi stessi e diventiamo così in qualche modo degli dèi»
(?); con la ragione e l’espe- rienza si scopre il « meccanismo » della natura e
ci s’impos- sessa d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). Questi
«liberi pensatori », incapaci di essere uomini che pensano in altezza e in
profondità, si credono dèi. (24) Il Votare (0p. cit., p. 45), che pur riconosce
alla religione positiva un valore sociale, la considera adatta per i bambini:
«un catéchiste annonce Dieu aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». (25) Giusert, Histoire de
Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da
P. Hazarp, op. cit., p. 161). (26) Una pagina del Maritain (I/ significato
dell’ateismo contemporanco, Brescia, Morcelliana, 1950, pp. 26-27) ben
chiarisce il concetto di Dio del deismo, molto affine al panteismo: « Supponete
ora una nozione puramente naturale di Dio, che conoscendo l’esistenza
dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo stesso ciò che S. Paolo chiamava la
sua gloria, negasse l'abisso di libertà signi- . L’ateismo 47 Il deismo, frutto
di un atteggiamento mentale spietata- mente spregiudicato e scettico tanto da
mettere in dubbio tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del
più acri- tico dommatismo razionale, della superficialità sistematica, della
più ingenua fiducia nei poteri della conoscenza umana e nelle possibilità
assolute della scienza. « Età barbara della filosofia », l’ Illuminismo non
ebbe in generale sensibilità per i problemi religiosi e per la filosofia intesa
come inda- gine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma l’assolutezza
della ragione, molto facile a difendere una volta che tutto il sapere è
limitato a quello scientifico e i problemi essenziali messi da parte; formula
un concetto mitico della « libertà » e si crea la superstizione della scien- za
(?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illu- ficato dalla sua
trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; supponete una
nozione puramente razionale — e buffa — di Dio, che sia chiusa al
soprannaturale e che renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, nella
sua libertà e nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio dei
filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato al- ordine
della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione di questo
ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redi- merlo, e
la cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si compiaccia
e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del mondo, a
tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano nella
natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacri- fichi
l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli innocenti
faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei cieli
eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cam- biato
in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il grande
Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria
ter- restre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della
nostra filo- sofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza,
sicuramente il Dio di Hegel ». (27) Il deismo, strettamente legato alla
massoneria per il suo atteggiamento anticlericale, antichiesastico e
individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili il principio del libero
pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della tradizione e da
ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della vita (ateismo
pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, d'altra
parte, le « ragioni » individuali sono spesso discordi, la verità di un punto di
vista va stabilita ed accettata secondo il parere della maggioranza. Democrazia
e « sacra » libertà della coscienza governata dall’intelligenza, che è «
sacrilegio » anche limitare, « culto della ragione umana » che s’inchina solo a
se stessa, questa 48 Filosofia e Metafisica minismo pretenzioso e dilagante,
superficiale e saccente, più grossolano di quello settecentesco;
neo-positivismo di diverse tendenze, marxismo ortodosso e eretico, neo-empi- rismo
e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti si rifanno ai temi e
soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, ne rinnovano la barbarie filosofica in
un mondo che va verso la « civilizzazione » assoluta dell’uomo senza « umanità
» e, dunque, senza « cultura ». 6. — Monismo e panteismo. a) Il monismo. - La
forma di ateismo più dotta, filoso- fica e fino ad un certo punto più critica è
il panteismo, dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo la
nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il « razionalismo » del Settecento
e poi per il laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione è Dio,
la libertà dell’uomo un assioma; è « obbligatoria » (l’uomo ha il dovere di essere
libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che non s’inchina a dogmi o
a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se essa stessa ne riconosce
la convenienza o la verità: salvare il postulato dell’assoluta libertà
dell’assoluta ragione (e dire che i positivisti erano quasi tutti
deterministi!) anche contro la ragione e l'evidenza. Per il laicismo
massonico-positivista, di origini deiste e illu- ministe, « le bien inestimable
» da custodire, conquistato dall'uomo contro i pre- giudizi e attraverso
sofferenze e lotte, « c'est cette idée qu'il n'y a pas de vérité sacrée, c'est
à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est que ce qu'il a de
plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de l'esprit... c'est que
toute vérité que nous vient pas de nous est un mensonge... ». Anche se si
facesse visibile, « si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une
forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et de
le considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que l'on
subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in Diction.
Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 1781-1782). La letteratura e i
discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla religione della ragione
abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità acritica e afilosofica
veramente scoraggiante. Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non
per l’ Essere assoluto trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne
fa: essa merita rispetto come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale,
ospitando Dio nel santuario della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La
nuova «religione laica » è la « religione dell’irreligione », secondo una
felice espressione del Guyau. Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto
« monismo umanitario », a cui abbiamo accennato a proposito della « religion de
l’humanité » del Comte (e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon,
ecc.), che dovrebbe sosti- tuire l'adorazione del Dio personale; e il « monismo
sociologico » del Durkheim. L'’ateismo 49 uso del termine siano relativamente
recenti (28). Non è facile distinguere il panteismo dal monismo; tuttavia, nei
limiti del nostro argomento, li trattiamo distintamente. Il panteismo
filosofico ha due aspetti fondamentali: @) riduzione di Dio al mondo, il solo
reale: Dio è l’unità di ciò che esiste, la somma delle parti; £) del mondo a
Dio, del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di ema- nazioni senza
realtà permanente, mancanti di una loro so- stanza distinta da quella divina.
Nel primo caso, si nega Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il primo possiamo
chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materia- lismo; il secondo acosmismo,
che può essere intellettualista (Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.; il primo
può identifi- carsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e pro- prio,
che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno e l’altro rispondono ad
un'esigenza fondamentale: ridurre tutti gli esseri all'identità assoluta non
solo logica ma anche ontologica; oppure: riportare la molteplicità degli enti
alla unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due realtà di diversa
natura, ma una sola: l’essere del mondo è identico all’essere di Dio. Così
l’esigenza legittima di uni- ficare il molteplice riportandolo a un unico
principio, spinta oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose,
per cui la molteplicità forma un «cosmo», conclude all’unità sostanziale delle
cose stesse e del loro principio, senza più distinguere tra identità e
analogia. Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà è
l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche se è detto spirito,
lo è come spirito del mondo, energia vitale o animata e perciò sempre di natura
materiale. Tale panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama (28)
Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola Panteist; il
Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini «pan- teismo », «
monismo » (coniato dal Wolff), « agnosticismo » appartengono tutti al
vocabolario filosofico moderno. 50 Filosofia e Metafisica Dio lo stesso
universo, s’identifica con il monismo natura- lista o materialista ed è
senz’altro ateismo; infatti, dire che Dio è l’universo materiale è negare che
esista e continuare ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chia- mare
una realtà con un nome che ne significa un’altra. Nell’antichità è monismo
materialista il panteismo stoico (?°) e nei tempi moderni, sotto l’influsso
della teoria dell’evolu- zione, quello biologico del Moleschott, Huxley,
Biichner e, più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si può
chiamare quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Rey- mond, Spencer, Ardigò
ecc. Per il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mon- do ed è il vero
monismo assolutamente ateo, l’unica realtà è la natura o universo, per se
stesso esistente e avente in sè la ragione ultima di tutto, di ogni suo grado
come di ogni ente particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il mondo,
ma vi è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si svolge e si spiega da, in e
per se stesso; si fa Dio, è esso stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui
non significa nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la materia
o qualcosa di materiale, originario e dotato di ener- gia vitale, che evolve da
se stesso e per leggi proprie. Atei- smo puro che ha la pretesa di essere
scientifico e, in realtà, non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno
filosofico. Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui per
evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una certa distinzione tra
le cose e il loro principio unico, ma solo fenomenica e non di sostanza; 5) la
sostanza o natura delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del- (29)
Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, di
natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le parti
e la loro somma. Per Zenone, « l’universo ha due principi: uno passivo, la
sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo pe-
netra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose
» (1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari, Laterza,
1932, p. 80). i L'ateismo 51 l’esistenza, del significato del processo e della
diversità delle cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle leggi
che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è po- sto e non vi è
traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontolo- gicamente uno e si svolge per
evoluzione progressiva. Ma che cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un
embrione informe del mondo, una specie di materia-madre che i monisti chiamano
in vari modi: «omogeneo» (Spencer), «indistinto » (Ardigò), «sostanza
primitiva» (Haeckel); ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non
accerta- bili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo materialista,
come quello dello Haeckel, è una contamina- zione grossolana di materialismo
evoluzionista e di spino- zismo. Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista:
la nostra coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze in- telligenti
sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il plu- ralismo degli enti non è
solo fenomenico, ma sostanziale. Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi
dell’unità ontologica dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi è
una realtà primitiva materiale da cui tutto procede per evo- luzione; 5) che,
rivelatasi inesistente tale realtà primitiva, re- sta aperta la possibilità di
provare razionalmente che il mon- do è stato creato da un Essere assoluto, il
cui essere è di altra natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per
con- seguenza, non c'è un’unica realtà, ma due di diversa na- tura, la creata
dipendente dalla creante: l’essere di Dio e quello del mondo. Ma l’esistenza di
Dio e la creazione, a differenza dell’ipotesi monista, si possono provare
razional- mente; dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il mo- nismo
risulta un'ipotesi falsa, nata da un passaggio erroneo: dall’esigenza legittima
di ridurre la molteplicità delle cose all'unità concettuale dell’idea, passa
illegittimamente all’unità 52 Filosofia e Metafisica ontologica dell’essere
reale (*°). D'altra parte, il materialismo o il naturalismo evoluzionista non
possono e non potranno mai spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini
come si voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mi- stero
inspiegabile. Dire che derivano per evoluzione dalla materia o che sono suoi
epifenomeni (Marx) è non dir nien- te, è presentare la difficoltà insoluta...
come soluzione! Non per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno
gros- solanamente acritico del monismo materialista, ateo per af- fermazione
dommatica e, nello stesso tempo, incapace di dare al suo ateismo un fondamento
scientifico e una spiegazione razionale. Dopo il tanto rumore della seconda
metà del se- colo XIX e dei primi anni del nostro e la diffusione at- traverso
la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è consi- derato definitivamente
morto anche da scienziati e filosofi che non hanno preoccupazioni religiose.
Morto come istanza filosofica, è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le
masse attraverso il comunismo, non perchè abbia una ben- chè minima forza
speculativa, ma in quanto son vivi i pro- blemi di ordine economico-sociale ai
quali viene agganciato. In altri termini, è soltanto l’aspetto sociale del
marxismo che conferisce forza ed attualità alle sue grossolane teorie « filo- sofiche
». Da ultimo, l’espressione « tutto è Dio » non ha più senso quando si ammette,
come nel caso del monismo materialista e naturalista, soltanto l’esistenza di
esseri fisici o di un es- sere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che
sia. Il panteismo, per il significato essenziale del termine, importa sì
l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito o Ragione, an- che se privo di
coscienza ed impersonale, tanto è vero che fa del pensiero e della coscienza la
rivelazione dell’ Essere a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il
panteista, pur non essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo- (30) Cfr.
Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol. IMI, pp. 918-922. L'ateismo 53 re, sia
anche solo «intellettuale »; dà l’ebrezza del divino immanente (Spinoza). Tutto
ciò manca nel monismo ma- terialista o naturalista, dove Dio è una pura
espressione ver- bale: « tutto è Dio » viene ad identificarsi, perdendo il suo sostanziale
significato, con l’espressione « tutto è materia » (5). b) Il panteismo e le
sue forme. Vi è una forma anti- chissima di panteismo ricorrente e presente in
tutte le epo- che e presso tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo pre- filosofico,
primitivo, proprio di popoli agli inizi della spe- culazione, o di nature
poetiche e mistiche abbandonate al fascino dell’immediato, alla suggestione
delle forze della natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed
elaborazione critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso panteista: le
forze cosmiche sono divinizzate, fatte oggetto di culto; nel politeismo già
evoluto di Eschilo, Sofocle, Pin- (31) Si noti che nel materialismo dialettico
(incontro dell’evoluzionismo e del dialettismo hegeliano) i concetti di monismo
e panteismo subiscono una trasfor- mazione profonda al punto che non vi sono
reperibili. Infatti, il materialismo dialettico nega che vi sia comunque
un'essenza di uomo o di altro, un ordine immutabile, una « materia » nel senso
tradizionale: tutto è il risultato di situa- zioni storiche, rispondenti ad un
grado del divenire; tutto nel futuro potrà essere diverso, perchè non vi sono
sostanze. Ora è esigenza del panteismo l'unificazione del molteplice, suoi
presupposti l’ordine cosmico e, in comune con il monismo, l’unità sostanziale
degli enti. Pertanto, rigettato il concetto di ente e quelli di sostanzialità
ed ordine, l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè monista
nè panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in questo
senso, è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. Per meglio far risaltare come
nel monismo materialista, negati Dio e ogni realtà spirituale, la vita perda
ogni significato che non sia quello biologico o economico, tutti i valori umani
siano negati e l’esistenza diventi assurda, ripor- tiamo l’efficace descrizione
che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa dei funerali del « filosofo
» Spencer. « Ecco: io dico quel che ho letto. Morto lui, il suo corpo è
portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al set- tentrione di
Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino di dicembre, e
tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano fiori, ma
neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì ad aspettarlo
non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in mano. Venuto il
carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e la cassa è
deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro leva la mano
in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui, delle opere di
lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè negò nulla. Finito
ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per un’aperta di muro,
entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse ». 54 Filosofia e
Metafisica daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità, identificate con le
forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è gerarchizza- ta e unificata
in un Dio supremo (Zeus « testa del mondo »). L’orfismo, con i suoi culti, le
sue credenze nell’oltretomba e nella metempsicosi, è anch’esso una forma di
panteismo pri- mitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la individualità
sostanziale della persona umana; l’invasato dal- la divinità, attraverso
l’ispirazione ed il rito, si sente così posseduto dal Dio da immedesimarsi con
lui. Le forze vi- tali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura di- ventano,
per l'immaginazione robusta e per la ragione an- cora debole e fanciulla,
potenti divinità, buone o cattive, da propiziarsi con riti, culti, preghiere,
sacrifici. L'unità onto- logica del tutto, vissuta immediatamente e con
sentimento spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o del- l'abbandono
mistico; il senso profondo della natura e della immedesimazione con le sue
forze è ebrezza del divino, sen- timento vitale di comunione dell’uomo con la
divinità e del- la divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che non è
pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le sue espressioni più
spontanee e turgide nel primitivismo di popoli non ancora intellettualmente
evoluti, o in quello di forti temperamenti mistici e poetici, che hanno
esuberante il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi non
cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanti- cismo germanico, alcuni
scrittori contemporanei, soprattutto modernissimi, vibrano di potenti accenti
panteistici, si sen- tono come immersi nella natura divinizzata. È quello che possiamo
chiamare panteismo estetico: culto della « gran ma- dre Natura », che è «bella»
anche quando è «orrida », Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze
attive, ora paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora maestosamente
rasserenatore in una pace solenne, infinita, immobile (il cielo stellato,
l'orizzonte immenso e limpido . L'ateismo 55 da una vetta alpina ecc.). Ma
questo panteismo, appunto perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o
solamente poe- tico, non può essere oggetto del nostro discorso. Il panteismo
che riconduce la natura a Dio non parte dal mondo, ma dall’Essere uno e
necessario, che chiama Dio, Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo
concepisce come Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazio- ne
(Plotino), per deduzione necessaria e razionale (Spinoza), per posizione
(Fichte), per movimento dialettico (Hegel), ecc. In tutte queste teorie, il
mondo è identificato con Dio, per cui realmente esiste solo Dio, di cui il
mondo stesso è una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; meglio,
dovrebbe esserlo, se il panteista non avvertisse tale difficoltà e le
contraddizioni insite nel sistema. Questa ed altre forme di panteismo hanno in
comune due tesi che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità degli
esseri all’unità ontologica di un unico ed identico Es- sere, per cui l’essere
del mondo, emanante o procedente da Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è
dunque « incate- nato » al mondo, il solo possibile, che da lui emana eterna- mente
e necessariamente e a lui torna per identificarvisi, co- me le gocce d’acqua
che, lasciate temporaneamente sulla spiaggia dal flusso dell’onda, vengono
riassorbite nella suc- cessiva (3°). Il mondo s’identifica con Dio, da cui
emana o procede; dunque l’essere del mondo è lo stesso di quello divino; d’al- (32)
Nota ed espressiva l’immagine dell’albero: fusto, rami, foglie tutto trae vita
dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che si rinnova identica a se stessa nell’unità
della sostanza dal seme ai frutti. Essa è frequente nelle Enneadi ed ha avuto
fortuna nella poesia romantica di Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.: « S'im- magini
la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo principio,
immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle radici » (Ern.,
I ,8, 10). 56 Filosofia e Metafisica tra parte, il panteismo non nega che il
mondo è anche ma- teria o qualcosa che, non essendo spirito, non è della stessa
natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il prin- cipio della
identità del mondo con Dio, bisogna affermare l’identità dei contrari, che
logicamente è non affermare nul- la. È la difficoltà in cui sembra incorrere il
panteismo dello Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono due
degli attributi dell’ «rica Sostanza o Dio o Natura; se la dualità è anche in
Dio non c’è l’unica realtà eterna (la Sostanza), ma due, irriducibili all’unità
della Sostanza stes- sa; se questa è una, materia e spirito vi s'identificano e
si afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà del- l’uno e
dell’altro. Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; Plotino
identifica la materia con il « non-essere », cioè con la zona oscura dove si
spenge l’emanazione dell’Uno), con- sapevoli della difficoltà, distinguono tra
natura emanata o posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito ema- nante
o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e il mondo sono realmente
distinti, due realtà, due nature, e non c’è panteismo; 2) o il mondo non si
distingue real- mente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà sopra
notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri ter- mini, o la distinzione
Dio-mondo è reale (analogia dell’es- sere) e bisogna abbandonare la dottrina
dell'Essere unico in cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione non è
reale (univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo è pura
apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo grado di realtà — concessione
necessaria in ogni sistema panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o
Dio —, dato che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo ca- rattere
materiale con quello spirituale di Dio, cioè due con- trari, identificazione
che, oltre al resto, riesce ugualmente L’ateismo 57 alla negazione della realtà
del mondo (*). Ma cerchiamo di approfondire meglio l’argomento (#). Posta la
tesi fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere im- rta la unicità dell’Essere
stesso, consegue che il molte- plice (gli enti particolari e finiti) o è
l’Essere, o non è; dun- que, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si
distin- gue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come di- stinto
da esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta ed estrema del problema:
«l’Essere è, il Non-essere [il molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide,
mette in evi- denza le insolubili aporie cui va incontro una dottrina del- l’Uno
che nega i Molti, come quelle della tesi opposta dei Molti che negano l’Uno; da
parte sua, contro la tesi pan- teista, ammette la realtà degli enti finiti che
hanno dell’Es- sere senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è af- fermare
senza dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; al contrario si dimostra,
contro il panteismo, che tra l’Es- sere e il Non-essere è possibile la realtà
di enti molteplici particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti non
sono l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza (33) Tipico il
panteismo dello Spinoza. L'unica sostanza — Dio-Natura — consta di infiniti
attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed infinita. Come
la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero ed
estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi in- finiti;
perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le cose sono
in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza universale
del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua essenza
si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. Questo
il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma sua
derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio non
è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo segue
da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la somma
degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è con- cepito
dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conse- guenza.
Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso nè per la
libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema dell'anima
(amor Dei intellectualis). (34) Questa e altre tesi panteiste sono esaminate
con fine acutezza da A. Va- LENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol., vol. III,
pp. 1332 c ss., che in qualche punto teniamo presente. 55 Filosofia e
Metafisica che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea dell’essere.
Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora i panteisti, in quanto
sarebbe incosciente: coscienza, infatti, è alterità, il distinguersi da
qualcosa che è e le si oppone; dunque il mondo è necessario a Dio, il quale si
fa, diviene, si rivela a se stesso, prende coscienza di sè attraverso di esso.
Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tede- sco, trasforma il
panteismo in ateismo. Un Dio che si fa (il Got im Werden dello Hegel) non è
Dio, non è Spi- rito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si chiama col
suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista af- ferma che Dio senza il
mondo sarebbe incosciente perchè la coscienza per cogliersi ha bisogno
dell’altro da sè, non parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza
finita dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, co- me tale, è
sempre Coscienza in atto e perciò non neces- sita dell’altro. Similmente Egli è
spirito perfetto senza bi- sogno di diventarlo, di farsi: se si facesse,
sarebbe sempre spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non è
mai Dio in nessun momento del suo divenire e dunque non esisterà come Dio;
perciò è come dire che non è. È la conclusione a cui arriva Nietzsche nel
notissimo passo della Gaia Scienza: « Dov'è Dio? Voglio dirvelo! L’abbia- mo
ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto! E noi l’abbiamo ucciso...
». Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando si argomenta che, se è
infinito, non può essere che imperso- nale: chi dice persona dice limite e
finitezza, ma Dio è infinito e senza limiti; dunque Dio è impersonale. Osser- viamo
che la conclusione non dimostra la sua impersonalità; semplicemente Lo nega, in
quanto un Dio impersonale è un’astrazione (la Natura, l’Umanità ecc.). D'altra
parte, la premessa è esatta se s'intende la persona finita, ma il con- L'’ateismo
59 cetto di persona umana non è l’unico possibile : Dio è per- sona in maniera
diversa da come lo siamo noi, ma lo è in modo analogo al nostro (#). Si noti
che in quest’ultima sua tesi il panteismo considera l’infinità di Dio in un
senso che Gli si addice veramente; infatti, concependo la persona solo secondo
quella umana limitata, esclude che Egli possa esserlo. Ma qui nasce un dilemma:
o Dio è infinito senza alcuna limitazione, e cadono le due prime tesi panteiste
del Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per acquistare coscienza di sè,
in quanto un simile Dio non è perfetto e infinito in atto ma limitato nel
divenire altro e nell’autori- velarsi a se stesso; o Dio non è infinito e
perfetto in atto e allora, se tale, anche secondo l’uso ristretto che il
pantei- smo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi pan- teista
della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo non in contraddizione con
se stesso e dunque sostenibile razionalmente, è necessario mantenere e
giustificare tutte e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito in atto e non
Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e con ciò vien meno
l’essenza metafisica del panteismo (il mondo è Dio e Gli è necessario); o non è
l’Infinito in atto e allora, anche nell’accezione panteista, si può concepirLo esistente
come persona, e vien meno l’altra tesi essenziale al panteismo della sua
impersonalità. In qualunque forma, il panteismo presenta invincibili
contraddizioni interne; co- me tale, è razionalmente insostenibile (*). (35)
Invece, così ragionano quanti negano a Dio la personalità: voi chia- mate
personalità e coscienza ciò che avete imparato a conoscere in voi stessi con
questi nomi; ma sapete anche che non vi è personalità e coscienza senza limitazione
e finitudine; perciò attribuendo a Dio quei predicati, fate di lui un essere
finito, uguale a voi e non avete pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi nel
pensiero. Questo ragionamento del Fichte, il quale riduce il teismo ad antro- pomorfismo,
critica un modo di chiamare Dio personale diverso da quello del testa; perciò
non interessa il vero teismo e non ha alcuna validità contro di esso. (36)
Osserviamo ancora che, anche ad accettarla per un momento, la tesi panteista
che il mondo è necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. Se il
mondo è necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 60
Filosofia e Metafisica 7. — L’umanesimo ateo. Con l’umanesimo assoluto o ateo,
proprio di quelle filo- sofie che si dicono atee perchè umaniste, entriamo nel
vivo dell’ateismo contemporaneo nelle sue molteplici forme di de- rivazione
materialista, illuminista e idealista, soprattutto hege- liana. Secondo i suoi
teorici, la religione (e perciò l’idea di Dio) aliena l’uomo in un Essere
assoluto e trascendente, gli ta perdere il possesso di ciò che gli appartiene,
gli impone un Altro; un maestro che gli insegna, o un rivale che gli contende.
Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio è la ne- gazione dei diritti dell’uomo,
che, adorando un Ente Supremo, frutto della sua immaginazione condizionata da
situazioni storiche, aliena in lui quel che invece gli appartiene. Pertanto un
umanesimo integrale ed autentico è possibile solo se l'uomo cessa
dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi diritti e poteri, cioè se
attraverso l’evoluzione storica elimina il mo- mento religioso della rinunzia a
ciò che gli spetta e attri- buisce a Dio. Questa forma di ateismo non è una
novità del marxismo; apparenza, è assurdo dire che Dio esiste per un’apparenza,
anzi dire che esiste; infatti, se il mondo è apparenza, siccome Gli è
necessario per esistere, anche Dio è apparenza! Dunque, il panteista deve
concedere al mondo una sua realtà, non diversa però da quella di Dio,
altrimenti vien meno il principio dell’unicità dell'essere e con esso l'essenza
del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csi- stere la realtà del mondo e
questa è della sua stessa natura, consegue che per esistere Gli è necessario...
Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è neces- saria la sua realtà
non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare coscienza di sè.
Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è coscienza, non è
soggetto; se non è soggetto, è oggetto, « materia ». Come nasce la coscienza?
Si riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del monismo
materialista. Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo,
emana- zionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia
nè scienza, per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più
noti, infatti, sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono
quelle già da noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è
antropomorfico); in realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente,
ecc. (The Key to Theo- sophy, London, 1893, p. 44), ma solo Dio sa, se è tale,
come può dirsi im- personale; 5) « Dio è tutto e tutto è Dio », scrive la
Besant (WAy I became a theosophist, London, 1891, p. 18) confondendo le due
forme di panteismo, che noi, meno frettolosi, abbiamo distinto e discusso
separatamente, i L'ateismo 61 già matura nell’Illuminismo, rappresenta solo una
fase di quel processo di divinizzazione dell’umano, proprio del pensiero moderno:
l’uomo può fare da sè quello che, attraverso l’alie- nazione religiosa, crede
possa fare solo Dio. Il progresso e l’evoluzione storica dell'umanità risiedono
precisamente nella graduale liberazione dalla « superstizione » religiosa,
infanzia della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che noi
acquistiamo dei nostri poteri. Per l’idealismo trascen- dentale, da Fichte a
Gentile, l’uomo realizza la sua umanità piena nel pensiero che, attraverso il
dialettistmo che gli è immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del
mo- mento religioso in quello filosofico e all’attuazione di quella assolutezza
dalla religione attribuita a Dio e che, invece, è il pensiero stesso nel suo
perenne divenire, nella conquistata consapevolezza di sè. Con il positivismo
del Comte, il mate- rialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la
religione dell’« umanità » sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo ateo
assume uno spiccato carattere sociale: l’uomo acquista coscienza di sè nella
società, nel lavoro inteso come vincolo di « fraternità », strumento di dominio
della natura, potenziato dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia
l’uomo rea- lizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione
assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. Al contrario,
secondo un’altra forma di umanesimo ateo antisociale anarchico individualista,
ma di un individuali- smo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua
ma- turità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe e tiranno,
crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio e tutto è sua « proprietà ».
L’umanità esprime la sua po- tenza intera nell’« unico » (Stirner) o nel
«superuomo » (Nietzsche), cioè quando oltrepassa se stessa, si pone al di là
della « mediocrità » delle leggi, dello Stato, della morale ecc.; la pienezza
dell’uomo è nella negazione dell’umano nel superumano del superuomo, usurpatore
di tutto, con- 62 Filosofia e Metafisica quistatore dei suoi supremi diritti
contro Dio, di cui de- creta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione
re- ligiosa, vergogna del « gregge » dei deboli. Queste forme di ateismo,
imperniate sul concetto di alienazione, nonostante le differenze a volte
rilevanti, hanno in comune alcuni pre- supposti dogmaticamente assunti: 4) la
religione è un gra- do, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione
dell’uma- nità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha an- cora piena
coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello che gli appartiene e attuerà
in una fase più progredita del- la sua evoluzione; è) essa, per conseguenza,
grado transi- torio del divenire storico, è destinata a scomparire quando tutti
gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno ac- quistato consapevolezza
di sè, cioè quando vi sarà un’uma- nità o una società nella piena maturità
della sua evoluzione; c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che
l’ideale umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori di sè ed
entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà realizzato in se stesso con e
nella sua opera; 4) fino a quando egli adora un Dio e si aliena in lui, è
indizio che l’evolu- zione storica non ha raggiunto la sua completa attuazione e
ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. Sul fondo comune della
divinizzazione dell’umano — l’uomo al posto di Dio, l’« usurpatore » temporaneo
desti- nato ad essere spodestato — l’umanesimo ateo si differenzia in forme
diverse quando si tratta di stabilire in quale del- le sue attività l’uomo
realizza il suo compimento: il Pro- gresso, la Scienza, la Filosofia,
l’Umanità, la Società omo- genea, ecc. a volta a volta sono state additate come
le nuove divinità della nuova «religione umanistica », la cui realizzazione
farà sparire, relitto del passato, la « religione teologica ». La forma più
vistosa, anche se teoreticamente me- no consistente, è quella marxista, sulla
quale insistiamo in modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione
L’ateismo 63 di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se stesso,
sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro Dio e di rivoluzionare
dalle fondamenta la scala dei valori. Mai ateismo è stato più negativo ed
assoluto, apocalittico e messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma di
vita. La cosidetta « sinistra hegeliana », pur accettando il dia- lettismo,
opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non sono un’estrinsecazione dell’Idea,
ma la sola e vera realtà, di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è
l’uomo non come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo è un
«corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, in- sieme di bisogni, che
vuol soddisfare per realizzare la pro- pria felicità. Nel rapporto sociale egli
acquista coscienza della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua questa
coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esi- genza religiosa? Questa
la domanda alla quale Feuerbach risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841).
Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uo- mo infinitizzato;
dunque, quando parla di Dio, parla del- l’uomo; basta scrivere «uomo» dove
scrive « Dio» per restituire all'uomo stesso il suo autentico essere; pertanto,
« il problema di Dio è il problema dell’uomo »; «il segreto della teologia è
l’antropologia ». Così Feuerbach opera la « trasformazione del sacro » già
implicita nel pensiero illu- minista e quasi esplicita nel Fichte e nello
Hegel. La religione è un prodotto puramente umano: non po- tendo l’uomo
soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal bisogno, postula o pone un
Essere illusorio, proiezione di se stesso come vorrebbe essere. La teologia non
è che antro- pologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione del- l'immaginazione,
è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 64 Filosofia e Metafisica Così
nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad un altro la
realizzazione dei valori, di scaricarsi di un com- pito. Se l’uomo acquista
coscienza che quando pensa l’Infi- nito pensa e attesta l’infinito del suo
pensiero, e quando lo sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se
si fa consapevole che « nell’essere e nella coscienza della reli- gione non vi
è niente di diverso da quel che c’è nel suo essere e nella sua coscienza »; in
breve, se si convince che «egli inconsapevolmente e involontariamente crea Dio
se- condo la propria immagine », si riprende quel che ha alienato e acquista
coscienza che tutto il discorso su Dio non è che discorso sull’uomo, che lo ha
creato a sua immagine e so- miglianza. In altri termini: se il fatto religioso
dipende da una particolare situazione umana e dura fino a quando essa non
evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di pensare a Dio e di essere
religioso. Feuerbach, nonostante tutto, resta legato al vecchio ma- terialismo;
il reale per lui è ancora l’« oggetto » sensibile, come gli obietta Marx, che
pur riconosce quanto deve al suo predecessore. In breve, conserva residui
intellettualistici, che Marx elimina con la riduzione del reale all’« attività sensibile
umana » intesa come prassi: il rapporto uomo-na- tura è dialettico e non vi è
altra dialettica che quella uomo sensibile-realtà sensibile in funzione del
lavoro umano; per- tanto, la dialettica deve scendere dal piano teoretico-idei-
stico (Hegel) a quello pratico o « economico », anzi l’« eco- nomico », il «
materiale », è l’unica « struttura » del processo, di cui le altre (morale,
religione, arte, ecc.) sono solo « so- prastrutture ». La proprietà privata,
autoalienazione dell’uo- mo, è una usurpazione o appropriazione della sua
essenza da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, da un
lato, con la soppressione positiva della vita umana alienata e di ogni altra
alienazione conseguenza della pri- ma come la religione, la morale, la
famiglia, lo Stato, il di- L'’ateismo 65 ritto, ecc.j dall’altro, con il
ritorno all’uomo come «essere sociale », con la riconquista del suo vero essere
originario: l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha es- senza
umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto nella società diventa legame
che unisce gli uomini tra loro. In quest’ultima si compie l’integrale
naturalismo dell’uomo e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica
hege- liana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La storia non è
il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quel- lo della natura attraverso il
lavoro dell’uomo; non la dia- lettica di compimento dello Spirito assoluto
nella Filosofia, ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società so- cialista.
Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in rap- porto dialettico e la
religione appartiene al momento del- l’alienazione o della proprietà privata,
realizzata l’unità del- l’uomo con la natura nella società ed eliminata
l’alienazione, la religione scompare da sola: l’ateismo è una constatazione, è
o sarà un « fatto » della nuova società socialista. Amano a mano che l’uomo
andrà costruendola e conquistando la sua libertà, sua opera esclusiva perchè la
storia è soltanto opera dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà
sparendo, anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, soprastruttura
dell’alienazione. « Dal momento che la es- senzialità dell’uomo e della natura
diventa praticamente sen- sibile » nel rapporto dialettico uomo-natura, diventa
prati- camente impossibile anche il problema di un'essenza estra- nea superiore
alla natura e all’uomo implicante l’ammissione della loro inessenzialità. «
L’ateismo come negazione di que- sta inessenzialità non ha alcun senso, poichè
esso è una ne- gazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dun- que,
non c’è più bisogno della negazione di Dio e della reli- gione, l’ateismo
diventa superfluo: l’autocoscienza positiva acquistata dall’uomo nella società
socialista è la negazione 66 Filosofia e Metafisica della negazione, cioè
dell’ateismo: non si tratta di soppri- mere la religione, perchè è già sparita,
come non si tratta di sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri
ter- mini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappre- sentano solo
un momento necessario del processo di emanci- pazione dell’uomo alienato, della
conquista della sua libertà, ma non il fine della società umana, che è
l’attuazione della libertà dell’umanità. Questi e altri discorsi poggiano sul
presupposto domma- tico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a cui
Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva allo spirito. Così Marx
riforma contemporaneamente la dia- lettica hegeliana e il concetto
feuerbachiano di materia, ma la duplice operazione lascia intatto il
presupposto materia- listico, anche se egli identifica la materia con la realtà
eco- nomica, cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica zione alcuna,
allo spirito. Certo, l’economia, come ogni altra attività umana è dialettica,
ma è tale in quanto attività spirituale che, pur interessando il corpo,
risponde sem- pre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dun- que
interessa la persona nella sua integralità spirituale e cor- porea. Ma, a parte
ciò, da un lato resta da dimostrare che la materia o l’economico sia il primum
o il principioas- soluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata da
un altro principio, altrimenti si fa un’affermazione dom- matica, come tale
gratuita e filosoficamente ingiustificata; dall’altro, è da vedere come il
marxismo intende lo spirito, il pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per
Marx e i neomar- xisti russi o di loro ispirazione, « materia » non è soltanto la
realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; di essa, dato
oggettivo indipendente dalla coscienza, que- st'ultima è solo «un elemento
secondario derivato »; il pen- siero è un prodotto del cervello, che a sua
volta lo è dell’evo- luzione della materia, per cui la dualità materia-spirito
è una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività econo- L'ateismo 67 mica,
primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente mate- riale, dato che la
cosidetta coscienza o spirito è un elemento secondario derivato dalla materia
oggettiva, madre di essa e di tutta la realtà naturale; dunque, monismo
materialista in edizione aggiornata, ma più scorretta di quella del vecchio materialismo,
in quanto il neo-materialismo pretende di es- sere « dialettico », ragione di
quello «storico », come se si potesse parlare di « dialettica» dove tutto è
materia e niente spirito. L'espressione « materialismo dialettico » è una contraddizione
nei termini e non è ragione di alcun « ma- terialismo storico », per il motivo
inconfutabile che non c’è dialettica dove non c’è spirito e dove esso è
concepito come un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo que- st’ultima
che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, l’ateismo in una
concezione monistica diventa una consta- tazione di fatto, ma non per le
ragioni che adduce Marx, bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è
nient'altro, nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non c'è
l’uomo nè Dio, non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa un dato inspiegato ed
inspiegabile, gratuito; non resta che riporsi tutti i problemi senza tener
conto dell’assurdo ini- ziale monismo materialistico. D'altra parte, che senso
ha parlare di uguaglianza e fra- ternità tra gli uomini in una concezione in
cui la persona è un puro prodotto naturale della materia, la risultante del- l'evoluzione
materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, senza diritti extrasociali o
anteriori alla società stessa? Marx ammazza la persona tre volte: nella
materia, nella realtà economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta
che non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha « alienato » la
persona nella materia, negato lo spirito nella realtà economica e nella società
e dice di aver riscattato l’uo- mo dall’alienazione religiosa. A parte ciò,
come si fa a dire che l’idea di Dio e la religione sono la conseguenza della 68
Filosofia e Metafisica proprietà privata e dell’alienazione del lavoro, pronte
a scom- parire, incubo plurimillenario, con la cessazione della causa «materiale
» che le ha prodotte? Ma che aveva in testa l'insiptens Marx e che vi hanno gli
insipientes che l’han perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? Superfluo
insistere nel criticare una dottrina che, sotto l’aspetto filosofico — a parte
la questione sociale — è così puerile e grossolana da non potersi chiamare
nemmeno as- surda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il uale dice
che il manico di scopa che cavalca è uno dei cavalli del Re d’Inghilterra. È
quel che capita al marxismo quando sostiene che gli uomini pensano a Dio perchè
defrau- dati da una parte di quanto producono con il loro lavoro e che
cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la proprietà privata e la
defraudazione del lavoro altrui, si sarà pienamente realizzata la libertà dal
bisogno, l’ideale perse- guito dall’inizio dei tempi e proiettato in un
immaginario Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto marxista,
come quello che si fonda sull’autosufficienza uma- na, rientra nel quadro più
vasto del pensiero moderno lai- cista; non per nulla è figlio dello Hegel.
Variano i modi di divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il Pensiero
ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del marxismo non sfigura gran
che al confronto di quella di altre dottrine. Solo che esso, invece di affidare
il compito di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività nobili o dotte, lo ha
affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi questo gran male, perchè
l’esito è sempre lo stesso. Gli altri ateismi o laicismi non hanno da
protestare contro il mar- xismo e da darsi una superiorità che è solo sciocca
arro- ganza. Non è il caso d’insistere, perchè già incluse nella nostra esposizione
critica, su altre teorie di alienazione religiosa, su quelle che dicono in
generale: l’uomo che crede in Dio L'ateismo 69 aliena se stesso, abdica; dunque
un vero umanesimo non può non essere ateo. Nietzsche vien subito alla mente, ma
le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per esempio, il Brunschvicg; il
quale non nega il valore trascendentale del pensiero, ma lo intende in senso
idealistico: non Pen- siero in atto (Dio), bensì quello che è infinito
progresso creativo; Dio s’identifica con la Ragione immanente. Se, in- vece,
l’uomo ammette con la pura « immaginazione » un Dio trascendente aliena in Lui
i poteri del pensiero, che è l’As- soluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè è
assurdo: l’idea di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno dell’uomo,
un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico di fare coincidere la
riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’en- Soi); è precisamente
l’impossibile tentativo o di annullare l'oggetto nel puro soggetto o il
soggetto nella pura oggetti- vità. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai
esserlo per- chè Dio è assurdo; l’uomo è « una passione inutile ». Queste
teorie concepiscono Dio come negazione dell’uo- mo; ma Dio non nega, eleva la
natura umana ad un destino soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la
sua idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alie- nazione
religiosa « s’immaginano » un Dio alienante e poi concludono che l’uomo,
pensandovi, si aliena in Lui. Ma, in definitiva, cosa aliena? Quello che
compete alla sua na- tura, o quel che non gli appartiene? Secondo i teorici
del- l'alienazione, proprio quello che non gli appartiene, essere Dio. In altri
termini, se si attribuisce all’uomo quello che spetta a Dio, chiaro, se vi
pensa e lo ammette, si aliena.... ma come Dio, non come uomo. Non vi è, dunque,
aliena- zione religiosa nè l’esistenza di Dio la comporta, se l’uo- mo si
attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e non quello che non gli
spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, lo aliena, lo fa escire fuori di sè, lo
rende ridicolo, cari- catura di se stesso. CapitoLo V CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La breve indagine storico-critica sull’ateismo e le sue forme fondamentali,
condotta con animo aperto e dal punto di vista più favorevole, ci porta a
concludere che, sia quello vero e proprio come l’altro che non si dice
esplicitamente tale o non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni dommatiche
o razionalmente contraddittorie. Infatti, l’ateismo assoluto, che nega
senz'altro l’esistenza di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando
pretende ad un qualche significato filosofico, esprime la fiducia che la
ragione umana abbia la capacità di provare la sua affer- mazione; ma nessun
ateo, che si sappia, ha dato una simile prova razionale inconfutabile. Gli
agnostici giustamente gli rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il
pro- blema pregiudiziale se la ragione abbia il potere di dimo- strare vero il
suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si chiede neppure se alla ragione,
schietta e naturale, non ripugni una simile negazione proprio in quanto è
naturalmente indiriz- zata all’Essere, origine e fondamento di ogni verità e
dello stesso lume razionale; l’ateismo dommatico, in questo senso, è contro la
natura dell’uomo, contro la ragione. Per con- seguenza, l’affermazione atea è
irrazionale, dettata dalla « passione »; è lo stato dell’insipiens, di colui
che non sa L'ateismo ZI quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in
cattività (1); condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e dunque
filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non trova aiuti o sostegni nella
scienza che non oltrepassa arbi- trariamente i suoi limiti — ma in tal caso gli
aiuti sono ap- parenti perchè forniti da una scienza « apparente» — in quanto a
nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche quella del Dio personale.
Nessuna psicologia scientifica può distruggere la superiorità della coscienza e
del pensiero e la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di Dio-Vo- lontà
non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi pro- prio la scienza, se
non «premeditata » e consapevole del suo oggetto e dei suoi limiti, può
riconoscere la convenienza razionale del Dio-Persona. In conclusione, una
ragione atea non è razionale nè ragionevole. Ma proprio quella convenienza nega
l’agnostico, il quale dà torto all’ateo che pretende di « sapere » che Dio non
esi- ste, ma lo dà anche al teista che presume di provarne l’esi- stenza; egli
così non incorre nè nel possibile errore del primo, nè in quello pure possibile
del credente che, dal fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente.
Lo agnostico non nega e non afferma l’esistenza di Dio; /a ignora, perchè i
mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone non hanno la capacità di spingersi fino
all’affermazione o alla negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva
solo se applicati a ciò di cui l’uomo può avere esperienza; ma dello Essere in
sè non c’è esperienza e v'è solo « pensabilità »; dunque non c’è possibilità di
pronunziarsi con un certo fondamento razionale sulla sua esistenza. Come
abbiamo osservato, la verità della conclusione è legata a quella del sistema,
il quale non comporta che si affermi o si neghi l’esistenza di Dio; ma è vero
il sistema? (I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la sottomette al suo
ateismo, meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non lo convincono ma
l’ateismo gli è comodo: « vuole » essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 72
Filosofia e Metafisica E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana è
limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma per- chè, in partenza, si
assegna alla filosofia come suo oggetto proprio il fenomeno o il fatto e non il
valore e l’atto; si riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale igno- rando
che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, quando non s’identifica
superficialmente con i fenomeni psi- chici, attinge profondità metafisiche che
danno evidenza razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma asse- gnare
alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, è negare che ne abbia
uno proprio, ridurla alla scienza o alla storia, di cui diventa una
metodologia; dunque, si nega che l’esistenza di Dio è problema filosofico,
perchè si nega che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In altri
termini, il sistema che limita la conoscibilità al fatto e al fenomeno è una
«filosofia » che si ferma «al di qua» della filosofia vera e propria, al punto
in cui si arresta la scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a
filosofare sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! «Non nego e non affermo;
ignoro se Dio esiste ». Lo agnostico che dice di « ignorare » Dio è ateo — di
fatto lo è chi lo ignora — ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige di
fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si ferma ad un certo punto.
L’agnosticismo ateo è la rinunzia a pensare fino in fondo, il fermarsi alle
cause penultime (scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica).
Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente (2) Per citare un
esempio recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, il Rensi, nella
citata Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione su una
concezione materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpre- tazione
materialistica di Kant: « è soltanto ciò che può essere visto, toccato, per- cepito
» (p. 15); Dio non può essere visto, toccato, percepito; Dio non è e pen- sare
diversamente è « alienazione mentale » (p. 35). (3) In chi nega Dio o dice di
ignorare se esiste, non di rado ha una in- fluenza decisiva un motivo
psicologico di ordine pratico: giustificare la propria condotta di vita. Gli «
spiriti forti » sono spesso di una estrema debolezza: « fan- no i bravi con Dio
», secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libe- L'ateismo 73 è
il non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinun- zia alla bellezza
del « rischio » metafisico; è un « fermarsi », in contraddizione con la «spinta
» della ragione e perciò non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal al
non pensare fino in fondo — « Athéisme. marque de force d’esprit, mais jusqu’à
un certain degré seulement » (*) — a metà: «Les athées doivent dire des choses
parfaitement claires » (*). Ma
proprio di chiarezza mancano: presentano come chiara una conclusione che non lo
è, per esaurito e definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di convincersi
dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche difficoltà per persuadersi del
contrario ("). La ragione può rifiutarsi di andare fino in fondo solo
facendo violenza a se stessa, facendosi schiava di interessi non razionali,
misti- ficandosi, autocontraddicendosi (°). Tuttavia, a parte queste obiezioni,
resta valida la pre- giudiziale « critica » sulla capacità della ragione di
fondare rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi
spirituali, della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si
nasconde l’attacca- mento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la
ragione a servizio di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e
scuse fino a quando non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e
l’agnosticismo ateo (« si vuole » ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono
da un fondo di immoralità. Certo non sono mancati e non mancano atei onesti e
modelli di virtù morali; ma non di rado l’onestà di questi « galantuomini » dai
costumi impeccabili è sata- nica: virtuosi per la superbia di esserlo,
identificano i valori con la loro stessa persona, ne fanno una « posizione
dell’io » da mantenere e rispettare anche fino al sacrificio di sè... a se
stessi. (4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5; «
Certissimum est, atque experientia comprobatum, leves gustus in philosophia
movére fortasse in atheismum, sed pleniores haustus ad religionem reducere ». (5) Pensées, Sect. III,
225, ed. Brunschvicg.(6) Ivi,
Sect. HI, 221. (7) Come è stato osservato (Piar, in « Revue pratique
d’apologétique », 15 gennaio 1907, p. 451), se a cercare Dio si fosse impiegato
un decimo dell’energia spesa per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già
posseduto la più ampia, precisa e solida delle teodicee. (8) VoLtaire (op.
cit., p. 43), non certo sospetto di eccessiva pietà religiosa, scrive: « les
athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e gli «
ambiziosi », i « voluptueux », aggiunge argutamente, « n’ont guére le temps de
raisonner... ». 74 Filosofia e Metafisica una teodicea e di risolvere il
problema teologico; ma farla valere non significa affatto giustificare innanzi
tutto se ha il diritto di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare che
questa esperienza, alla quale la si vuol costringere e limitare, è inspiegabile
senza oltrepassarla. Tale istanza non può essere ignorata dall’agnosticismo e
dal criticismo, ap- punto perchè spinge la «critica » al limite del suo
sviluppo più esigente. Ma ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non im- plica
di necessità concepirlo come l’Essere trascendente e personale, obiettano
deisti e panteisti. Abbiamo già di- scusso e confutato le dottrine che
concepiscono Dio come Ente impersonale e dimostrato la loro contraddittorietà :
hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è, ma è « Forza », « Causa », «
Legge naturale », « Natura » : in que- sti casi Dio è una parola senza
contenuto, o con uno diverso. Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo
e il pan- teismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e ateismo
sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, o si nega Dio e si abbia la
franchezza di dirlo accettando l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega
e allora si parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea, Inconscio,
ecc. Un Dio impersonale non è Dio, « ma solo una parola mal adoperata, un
non-concetto, una contradictio in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si
riconosce la ne- cessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo Essere
intelligente e volente, Persona, con cui gli enti creati sono in rapporto di
analogia e non di univocità o iden- tità. Questo indica il termine; qualsiasi
altro uso è spurio e fa che il teismo diventi puramente verbale. Da ultimo,
notiamo che Dio, oltre che una verità razio- nale, è innanzi tutto una verità
religiosa, rispondente a una esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la
ragione è chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto L'ateismo
75 o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e personale. Dire
che Dio è verità razionale non deve signi- ficare depauperazione della Sua idea
al punto di farne una pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità
o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la
ragione è chiamata a dare fondamento razio- nale al Dio della religione, non a
dimostrare l’esistenza di un ente, che soddisfa solo pure esigenze
intellettuali della ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle
reli- giose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, dallo stato
ingenuo o d’immaginazione, vengono elevate a quello critico o di scientificità.
Visto così il problema, quanti dicono che Dio è il Divenire o la Natura,
l’impulso morale o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, adorano,
amano. D'altra parte, se diamo a quello che chia- mano Dio il senso vero che ha
la parola, con tutto il ri- spetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a
pensare che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si dialettizza,
l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, ecc.; scoppia perchè si fa
rappresentare a questi concetti una parte che non si addice loro, e al tempo
stesso si rifiuta la religione per accettare l’idolatria. Non è stato forse
ridi- colo il Comte con la sua «religione dell'Umanità »; chi si è fatto
sacerdote della «religione della libertà »; quel tale adoratore della
Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione dell’ 89 dichiarò di essere
«l’ennemi personnel de Jesus Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che «la
verità è il Partito» e basti realizzare una società socialmente ed economicamente
perfetta perchè si estingua nel cuore dello uomo l’esigenza religiosa nella
riconquistata coscienza che Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo
aperto o mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 76
Filosofia e Metafisica grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non hanno
il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione sincera, che meritano
comprensione e rispetto (7). (9) Nota bibliografica: P. Bayle, Pensées diverses
écrites è un docteur de Sorbonne è l’occa- sion de la comète qui part au moins
de décembre 1680, Rotterdam, 1721, voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire
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contemporain, Genève, Éditions Labor et Fides, 1956; M. Buser,. L'eclissi di Dio, Milano, Edizioni di Comunità,
1961; E. Borne, Diew n'est pas mort. Essas sur l’athéisme contemporain, Paris, Librairie
Arthème Fayard, 1956. Inoltre: Athdism di vari Autori; Hastincs, Encyclopaedia
of Religion and Ethics, vol. I; Athéisme, « Vocabulaire technique et critique
de la philosophie » a cura di A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I;
Francx, Dictionnaire des scien- ces philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, «
Enciclopedia italiana », vol. II; Agnosti- cisme, Athéisme, Panthéisme, «
Dictionnaire apologétique de la foi catholique »,. Paris, Beauchesne, 1925, vol. I e vol. II. Parte TERZA ATEISMO
E TEISMO SEZIONE SECONDA L’ESISTENZA DI DIO CaritoLo I POSIZIONE DEL PROBLEMA E
I «DATI REALI» DELL'IPOTESI «DIO » I. — Definizione nominale di Dio e
fondamento razionale dell’ipotesi. Assumiamo l’esistenza di Dio come
un'ipotesi, ma, anche a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali simpongono:
4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razio- nalmente fondata l’ipotesi (1). Quale
la definizione nominale di Dio? Ogni parola, per- chè tale, esprime qualcosa, è
usata con un senso; dunque, quando gli uomini pensano pronunziano scrivono il
termine «Dio» gli danno un certo significato, anche se con sfu- mature diverse
e con un senso ammettiamo pure non sem- pre univoco. Tuttavia, quale che sia il
grado di equivocità (1) Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema
sconcerterà quan- ti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede,
contestano che si possa persino parlare di « problema » dell’esistenza di Dio,
tanto per loro tale verità è fuori discussione. Osservo: 4) non tutti gli
uomini si trovano in questa condizione; 5) l’esistenza di Dio per noi non è, di
primo acchito, un’evidenza; c) la fede non è «del tutto » oggettivabile, vale
per chi la possiede, ma da sola non è un argomento per convincere chi ne è
privo che Dio esiste; pertanto, a chi non crede nella Sua esistenza è
necessario, anche se non sufficiente, provare che l'affermazione « Dio esiste »
è una verità, cioè una proposizione valida per ogni essere razionale. D'altra
parte, come ho accennato sopra, la fede ha un grado non trascurabile di
oggettivabilità; infatti, chi ha fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed intensa
vita religiosa, è portatore — agito ed agente ad un tempo — di questa verità;
in tal senso, con il suo pensiero e la sua azione, con la « parola » e le opere,
ne è la « testimonianza ». La potenza penetrante del suo « esempio », che incarna
una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e comunica- 80
Filosofia e Metafisica nell’uso del termine, chi afferma o chi nega che esiste
Dio, come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che cosa afferma,
nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la for- mulazione di un'ipotesi è
possibile sulla base di alcuni dati reali che si cerca di spiegare, ma che non
lo sono ancora: appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se pro- vata,
si assume come verità oggettivamente valida. Quali sono i dati reali che
autorizzano l’essere razionale a porre l’ipotesi « Dio »? L’uomo e il mondo, la
realtà esi- stente, in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto la
riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto inserito in un universo di
altri enti materiali, di organismi fisici; di altri enti che, come me, oltre
alla vita organica, ne hanno una morale, cioè la libertà di orientare con
responsabilità la propria condotta; dunque, sul piano fisico e su quello morale,
mi avverto in relazione con tutti gli enti dell’uni- verso, da essi influenzato
e su di essi influente. Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un
gro- viglio di problemi essenziali. So di non essere sempre esi- stito, almeno
nel modo in cui esisto e posso esistere nel mon- do; di avere pertanto un
principio al pari di ogni cosa in esso esistente; dunque, tutte le cose che
sono non sono sem- pre state, nè saranno sempre: domani non sarò, tutti gli es-
tiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione, suscitare il problema,
sbloc- care il pensiero, mettere in moto la volontà e attizzarne lo slancio,
spingere la ragione a realizzare tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’«
altezza » di dimostrare. Non dà convincimento razionale, ma genera una
condizione psico- logica, che è più di una semplice « situazione »: stimola a
chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella
« forza » che « dà forza » alla ragione, o meglio la mette nella condizione di
sviluppare la sua forza totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al
problema non significa che esso sia puramente di tale natura, ma soltanto che
vogliamo concedere il massimo all’istanza critica; anche lo stesso termine «
problema » è da noi inteso in un senso particolare. Per cvitare equivoci
diciamo fin d’ora che non c'è ragione al livello normale, totale o integrale,
senza fede e non c'è fede senza ragione; dunque, escludiamo il puro
razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto delle sue capacità e della
sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto senza la ragione non si salva
la fede, che, come fede di un essere razionale, non può essere dalla ragione
disgiunta, nè la ragione negare. L'esistenza di Dio 81 seri, che oggi sono,
domani non saranno; ho, ciascuna cosa ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha,
una fine. La con- tingenza e la temporalità della mia esistenza e di ogni esi- stente
in questo mondo è un fatto di esperienza; inizio e limite nel tempo: entro e
passo, ogni essere passa. E allora, donde vengo? qual’è il principio del mio
esistere? Passo; dove vado? Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? o
«passo» soltanto, transito, per una destinazione che è la finalità suprema
della mia esistenza? Sono contingenza e limite e morte, miseria e dolore, ma la
coscienza di esserlo mi fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia,
anche se mi eleva, non fa che sia esente da miseria e dolore. D'altra parte,
proprio l’essere un ente cosciente, pen- sante e volente, mi pone altri
problemi: se sono coscienza, donde la coscienza e il pensiero? Non la materia
può essere principio di quel che materia non è e di cui essa è priva, nè ha
alcun fondamento l’ipotesi della sua evoluzione, per- chè non può mai spiegare
il nascere dell’attività pensante e riflessiva. Donde la sua presenza in me, e
dunque nel mon- do? Se penso, penso pure qualcosa, oggetto del mio pen- siero;
dunque penso qualcosa che è vero, in quanto pen- siero non sarei se verità non
fosse. Donde la verità? Son io, contingente e finito, la fonte creatrice di
essa, che era prima che entrassi nel mondo e lo sarà anche quando ne sarò
escito? Nella natura vi è un ordine intrinseco cui ubbi- disce l’evoluzione o
il divenire naturale, ma che non riesco mai a penetrare fino in fondo, a
cogliere nella sua totalità; vi è come un segreto nelle cose che mi meraviglia
e stupisce. Nè la mia volontà è arbitrio cieco: mi conduco nella vita secondo
norme, a cui riconosco, anche quando ad esse mi sottraggo, validità, forza
obbligante. Donde queste norme? Della mia condotta mi sento responsabile, anche
quando sem- bra che l’ambiente mi domini fino al punto da fare appa- rire la
mia azione la risultante necessaria della sua influenza 82 Filosofia e
Metafisica determinante; responsabile appunto di non avere saputo rea- gire ad
esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ? In breve, l’esistente
contingente limitato finito è consa- pevole, in quanto essere razionale, che vi
è nel mondo natu- rale un ordine che lo governa e in lui un ordine di pen- siero
o di verità e uno morale o di bene non contingenti e non precari, indipendenti
dall’inizio e dalla fine della sua esistenza; dunque, io contingente e finito —
ed ogni cosa — «esisto » in quanto partecipo dell’« essere », perchè « sono » in
questa partecipazione, altrimenti non sarei affatto. A_ que- sto punto: 4) ogni
esistente contingente e finito non è il « principio » di se stesso, quantunque
sia la « causa » di ogni atto della sua vita; 5) non è principio di quanto è di
non-con- tingente in lui contingente, quantunque sia la causa di quanto pensi
ed operi in conformità di esso. Tali riflessioni sono sufficienti per formulare
la seguente ipotesi: esiste un Essere o un Principio intelligente — altri- menti
non potrebbe essere principio di me « persona », sog- getto intelligente e
volente e di quante persone sono state, sono e saranno —; trascendente — se no
sarebbe natura ocosmo —; esistente da sè — altrimenti sarebbe un ente con- tingente,
46 aglio —, cioè ipsum esse subsistens, e perciò per- fettissimo, Principio
assoluto di tutte le cose, dell’ordine del pensiero e della volontà come di
quello della natura, sor- gente di ogni esistenza e Provvidenza governante
quanto fa esistere? È l'ipotesi Dio. Vi è dunque una reale condizione umana, e
del mondo su cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza del- l’Essere
intelligente, trascendente, esistente da sè e provvi- dente, a cui si dà il
nome di Dio; eliminabile solo nel caso che fosse possibile dimostrare la
non-contingenza di ogni singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità,
dare una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e fisica da
renderla « superflua »; in altri termini, solo se si L'esistenza di Dio 83 dimostra
razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, è autosufficiente,
metafisicamente autonomo ed indipenden- te, fondamento assoluto di sè a se
stesso. Ma se così fosse — il fatto che dei filosofi lo abbiano «immaginato »
non è una soluzione razionalmente valida — l’ipotesi « Dio» non sarebbe mai
nata (?). Si può anche « sospendere » 0 met- terla da parte assieme ai problemi
che sempre la fanno e la faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia alla
suprema conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei pro- blemi
radicali non solo della filosofia, ma anche della più ingenua coscienza umana e
direi del più elementare senso comune, dove pure quei problemi sono presenti.
Posizione, dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilo- sofica,
quale è quella di un sapere puramente empirico ed anche scientifico nel senso
delle scienze naturali; positivismo, quali che siano le sue sfumature o
camuffamenti, anche quando si chiama « filosofia dello spirito » 0 « storicismo
», pretesa risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scien- ze, del
«valore» nei « fatti» o nelle «opere », del « per- chè » nel «come ». Ma la
ricerca speculativa comincia pre- cisamente dall’insufficienza di fronte ai
massimi problemi del sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto,
sono ben lungi dal poter risolvere in sè la filosofia, che li oltrepassa e
nella quale, da ultimo, trova fondamento la (2) Risulta senza fondamento
l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa esistente è contingente e
temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità è necessario ed eterno,
non svente un principio e una fine: è sempre stato € sempre sarà così com'è,
pur divenendo — nascono, crescono e muoiono — gli esseri particolari. Chi così
pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una metafisica puramente
naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il problema « primo »
della « filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le « cause del divenire
», ma non si pone la questione del suo « principio » e delle sue stesse cause
immanenti; oppure confonde la « sufficienza » del mondo — ha in se stesso le
cause che lo governano — con la sua « autosufficienza »: ha in sè il principio da
cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi « Dio » diventa super- flua;
ma tale « irreale » assolutizzazione è un'estrapolazione arbitraria del
concetto di sufficienza del mondo, o una limitazione del problema al
naturalistico e scien- tifico «come », che non è ancora il problema metafisico
e filosofico del « perchè ». 84 Filosofia e Metafisica loro stessa validità
conosativa (*). Per conseguenza, anche la più embrionale posizione filosofica
non può evitare l’ipo- tesi « Dio », che pertanto risulta ineliminabile e
razional- mente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che ra- zionalmente
provata. Se l’ipotesi « Dio » non è eliminabile, in quanto ogni ente e il mondo
nella sua totalità non risultano metafisica- mente autosufficienti, consegue
che ha origine dalla coscien- za dei nostri limiti e della nostra
insufficienza. Non che nasca dalla « mancanza », da ciò che « non siamo »,
quasi dal nostro « non-essere », in quanto ciò che non è non è e non pone
problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro « essere », cioè dalla nostra
realtà relativa e contingente, ma sempre « realtà »; dalla nostra condizione di
esseri reali, sufficienti nei limiti del nostro essere umano, ma non auto- sufficienti;
dunque dal senso radicale (metafisico) di dipen- denza di una realtà — noi e il
mondo — da un'altra Realtà « possibile » fino a quando siamo ancora
nell’ipotesi; in bre- ve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di
partecipare dell’essere. Una « filosofia dell’esistenza », nel- la quale
quest’ultima è una « possibilità » fuori dell’essere, è semplicemente una
filosofia del nulla e il nulla della filo- sofia. 2. — Di quale Essere si vuole
dimostrare l'esistenza quando si pone l'ipotesi « Dio ». Non di un essere «
qualunque », in quanto i dati reali da cui sorge l’ipotesi esigono la
dimostrazione dell’esistenza di un essere adeguato alla soluzione dei problemi
posti: (3) Sospendere l’ipotesi « Dio », come vedremo a suo luogo, è proiettare
ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori dell'essere, gettarli nella
pura empiricità, privarli della loro onticità; è fermarsi al mero fenomenico,
alla esi- stenzialità priva di essere, che è il nulla; ma l’esistenza, appunto
perchè tale, im- plica l’essere, senza di cui non è. Pertanto, il problema di
Dio è interno, non esterno, all’ente pensante; anche quando lo si pone come
ipotesi, è già molto, di più. L'esistenza di Dio 85 a) origine del mondo e del
suo ordine; è) dello spirito, es- senza dell’uomo, e dunque dell’ordine di
verità e di bene che è in lui e lo rende capace di conoscere e volere, di pen- sare
il vero e di agire secondo una legge morale, di libertà e responsabilità; c)
finalità dell’universo, dell’azione di ogni singolo essere spirituale e del
significato dell’umana istoria. Meraviglia e stupore l’ordine dell’universo,
che non riescia- mo interamente a « comprendere » nell’orizzonte della no- stra
mente; stupore una mente che pensa, la complessità del- la più semplice
sensazione, la capacità di scoprire una ve- rità, di agire liberamente secondo
una legge; meraviglia e stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il « mostro
» uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere che poniamo come ipotesi, esplicativo
di tutta la realtà, non possiamo pensarlo se non incondizionatamente ed
immensurabilmente superiore a quanto è chiamato a spiegare, altrimenti
apparterrebbe al- l’ordine umano e naturale, sarebbe una realtà da spiegare come
le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltre- passano per la loro
enigmaticità il mondo umano e quello naturale, che pur non bastano a se stessi
e dunque mancano di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa infinitamente
l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto e che non può non
essere di ordine diverso. Di un ordine appunto trascendente e soprannaturale e
perciò impossibile, per la nostra mente, nell’ordine naturale, a penetrarsi
nella sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mez- zo di Dio; non
la creatura Lo conosce, ma Egli si fa cono- scere rivelandosi. L’enigma del
mondo naturale ed umano rimanda al Mistero Divino. D'altra parte, la
definizione no- minale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esi- stente
da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acqui- stare una più netta
coscienza della finitezza nostra e di ogni cosa, dei nostri limiti e della
nostra insufficienza; in breve, della nostra dipendenza essenziale dall’Essere
per ora ipote- 86 Filosofia e Metafisica ticamente posto. Di fronte a Dio,
infatti, la creatura si sente « niente »; l’immensurabilità con l’Essere la
spinge ad anni- chilirsi, senza che tuttavia perda la consapevolezza inequi- vocabile
che anch’essa è essere che vive, sente, pensa e vuole nell’essere. Così l’ente
finito, imbevuto dell’Essere, secondo un'espressione di Giovanni di S. Tommaso,
avverte centu- plicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi nell'azione
operosa e molteplice. Appare evidente che il « problema umano » di una pos- sibile
esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di « pro- blema filosofico »
nascente dalla riflessione sulla condizione dell’uomo e del mondo, non
discordano da quelli in cui si esprime la « coscienza religiosa » quando onora,
prega, ado- ra Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente diversi,
nell’unico dato alla parola « Dio », che univocamente esprime la posizione
umana del problema, la riflessione filo- sofica su di esso e l’esperienza o la
vita religiosa. Pertanto la. dimostrazione razionale, se possibile,
dell’ipotesi « Dio », de- ve tener conto della realtà umano-naturale, dei suoi
pro- blemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e dell’esperienza religiosa di cui
Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà tale, cioè, che dimostri realmente
quello che s'intende con la parola Dio. In breve: la riflessione filosofica,
chiamata a preci- sare le formule e a dare possibilmente la giustificazione ra-
zionale dell’ipotesi dimostrandola verità universalmente e ne- cessariamente
valida, deve rispondere a suzta la domanda da cui l’ipotesi nasce, cioè alla
condizione umana nella sua to- talità e, per conseguenza, anche alla coscienza
religiosa, a cui appartiene in proprio il termine Dio. Oltre a ciò, la forza normale
della dimostrazione si misura sull’uso del termine Dio in maniera rispondente a
come esso è presentato dalla condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti,
alla fine del discorso, pur dicendo di avere o no provato la verità del- l'ipotesi,
si è in effetti provata o non provata altra cosa. L'esistenza di Dio 87 La
risposta filosofica, chiamata ad adeguare la integralità della realtà da cui
sorge l’ipotesi « Dio », deve essere soluzio- ne integrale della filosofia
integrale. L’ipotesi va posta in di- scussione, così come essa è, affinchè la
filosofia indaghi se sia possibile dimostrarla razionalmente così come essa è,
se « ra- zionale » e « ragionevole »; in caso affermativo, la realtà ha la sua
spiegazione integrale e la religione la garanzia del fondamento razionale (“).
L’ipotesi « Dio» nasce da una reale problematica umana; la ricerca razionale è
impegnata a confermarla o a smentirla, a dire se e fino a che punto l’esi- stenza
dell’Essere intelligente e trascendente, creatore e prov- vidente, sia verità
razionalmente provata e perciò oggettiva- mente valida, o una pura verità di
fede, o un mero flatus vocis. 3. — L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos
». Come abbiamo detto, l’ipotesi « Dio » nasce dall’esistenza degli enti
contingenti e finiti, come tali non principio di se stessi; per conseguenza la
prova della verità, o non, del- l'ipotesi non può avere altro punto di partenza
che il mon- do :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o conoscenza
immediata dell’essere di Dio, che, secondo la religione cristiana, è di ordine
soprannaturale e non possi- bile per sua natura ad un'intelligenza finita quale
quella uma- na, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati. Dun- que, la
mente — supposta la dimostrazione della ipotesi — non può conoscere Dio
direttamente e in ciò che lo costi- (4) La definizione nominale del termine
Dio, necessaria per sapere di che cosa si vuol dimostrare l’esistenza e se
l'ipotesi sia razionalmente fondata, non pregiudica in alcun modo la soluzione
del problema. Si tratta di una semplice ipotesi di lavoro: la risposta può
essere totalmente o parzialmente negativa o positiva, come potrà anche
arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o respingere alcuni di
quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema dell’esistenza di Dio
e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche punto lo studio di
F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existen- ce de Dieu, «
Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 88 Filosofia e
Metafisica tuisce (quidditative), ma solo indirettamente per cognizione mediata
ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota quoad nos (6) non vi
sarebbe problema nè bisogno di dimo- strazione razionale, ma solo una verità
evidente per se stes- sa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno
fede non sentono necessità di alcuna dimostrazione tanta è la forza del loro
credo, anche se il problema si chiarisse, poi, come esplicitazione di un
implicito originario e la dimostra- zione come consapevolezza di una presenza.
Ma evidente- mente, altro è l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione razionale,
anche se quest’ultima non può e non deve elimi- nare o abolire la prima, dalla
quale pur restando (come de- ve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque
necessità della dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto a noi;
ma necessità anche di far convergere ed operare in essa quanti elementi
legittimi in noi e nelle cose possano concorrere a renderla più efficace e
completa. In altri ter- mini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a no- stra
disposizione e il cui uso è razionalmente consentito. 4. — Da quale dato reale
è conveniente partire per pro- vare la verità dell'ipotesi « Dio ». È vero che
di Dio non vi è intuizione immediata e vi è problema della sua esistenza, e
possibile dimostrazione il cui punto di partenza sono le cose dell’ordine
naturale, og- getto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione « realtà
naturale » non comporta, anzi esclude, un significato restrittivo quale quello
di cose materiali od oggetti del mondo esterno. Tra gli enti dell’ordine
naturale vi è anche l’uomo, realtà spirituale, che è intelligenza e volontà,
avente un or- dine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di rego- lare
il pensiero e l’azione. La mente umana, nella sua condi- (5) S. Tommaso, S.
TA., Ia, q. 12, a. 4. (6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 L'esistenza
di Dio 89 zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine na- turale,
ma, da un lato, ha una naturale aspirazione all’in-finito e all’immutabile che
non potrebbe avere se, in qual- che modo, non avesse di esso una certa nozione,
sia pure oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di verità
intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî neces- sario ed immutabile, dato
che son questi gli attributi con- venienti all’essenza della verità; che, se è,
non può essere contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui l’uomo è
capace e la sua mente scopre non è la Verità in sè, bensì quella confacente
alla natura dell’uomo, ma essa: a) non è contingente e mutevole; 5) è
fecondatrice della mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è assoluta.
Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è ve- rità, sono dunque dati
reali diversi dagli altri; se sono su- periori ad ogni altro dell’ordine
naturale, sono le massime condizioni reali che danno origine all’ipotesi « Dio
». In- fatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali se- condo cui
giudica e i princìpi morali secondo cui libera- mente agisce, non sarebbe più
finito e contingente, nè la sua mente mutevole e limitata; dunque, è
contradditto- rio che un essere siffatto sia autore di principî neces- sari e
universali quali appunto quelli del pensiero e del- l’azione. Se si dimostrasse
che l’uomo (la mente umana in generale) è autore dell'ordine della verità e
della legislazione morale, sarebbe egli l’essere infinito, necessario e
assoluto; l'ipotesi « Dio » non si affaccerebbe alla nostra mente, venute meno
le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa che: 4) non è il principio
che fa esistere le cose naturali e le governa secondo un ordine; 5) non è
principio di se stesso, della vita organica e spirituale, della sua
intelligenza e vo- lontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che
egli e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e neces- sario è
capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato 90 Filosofia e Metafisica reale;
son proprio questi dati che pongono il problema del loro principio, cioè fanno
nascere l’ipotesi « Dio » nel senso sopra definito. Dunque, se il punto di
partenza è dai dati reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci sembra opportuno:
4) muovere da quello più idoneo per la prova dell’ipotesi, che, presentando
maggiore ricchezza e comples- sità, accrescerà la forza della dimostrazione; £)
senza esclu- dere gli altri possibili punti di partenza, in modo che le eventuali
prove si potenzino reciprocamente e conferiscano alla dimostrazione tutta la
sua forza normale. D'altra parte, se dei dati reali scelgo come punto di
partenza le cose ma- teriali è evidente che, perchè nasca il problema della
loro contingenza ed origine e da esso l’ipotesi « Dio », è neces- sario che
«rifletta » su di esse, mi ponga il problema della loro ragion d’essere e
significato, cioè che trascriva il mondo esterno in termini mentali o di
pensiero; ma porselo come problema è già trascriverlo in questi termini.
Pertanto non sono le cose come tali che pongono il problema della loro origine
e spiegazione e con esso l’ipotesi « Dio », ma il mondo esterno fatto oggetto
di riflessione; anche in questo caso, la prova non può non passare dal
pensiero, come meglio sarà chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo anche
accettare la nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a poste- riori,
ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. Se 4 posteriori
significa che non vi è intuizione diretta ed immediata di Dio, concordiamo
perfettamente che la Sua esi- stenza va provata 4 posteriori e che di Dio c’è
solo cono- scenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bi- sogna
partire dalla natura fisica per scoprire la causa non causata del suo esistere
e che non vi è nessun dato nell’uomo, nella vita dello spirito e la stessa vita
dello spirito, da cui è possibile partire, anche prescindendo dal mondo
esterno, respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente restrittivo
in quanto per il suo esclusivismo, già come punto L'esistenza di Dio 9I di
partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ra- gione umana lo
possa, la verità dell’ipotesi, contenente una ricchezza di elementi da esso
inadeguabili. Non si tratta solo di dimostrare se il mondo abbia un Architetto,
una Causa prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad esprimere
quanto è incluso nella definizione nominale di Dio. Inadeguati anche i concetti
di « Essere supremo » e di « Ente realissimo », che, pur entrando nella
definizione e nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene intesi,
indicano solo un Ente che può essere l’« Atto puro e immutabile » di
Aristotele, la « Sostanza unica e infinita » di Spinoza, il « Legislatore
dell’universo » degli Illuministi ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere
il contenuto -di quel che s'intende quando si dice « Dio », la cui esistenza qui
si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo in- dica come l’Essere
personale creatore e provvidente, cioè con- tiene quegli attributi che la
coscienza religiosa od anche la semplice condizione umana gli attribuiscono.
Ora, come so- pra abbiamo chiarito, l’ipotesi « Dio » nasce proprio dalla condizione
umana, che Dio definisce in termini non dissi- mili da quelli della coscienza
religiosa, ed è proposta alla ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo
contenuto. Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi tutta
la problematica della realtà umana — della vita spi- rituale e la stessa vita
spirituale, come la sua esperienza reli- giosa — oltre a quella della realtà
fisica. Non si può mo- nopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è
necessario che la dimostrazione sia tentata con la presenza operante di tutti
gli elementi e di tutti gli strumenti possibili, affinchè abbia tutta la sua
forza e, nello stesso tempo, soddisfi tutti i problemi e i dati reali che
l’hanno sollecitata. Si tratta di un problema che interessa il fondamento
assoluto della realtà: come totale è la sua portata, così totale devono essere
l’im- pegno e la possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo- 92 Filosofia
e Metafisica gica; ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia presente
e tutti i sensi del problema vi si trovino concorrenti e solidali nella loro
concretezza, è la logica dell’« integra- zione », di cui quella dell’«
esclusione » è solo un momento nella prima contenuto. 5. — Importanza dei «
dati » psicologici nella dimostrazione dell’ipotesi « Dio ». Pertanto a noi
sembra che non siano da trascurare tutti quei dati psicologici che, senza
essere la prova, ne sono i preliminari: le « disposizioni » dello spirito nel
loro insieme fanno parte dei « prolegomeni » di una dimostrazione con- creta
dell’ipotesi « Dio». Evidentemente non si tratta di « metterle al posto »
dell’argomentazione razionale, ma di giovarsi delle migliori o più favorevoli
condizioni perchè la stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua
capa- cità. Per esempio, liberarsi da alcuni pregiudizi — e il pre- giudizio è
di natura psicologica — è una specie di purifi- cazione che agevola
l’intrapresa della ragione; riconoscere che alcuni impedimenti sono apparenti o
illogici — quali la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo da
coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o che la metafisica possa
sottostare al metodo sperimentale, ecc. — è già un buon avvio. Così pure
acquistar coscienza dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che dalla
risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, il valore e il
significato della nostra come di ogni altra esi- stenza, è una disposizione non
accessoria, in quanto rende cautissimi nell’argomentare e concludere,
estremamente vi- gili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento tutte
le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa attentissima,
intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno un valore più che psicologico:
comportano la rettitudine della coscienza. Nè è da trascurare — anche se non
deve so- L'esistenza di Dio 93 stituire la dimostrazione — l’esperienza
religiosa sia comu- ne che privilegiata, quella delle grandi umili anime misti-
che e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione operante esigita
da una questione della portata di quella che qui si discute. Son tutte forze
concorrenti, anche se non determinanti in sede filosofica, alla realizzazione
di quel «clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confa- cente ad un
problema quale è quello dell’esistenza di Dio. In breve, crediamo che, per
scoprire e penetrare tutta la verità della prova e poterle aderire, sia
necessario conquistare la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò
non significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla nostra
accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa fosse priva di verità «
attraente », ma che tale condizione è elemento essenziale per cogliere tutta la
sua forza razionale. Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia essere la
verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla mente e contribuisce
a farle scoprire ed intendere la verità. Sempre dal punto di vista dei dati
psicologici, l’odierno «clima esistenzialista », quando non è deteriore
retorica o decadentismo e maniera, come presa di coscienza della « con- dizione
» umana, senso dell’indigenza, del peccato, della morte ecc. ha la sua
importanza in sede di preparazione alla prova (7), anche se da solo
insufficientissimo, in quan- to l’aspetto essenziale di tale preparazione è
proprio il sen- so della positività del nostro essere, senza della quale «la (7)
L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della discussione, anche se
spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contri- buito
a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche modo,
anche se entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come « smon- «danizzato
», esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teolo- gico.
Ciò spiega, perchè i cosidetti sostenitori del « nuovo razionalismo » marxista e
di tanti « nuovi umanesimi assoluti » combattono anche le forme atee di esi- stenzialismo,
preoccupati che questo « stato d’animo », per sua natura, alimenti sotto le
ceneri del « finito » un’esigenza religiosa e trascendentistica. Spiega ancora perchè
qualche inguaribile cultore di « scienze mondane » abbia sprezzantemente qualificato
la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di « praefatio ad missam ». 94
Filosofia e Metafisica condizione » umana sarebbe pura possibilità, illusione,
nien- te: non vi sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, nè di Dio
(*). Ma anche nella sua pienezza, la preparazione psicologica non è la
soluzione del problema, non data esclu- sivamente da un'esperienza di tal
natura nè solo da quella religiosa, come sostiene il Bergson; è come dire che
non vi è prova razionale oggettivamente valida dell’esistenza di Dio. D'altra
parte, come ancora dice il Bergson, con un significato che non è precisamente
il nostro, la soluzione va posta ed affrontata « sperimentalmente », cioè
tenendo conto di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in
quanto la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data alla
nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici non debbono escludere
od ostacolare metodi e dati razionali, allo stesso modo questi ultimi non
debbono fare a meno dei primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse
una questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geo- metrica
razionalità e fosse possibile operare un’astrazione dell’uomo concreto, quando,
come abbiamo visto, dalla sua vita integrale nasce l’ipotesi « Dio ». Non
comprendiamo perchè nessuno pretende di « liberare » il poeta, l’artista, lo scienziato
da quelle condizioni preliminari che favoriscono la risposta al bello o al vero
e perchè invece si vuol pretendere (8) L'esistenza come pura « possibilità »
non è, è la non esistenza, cioè un non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè
angoscia, in quanto fin dall’inizio ci si colloca nel nulla; si ha la certezza
che la partita è perduta in partenza, dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè
l’esistenzialista s’inebria del nulla e del- l’assurdo dell’esistenza: non c’è
più rischio, la catastrofe è scontata in anticipo; la tragedia, nel suo stesso
porsi, si tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del dialettismo dello Hegel;
l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa del reale e del
pensiero, « divora » l'essere dall'interno e divorandolo lo ali- menta. Per
conseguenza la tragedia del Reale, che è quella della Ragione, s’iden- tifica
col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio eterno. Tutto il senso tragico
dell’antinomismo svanisce una volta che il male e l'errore, le cadute e le
colpe sono necessarie alla vita della Ragione assoluta e al suo perenne
conquistarsi: tutto è perfettamente ordinato, pacifico. Una volta che il nulla
e la contraddi- zione si assumono al posto dell’essere, si accetta la
negatività pura: non c’è più problema nè dell’esistenza nè del reale e perciò
non c’è problema di Dio: c’'è_ l'assurdo all'inizio e alla fine. L'esistenza di
Dio 95 che il filosofo, il quale si accinge a provare, con le armi del- la
ragione la più rigorosa ed intransigente, l’ipotesi « Dio » nascente dalla
totalità del reale che da questa soluzione aspet- ta intelligibilità profonda,
abbia a prescindere da tutti quei dati psicologici che fanno parte della
concreta vita spirituale, la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti,
la questione che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere se i
dati reali della nostra esperienza siano o no metafisica- mente intelligibili,
in quanto tale intelligibilità dipende ap- punto dall’esistenza, o non,
dell'Essere personale e trascen- dente, creatore e provvidente, principio
esplicativo di ogni fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 6. — La
pregiudiziale critica da cui muove il problema del- l’esistenza di Dio. Notiamo
a questo punto che il problema dell’esistenza di Dio e della metafisica in
generale muove da una pregiudi- ziale critica, non da quella, propria di Kant,
di saggiare, prima di affrontare il problema, le capacità della ragione — farla
giudice di se stessa: imputata e giudice insieme — per accertare se abbia o no
il diritto di oltrepassare l’esperien- za, bensì dall’altra che l’esperienza
stessa e quanto in essa è dato, approfonditi criticamente, restano
metafisicamente inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve.
Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce alla radice
stessa del problema critico. Ma ciò non deve in- durci, senza sufficienti prove
razionali, ad ammettere ugual- mente che Dio esiste (conclusione « edificante
», ma non fi- losofica) per il timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligi-
bile. D'altra parte, proprio l’esperienza della nostra finitezza e di ogni cosa
esistente, tutta l’esperienza non bastante a sè stessa e perciò incapace di
autospiegarsi, pone il problema della sua intelligibilità e con esso fa nascere
l’ipotesi « Dio » come possibile soluzione: il finito come tale esige il che %
Filosofia e Metafisica cosa lo spieghi e giustifichi. Che non può essere pure
un finito, in quanto ancora problema e non soluzione; dunque, se è, dev'essere
« qualcosa che esiste da sè », che, principio di se stesso, può rendere conto
definitivo ed ultimo di quan- te cose esistono « non da sè ». Non è neppure un
qualcosa ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere il Prin- cipio delle
cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza suprema. È precisamente
l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 7. — La realtà spirituale punto di partenza
della dimostra- zione dell'ipotesi Dio”. Prima di procedere fissiamo qualche
conclusione utile a precisare i termini della questione: 4) il problema
dell’esi- stenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale finito
del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, non può avere in se stesso
il suo principio e pone il pro- blema della sua origine e della sua suprema
intelligibilità; c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della ipotesi
« Dio », non può non partire dalla realtà finita che la fa nascere e la
presenta alla riflessione: dall’esistenza di esseri limitati, dal fatto che
degli enti sono, senza essere il principio di se stessi. Mettiamo da parte
inizialmente, salvo a saggiarne in seguito la validità e a recuperare il
recupera- bile, la prova che muovendo dall’Idea di Dio, 4 priori, at- traverso
l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce l’esistenza. Accettato come
punto di partenza il reale contingente fi- nito, ci sembra quanto mai
conveniente ed anche necessario muovere da quell’ente che presenta una maggiore
comples- sità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più alto, tanto da non
essere una parte tra le altre dell’universo, ma come il centro e la sintesi; e
più ancora, in quanto il compimento della vita spirituale di un solo uomo
trascende l’universo intero. L’uomo non è soltanto un reale finito, ma è il
solo L'esistenza di Dio 97 dotato di pensiero, capace di volere e conoscere
razionalmen- te, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli enti finiti di cui
ab- biamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità me- tafisica
della sua esistenza e con esso l’ipotesi « Dio ». D'altra parte, anche se
scegliamo come punto di partenza quel reale finito che è il mondo detto
materiale, o un suo particolare aspetto, siamo sempre costretti, come già
accennato, a porlo come oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha di
intelligibile: perciò l’oggetto del nostro pensiero non è il mondo materiale
come tale, ma i suoi elementi concettuali. Il punto di partenza, anche in
questo caso, è sempre l’uomo soggetto pensante e capace di conoscenza
razionale, cioè sono i dati mentali che non sono le cose materiali, ma il
risultato della riflessione su di esse. D'altra parte, l’uomo non potrebbe
pensare se non fosse e non vivesse, se non fosse un essere vivente, ma l’essere
e il vivere non implicano necessariamente il pensare. Infatti, si può essere
senza vivere e pensare (una pietra), ma non si può vivere senza essere (il
vivere importa necessariamente l’es- sere); però si può vivere senza pensare
(una pianta, un cane), mentre non si può pensare senza essere e vivere, almeno nella
condizione terrena degli esseri pensanti: dunque il pen- sare implica l’essere
e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è superiore all’essere e al vivere: non
si può pensare senza es- sere e vivere, ma il pensare non è attributo
essenziale di ogni essere e di ogni vivente, bensì di una specie di esseri
viventi e dunque è è più del puro essere e del puro vivere in quanto coscienza
di essere e di vivere e, posto, implica gli altri due; 5) il soggetto pensante,
che come tale implica nell’ordine na- turale l’essere e il vivere, è quel dato
reale che, nella sua in- terezza di organismo e pensiero, di materia e spirito,
è ciò che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello che non
sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza, pos- (9) S. Agostino, De libero
arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 98 Filosofia e Metafisica siede, in questo senso,
tutti gli elementi essenziali della real- tà finita. Dovendo partire per la
dimostrazione dell’ipotesi «Dio » dai reali finiti, mi pare estremamente
conveniente scegliere come punto di partenza quello che è (come sono tut- ti
gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e pensa (come solo a lui
è concesso); che dunque assomma in sè tutte le categorie essenziali del reale.
Ma è solo conve- niente, o anche necessario? Abbiamo detto che, tra tutti gli
enti finiti, l’ipotesi «Dio» nasce nell’uomo, sia dalla riflessione sul mondo
fisico come indica la semplice domanda: «chi ha mai fatto tutte que- ste cose?
», sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che dobbiamo portare la
nostra attenzione al fine di ricavarne quanti elementi preliminari ci è
consentito dal rigore della ricerca e dall'obbligo di non pregiudicare la
dimostrazione. Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza della sua finitezza
e contingenza, che è però anche e innanzi tutto con- sapevolezza di essere,
della miseria del dolore e della morte, di quanto lo fa consapevole che non
basta a se stesso, 20 è da sè. La consapevolezza di tale condizione è propria
del- l’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non del
gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, l’ipotesi « Dio » è
posta e la sua dimostrazione richiesta dal- l’uomo per l’uomo, quasi appello
della sua condizione af- finchè tenti di capire veramente qualcosa di
essenziale e de- finitivo della propria esistenza e del suo significato. In
altri termini, l'ipotesi « Dio » non nasce dal dato contingente co- me tale,
pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consape- volezza della sua
contingenza, cioè da un elemento spiritua- le; non dal puro fatto — a cui si
ferma la mentalità positi- vista, che perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora
il pro- blema dell’intelligibilità metafisica del reale — ma dalla co- scienza
del fatto, che importa già una valutazione di esso e un passaggio dal piano
empirico a quello ontico o dell’essere. L'esistenza di Dio 99 del dato stesso.
Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi « Dio » e da cui bisogna partire. Abbiamo
anche accennato all’aspetto religioso del proble- ma: alla essenzialità di Dio
per l’esperienza religiosa, all’im- portanza che essa ha per una possibile
dimostrazione raziona- le (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico
dell’esi- stenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al termine
così come è definito sulla base della condizione uma- na e creduto dalla fede
religiosa; alla ragione si chiede di dimostrare la verità di quel che si crede
affinchè l’uomo « sappia » che è vero quello che «crede ». Chi rinunzia a partire
dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana e religiosa, a cui il
problema appartiene e che lo presenta al- l’esame della ragione, lo depaupera,
quasi lo appiattisce. Dal filo d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio
dell’espe- rienza umana in tutta la sua pienezza e della coscienza reli- giosa;
d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a prescindere dall’uomo,
che quel problema vede nascere dal- la sua condizione. Ammettiamo che ogni ente
di natura abbia una finalità, cioè che la sua vita si esplichi attraverso mezzi
necessari di- sposti e combinati in modo da raggiungere il fine che le è proprio
e precede e domina la disposizione e la combinazione dei mezzi stessi (!!). E’
evidente che esso: 2) non ha la cono- scenza del fine; 3) non si da sè la
capacità di disporre e com- binare i mezzi per il suo raggiungimento; dunque,
con- clude, la finalità naturale presuppone un’Intelligenza che non è nelle
stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò im- (10) Giustamente è stato
notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu, Éditions du Temoignage
chretien, 1941, p. 54) che la nostra epoca ha perduto, almeno temporaneamente,
« il gusto di Dio »; se questo gusto tornasse, le prove riapparirebbero « plus
claires que le jour ». (11) Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza una
finalità degli orga- nismi viventi, una specie di loro « pensiero » embrionale
o di orientamento delle forme della loro attività vitale verso una unità di
realizzazione quasi che tale attività sia dotata di una specie di « potere
sintetico ». 100 Filosofia e Metafisicaporta: ) dell’intelligenza che il mondo
fisico presuppone c'è conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata
di essa in quanto ne è dotato, egli stesso « fatto » sperimentale della
presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consa- pevolezza del fine a
cui sono ordinate, nè sanno che il loro ordine presuppone un'intelligenza,
mentre l’uomo ha consa- pevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè
l’in- telligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; dunque sa
che il suo essere ente intelligente pone il problema della sua origine come
tale. In breve, il problema del riman- do dalla finalità delle cose
all’Intelligenza da cui sono state ordinate non nasce direttamente e direi
spontaneamente co- me quello del rimando dall’uomo-ente intelligente
all’Intelli- genza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo ha
di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta efficace sicura la
via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle cose (in questo caso dalla loro
finalità) è indiretta e si conside- ra in un secondo tempo. Senza dire che la
vita dell’ente in- telligente comporta tale ricchezza di esperienza e di valori
co- ‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera cosa la
finalità inconsapevole del mondo fisico. Un'altra considerazione ci sembra
decisiva per accettare il reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione
dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa esistenza
all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quan- to conosce e bene di
quanto vuole, cioè se è capace di cono- scere la verità a cui è obbligato ad
uniformare la propria condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di
giu- dizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe neppure; se
ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme che considera vere, cioè
oggettivamente valide e tali da ga- rantire la veridicità dei suoi giudizi e
delle sue dimostrazioni. Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua
condizione, con- sidera l’ipotesi « Dio » e ne tenta la dimostrazione, si
consi- L'esistenza di Dio 101 dera già in possesso di alcune verità che rendono
validi i suoi giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento metafisico
della conoscenza: le verità fondamentali e prima- li, senza cui non vi sarebbe
discorso e dimostrazione, sono il prodotto della mente, «poste » da essa, o
sono alla mente « presenti » e da essa soltanto « scoperte »? Nel primo caso la
loro validità si presenta notevolmente sospetta, in quanto il prodotto della
mente mutevole, capace di errore, di un esse- re finito e contingente non dà
alcuna garanzia di universali- tà, immutabilità e necessità, cioè di possedere
gli attributi essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa
contingen- za e finitezza ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi i «
creatori » della verità; se non altro lascia in dubbio e in- duce a pensare che
se mai siamo « portatori » attivi di essa, che in questo caso è «oggetto »
della nostra mente e, co- me tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma se è
così, la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa cono- sciuta o
scoperta, pone il problema della sua origine e del come ne siamo in possesso,
cioè del da dove sia entrata in noi. Problema che l’uomo non può lasciare
sospeso o trascurare, in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di
quel- l’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed agisce,
attua la sua vita spirituale; è il problema della intelli- gibilità profonda
del reale non solo umano ma anche naturale, in quanto le cose sono
intelligibili per il loro ordine, da cui, come sappiamo, nasce, quale eventuale
soluzione, l’ipotesi « Dio ». Ammettiamo pure provvisoriamente che sia
conveniente e necessario partire dalle cose del mondo esterno invece che dalla
realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto della vita spirituale
mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidente- mente la dimostrazione o la
catena dei ragionamenti si ser- ve di norme o principî che considera veri, cioè
oggettiva- mente validi (per esempio, il principio di causalità), tali da 102
Filosofia e Metafisica garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di
essi im- rta già avere risolto il problema, da noi posto sopra, del- l'origine
della verità di cui la mente umana è capace, se suo prodotto o suo oggetto e,
in quest’ultimo caso, del come ne sia in possesso. Dunque il punto di partenza
dalle cose ma- teriali presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, il
solo capace di un ordine di verità, ed in esso resta incluso. Se si dice che
nell’uomo non vi è nulla di necessario e immu- tabile, in tal caso: @) si nega
che egli possieda verità e con ciò stesso che possa provare l’ipotesi « Dio »;
5) non si spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella delle
altre cose, avvertibili solo se ha una certa nozione di ciò che è necessario e
infinito, cioè se sa cosa significhi la parola « verità ». Ma il solo sapere
che è verità è già una verità e, come tale, qualcosa di immutabile e
necessario, che appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le cose
finite sono contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa condizione di un
contingente in cui è in certo modo presente un che di immutabile, infinito e
necessario pone il problema della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi
« Dio ». Da qualunque punto di vista si consideri la questione, il pro- blema
dell’esistenza di Dio si presenta come essenzialmente antropologico e solo
subordinatamente cosmologico. Non pro- blema posto da qualcosa di astrattamente
concettuale nè dalle cose materiali, ma che interessa la realtà umana
integrale, considerata nella sintesi dinamica e nella compresenzialità di tutti
gli elementi che la costituiscono, desiderosa d’intelli- gibilità totale e
perciò nello stazo reale di aspirazione al pos- sesso della suprema verità
metafisica, fondamento e prin- cipio dell’intelligibilità della vita
spirituale. L'ipotesi « Dio » è suscitata dal bisogno di una conoscenza
radicale del reale finito, dall’urgenza di sapere se gli esseri contingenti
abbia- no o no un senso assoluto. Si tratta di un'esigenza, e dalla sola
esigenza non si può. L'esistenza di Dio 103 concludere all’affermazione;
tuttavia, non si può negare che essa, non dimostrativa per se stessa, è almeno
indicativa. Nel nostro caso, indica una condizione reale della vita dello spi- rito
e precisamente quella di conoscere la verità della sua verità di se stesso e
della realtà finita in generale. In questo la verità che vuol conoscere, anche
la più elementare e po- vera, ha sempre come scopo ultimo, anche senza
esplicita con- sapevolezza, di acquistare una maggiore conoscenza della verità
di se stesso e della realtà finita in generale. In questo senso, sia pure
oscuramente, anche inconsapevolmente, cer- care è cercare il senso assoluto
dell’esistenza, la sua intelligi- bilità metafisica; ma è questo il problema
donde nasce l’ipo- tesi « Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indiret- tamente,
il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere perso- nale e trascendente. Vi è
nello spirito, per il fatto che si av- verte finito, un senso immanente
dell’Essere che l’oltrepas- sa (!); c'è una nozione oscura, implicito
originario, di quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa co- me
Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psico- logico-antropologico, è
intimamente legato al problema del- l’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi
anche l’altro. Le realtà psicologiche pongono l’ipotesi « Dio » (psicologismo
che non è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro significato
totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentri- smo). Reali, dunque, i
dati da spiegare, realista il metodo della ricerca; la finitezza dell’ente
contingente e aspirante a sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la
sua aspi- razione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ulti- ma se
nello spirito finito non fosse presente una certa nozio- ne dell’assoluto
infinito, oscura e confusa quanto si voglia. (12) Non si fraintenda: non
immanenza della trascendenza nell’ente finito come quella che è « posta » dallo
stesso ente finito, per cui la trascendenza si risolve nell’immanenza dell'atto
che la pone o in una condizione dell’esistente — pseudo-trascendenza di alcune
forme di idealismo immanentista e di esistenzia- lismo — ma presenza della
trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere che l’uomo non pone e
dal quale è posto e oltrepassato. 104 Filosofia e Metafisica Il dato uomo è
costituito da un insieme di dati, di cui deve tener conto, proprio per rigore e
scientificità d’indagine, qua- lunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi «
Dio» per saggiarne l’importanza, la portata e quel che significa o in- dica la
loro presenza. Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spie- gano
da se stessi non essendo assoluti ed infiniti. La celebre formula cartesiana,
che qui non discutiamo, non dà dun- que la soluzione del problema di me ente
finito, bensì indica solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio
questa condizione pone il problema di se stessa o se stessa come pro- blema;
pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque il mio essere come il mio pensiero
sono dati; ma donde sono essere e pen- siero o n essere che pensa? È evidente
che il cogito, ergo sum suscita il problema del da chi sono stato pensato e
sono pensato per esistere come essere finito pensante. Fino a quan- do non
l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità piena del mio essere e ignorerò
le radici del mio pensare e conoscere. Qual’è il principio che fa essere me
cogitante? Pongo l’ipo- tesi « Dio ». Nel caso che riescirò a provarla,
concluderò che l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere un
ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, ma in maniera completa
e più vera: Cogitatus sum et cogitor, ergo sum ens cogitans. Questa formula non
esprime più sol- tanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia
real- tà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in pri- mo'luogo,
la intelligibilità radicale e profonda di me. Per la soluzione del problema
metafisico che comporta, essa fa che io contingente e finito mi avverta ormai
bastevole a me stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere, del
mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giu- stificazione del senso
assoluto della mia esistenza e della mia vita, del mio conoscere e volere. Non
è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazio- L'esistenza di Dio 105 ni
errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: in sè assurdo,
il quale acquista senso intelligibile solo se si ammette l’esistenza di Dio.
Infatti l'affermazione, « l’univer- so è in sè assurdo », non comporta neppure
la formulazione dell’ipotesi, che non ha senso quando si è già concluso che l’universo
è assurdo; anzi si può pensare assurdo solo per- chè in partenza è escluso che
Dio esiste. Quell’affermazione è conclusiva; perciò non ha senso dire che solo
ammettendo. l’esistenza di Dio l’universo acquista un senso. Pertanto, per il
fatto stesso che l’ente pensante si pone il problema del- l’esistenza di Dio,
almeno non si può escludere a priori che l’universo abbia un senso; ma, se è
così, risulta senza senso la tesi di un fideismo aberrante: l’universo in sè è
assurdo, ma «ciononostante » ammetto l’esistenza di Dio e dunque tutto mi
diventa comprensibile. Tutto, tranne che esista Dio, se l’universo è assurdo. «
Non è Dio che non accetto, com- prendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, « ma
il mondo da lui creato; è il mondo di Dio che non accetto e non posso ri- solvermi
ad accettare ». Già, perchè assurdo o tutto negativo; dunque non può accettare
neppure Dio. Qui si annida an- che un sofisma: se tutto nell’universo è
assurdo, è anche assurda l’affermazione che tutto è assurdo, ma chi con- clude
che tutto nell’universo è assurdo, ritiene vera, non assurda, questa
conclusione: dunque non tutto è assurdo in quanto ammettere che una cosa è vera
è ammettere un pen- siero capace di verità. Qui appunto nasce il problema: per-
chè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io che penso? donde sono? Ciò
pone l’ipotesi « Dio » e fa che sia « ragio- nevole », conveniente senza
limitazioni alla ragione, e sia « assurdo » il non porla o rigettarla senza
previa discussione impegnatissima. Da ciò consegue che il senso assoluto del
reale che cer- chiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà finita.
Se così fosse, non penserei all’ipotesi « Dio » in quanto. l'oggetto della mia
ricerca continuerebbe ad essere la realtà 106 Filosofia e Metafisica mondana;
dunque, il solo porre l’ipotesi già orienta in altra direzione, in quella
dell’esistenza dell'Essere « trascendente ». Per conseguenza la posizione
razionale del problema sem- bra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita
e contingente; 5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere
da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esi- stente da sè non
posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno dei quali è assoluto ed
incondizionato, e neppure nell’unità o totalità (nel « mondo ») degli enti
finiti — Dio come unità impersonale è la più povera ed inerte delle finzioni —;
d) i quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza comune. Provare la
verità dell’ipotesi « Dio» significa scoprire se esiste l’Essere incondizionato
autosufficiente da cui tutto di- pende e a cui tutto tende, consapevolmente o
inconsapevol- mente. Carrroro II LA DIMOSTRAZIONE DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: A)
DALLA VERITA’ 1. — Impostazione dei termini del problema. Da quanto abbiamo
detto risulta che la nostra integra- zione del Cogito cartesiano è di
fondamentale importanza. Essa porta implicita questa affermazione: io sono
coscienza pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi ha fatto e mi fa
essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò signi- fica che il mio
pensiero — come quello di ogni ente pen- sante e di tutti, il pensiero umano o
dell’ordine naturale in generale -— non è principio di se stesso, non il Primo
meta- fisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al suo Prin- cipio, è
pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante per- chè è stato pensato. Qui
la differenza radicale (metafisica) tra l’idealismo
trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo trascendentale-mondano-antropocentrico,
che è egocentrismo ed egotismo anche quando è etica del dovere; scettici smo,
anche quando è panlogismo o sistema della scienza assoluta. Il primo è
idealismo del pensiero che rimanda al Pensiero, dell’essere che si abbevera, si
innova, si arricchisce e si compie nell’Essere; l’altro è idealismo del
pensiero uma- no o naturale — tutto immanente al « mondo » con cui si identifica
e perciò cosmico o cosmologico e non vera vita spirituale — assolutizzato con
un atto irrazionale, che, fa- cendone il Primo metafisico, lo chiude in se
stesso, lo re- 108 Filosofia e Metafisica cide, appassisce, essicca, in quanto
lo strappa al Pensiero, fon- te di ogni pensiero, all’Essere da cui deriva il
suo essere, per farne il Tutto, la cui condanna è il suo nulla, il Nulla. Il dilemma
dei due idealismi è il dilemma dell’uomo, della realtà, della verità: o l’uomo,
il reale, il vero sono da Dio e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è
vero; o l’uomo, la ragione naturale, il mondo e le verità umane sono essi stessi
l'Assoluto, il Primo, e questo tutto, fatto irragionevol- mente i/ Tutto,
precipita nel Nulla. O l’idealismo del Pen- siero e degli enti pensanti, quello
del cogitazus sum et cogitor, o l’idealismo del pensiero immanente che si
autopone (e perciò si autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da Cartesio,
gradualmente, ha penetrato il pensiero moderno e si è sviluppato fino a
culminare nello Hegel; dopo lo He- gel, precipitosamente, è sboccato, con
rigorosa consequenzia- lità, nelle odierne filosofie del « Nulla », del «
problema », delle « convenzioni », della pura « metodologia ». Era neces- sario,
affinchè fosse chiara la posizione dei due idealismi, anticipare queste
affermazioni, che il seguito del nostro di- scorso cercherà di approfondire. Il
problema che poniamo è quello della verità della mia esistenza e di quella di
ogni ente finito. In altri termini: io sono l’assoluta verità di me stesso, o
sono dalla e per la Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della
veri- tà o dell’essere di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del reale
o del senso assoluto dell’ente finito. Indagare se Dio esiste è sondare se vi è
la verità della verità di ogni ente crea- to e della verità che è in ciascun
ente pensante. Se il pro- blema è quello della verità degli enti, ancora una
volta ri- sulta necessario muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, che
concepisce il suo esistere in termini di verità o d'’intelli- gibilità.
Infatti, non la pura sensazione immediata fa sor- gere in noi il problema
dell’esistenza di Dio, ma la riflessione sulle cose. E riflessione significa
mediazione, giudizio; ma L'esistenza di Dio 109 non c’è giudizio senza
l’applicazione o l’uso di principi in base a cui si giudica. D'altra parte, se
dall’ordine delle cose materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono
do- tate di movimento, si argomenta intorno all’esistenza di Dio, si fa uso di
alcuni principi, per esempio di quello di cau- salità. In tal caso,
l’argomentazione a favore dell’esistenza di Dio dal mondo esterno si fonda
sulla validità oggettiva di quel principio, cioè su una verità; pertanto il
problema pri- mo è di sapere se la mente umana sia capace di verità, come si
trovino in essa o in qual modo le acquisti. Senza verità universalmente valida
nessun giudizio e nessuna argomen- tazione oggettiva sono possibili; similmente
non nascerebbe il problema dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamen- te
della nozione di una realtà non contingente e assoluta, se non fosse in noi una
presenza oscura ed operante di quel che cerchiamo; se non fossimo in qualche
modo nell’essere, cioè se non ne partecipassimo analogicamente; dalla totale contingenza
e relatività non nasce il problema del necessa- rio e dell’assoluto. La
dimostrazione dell’esistenza di Dio non può partire che dalla verità; ma essa è
per sua natura intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non può
partire, tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dal- l’ente che è mente,
pensiero, spirito: dall'uomo o dalla vita spirituale. La posizione del problema
si va sempre più precisando: a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli
di essi che sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla verità
non contingente e non finita di cui sono capaci, dato che la verità non può
essere che oggetto o contenuto di una mente. Se si prova che la mente finita è
capace di verità e dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio,
l’argo- mentazione può muovere anche partendo dalle cose mate- riali, in quanto
sappiamo che c’è verità e siamo capaci di 110 Filosofia e Metafisica conoscerla,
che la validità dei nostri giudizi è garantita dal- la oggettività di alcuni
principi; non è una nuova dimostra- zione, bensì un’applicazione di quella
dalla vita dello spi- rito, giacchè la verità della seconda prova è
condizionata, dipendente, da quella della prima, che la include, come in- clude
le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere l’uni- ca prova
dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. Così impostata, la questione si
presenta sotto forma di dilemma: o vi è verità e la mente umana ne partecipa, e
vi è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non è, o, se è,
la mente umana non ne partecipa affatto, e non vi è problema nè dimostrazione.
Il nihilismo, lo scetticismo, l’agnosticismo, il relativismo assoluti, negando
che vi è o si possa conoscere una verità necessaria universale immutabile, negano
con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio: per loro essenza, come
pensiero sono atei. Resta da dimostrare però che non vi è verità e, se vi è, la
mente umana non ne partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano
un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma tutta umana, del
solo ordine naturale o della sola universale ragione e ad essa immanente,
perchè se la ragione si fa crea- trice di verità assoluta, si divinizza contro
ragione: mute- vole e finita, è capace di « scoprire » verità assolute e non di
«crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità, non si può ammettere nè
dimostrare — ragionevolmente ammet- tere e razionalmente dimostrare — che la
ragione conosca verità assolute, per il semplice fatto che si è negata la ve- rità
nel momento stesso che la si fa figlia della ragione na- turale finita e
mutevole: o verità non è, ma se è, la ragione oltrepassa in quanto è alla
ragione data e non da essa posta. In altri termini: o non è verità e si arriva
alla conclusione assurda e contraddittoria che « è vero che niente è vero »; 0 è
verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, c’è il niente di
verità. L'esistenza di Dio 116 2. — Gli element: del giudizio e il problema
della sua vals- dità. Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un sog- getto
razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudi- care; c) delle norme o
principi in base a cui giudica. Atti- vità giudicante, nell’ordine della
natura, è soltanto l’uomo; in quanto ente razionale giudica, gli altri enti
sono giudi- cati. Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giu- dizio,
non solo le cose, ma anche se stesso e gli altri enti pensanti, e ogni singolo
ente pensante se stesso e gli altri. Da ciò consegue che, per quanto poco conto
possa fare delle umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella
sua pura empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quel- la concettuale.
Infatti, anche quando giudicassi che nessun concetto o giudizio è vero e che la
verità è nella sola e pura sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con
cui con- sidero vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio con cui
giudico vera la sensazione non è dovuto alla mia atti- vità sensitiva nè da
essa derivato, bensì alla mia attività ra- zionale; anche in questo caso, è
quest’ultima a pronunziare un giudizio di veridicità della conoscenza
sensoriale e di erroneità di quella concettuale; ma il giudizio con cui giu- dico
vera la prima e falsa la seconda è una conoscenza con- cettuale, la quale,
proprio per il fatto che si esprime in un giudizio, è superiore ad ogni
conoscenza sensoriale, di cui, contraddittoriamente, le si vuole contrapporre
la superiorità. Ora è evidente: se la ragione giudica la sensazione non può essere
da essa giudicata; ma la giudica in quanto fa uso di principî, senza di cui non
potrebbe formulare giudizi. Per conseguenza: se non c’è giudizio senza il
soggetto giudican- te secondo i principî del giudizio, la verità di ogni
giudizio non risiede nel soggetto giudicante contingente e finito — o nella
ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole — nè nella cosa sottoposta a
giudizio, anch’essa contingente, finita 112 Filosofia e Metafisica ed inferiore
allo stesso soggetto pensante per il fatto che è giudicata e incapace di
giudicare e giudicarsi, ma nei prin- «pi secondo cui il soggetto giudica (!).
Dunque vi è giu- dizio vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel giudicare
si serve di regole, di principî necessari, immutabili, universali,
assolutamente validi. Non sono pure « condizio- ni» del conoscere in sè vuote
come le « forme a priori » kantiane, ma conoscenze primali, originarie,
fondamento di ogni conoscenza vera. Che l’uomo sia capace di giudizi veri ci
risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna forma di scetticismo, com'è
provato dallo stesso argomento dello scet- tico, può negare che l’uomo sia
capace di verità; ma basta che egli lo sia anche di una sola, perchè consegua:
4) che è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti alla sua mente alcuni
principî, fondamento della veridicità di ogni giudi- zio vero. Infatti, chi
dubita conosce qualcosa di vero, se non altro che dubita ed esiste come ente
che dubita e s’inganna (si fallor, sum). Ma, come rileva Agostino (De vera
religione, c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la verità,
dato che « tutto ciò che è vero, è vero per la verità ». La profondità di
questa argomentazione non risiede nel pro- vare che l’uomo conosce alcune
verità, tra cui prima quella di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso
come dubi- tante ed ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in noi di un
solo vero sarebbe impossibile senza la presenza del lume della verità: se siamo
capaci di una sola verità, c’è in noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni
particolare verità, com- presa quella della coscienza che ogni singolo ha di
esistere, presuppone — altrimenti non sarebbe — una verità primale, (1) Un
giudizio può essere « formalmente » corretto e sostanzialmente erro- neo. Ciò
non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erro- nei, in
quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione che
enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i prin- cìpi
sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre gli
stessi princìpi. L'esistenza di Dio 113 di cui è una determinazione; 5) l’uomo
è l’artefice di tutte le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della
verità che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specifica- zione; c) le
verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in lui la verità che fa la mente
capace di conoscenze vere, ma la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè,
anche se ogni umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, cogito,
ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di cui sono artefice, ma non
è la verità prima, della quale la coscienza di me è solo la prima
determinazione, ma la verità prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque,
il sog- getto pensante — ma solo esso e non le verità che egli for- mula sul
fondamento di essa — le è necessario senza che ciò implichi che ne è il
creatore: il lume di verità è oggetto in- teriore della mente; f) per
conseguenza, la coscienza di me, il Cogito, prima verità di cui sono
l’artefice, non s’identifica con la verità prima, che la rende possibile e che,
interiore alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, appartenenza
dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni umana verità compresa quella
dell’autocoscienza, non è uma- na, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo
di verità attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di ve- rità,
ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, in lui, ma non da lui,
pone il problema di se stessa: prin- cipio di ogni vero del quale l’uomo è
artefice, pone il pro- blema del suo principio, che è il problema del Principio
pri- mo, della Verità o dell’Essere. Identificare il problema del conoscere o
gnoseologico con quello del suo fondamento o principio — problema ontologi- co-metafisico
— e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per superficiale acrisia, il
problema critico della conoscenza. La capacità umana di formulare giudizi veri
— verità prodotta dall'uomo — è soluzione del problema gnoseologico, ma è essa
stessa problema, che porta implicito l’altro del prin- 114 Filosofia e
Metafisica cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il problema del principio
del conoscere non è più gnoseologico, in quanto è problema della verità, fonte
di ogni vero, cioè della verità oggetto della mente e non suo prodotto; come
tale, di ordine «ontologico », non « gnoseologico ». È essa che fa nascere il
problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; dunque
l’ontologicità della verità — la verità è l’essere — pone il problema
metafisico del Principio: gnoseologia o dot- trina del giudizio; ontologia o
dottrina della verità prima in- teriore all’ente pensante; metafisica o
dottrina del Principio assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino
nell’uo- mo e dall’uomo a Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una verità
ontologica anteriore ad ogni particolare conoscenza ve- ra; 5) l’atto con cui
so di esistere, non solo mi dà la prima verità oggettiva, ma, quel che più
conta, mi attesta la pre- senza di un lume oggettivo di verità, di cui
l’autocoscienza è solo una determinazione, anche se la prima e la sola essen- ziale.
Dunque, verità primale e fondante in interiore homine, come oggetto della
mente, madre dello stesso pensare, per la quale il soggetto è pensante ed ha
coscienza di esistere come tale; la mente non adegua il suo lume di verità,
l’autoco- scienza non esaurisce l’interiorità; la verità in inzeriore ho- mine
per la sua stessa presenza, stimola, slancia, obbliga l’uo- mo a trascendere ez
se ipsum. Autocoscienza è coscienza di sè e di altro da sè; come au- tocoscienza
pura, l’« altro da sè » è l’oggetto o Idea, la ve- rità interiore, che il
soggetto coglie nell’atto che ha coscienza di sè come ente pensante; anzi ha
coscienza di sè perchè ha coscienza dell’altro, l’oggetto interiore o il lume
di verità, che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto stesso. L’inte- riorità
fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non l’autocoscienza come coscienza
di me soggetto pensante, ma l’autocoscienza come atto primo o prima
specificazione del- l’interiore verità pone il problema dell’esistenza di Dio,
nè. L'esistenza di Dio 15 può non porlo; le è necessariamente intrinseco: in
quanto partecipe dell’infinito della verità non può non porsi il pro- blema
dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e qual- siasi filosofia
dell’immanenza sono al di qua di questa proble- matica, nell’anticamera
dell’ontologia e della metafisica, che si rifiutano di riceverli fino a quando
si ostinano a fare filo- sofia della natura etichettata fraudolentemente per
filosofia dello spirito. 3. — I principî del giudizio non sono « posti » dalla
ragione, nè indotti dall'esperienza esterna. In quanto abbiamo detto ci sembra
implicitamente risol- ta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine
dei princìpi del giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed immutabili con
cui la ragione giudica ogni cosa, consegue: 1) la ragione non può sottoporre le
norme a giudizio, in quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio,
ces- serebbe di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o quelle che la
giudicano: o la norma è norma di giudizio e allora essa che giudica tutto non
può essere da nulla giu- dicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la
norma di giudizio, bensì quella che la giudica. 2) Se la ragione non può
giudicare le norme secondo cui giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio
errato, con- seguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto per
tale e corretto in base alle norme con cui la ragione giu- dica; dunque sono
esse che giudicano l’operato della ra- gione, se i giudizi che essa formula
siano veri od erronei. 3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla ragione,
da essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, superiori, in quanto,
secondo una celebre espressione di Ago- stino, non vi è dubbio che qui iudicat,
co de quo sudicat esse 116 Filosofia e Metafisica meltorem (*). In breve, ie
norme del giudizio o le verità che lo fondano non sono un prodotto
dell’attività razionale, in quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e
finita, sareb- bero anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che ren- dono
possibili i giudizi e l’attività della ragione e non vice- versa: non vi sono
norme vere perchè vi sono giudizi veri, ma vi sono giudizi veri in quanto la
ragione può disporre di norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa
stessa giudicata. La ragione non è madre ma figlia della verità, e, perchè
tale, madre a sua volta di verità; dunque l’origine delle verità che la fanno
vera non è da cercare in essa. Per- tanto altro è il problema della verità,
altro il problema del conoscere razionale. Torto dell’idealismo panlogistico di
Hegel, di alcuni suoi epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di ridurre
la metafisica a gnoseologia, identificando il proble- ma metafisico con quello
gnoseologico e dissolvendo quello del principio-fondamento del conoscere
nell’altro del cono- scere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere,
asso- lutizzato, si chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, consumando
la soppressione violenta ed arbitraria del pro- blema della verità o della
intelligibilità metafisica del cono- scere razionale. È la sopraffazione che la
ragione perpetra contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, fondata
dalla verità, si pone come fondante la verità stessa. La distinzione, in seno
all’idealismo di Hegel e all’hegeli- smo, rinasce nella forma della dualità
dialettica del pen- siero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo del-
l’autoposizione e dell’autonegazione del pensiero; e non può non rinascere in
quanto il conoscere razionale va in cerca del suo fondamento, del suo principio
che è la verità. Dissolto il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del
problema nella dialettica del pensiero, il problema del fondamento del (2) Il
lettore si sarà già accorto come l’argomentazione dalla verità, che stiamo
svolgendo per provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: Il
testo più completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. L'esistenza
di Dio 117 conoscere rinasce imperiosamente e si pone come problema ontologico
della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, e il pensare come tale, e
come problema metafisico del Prin- cipio assoluto, cioè della intelligibilità
della verità dello stes- so conoscere razionale e del senso e del fine
dell’uomo nella sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio non nasce nè
può nascere in una filosofia come «sistema dell’asso- luta scienza razionale »
in quanto in essa è dissolto il pro- blema della verità; nasce invece
all’interno della ricerca del fondamento assoluto o del Principio primo della
veridicità delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che indaga
sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // pro- blema dell'esistenza di
Dio è il problema della verità, che è l’oggetto primo ed interno della
filosofia; prima di essere problema della ragione o del giudizio sulle cose, è
problema della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della verità, lume
della ragione. 4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla ragione secondo
i princìpi del giudizio, non possono esse — contin- genti, mutevoli, finite e
inferiori alla stessa ragione — essere produttrici di tali verità; le cose
posseggono un grado di ve- rità o di essere (sono, per es., più o meno belle),
ma non la norma universale, con cui la ragione giudica del loro grado di essere
o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose stesse e preesiste al
giudizio che per mezzo suo la ragione pronunzia sulle cose. Voler ricavare
dall’esperienza senso- riale i princìpi del giudizio è rischiare, senza venire
a capo della questione, conclusioni scettiche, a cui, prima o poi, ar- riva
ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente non può essere fonte
dell’immutabile e necessario; il grado di verità che riscontriamo nelle cose
contingenti non solo non adegua la verità conosciuta con la mente, ma è cono- sciuto
e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme oggettive del giudizio.
Per conseguenza i princìpi immuta- bili, fondanti la veridicità dei giudizi,
non sono deducibili 118 Filosofia e Metafisica a priori dalla ragione per
analisi, nè sono un prodotto della sua attività; non inducibili 4 posteriori
nel senso di contenuti enucleati da una forma qualsiasi di esperienza
sensoriale. Donde, allora, questi princìpi? 4. — Ragione ed intelligenza:
l'intuito fondamentale dei principi del giudizio. Prima di rispondere a questa
domanda, è opportuno chia- rire un altro aspetto della questione. I princìpi
del giudizio sono noti alla ragione, che di essi si giova per giudicare; la sua
attività è discorsiva: stabilisce nessi e rapporti, formula giudizi e
costruisce il discorso. La ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non
ne ha co- noscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intel- ligenza
e applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività intuente i princìpi è
quella, diciamo così, che li adopera (*). Per conseguenza le verità sono
oggetto della intelligenza, ad essa presenti; la mente le vede in se stessa, le
scopre dentro di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno la
visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla mente presente
nell’ordine naturale; per la ragione sono, sì il suo lume, ma lume giudicante,
ne mettono in moto la capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza
me- diata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’ori- gine di
queste verità, ma soltanto dimostrato che non le produce la mente umana che pur
ne è illuminata e costituita, nè la ragione, che pur di esse si giova per
giudicare, nè deri- vano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li
ap- (3) Si può osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono ap- plicati,
non prima nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che ciò non
mette in questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’espe- rienza
e i giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, presenti
nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presup- pone.
D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nel- l’unità
concreta della vita spirituale. ” L'esistenza di Dio 119 plica: constatiamo che
sono in not, presenti alla nostra men- te, da essa direttamente intuite, suo
oggetto intelligibile. Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo pla- tonico,
ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza illuminante ed operante
della verità in interiore homine; pre- senti anche quando la ragione erra,
perchè non è la verità che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi
assurda, la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo sarebbe
incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche come corpo, sarebbe
annientato. Questa presenza enigmatica della verità in noi, non proveniente da
noi nè dalle cose, e di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua
origine; dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi « Dio » come possi- bile
soluzione del problema dell'origine della verità dalla no- stra mente intuita e
di quello dell’intelligibilità di ogni esi- stente. Meraviglioso già che enti
finiti e contingenti siano capaci di verità immutabile e necessaria; che le
cose abbia- no un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine che
non passa, le regola e orienta. Qualcuno potrebbe osservare: i principî, come
dite, giu- dicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica secondo
essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; dunque, sia pure per dire
che son veri, essa li giudica. Esat- to, ma l’atto con cui la ragione dice che
i princìpi son veri non è un giudizio, bensì una constatazione: la ragione,
giu- dicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra parte, i
princìpi non sono oggetto immediato della ragione, ma della mente a cui sono
presenti. In altri termini, il cosid- detto giudizio con cui la ragione
riconosce la verità dei prin- cìpi non fonda la validità dei princìpi stessi,
ma è l’atto con cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul fondamento
della loro verità fondante. 120 Filosofia e Metafisica 5. — Il problema
dell'origine dei princìpi del giudizio: tre risposte fondamentali. Degli
elementi che compongono il giudizio — il sogget- to pensante, un dato da
giudicare e le norme in base a cui la ragione giudica — c’interessa
quest’ultimo come quello che pone il problema della verità oggettiva dei
princìpi secondo cui la ragione giudica. Il problema del conoscere è fondamen- talmente
quello della formazione dei concetti; il problema della verità quello della
origine dei princìpi, la cui « profon- dità »:è tale da convincere che essa
oltrepassa le possibilità dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte,
corri- spondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologi- che: in
esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. Prima risposta. - Non
vi sono nella mente umana prin- cìpi del giudizio, in quanto tutto nella
conoscenza deriva dal- l’esperienza sensoriale. È la risposta dell’empirismo la
quale, a rigore, non è tale per il semplice motivo che non risolve ma sopprime
il pro- blema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo in- durre alcun
principio assoluto e universalmente valido. Non per nulla l’empirismo, dalle
sue origini occamiste a Locke, Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista,
agnostico, scet- tico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler deri- vare
dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione giudica l’esperienza
stessa, è come dire che i princìpi sono anch'essi « cose ». Ma i princìpi del
giudizio non son cose — e come non-cose sono ininduttibili dall’esperienza
sensoriale — nè, d’altra parte, sono conoscenze @ priori; consegue che
l’empirismo è costretto a negare la validità oggettiva dei princìpi e con essi
la veridicità dei giudizi. Con ciò nega la verità ed il problema della verità
del conoscere razionale rchè inizialmente, anche se implicitamente, fa della
ve- rità, realtà intelligibile, « cosa » tra cose. Assimilati alle quali . L'esistenza
di Dio 121 MERE i pira : : i princìpi del giudizio, l’empirismo ne riduce a due
gli ele- menti; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. Seconda risposta. - I
princìpi del giudizio sono a priori: innati nella mente umana (Razionalismo
cartesiano-leibnizia- no) o prodotti dall'attività del soggetto pensante
(Criticismo e Idealismo trascendentale). Nel primo caso sono conoscenze
assolute, nel secondo sol- tanto « condizioni » assolute del conoscere. Il
razionalismo innatista già comincia a non distinguere tra problema della verità
e problema del conoscere razionale. Di qui il suo an- dare ai due estremi: da
un lato, ammessa l’intuizione diretta dell'essere, nega il conoscere razionale
e, per conseguenza non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebran-
che); dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la cono- scenza alla
pura razionalità con uguale conseguente nega- zione del mondo (panteismo
acosmico dello Spinoza). Ad eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno
perde a poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità e instaura
l’autonomia della ragione senza distinguere tra problema della conoscenza e
problema del fondamento del conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo
illuminista che non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente il
problema filosofico da quello teologico. Così è preparato il terreno al
Criticismo e all’Idealismo trascendentale, che segnano il passaggio dall’«
innatismo » all’«immanentismo » della verità: i princìpi del giudizio sono
forme 4 priori immanenti dell’attività del soggetto pen- sante. Per conseguenza
il problema della verità s’identifica con quello del conoscere razionale: non
vi è un principio della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma l’assoluto,
essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il reale e il reale il
razionale. Pertanto il problema dell’intelli- gibilità metafisica della
conoscenza non può avere più posto nell’idealismo trascendentale, in quanto il
sapere razionale 122 Filosofia e Metafisica è tutta l’intelligibilità
metafisica: la gnoseologia è essa la metafisica, la sola possibile. Il problema
dell'essere della verità del giudizio è risolto nell’altro della verità
immanente allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non dell’Essere
o della Verità che fonda il pensiero. In altri ter- mini, il pensiero stesso è
verità, padre e fondamento della ve- ridicità di ogni conoscenza vera o
razionale, con cui s’identi- ficano pensiero e reale. Anche questa volta i tre
elementi del giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, nep- pure a
due. Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale ed ogni ente
nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se stesso; anzi — con il Gentile —
nell’Azto del pensare o nel Pensiero pensante, unico, ineffabile, puntuale.
Allo stesso modo l’empirismo, diventato positivismo, risolve il reale ed ogni
ente nella Cose unica, alla quale assimila il pensiero, che ne è un
epifenomeno, « cosa » dalle stesse leggi delle cose governata. Ma il
positivismo non è solo sviluppo dell’empiri- smo, bensì risultato della
collusione di quest’ultimo e del- l’idealismo trascendentale attraverso il
criticismo di Kant: se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello Hegel,
dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è tutta immanente al
mondo ed il processo dell’uno è quello dell’altra; se vi è adeguazione perfetta
tra reale-cosmo e ra- zionale, consegue che assoluto filosofare è assoluto
scientiz- zare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica; lo Assoluto
è la Scienza, la filosofia ne è la « metodologia ». La metafisica
cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad Hegel ha nel positivismo uno dei
suoi sviluppi coerenti: po- sto il conoscere razionale come fondante se stesso;
negato il problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza una
verità oggetto della mente; identificato il sistema del « sapere » con quello
del « mondo », consegue che tutto il pensiero è ragione, che l’oggetto unico
della ragione sono le cose e i princìpi del conoscere, cose essi stessi, o
schemi, L'esistenza di Dio 123 categorie in cui ordinare i fatti
dell’esperienza. Non più i princìpi, ma « divino » è il fatto, come dice
l’Ardigò, quasi i fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per
l’idealismo trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il pro- dotto
dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio stesso, è il Pensiero e
non più la verità che lo illumina; ma siccome il Pensiero è tutto immanente
nelle cose e nel mondo — dire che il mondo è immanente al Pensiero è dire la
stessissima cosa che il mondo adegua, immanentisticamente, il Pensiero stesso —
la divinità di quest'ultimo è divinità delle cose. Perciò a un epigono di un
Hegel pensato, o meglio spen- sato, con mentalità afilosofica è stato facile
ridurre la filosofia a « metodologia della storia », cioè dei fatti umani,
forma di positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da quello
naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia delle scienze o dei fatti
naturali. Infatti, se questo positivismo assolutizza la scienza, l’altro
assolutizza la storia. Così la Ra- gione-Dio dello Hegel si precisa, senza che
vi sia opposi- zione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio. « Ciò che è
reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue che se Dio non è
razionale, non riducibile alla Ragione im- manente, se non è la stessa Ragione
immanente, non è reale. Ma Dio identificato con la Ragione immanente non è più Dio,
è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. In conclusione: 4) il problema
della verità, fondante la veridicità del conoscere, risulta soppresso e con
esso la ve- rità, la luce che fa intelligente la mente e la ragione capace di
conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri sen- za l’oggettività dei
princìpi del giudizio; 4) questi cessano di essere oggettivi nel momento stesso
che si riducono a « fun- zioni » trascendentali del Pensiero o della
Trascendentalità, principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante da
sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e l’assoluto sapere;
c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, tutto il sapere è sapere le cose, e
niente le oltrepassa; 124 Filosofia e Metafisica d) tutto è cosa: cose
spirituali o umane, ma sempre co- se o fatti: idealisti, spiritualisti,
positivisti o come si chia- mano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre
mate- rialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescin- dere dalle
contingenze politico-sociali); e) così come sono negatori della essenza della
filosofia, fatta necessariamente pura metodologia, in quanto le si nega
l’oggetto interno — il problema della verità — quello che la costituisce
autono- ma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della verità che è
l'essere. Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello razio- nale o «
mondano » — giudizio sulle cose per stabilire nessi e rapporti tra i dati
dell’esperienza sensoriale — sapere asso- luto in quanto ha il suo fondamento
in se stesso, consegue che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa
prin- cipio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di fondamento:
la filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, pro- cesso di « sfasciamento » del
sistema della Ragione. Essa ha accolto dapprima la conclusione del criticismo
kantiano, con- vergenza del razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è «
funzione » del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per conseguenza non è
razionalmente dimostrabile; e successiva- mente l’altra, che la
Trascendentalità è essa stessa l’essere tutto e che non c’è problema
dell’esistenza di Dio perchè Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno
divenire dia- lettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta fino
a negare la « teologicità » della Ragione hegeliana e a concludere, come il
pensiero più recente, che, se Dio non esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più
senso e tutto è assurdo. La filosofia moderna, come filosofia della sola « ra- gione
», è filosofia senza «intelligenza »; perciò ha perduto Dio e l’uomo. Terza
risposta. — I princìpi del giudizio sono presenti alla mente, che ne ha
l'intuizione. L'esistenza di Dio 125 Questa l’inzelligenza costituita dalla
verità interiore, luce che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce
sulle co- se, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità o
loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascen- dentista, di
derivazione e tradizione platonica, il solo idea- lismo autentico e, come tale,
il solo vero realismo. I due idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi
del giudizio, ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’ideali- smo
trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodot- to del pensiero naturale
e le condizioni categoriali della co- noscenza, identificando, come già detto,
il problema della ve- rità come quello del conoscere razionale; l’idealismo
trascen- dentista, invece, distingue tra «sapere » intuitivo e « cono- scere »
razionale, tra presenza immediata della verità a//a mente e presenza riflessa
della verità nella ragione; pertanto, per esso, i princìpi del giudizio sono
verità interiori alla men- te, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La
inzelli- gentia è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, la luce
con cui, giudicando, illumina le cose e le conosce: le « conosce » in quanto le
« vede » nella luce della verità alla mente presente. Ma /a presenza della
verità oggettiva alla mente, appunto perchè interiorità, esclude l'’immanenza
del- la verità stessa ed importa la sua trascendenza rispetto alla mente. La
verità, presente alla mente, è più di essa: nel mio pensare e conoscere vi è
qualcosa che trascende l’atto del mio pensare e conoscere, verità che è mia,
zon da me, più di me. Per essa son vere tutte le cose vere, ogni ente è verità,
il pensiero capace di verità e la ragion di giudizio vero; ma essa non è le
cose vere, nè ogni ente vero, nè il mio pensiero, nè i miei giudizi: è ciò che
fonda i singoli veri e li tra- scende. Per conseguenza, la presenza della
verità alla mente è insieme trascendenza, in quanto alla mente è presente qual-
cosa che non è prodotto da essa. Donde questa presenza? Quale il Principio
assoluto della verità che illumina la mia 126 Filosofia e Metafisica mente, per
cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il pro- blema dell’intelligibilità
metafisica del conoscere ed è appun- to il problema dell’esistenza di Dio. 6. —
Indubitabilità ed indistruttibilità della verità dei prin- cìpi del giudizio. Irrazionale
e ridevole qualsiasi tentativo di mettere in dubbio la verità dei princìpi del
giudizio; infatti, esso si con- figura come pretesa di giudicare intorno alla
loro veridicità fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del giudizio
sono « al di là» del dubbio, consegue che l’intelli- genza che li intuisce è «
fuori » del dubbio e dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere
razionale non della intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e
rap- porti che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non nei princìpi
del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. L'intelligenza o intuito
della verità è sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana, in questo
senso, è la libera prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse scacciarla
non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche il pazzo perde la verità, che
resta presente alla sua intelli- genza. Infatti, il pazzo è uno « sconnesso »,
ragiona male o non ragiona affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi mal
combinati, ma non potrebbe sragionare o sconnettere, senza i principi del
giudizio presenti alla sua mente: se ne fosse privo non penserebbe affatto, nè
male nè bene, non sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dun- ue
anche nel pazzo c’è l’uomo essenziale e profondo, la presenza della verità: la
ragione sopraffatta lo ha abbando- nato, la verità no, e fa che egli,
sragionante, sia sempre uomo, soggetto spirituale. D’altra parte, anche
ammesso, a detta di alcune teste scien- tifiche di pseudofilosofi di moda, che
tutto il conoscere ra- zionale sia « convenzionale » nel metodo, nelle premesse
e L'esistenza di Dio 127 nelle conclusioni, ciò non scalfisce minimamente il
nostro discorso: è possibile il convenzionalismo della conoscenza ra- zionale,
proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali che lo rendono possibile.
Dire che anche essi sono conven- zionali è giudicare i princìpi in base a cui
si giudica e che non possono essere giudicati. Domando: in base a quali altri princìpi
si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle due: o non ve ne sono altri e
non potete giudicarli convenzionali; o ve ne sono altri, e allora sono essi i
principi non conven- zionali. Anche se tutto il conoscere fosse convenzionale
non potrebbero essere convenzionali i princìpi in base a cui giu- dico che
tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal caso niente sarebbe
convenzionale. Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la verità; se non
altro non potrei distruggere la verità del giudizio con cui pretendessi
distruggerla! Non posso annientare la mia mente, l’uomo profondo in me, anche
se posso distruggere la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la
sce- menza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se scon- volgono o
annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. perenne, immortale —- come
perenne ed eterna è la verità — non è l’io razionale propriamente detto, ma
l’io intelli- gente, che è oltre la ragione e perciò oltre la scienza, la paz- zia,
la morte. Anche nel naufragio totale di un’anima, super- stite la presenza
della verità, sopravvive il meglio di lei, in lei il più di lei. Perciò anche
l’uomo più reietto è capace di affermazioni vere, di slanci di bene; le
profondità del suo essere restano sempre orientate verso Dio. Se i sotterranei della
sua coscienza, sia pure per un attimo, sono rischiarati consapevolmente dalla
luce della verità, quel lampo può es- sere decisivo, operare una trasformazione
radicale: il reietto può diventare lume di verità e fuoco di carità, potenza di
santità. La verità, ogni verità, per piccola che sia, è eterna; perciò va
riconosciuta, rispettata, amata: è divina; in questo 128 Filosofia e Metafisica
senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e ogni cosa per il suo grado di essere.
Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed amato: avanzo dolorante di miseria o
rudere di mille delitti, in lui abita ancora e sempre la verità, che è divina
(‘). Essa, non privilegio di alcuni ma bene a tutti comune, inerisce alla
natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume del- l’intelligenza, è
dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del ricco, del venturoso e del percosso
dalla sfortuna. E’ la rifles- sione scientifica o tecnica, la elaborazione
dotta e concettuale che è solo di alcuni uomini; ma l’uomo essenziale,
radicale, è nell’intelligenza della verità primale, fondamento di ogni elaborazione
razionale e scientifica; in essa la sostanziosa e sostanziale sostanza umana.
Togliere, per ipotesi, all'uomo la verità e dargli tutto il benessere possibile
e l’universo, è un’operazione somigliante a quella di un assassino che, do- po
aver ucciso, adorna splendidamente con meticolosa cura il cadavere della
vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sem- pre arricchirsi di conoscenza,
perchè quel lume è il principio che fonda la veridicità di ogni conoscere. Non
è divino il pensiero (idealismo trascendentale), non il fatto o la cosa (em- pirismo
e positivismo), è divina la verità in noi, madre di ogni verità razionale e
figlia della Verità che la oltrepassa e ci oltrepassa immensurabilmente. 7. —
Elementi e formulazione della prova « dalla verità ». Dopo questo lungo
discorso necessario e chiaritivo dell’es- senza della prova, raccogliamo tutti
gli elementi che la ricer- ca ha messo a nostra disposizione. (4) Quanto sopra
è detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta dello spirito non è
solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale «dialetticità che
si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, la vita
spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto non
vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa presenza
il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. L'esistenza di Dio 129
1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pen- siero o di una
intelligenza: non vi è verità senza un pen- siero che la pensa, un'intelligenza
che la intellige. Nel caso della mente umana finita, ciò non significa che la
mente fac- cia essere la verità, «la ponga», ma solo che la scopre in sè, la
intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce è da essa indipendente.
D'altra parte, come verità non di ieri o di oggi, ma di sempre, è necessaria,
eterna; era verità prima che mente umana la pensasse e lo sarà anche se nes- suna
mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intel- ligenza, non può essere
senza un'intelligenza che la pensi, nè può non essere, appunto perchè eterna;
dunque vi è la Men- te o il Pensiero che la pensa, eterno come essa. Ma se Pen-
siero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero eterno ed
assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza della mente umana finita
che ne partecipa soltanto. Dunque esiste la Mente assoluta infinita che è la
Verità in sè asso- luta e infinita, da cui è ogni verità: è la Verità
creatrice. Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana intuisce verità
immutabili e necessarie, ma ciò non basta a provare che esiste Dio come Verità
assoluta, in quanto le verità dalla mente intuite, proprio perchè
intelligibili, appar- tengono all’ordine della mente o del pensiero non a
quello della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal- ‘l’ordine
del pensiero all’ordine del reale. Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere
affetto dal più grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica il
reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della realtà; 5) dall’altro,
non tien conto che noi argomentiamo dalla presenza della verità alla mente,
cioè non da un pos- sibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla
cui mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene al- l’ordine
dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto che, se per l’essere
finito la verità intuita è solo dell’ordine 130 Filosofia e Metafisica del
pensiero perchè egli per la sua finitezza non può es- sere il soggetto
sussistente ad essa adeguato (se il pensiero umano adeguasse la verità infinita
sarebbe esso Dio e per ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita,
in- vece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè non è
un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui s'identifica. In altri
termini, la distinzione tra i due ordini, per cui non è logicamente corretto
dedurre dal pensabile la sua esistenza, è valida per il finito e non per
l’Essere infinito o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gau- nilone;
e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del Santo di Aosta. Questa
precisazione significa ancora ben altro: la verità è oggetto nell’uomo, perchè
non può identificarsi con il sog- getto, ente finito, ma come Verità in sè è
soggetto, è il Sog- getto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non
è l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione è valida contro
chi obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto o la Sostanza assoluta, al pari
dello Spinoza o del Carabellese. 2) Si arriva alla stessa conclusione secondo
un altro or- dine di considerazioni: la verità che la mente umana intui- sce e
di cui la ragione si serve per formulare giudizi validi, ha i caratteri
dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali ci obbligano a riconoscere
che è, sì, nella mente umana, ma non dall’uomo creata; i caratteri essenziali
della verità so- no gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la verità
presente nella mente umana non può essere che di ori- gine divina: esiste Dio,
Mente o Verità assoluta, che gliene ha fatto dono. Di qui ancora la necessità
di tener distinte l’inzelligenza e la ragione di Dio: non vi può essere ragione
di Dio senza intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è o viene a
mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inespri- mibile perchè la
ragione ne è impedita come nel caso del pazzo, dell’idiota, dell’ateo: niente
può strappare la verità L'esistenza di Dio 131 dalla mente e la mente dalla
verità, che è divina, più del- l’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente del
pazzo o dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la pre- senza di
Dio come presenza della verità data all’intelli- genza. Per conseguenza, da un
lato, la ragione che nega Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle
all’inzellectus, fuori dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che
argomenta dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, dimostra
conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la ratio chiede
all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da questo punto di vista, la
razio è un potere conoscitivo infe- riore all’inzellectus da cui dipende. Il
dubbio e l’errore pos- sono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non
nel- l’intuito fondamentale della verità. 3) Tutti i caratteri che
analogicamente attribuiamo a Dio sono contenuti nella verità dalla nostra mente
intuita: 1) la verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere che è
principio di se stesso; 2) la verità è necessaria ed im- mutabile; Dio,
l’Essere necessario ed immutabile; 3) la ve- rità oltrepassa e trascende la
mente umana; Dio, l’Essere tra- scendente; 4) la verità è creatrice di giudizi
veri; Dio, l’Es- sere creatore; 5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Or- dine
e la Perfezione assoluti; 6) la verità è essere, ciò che di essere è nella
mente e nelle cose; Dio, l’Essere realissimo; 7) la verità guida la mente alla
conoscenza vera, suo fine e perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a
un fine; 8) la verità è l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è la
Verità, il Soggetto intelligente infinito. 4) Ormai possiamo dare alla prova la
sua formulazione recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immu- tabili,
assolute; l'ente intelligente, contingente e finito, non può creare nè ricevere
dalle cose per mezzo dei sensi le ve- rità che intuisce; dunque esiste la
Verità in sè necessaria, im- mutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra
forma più propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 132
Filosofia e Metafisica alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed
asso- lute, che sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità im- mutabile,
assoluta, trascendente che è Dio. La ragione giudica secondo i princìpi intuiti
dall’intelli- genza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può met- tere
in discussione, pretendere di dimostrare, la verità di quelle verità,
fondamento della veridicità dei suoi giudizi. Intuite dalla mente, sono
applicate dalla ragione; non ha senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o
avrebbe po- tuto essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere la
dimostrazione di quelle verità, fondamento della veridi- cità di ogni
dimostrazione: sono fuori discussione, al di so- pra della dimostrazione
razionale. Nè dimostrare l’esistenza di Dio « dalla verità » significa porre in
discussione i prin- cìpi, punto di partenza fuori discussione. Per conseguenza,
nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è impli- cata l’esistenza
di Dio, in quanto la loro presenza è già pre- senza in immagine di Dio stesso.
In questo senso si può dire che ogni qual volta la mente è presente alla verità
che è in lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque, pen- sare è
pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed im- mediato del nostro
pensiero: Dio è l'al di là interiore, il Trascendente. Non il ragionamento o la
dimostrazione fa che Dio esista, ma semplicemente constata che esiste: 2+2 è
uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve esistere. Più
brevemente si può dire che dimostrare l’esisten- za di Dio è acquistare piena
consapevolezza della nostra vita spirituale, dalla quale infatti muove
l’argomentazione, la cui forza è nella proposizione «è presente alla mente
umana qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la ragione
argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esi- stenza degli spiriti
finiti e contingenti all’esistenza dello Spi- rito infinito e necessario;
oppure dal soggetto pensante nel- l’oggettiva verità che gli è interiore e lo
costituisce pensante, alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si
tratta L'esistenza di Dio 133 di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio,
ma dall’ente nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e neces- sario
che lo fa essere ente pensante. D'altra parte, l’uomo pensa per la verità,
oggetto naturale del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al pensiero
è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conse- guenza, la « presenza » del
pensiero è « compresenza » della verità; dove c’è pensiero c’è verità e
viceversa; dove c’è pen- siero c'è dualità, il pensiero, che è tale perchè si
illumina al- la verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso sia. La prima
alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio dell’esplicitazione
dell’implicito originario, di quell’unità pri- male, per cui anche la notte più
densa della coscienza è sem- pre quella nella quale veglia la presenza di Dio.
La notte si ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità che dal di dentro
illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre più chiara e si rivela come
presenza di Dio. C'è l’ente pen- sante, dunque c'è Dio: basta che vi sia un
pensiero perchè sia implicata, come scrive Campanella, l’esistenza dell’ Asso- luto.
In questo senso possiamo dire che c’è necessario pen- siero di Dio (per il
fatto che esistono enti pensanti, Dio esi- ste) e possibile consapevolezza di
Lui, effettiva, ogni qual volta il pensiero acquista coscienza di sè, cioè
conquista la verità di se stesso, il senso della sua dipendenza dall’Essere creatore.
Consapevolezza di Dio, affinchè l’argomentazione abbia rigore stringente e
avvincente, è recupero integrale del sensus sui, del momento della robusta
coscienza genuina, ignuda, pura di sofismi, vergine di menzogna: intelligenza della
verità, che è senso dell’essere, il costituirsi dell’uomo nella sua genuina
umana sostanza! « Chi pensa, pensa Dio»: al contrario « chi non pensa Dio, non
pensa» perchè è assente all’oggetto naturale del pensiero, la verità. Non
avremmo coscienza del nostro essere, se l’essere non fosse presente alla nostra
coscienza; del nostro pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del
no- 134 Filosofia e-Metafisica stro volere, se il bene non fosse presente alla
volontà: noi siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo chi si
pone da questo punto di vita — cioè si colloca sul pia- no dell’essere — ha
oltrepassato la posizione empirica e po- sitivistica, scientifica o
storicistica, che sia, ed è già ben saldo in quella metafisica e della vita
spirituale. Insistiamo: altro è l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, co- se
distinte anche se non discordanti. Sapere Dio è conqui- stare l'intelligenza di
Lui, che è prima della razio e anche senza di essa: la ratio trascrive in
termini concettuali, tra- duce in discorso, che è appunto dimostrare sul
fondamento dell’intelligentia. Il pensiero moderno ha voluto fare dell’esi- stenza
di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto Dio: ne ha fatto un problema
di « scienza », di conoscenza « scientifica », non uno di vita spirituale, d’«
intelligenza », di verità. Dio per la pura ragione — quella del calcolo, dei nessi
e rapporti — è un ente di ragione: il Dio del deismo è Ente razionale, in
definitiva, la stessa Natura (Deus sive natura, dice Spinoza); quello del
meccanicismo di Newton è Legge o Causa del mondo, l’Architetto dell’universo
degli il- luministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel divenire stesso
della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spi- rito e come natura,
per cui vita spirituale e realtà naturale si adeguano perfettamente in un
cosmismo assoluto. Così Dio è perduto nè poteva non perdersi: la ragione, fatta
essa tutta la verità, è priva dell’intelligenza di essa, veicolo a Dio. La
ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo del- l’esperienza;
attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li ap- plica alle cose di cui
giudica: la ragione è « scientifica », este- riorizzante. Affinchè non sia solo
questo è necessario Ché re- sti sempre unita all’intelligenza, imbevuta della
luce della verità, in modo che con un occhio guardi nel mondo, e l’al- tro lo
ficchi a fondo nella sorgente che la illumina e tutto illumina. Il problema di
una filosofia che voglia essere revi- sione critica del pensiero moderno, è
quello del recupero del- L'esistenza di Dio 135 l’intelligenza, dell’intuito
della verità che fa vera la ragione e ne è «al di là»; in altri termini, è il
problema di oltre- passare la pura scienza, del riscatto dell’interiorità,
della pro- fondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è bisogno di un al di
là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è risveglio dell’intelligenza
che penetra oltre nessi e rapporti, luce di verità, sete di acqua sorgiva
limpida e fresca: l’in- telligenza è sempre più giovane della ragione. Perciò
la pie- na intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta, del santo, che,
folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua per- sona — carne e ossa
e sangue € spirito — come fusa in una unità incandescente e dinamica, che è
slancio di azione, fe- condità di pensiero, accensione perenne dell’intelletto
al fuo- co della verità. Ragione sì, anche; ma riempita d’intelligenza. 8. — In
interiore homine habitat veritas. Presenza, non immanenza della verità alla
mente; se im- mane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, la
verità diventa un suo prodotto e non pone il problema del- l’esistenza della
Mente assoluta, in cui il pensiero e il suo og- getto (la Verità)
s’identificano, a differenza che nella mente finita: la mente umana si fa Dio
essa stessa e perciò mente atea. Ma la riduzione della presenza ad immanenza
della verità implica contraddizione, quella dell’idealismo trascen- dentale,
specie della forma più matura e coerente di esso, che è l’attualismo del
Gentile. Se presenza è immanenza, verità e pensiero s’identificano: l’oggetto
del pensiero è lo stesso soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero
pensa se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare, ma la
dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato 0 è un artificio, o è una
contraddizione; infatti, o il pensiero pensante adegua il pensiero pensato e
c'è immanenza, non mediazione, o non l’adegua e c’è trascendenza, non più im- manenza.
136 Filosofia e Metafisica Presenza della verità alla mente dunque, e, nello
stesso tempo, trascendenza, in quanto presenza è sempre dualità di pensiero e
del suo oggetto intuito. Ora, se intuire la verità che è in noi è partecipare
di qualcosa che ha caratteri divini, consegue che ogni qualvolta la mente cerca
la verità, in fondo cerca Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro di
sè un’immagine divina. D'altra parte, se la verità è inte- riore alla mente, in
questo senso si può dire che Dio è in noi, che è in noi quella che è stata
detta, forse imprecisa- mente, l’idea di Dio: alla nostra mente è presente
un’im- magine di Lui, cioè la verità illuminante ed operante. Che non è Dio; e
perciò la sua presenza accende il desiderio di Lui, Verità in sè che non
conosciamo, stimola al possesso del Bene sommo, cioè all’unione con Dio.
Infatti, il bene della mente è la conoscenza della verità: Dio è la verità
assoluta; dunque alla mente adherere Deo bonum est (°). La pre- senza della
verità in noi non è dato inerte, ma forza operante, stimolante, potenziatrice
di tutta la vita dello spirito; orien- tatrice e unificatrice: l’oscura nozione
della verità è il pre- sentimento di Dio; la stessa esigenza di verità è
esigenza di Lui, come la prima verità scoperta è implicitamente la pri- ma
scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è l’inter- mediario, le milieu,
tra la mente finita creata e la Mente in- finita creante: l’uomo è unito alla
verità che è in lui ed è perciò naturalmente, ma indirettamente, unito a Dio.
Que- sta la sua condizione naturale. Da ciò consegue ancora: dato che oggetto e
fine della mente è la conoscenza della verità, tutto il processo conoscitivo,
dall’infimo grado al più ele- vato, anche quando l’uomo tende ad altro, è
orientato a Dio, converge nella « scoperta » della verità, che coincide con la «
scoperta » dell’esistenza di Dio, punto assoluto di conver- (5) S. Acosrino, De
diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il nostro processo 720 è
dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una pro- duzione ideale nè un
essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non relativa; Egli è «
Colui che è » e gli altri esseri sono per suo libero atto creativo. L'esistenza
di Dio 137 genza di tutta l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O uni- ca
filosofia è quella scettica — e perciò un’insormontabile e assurda
contraddizione — o essa è capace di una sola verità e allora /a filosofia è
sempre teistica, perchè teistica è l'intel- ligenza umana, la cui vita
autentica è amore, attraverso la presenza della verità, della Verità in sè. Vi
è in ogni ente pensante un teismo embrionale, in quanto gli è presente la verità,
sia pure involuta o nascosta; vi è come un « pensiero compendiato », che si fa
sempre più esplicito a mano a ma- no che lo spirito acquista coscienza della
verità ad esso in- teriore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la conoscenza
piena della Verità assoluta, oggetto della sua suprema aspirazione ma sempre
rivestito di «sacro miste- ro »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia,
non è filo- sofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche al- l’estremo
confine della conoscenza, può esserle dato solo dal- la Rivelazione e dalla
fede (6). L’uomo non è soltanto un essere razionale, ma intelligente e
razionale; come intelli- genza è naturaliter teista. (6) F. BonatELLI, Pensiero
e conoscenza, Bologna, 1864, p. 108. CapitoLo III CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA
PROVA «DALLA VERITA’ » 1. — Dio Primo Vero assoluto. Vi sono verità che in
nessun modo possiamo pensare che non siano vere: questa proposizione è il
fondamento della prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo svi- luppato.
Il fatto che la ragione, malgrado la loro presenza, possa errare ed erri, non
solo non prova nulla contro di esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle
verità non fos- sero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di er- rore.
Chi dice: «la ragione umana erra, s’inganna », sot- tintende: « perchè ha
deviato dalla verità, se ne è allonta- nata »; dunque ammette la verità e, solo
in quanto essa c’è, può rilevare che la ragione erra. L'affermazione: «la ra- gione
umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed in- ganno », non ha alcun
senso: è soltanto uno sfogo passio- nale, un’insensatezza che, come tale, non
interessa la ricer- ca filosofica. Essa significa: «l’uomo non può pensare
altro che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare il nulla
di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non C'è più questione di errore,
nè di verità. « Pensare il nulla », «l’assurdo », «il puro errore», «conoscere
l’errore », ecc. sono espressioni senza senso, suoni verbali che non signifi- cano
niente. D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente pensante
in ogni sua parte è contingente e finito, conferma L'esistenza di Dio 139 che
la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fat- tura: è stata data a
lui, fatto capace di conoscerla. L'ente pensante è un dato; la verità che egli,
contingente e finito, non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in
inte- riore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità in sè, il Primo
Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero As- soluto o Dio; c) che di essa è il
Principio: dalla verità creata in me alla Verità creante in sè; dal dato al
Principio effi- ciente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita; dal- l’uomo
a Dio. Questa si può considerare un’altra formula- zione della stessa prova. Qui
il termine principio ha il duplice senso di Principio esemplare e di Principio
efficiente. La mia mente intuisce delle verità, che sono un’immagine vera e
reale del Modello verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta, ma non si
tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’al- bero che si riflette
nello specchio d’acqua), bensì di un atto creativo efficiente che lascia nella
creatura un’orma di sè, viva, operante ed illuminante, produttrice
dell’attività razio- nale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle
ve- rità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine in me della
Verità in sè non è rappresentativa bensì presen- tativa di Dio, non com'è nella
Sua essenza, ma come può essere presente all’ente creato nello stato naturale. È
invece rappresentativa la conoscenza razionale in quan- to lo è delle cose,
rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini concettuali: è conoscenza
spettacolare, di ciò che sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è
presentativo: l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla verità
e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto non è di rappresentazione
di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e di qualcosa che è
dentro di me. La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso tempo più
complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 140 Filosofia e
Metafisica 2. — Il principio di causa e le due forme di astrazione. Nella
formulazione data testè della prova abbiamo fatto uso del principio di causa,
ormai legittimamente in quan- to si è dimostrato che l’ente pensante finito è
capace di co- noscere verità oggettive, una delle quali è appunto il sud- detto
principio, che, come ogni altro fondamentale del giu- dizio, è vero per se
stesso e fonte di verità razionali (!). Come tale è già una presenza, per se
stesso una attesta- zione, una testimonianza dell’esistenza di Dio; come prin- cipio
di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la veri- dicità di ogni
dimostrazione razionale che su di esso si fonda e dunque anche di quella
dell’esistenza di Dio. Ma nel contesto del nostro discorso il principio di
causa ha un significato particolare. « Interiorità », « presenza » della ve- rità
alla mente, implicita ed oscura quanto si voglia, signi- fica sentirsi dentro
la verità che è in noi, viverla come vita e luce della nostra mente, esserne
presi ed esser liberi nella sua presa. Partecipare consapevolmente di questa
presenza è acquistare coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la con- sapevolezza
della verità è già coscienza che vi è nella mente qualcosa di superiore ad
essa: la verità è di per se stessa te- stimoniante. Pertanto il rapporto di
causalità tra la Verità in noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è
dimostra- tivo dell’esistenza di Dio, ma sulla base della capacità « pre- sentativa
» di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri ter- mini, il rapporto di
causalità di ordine razionale si esplica e riceve verità e forza
dall’intelligenza, di cui fa parte, come verità originaria, lo stesso principio
di causalità; l’argomen- (I) Resta da esaminare e provare se i princìpi
fondamentali non siano im- plicati in un'unica intuizione primitiva. Tale
approfondimento sarà fatto in altra sede, ma fin d'ora possiamo dire che i
princìpi del giudizio sono impliciti nel- l’intuito fondamentale dell’Idea
dell’essere, che intendiamo in un modo che non è più quello del Rosmini, anche
se da lui ispirato. Successivamente alla prima edizione della presente opera
abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: L’interiorità oggettiva,
L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e immortalità,
rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. L'esistenza di Dio 141 tazione
in base al suddetto principio dà forma razionale e dimostrativa al momento
interioristico della presenza della verità alla mente, « presentativa »
dell’esistenza di Dio. Per- ciò nella prova vi sono due momenti solidali e
convergenti: a) prova come esperienza della presenza della verità, che è acquistare
consapevolezza esplicita dell’« ospite celato e pre- sente », come dice il
Blondel; 5) e prora come argomenta- zione dalla nostra realtà spirituale
all’esistenza di Dio. Il principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha
per Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi pri- mi, è
interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è già una conoscenza, sia
pure inizialmente compendiata o im- plicita, una verità oggettiva e non una
pura condizione sog- gettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come
oggetti- vamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni altro
fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideo- logica o ascendente, cioè
astratto dalle percezioni sensoriali, in quanto ogni astrazione che l’uomo fa
da queste presup- pone proprio i princìpi fondamentali come strumento di astrazione,
dai contingenti finiti, di quanto hanno di uni- versale ed oggettivo. Tale
astrazione ascendente, dai parti- colari a quel che le cose hanno di
universale, non forma le verità prime e non potrebbe mai formarle — tanto è
vero che ogni posizione empiristica prima o poi conclude al nomi- nalismo,
all’agnosticismo, al fenomenismo — ma le trova formate e ne fa uso nel
procedimento astrattivo. D'altra parte, esse sono prodotte e non dall'uomo,
veri derivati e non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eter- no.
Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stes- so: sono il prodotto,
come ha dimostrato il Rosmini, non del- l’astrazione ideologica ascendente, ma
dell’astrazione divina discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma
di- (2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente
« astrazione teosofica », espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche
dire: astrazione logica ascendente e astrazione ontologica discendente. 142
Filosofia e Metafisica scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe
in interiore homine una presenza della Verità, ma la stessa Verità, non il
divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la ve- rità e la sua immagine non
sarebbe analogico ma univoco; 5) l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della
verità infinita, cioè Dio. Con l’astrazione discendente si spiega l’origine non
umana delle verità primali che sono presenti alla nostra mente; con
l’astrazione ascendente e sulla base di queste verità si conoscono le cose e si
giudica della loro realtà o verità. Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma
diciamo che essa, da un lato, presuppone l’astrazione discendente e,
dall’altro, ha il suo campo di applicazione limitatamente al mondo esterno,
cioè a quanto è oggetto di esperienza sen- soriale. Ma quel che importa è
recuperare e far nostro il concetto di astrazione perchè è garanzia del
rapporto ana- logico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo contro l’ontologismo
e il panteismo. 3. — La verità presente alla mente è appartenenza di Dio senza
essere Dio. Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre parzialmente, contiene
di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza ideale, dunque sempre
mancanti della sussistenza reale. Per- ciò noi misuriamo, « giudichiamo » la
verità o il grado di realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti
insieme adeguino la verità che è in noi; dunque, la verità dalla mente intuita
non trova in nessuna cosa esistente la sua adeguata sussistenza e resta sempre
un oggetto ideale astratto. Ma se c’è nella mente creata una presenza della
verità asso- luta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo com- preso,
perchè contingente e finita, possa essere la sua sussi- (3) Evidentemente si
parla di « astrazione » da parte di Dio in senso ana- logico: qui il termine
non vuol significare l’operazione propria dell’uomo — assurda se attribuita a
Dio — di astrarre l’universale dal particolare, ma l'atto creativo con cui Dio
dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata, non è più la verità come è
in Lui, anzi la Verità che Egli è. L'esistenza di Dio 143 stenza, consegue che
esiste un Essere assoluto che, come tale, è il Soggetto della Verità assoluta.
In questo senso le verità primali che la mente intuisce sono un’appartenenza di
Dio, il « divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera dell’Intelligenza
divina. Non Dio, assolutamente: la Verità in sè contiene infinitamente più
perfezioni di quante possiamo attribuire alla verità che è in noi e le stesse
perfezioni da noi conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in
grado eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per mezzo della
Rivelazione, più diquanto ci fa conoscere la verità intuita: gli attributi di
questa, per analogia, li predi- chiamo anche dell’Essere assoluto (°). Noi
sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso di sapere e per quanto ha
voluto che fosse presente alla nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può
dire che l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci po- trebbe mai
venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la verità, immagine della Verità
in sè, intermediario che ci unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata
da Dio stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate dalla
Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura implicata involuta quanto
si voglia, è interiore alla mente, perchè interiore le è la verità che la
illumina, la fa pensare, conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la
proposizione, (4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il
soprannaturale alla natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito
del Rosmini, di non capire o di non voler capire. (5) Dio, la Perfezione
assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. Omnis determinatio negatio
est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là dell’atto definitorio della
iogica della determinazione astratta o del definire esclu- dendo. In questo
senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò che si predica del
finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito che Egli è
l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e per- fettissimo,
è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio è fuori della
serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è « l’analoguant
createur » (N. I. I. BartHasar, Mon moi dans l'étre, Louvain, 1946, p. IX). E’
l'Ipse suus actus essendi irreceptus, cioè non ricevuto in una essenza
specifica; la sua essenza è l'atto di essere e dunque ia sua perfezione non ha
limiti: indeterminato perchè senza limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 144
Filosofia e Metafisica nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu,
è valida per tutte quelle conoscenze che non possiamo avere senza il concorso
di similitudini sensibili, non per quelle verità primali che intuiamo
direttamente e che, se non fos- sero in noi, non potremmo mai ricevere da
alcuna specie sensibile. Per conoscere un oggetto particolare è necessaria l’esperienza
sensoriale; per giudicare di questa o quella cosa è necessario ancora che
preceda l’esperienza della cosa giu- dicanda; ma per conoscere i princìpi
primi, che fondano la validità di ogni giudizio e rendono possibile la
conoscenza riflessa delle cose particolari, non è necessaria esperienza alcuna,
in quanto sono interiori alla mente, da essa intuiti, di essa lume; meglio è
necessaria l’esperienza interiore. Ora è proprio questo lume di ogni
conoscenza, fondamento di ogni altra verità, questo naturale iudicatorium, che
si dice presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui unisce sine ad4- miniculo
sensuum exteriorum (°). 4. — Critica costruttiva del principio di causa. Da
questa conclusione possiamo trarre lumi per ulterioriconsiderazioni sul
principio di causa. E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali si
servono del principio di causa — da un effetto alla sua causa fino alla causa
ultima non causata — fanno come quel tale che va in giro tutto il giorno con
una vettura da nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia sulla soglia. Secondo
l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa non causata si serve del
principio di causa fino ad un certo punto, poi lo abbandona, come chi licenzia
la vettura sulla porta. In altri termini, il principio di causa è valido fino a
quando si risale da effetto a causa, ma non quando si arriva (o si postula) ad
una causa che non rimanda ad altro; cioè è valido per il mondo dell’esperienza
e non per ciò (Dio) (6) S. Bonaventura, Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39,
a. I, q. IL L'esistenza di Dio 145 che trascende l’esperienza. Sotto
l’obiezione dello Schope- nhauer c’è la critica di Kant all’argomento
cosmologico. Tale osservazione ha per noi scarsa importanza, dopo il
chiarimento dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della prova e
dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si li- cenzia la vettura,
del resto non presa a nolo, sulla soglia di casa, ma si entra in casa con essa,
anzi si è già in casa, in quanto l’effetto è presenza del Principio da cui è.
L’esemplari- smo ci consente di scoprire nella realtà spirituale l’immagine (effetto)
del Principio primo; perciò conoscere me è cono- scere Dio come posso
conoscerlo nel mio stato attuale: zove- rim me, noverim te, dice Agostino. Ma
anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando diciamo che la
dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla vita dello spirito (di cui fino
ad ora abbiamo considerato solo l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da
quell’essere contin- gente che è l’ente pensante finito avente un contenuto,
og- getto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. L’intuito o
l’intelligenza di queste verità, che non sono perchè io le penso, ma, al
contrario, io penso perchè esse sono e mi illuminano; la coscienza di questo
contenuto del mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esi- stenza,
non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo è il punto da cui muove
la dimostrazione dell’esistenza di Dio « dalla verità ». Non dunque solo dal
mio pensiero contingente e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità
immuta- bili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; dall’ente «
pensante », ma che è tale in quanto intuisce un « pensato » oggettivamente
valido, che egli non crea e non giudica, ma da cui è come creato quale
pensiero; dunque la prova muove « dalla vita dello spirito » nella sua
pienezza, che governa secondo verità immutabili ed universali la sua attività
intellettiva e morale. L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di verità se mossa
ad un determinato uso del principio di causa e preci- 146 Filosofia e
Metafisica samente a quello che chiamiamo «cosmologico » o anche « scientifico
»; infatti, la causalità in questo senso è uno dei princìpi di cui la ragione
si serve per intendere (giudicare) e unificare il mondo dell’esperienza. Come
verità oggettiva, invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in
noi della verità e, come tale, valida come punto di partenza per dimostrare
l’esistenza di Dio. Allora non il processo causale, applicazione che la ragione
fa di esso ai fenomeni di espe- rienza, per se stesso porta a Dio — in tal caso
è valida l’obie- zione dello Schopenhauer —, ma il principio di causa in se stesso,
come puro principio, presenza di verità in noi. Biso- gna distinguere tra il
principio di causa in se stesso e la sua applicazione. In altri termini, il
processo causale è un nesso di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato
all’esperienza; il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito, la
cui presenza è presenza di verità in noi: come tale — e come ogni altra verità
primale — è punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio. Kant, che ne
fa una pura condizione del conoscere, deve necessariamente limitarne la
validità all’esperienza e negare per conseguenza che esso sia applicabile al di
là di essa e dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in que- sto
modo Kant, come lo Schopenhauer, « criticano » soltanto l’uso che la ragione fa
del principio di causalità negando che possa essere esteso al di là dei dati
dell’esperienza sensoriale. Certo, se il principio di causa è inteso nel suo
primo signi- ficato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo senso
è un fenomeno che precede e condiziona un altro feno- meno che è a sua volta
preceduto e condizionato da un altro ancora; è di questa causalità che lo Hume
aveva negato la oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da nulla preceduto
e condizionato, cioè è fuori della serie dei feno- meni e di ogni serie, fuori
dello spazio e del tempo; perciò in questo senso non è causa dell’Universo, ma
Principio as- soluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico, cause a L'esistenza
di Dio 147 loro volta causate. Resta l’altro problema del principio di causa in
se stesso, cioè della « verità » oggettiva di esso, che la «critica» ignorò per
difetto di critica. Ora proprio la « verità » del principio in sè — non la sola
sua applicazione o il processo di unificazione dei fenomeni — pone il pro- blema
dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della sua soluzione. A Kant resta
il merito di aver dimostrato, contro, la metafisica scientista e geometrizzante
del raziona- lismo moderno, che il principio di causa, considerato nel suo uso
scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare l’esistenza di Dio, in
quanto o Dio resta inserito nella serie dei fenomeni e non è più Dio, o ne è
fuori e non si dimostra con il solo uso del principio che viene infatti, come
dice lo Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il pro- blema
di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, che è problema
puramente gnoseologico : Dio è al di là della unità dell'esperienza. Se noi Lo
identifichiamo con il tutto dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o
di deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della metafisica
razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e degli stoici) da Cartesio a
Wolff: Dio principio unificante la esperienza, architetto del « mondo ». Di qui
la identifica- zione di Dio con la Causa o la Legge, con la Ragione uni- versale;
ma questo è il problema della causa cosmologica non quello del Principio
teologico. Dal nostro punto di vista, la questione s'imposta diversa- mente:
non dal processo causale (di causa in causa) a Dio Causa prima, ma dal
principio in sè di causa, verità diretta- mente intuita, a Dio. La
consapevolezza della presenza della verità è chiarimento dello spirito a se
stesso, è toccare la sua interiorità profonda, che, conquistata, è è
testimonianza di Dio, del Principio di verità e di ogni verità; poi la ragione argomenta
e rende esplicito il rapporto di causalità, e la pre- senzialità si fa
dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso diverso da quello che ha come legge
dei fenomeni. Per con- 148 Filosofia e-Metafisica seguenza crediamo che
l’espressione « Dio-Causa prima » sia impropria e generi equivoci; meglio dire
« Dio-Principio ». Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa, «
verità » dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di causalità che
regola i fenomeni di esperienza (7). Il mondo, più che effetto, è creatura di
Dio; il concetto di effetto non traduce affatto la pregnanza di significato di
quello di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di serie,
non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò che è nell’ordine
dell’essere limitato o creato. Dire che Dio è Causa di se stesso importa la
difficoltà di concepire una Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da
ogni effetto, tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra Dio- Causa
e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci consente di porre l’esistenza
di Dio come problema di ordine metafisico, al di là del piano delle scienze
sperimentali e matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia pure
causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, quasi integrazione o
prolungamento della conoscenza scien- tifica; è solo il Principio (e la ragione
anche) di ciò che esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio
non esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, esiste in
quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. In breve, il concetto
di causa appartiene all’ordine dei feno- meni: Dio invece è l’Essere, la ragion
d’essere creatrice di tutto ciò che è. Il progresso della scienza, da questo
punto di vista, non interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa
rende superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e (7)
Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non causata,
anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare equivoci
non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe im- portare in
Lui un assurdo « prima » e « poi ». Dio è Principio assoluto e solo per
analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G. ‘Capone
Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî Cristiani
di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. L'esistenza di Dio 149 l’oggetto
della metafisica non sono quelli della scienza e viceversa. La preoccupazione
di tanti volonterosi di « armo- nizzare » metafisica e scienza — e, peggio,
fede e scienza — è una forma di «irenismo » senza senso e pericolosa. Dal nostro
punto di vista il principio di causa, più che risolutore del problema
dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che pone il problema dell’origine
di se stesso come verità primale presente alla mente; ma, appunto perchè tale,
esso è un dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, serve
alla ragione per argomentare dalla verità presente alla mente all’esistenza
della Verità in sè. In altri termini, la ragione dimostra l’esistenza di Dio in
quanto lo spirito è capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e
de- sidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e l’amore di Dio come
Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno all’altro interiori. 5. — Il non
senso dell’ateismo. Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non esiste
? Affermare razionalmente significa giustificare secondo ra- gione: si può
giustificare l’affermazione « Dio non esiste » ? Se la domanda ha un senso non
può significare che questo: l’affermazione « Dio non esiste » è un giudizio
oggettivamente valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente validi
senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità oggettiva; ma la
presenza di questi princìpi è proprio il fondamento della dimostrazione
dell’esistenza di Dio; dunque, dire che il giudizio « Dio non esiste » è
oggettivamente valido è una contraddizione nei termini, in quanto se la ragione
è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta perchè argomenti
l’esistenza di Dio e non possa più ne- garla. Esattamente S. Bonaventura
osserva (*) che, anche la (8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q.
II. 150 Filosofia e Metafisica negazione di ogni verità faugualmente
impensabile la ne- gazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice « non
esiste verità » pone come assolutamente vera questa affermazione e dunque
ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma non vi può essere un solo giudizio
vero e una sola verità senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in
quanto ogni vero è tale per la verità. Chi dice « Dio non esiste » e considera
quest’affermazione come assolutamente vera, con ciò stesso afferma l’esistenza
di Dio: anche chi nega che Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere
ateo; benissimo: non vede la contraddizione, non si accorge che la sua
negazione è l’affermazione senza senso di pensare l’impensabile: s’illude di
pensarlo; l’ateo appunto è l’inst- piens, colui che non sa quel che dice,
l’insensato. Dio è pre- sente alla nostra mente, interiore alla nostra vita
spirituale: negare la sua esistenza è atto irrazionale, in quanto la ra- gione
attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè la verità è presente
alla mente, cioè proprio per la presenza di Dio in noi; dunque, non può «
razionalmente » dubitare di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera
dal dubbio. Assurda la sua pretesa di giudicare la verità, fonda- mento di ogni
suo giudizio vero e dunque quella che la giudica e non viceversa: alla ragione
non spetta giudicare se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne
per pronunciare giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimo- strare Dio non
significa farlo esistere, ma semplicemente passare dal sapere originario alla
conoscenza discorsiva pro- pria della riflessione. La ragione che nega Dio si
mette contro la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni giudizio
vero, contro se stessa, si contraddice; non nega Dio, nega se stessa
nell’errore: insipientia. In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di
Dio; an- che se la ragione costruisce un discorso negativo in tal sen- L'esistenza
di Dio 151 so, la forza di tale ragionamento è nulla, puramente appa- rente: la
coerenza formale è vuota della verità che sostanzia ogni vero procedimento
logico. La sua apparente logicità è sostanzialmente irragionevole; discorso
che, mancando di razionalità intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo
estrin- secamente o verbalmente razionale: l’ateismo non volgare è insensatezza
sottile. Spesso si nega l’esistenza di Dio perchè non si riesce a penetrarne
l’essenza, quasi per uno stolto ed irragionevole « dispetto » della ragione
diabolicamente su- perba: «Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti nego; dico
che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu non esisti». Lo stesso
atteggiamento può determinare il fideismo assoluto: « Tu sei l’Oscuro e
l’Assurdo e perciò credo che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo irrazionale
che spinge la ragione, uccidendola, a compiere lo sforzo innaturale di rendere
«lucido » l’oscuro, di misu- rare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione
della ra- gione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella sua
distruzione. Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non sanno
quello che dicono. L’ateo è colui che pensando che Dio non esiste, in realtà
non pensa: fa uso dei princìpi di verità senza consapevolezza alcuna della loro
profondità me- tafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pro- nuncia
parole che non hanno senso e di cui non si rende conto; le dice, ma ad esse non
può dare il suo assenso, in quanto non può assentire alla contraddizione e
all’assurdo: il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è anch'esso
verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno che fosse persuaso che Dio
non c’è: almeno mi direbbe la ragione invincibile che l’ha saputo convincere »
(La Bruyère). L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio non
esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa affermazione. Si può dire
che la superstite « ragionevo- 152
Filosofia e Metafisica lezza » del negare l’assenso lo salva in parte
dall’assurda «razionalità » irragionevole del suo ateismo (7). L’ateo,
l’insensato che fa la ragione giudice della verità invece di usarla per
giudicare secondo verità, capovolge lo ordine del pensiero, sottomette la
verità alla ragione; una volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone
non sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde nell’errore e
nell’insensatezza. Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe neppur
pensare che non esiste, in quanto non penserebbe nulla. In questo senso pensare
è pensare che Dio esiste; « io penso, dunque Dio esiste », scrive ancora La
Bruyère, in quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). Da quanto abbiamo
detto risulta che la dimostrazione dell’esistenza di Dio o la sua negazione è
questione, dal punto di vista logico, di uniformità o disformità della ra- gione
alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della ragione, non viceversa.
Nella ricerca, guidata dalla verità, (9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti
sotto il titolo Existence de Dieu (Paris, 1910), nota acutamente che quelli che
sono o credono di essere atei testi- moniano in favore dell’esistenza di Dio;
infatti, ci aiutano a rendere sempre più pura la nostra concezione di Lui, a
liberarci delle rappresentazioni grossolane o infedeli: Ces douteurs ont frayé
la route Et sont si grands sous le ciel bleu Que, désormais, gràce è leurs
doutes, On peut enfin affirmer Dieu. (10) Con la prova da noi sostenuta, di
evidente ispirazione agostiniana, ha punti di contatto quella del Rosmini:
l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, intuita dalla mente limitata e
mutevole, non può essere prodotta dalla mente stessa, la riceve come l’oggetto
primo che la fa intelligente; vi è pertanto in noi un effetto non prodotto da
noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste una Mente infinita, necessaria ed
eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 797). Rosmini argomenta così perchè
la sua idea dell'essere non è la forma a priori di Kant. Conoscere è giudicare,
anche per lui: ma vi è un sapere intuitivo fondamentale che non è giudizio, e
garantisce la validità di ogni cono- scere giudicativo. Nei nostri scritti
successivi, già citati, abbiamo fuso la prova ago- stiniana’ con. quella del
Rosmini attraverso un approfondimento del « principio di verità » e di quello
dell’« essere come Idea », per cui è necessario integrare quanto si legge in
queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto ed essere, III
ediz., pp. 124-134. L'esistenza di Dio 153 la presenza di questa è presenza
dell'immagine di Dio, cioè di un dato che testimonia del suo principio: nella
stessa di- mostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella verità la cui
presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la dimostrazione scaturisca
da tutto il processo del pensiero, da ogni momento del suo svolgimento. Se
conoscere signi- fica acquistare una sempre più chiara consapevolezza del grado
di verità di cui la mente umana è capace, il processo del pensiero è processo
di consapevolezza dell’esistenza di Dio: ogni verità scoperta è aztestazione
della sua esistenza e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La originaria
oscura nozione di Dio si fa sempre più chiara a mano a mano che il pensiero
acquista coscienza della verità e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il
suo destino di verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di Dio.
La vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario dalla verità in noi
alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. La presenza dell’uomo a se stesso
lo è dell’uomo alla verità che gli è interiore ed infinitamente lo trascende. Vi
è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò l’uomo più di ogni
altro ente porta in sè i segni manifesti del suo Principio. 6. — La presenza di
Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve- ritas » e «ratio ». L’internità della
verità alla mente al tempo stesso che garantisce la validità oggettiva della
prova dell’esistenza di Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della
ragione, che non « pone » la verità, ma argomenta sulla base della verità «
posta », « data » alla mente: giudica di ogni cosa con cui l’esperienza la
mette in contatto, in quanto le sono dati i mezzi per conoscere e giudicare
secondo verità. Vi è un nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè
e che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca- 154 Filosofia e
Metafisica pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà creata e
finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera del- l’uomo, la conoscenza del
mondo dell’esperienza, che la ragione è capace di costruire solo perchè poggia
su un fon- damento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria ed
orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razio- nale creato, è
presente alla mente e direttamente intuita da essa, che ne ha inzelligenza; è
in noi la presenza illumi- nante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità
intuita, fondamento di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, è
indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimo- strazioni. Senza la sua
presenza, che è presenza indiretta di Dio, il movimento stesso del pensiero
sarebbe incompren- sibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla
ve- rità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione è chiamata a
seguire questo movimento intellettivo dalla pre- senza interiore della verità
alla Verità in sè, a inserirsi nella verità che fonda i suoi giudizi, ma
appunto perchè li fonda, è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza
indiretta di Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza per
concatenazione di concetti. Lo spirito tende alla Verità in sè sollecitato
dalla verità in lui presente; tende a Dio che è in lui, ma che non gli è noto e
perciò Lo cerca e ne dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile per-
chè nello spirito è presente tutto ciò che la rende possibile, ciò di cui la
ragione si serve per argomentare rettamente. È evidente che i due termini
veritas e ratio vanno tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi
intelligibili dalla mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento di
questi princìpi che la trascendono, stabilisce nessi e rela- zioni. La ragione
è il lume delle cose in quanto è essa che le giudica, ma è /ume illuminato
dalle verità intelligibili, che le consentono appunto di illuminare e giudicare
ogni cosa (di fare che il mondo sia « esperienza »), tranne gli intel- ligibili
stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso, L'esistenza di Dio 155 è
la verità che la trascende e la mette in grado di stabilire relazioni e nessi;
la ragione cerca l’intelligenza della verità. Pertanto: 4) essa non potrebbe
niente dimostrare — e dun- que neppure l’esistenza di Dio — se nulla di vero o
di intel- ligibile la illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse per- chè
la verità, indipendente da essa e dalla quale essa dipen- de, la illumina; c)
dunque, la ragione non fa esistere Dio, ma solo dimostra che non può non
esistere, in quanto è as- solutamente irragionevole che non esista e
assolutamente ra- gionevole che esista. Per conseguenza anche se la dimostra- zione
risultasse imperfetta a causa della ragione mutevole e finita, ciò non
infirmerebbe la verità dell’esistenza di Dio. La concatenazione dei concetti
può essere incompleta ed im- rfetta, perchè tale è l’umana ragione, ma non può
mettere in dubbio l’esistenza di Dio, per il semplice motivo che la stessa
dimostrazione imperfetta — ma sempre contenente una qualche verità — non vi
sarebbe se Dio non esistesse e non illuminasse. Rosmini, che indubbiamente
tiene presente S. Agostino, distingue tra « ragione » e «lume della ragione »:
la prima è l’attività che ha come «oggetto » l’idea dell’essere, che è appunto
suo lume. Questa distinzione va approfondita (l’ap- profondimento è nostro e
non va attribuito al Roveretano) perchè chiarisce, ci sembra, un punto
fondamentale del no- stro discorso. Comunemente diciamo, retaggio
dell’intellettualismo gre- co e del razionalismo moderno, che il « senso è del
parti- colare » e la « ragione dell’universale »; il « senso è del con- tingente
» e la « ragione del necessario », ecc. Queste espres- sioni non significano
affatto che il senso è particolare e la ragione universale: non solo
quest’ultima, ma anche il senso «è la cosa meglio distribuita »; non solo «la
facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propria- mente
quel che si chiama buon senso o ragione) è natural- mente uguale in tutti gli
uomini » (Descartes, Discours de 156 Filosofia e Metafisica la méthode, p. I),
ma lo è anche la facoltà di sentire, an- ch’essa naturalmente uguale in tutti
gli uomini. Da questo punto di vista, il senso, come facoltà comune a tutti gli
uo- mini, è altrettanto universale come la ragione o l’intelli- genza. Per
conseguenza, la particolarità e la contingenza della sensazione e
l’universalità e la necessità del giudizio non dipendono dal senso o dalla
ragione in quanto tali, ma dal diverso oggetto che è proprio di ciascuna delle
due fa coltà; in altri termini la ragione è universale, capace di giu- dizi
universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio la fa tale, cioè
perchè illuminata dalla verità. Dunque, la universalità e la necessità del
conoscere razionale non sono date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità
che è suo oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si pri- vasse da
se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere univer- sale e necessaria come
organo conoscitivo. Non vi è un rap- porto gerarchico tra senso e ragione,
questa superiore al- l’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel
che è oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concre- tezza e
sinteticità dell’atto spirituale dove sono presenti, en- trambi si coordinano e
si subordinano alla verità illumi- nante. Non la ragione, ma il suo oggetto è
vero. Da ultimo se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe piùverità,
sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e sog- gettiva al pari del
senso, pur restando «la cosa meglio distribuita ». Ciò spiega perchè
l’idealismo trascendentale si può sempre convertire in forme estreme di
empirismo e scet- ticismo. 7. — Partecipazione iniziale e finale. Vi è una
verità primale presenze all’intelligenza fondante la veridicità dei giudizi
della ragione; dunque l’uomo è creato con e per la verità, dove il «con» indica
la parte- cipazione iniziale — è dalla verità — e il « per» il fine: L'esistenza
di Dio 157 cercare la verità nella vita temporale per fruirne nella vita eterna;
dunque, la verità guida il pensiero e, guidandolo, fa che esso la trovi e
trovi, salvi, se stesso: itinerario filo- sofico con meta religiosa. Vi è
dunque una partecipazione iniziale ed una partecipazione finale dell'ente
intelligente creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza essenziale
per il fatto stesso che è partecipante della verità, ma non è /a Verità, la
contingenza della mente creata, che è per la Mente assoluta increata. Non una
soltanto di ordine, diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma an- che
e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: siamo enti perchè
l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; come esseri e per quanto abbiamo
di essere abbiamo di verità, e la verità che siamo è il nostro grado di essere:
ciò che è vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere principiato
implica l’esistenza di Dio. Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere,
ed iden- tificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il Non-essere
e il mio non-essere è implicato il mio essere, altrimenti non potrei pensare il
Non-essere e me come non- essente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere,
un essere, ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esi- ste,
esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente è indipendente e
allora ogni ente è #n essere assoluto in- dipendente, ciò che è assurdo perchè
non ci sono più esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipen- dente;
o l’ente dipende da altro per esistere e allora, ba- sta che esista l’ente
finito, perchè esista Dio come Essere assoluto indipendente. Il problema
dell’esistenza di Dio è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro cono- scere,
ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o evitarlo solo evitando o
scartando se stesso, tanto tale pro- blema è radicato in lui ed egli in esso.
Ora, se la parte- (11) Superfluo avvertire che questa espressione è
differentissima dall’altra hegeliana: « ciò che è razionale è reale e ciò che è
reale è razionale », del resto già da noi criticata. 158 Filosofia e Metafisica
cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non sia l’Essere ma
dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia estraneo alla Verità o all’Essere
nè l’Essere a lui, ma si avver- ta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo,
che vi è in- commensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante del- l’Essere
e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel senso da noi usato,
importa contemporaneamente attrazione e repulsa; l’ente finito è come attratto
e respinto dall’Essere infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto
perchè non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diver- sità da
ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito diverso da Dio, è perchè
è da Dio: l’abisso che lo divide è contemporaneamente il ponte che lo unisce a
Lui. Ma allora il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di co- noscere
se Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo esiste e conosce, perchè Dio
esiste e solo perchè esiste. Le due formule sono ben diverse: la prima — «
conoscere se Dio esiste » — implica la possibilità del conoscere anche se Dio
non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di fronte al quale la
ragione si pone giudicante come di fronte ad una cosa di esperienza: è la
posizione dell’estrinsecismo razionalistico o «scientifico» dei «razionali non
ragione- voli ». L’altra formula, la nostra — sapere che l’uomo esi- ste e
conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste -— im- porta invece: 4) un
«sapere», che è più del puro cono- scere, in quanto è coscienza piena e
completa di tutto l’uo- mo; ) una dipendenza iniziale e finale dell’ente
integrale che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c) l’impossi- bilità
di esistere e pensare un solo istante se Dio non esi- stesse; d) la
partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, per cui non è di fronte a
Dio, ma, come può esserlo l’ente finito, in Dio ed Egli in lui. Per
conseguenza, il problema dell’esistenza di Dio non è di «conoscere se », ma di
« sa- pere che », cioè di acquistare consapevolezza della dipen- denza iniziale
e finale, della partecipazione interiore, per cui L'esistenza di Dio 159 si è
in Dio: siconoscono le cose esterne, fuori di noi; si sanno le cose che sono in
noi e noi in esse: perciò si sa che Dio esiste. « Essere in Dio » non
significa, evidentemente, identifi- carsi con Lui o essere della Sua stessa
natura, ma sapere di essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa
perchè Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza significa,
dunque, acquistare coscienza della nostra dipen- denza ontologica, sapere che
noi siamo, viviamo, pensiamo e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a
Lui. La dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, poichè siamo
la verità da cui essa muove e la testimonianza vivente di quell’esistenza. Gli
uomini sono esistenti in questa verità che li unifica: sono reali,
frammentariamente, nell’e- sperienza fenomenica. Io «sono reale » nella
scienza, ma « sono esistente » nella mezafisica e soltanto nella metafisica. Pertanto,
l’esistenza di Dio è un « problema » solo fino a quan- do l’uomo non conquista
la piena consapevolezza di sè e del suo essere, non è presente a se stesso, che
è essere presente a Dio, sempre presente; se lo è, non è più problema, ma evidenza.
Non inizialmente e perciò dapprima è problema; provvisorio, fino a quando il
pensiero non dissipa l’oscu- rità che avvolge la verità originaria, non
acquista consape- volezza di se stesso. L'esistenza di Dio non s'impone alla mente
con evidenza immediata, in modo da metterla nel- l'impossibilità di dubitarne;
è una verità che va cercata, ma, conquistata, è un’evidenza. La conoscenza di
sè lo è di sè principiato dal Principio; dunque, il pensiero che conosce se
stesso, sa che Dio esiste e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In
breve: se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è, non si conosce.
L’ateismo è una questione di analfabetismo; ignoranza dell’intelligibilità
metafisica di se stessi, perchè ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e
della essen- ziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 160
Filosofia e Metafisica perchè sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un
ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel processo della ricerca, non
nella verità che lo guida. Questo processo si attua attraverso due momenti di
tra- scendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di giudizio sono le cose, il
« mondo visibile » di Platone, per elevarsi all’intelligenza della verità; 4)
di questa o della verità in noi, r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque,
trascendimento dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e del- l’interiorità
(mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè ancora del momento
gnoseologico (ragione) e di quello in- tuitivo (intelligenza). Trascendimento
che non è negazione; è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla
profondità di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che so- vrasta
ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza dell’Esistenza di Dio,
Mistero che solve ogni enigma, dà all’uomo il presentimento (ma solo questo e,
in questa vita, sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella vi- sione
ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle cose, dal discorrere
ormai superfluo della ragione, sarà tutto l’uomo, l’uomo assoluto, non come
specie, ma come singolo ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto,
si ar- riva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la nostra
grandezza. La ragione nel campo della sua attività è autonoma: giudica di ogni
cosa del mondo senza essere giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e
l’umana au- tonomia della ragione più piccola della piccolezza del « vi- sibile
». Quando Francesco Bacone, esaltato dai progressi della scienza, esigeva un
metodo (con lui, Cartesio e Galilei) che consentisse all'uomo di farsi padrone
della natura, di dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva abba- stanza
che la grandezza umana era in tal modo assoggettata ai limiti della natura
stessa: l’uomo abdicava all’infinito della sua intelligenza per incoronarsi
piccolo re delle pic- cole cose, oggetto del conoscere razionale. La scienza è
la L'esistenza di Dio 161 grandezza dell’uomo razionale, la sua cosmicità, ma è
proprio essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui avverte la sua
dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera grandezza, la sua
spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uo- mo è piccolo nella sua grandezza, la
scienza del mondo; è grande nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la
non- conoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di fronte al mondo si
tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di es- sere. Il pensiero moderno
ha identificato l’uomo con il suo conoscere ed ha perduto l’intelligenza
dell’uomo, cioè il problema del suo essere, del « consistere » del suo «
esistere ». Come abbiamo detto, non può essere pensato l’ente avente un certo
grado di essere senza che si pensi implicitamente al- l’Essere che è
l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e ogni grado di essere; ma la
consapevolezza dell’ente finito di par- tecipare e dipendere dall’Essere lo
ordina a Lui. La parte- cipazione iniziale lo spinge ed orienta a quella
finale, al- l’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua interiorità; il pensiero
è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio. In questo senso, è come
specificato dall’Essere a cui tende: la verità presente alla mente preforma
l’intelligenza e la di- rige verso Dio — è il senso profondo dell’idea
dell’essere del Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Es- sere —;
la partecipazione manifesta la sua profondità nella finalità” ultima
dell’intelligenza. Ma se è così, nell’intelli- genza, il cui fine è Dio,
troviamo una solidarietà con la vo- lontà: la partecipazione finale si
chiarisce come la finalità suprema dello spirito nella sua totalità di vita. CapitoLo
IV LE IDEE I. — Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori di
Kant. Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his intellectis sapiens
esse nemo possit (!*). Quattordici secoli dopo, con ben altro orientamento di
pensiero, Leopardi annotava (18 luglio 1824) nello Zibaldone: « Certo è che,
distrutte le for- me platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Dio» (?). Queste
due profonde osservazioni di uomini così diversi e lontani nel tempo, per la
loro perfetta coincidenza, sono estre- mamente significative. Per il santo dei
primi secoli, come per l’« ateo » dell’800, di formazione illuministica, negare
le idee come conoscenze in sè, anteriori alle cose e misura og- gettiva per
giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o nella mente umana vi è una verità
che non deriva dalle cose nè pone essa stessa e allora per questa presenza di
qualcosa di immutabile e necessario, di illuminante e fecondo, ci si con- vince
razionalmente che Dio esiste ed è irrazionale dire il contrario, o si nega che
vi è una verità di tal natura e con essa la presenza di Dio e non è più
possibile pensare o pro- vare l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e
provvi- dente. Se tutto nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato senza
traccia orma immagine vestigio divino, è impossibile dargli la nozione di Dio:
egli è stato privato di quanto gli (I) S. Acosrino, De diversis quaestionibus
83, q. 46, n. 1. (2) G. Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella
letteratura, Firenze, Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° L'esistenza di Dio 163 è indispensabile per poterlo
trovare e provare, del lume della ragione, dell’oggetto che fa intelligente la
sua intelligenza. Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo stesso,
non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si perdesse nella finitezza e
contingenza sua e del mondo, cosa tra le cose. Perciò Platone, il metafisico
delle Idee, è il pa- dre della metafisica della verità, essenzialmente
teistica: se esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste.
Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è ban- dire Dio dal
pensiero. Se la mente non conosce nulla di immutabile e necessario, niente vi è
per essa d’intelligibile o di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di
assolutamente vero è conosciuto dalla mente — insopprimibilità delle ve- rità
che fa contraddittorio lo scetticismo — l’intelligibile è, e Dio è. Se non
s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; cioè: chi non è presente alla
verità che è in lui è insipiens,e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel
che dice, non sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi og- gettivi,
che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; chiuso al lume
dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice concupiscenza del senso e della
ragione: un irragionevole raziocinante. Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta
volgare nella schia- vitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche
tempo qualificata « nobile» ed «eroica», nella passione o su- perbia della
ragione, quella che sta alla base della nega- zione cosidetta « scientifica » o
« filosofica » dell’esistenza di Dio: rifiuto di conoscersi, negarsi della
ragione a se stessa. Il suo limite non è l’impossibilità di trascendere
l’esperienza, ma il rifiuto di trascenderla, l’ignorare che in essa è pre- sente
qualcosa che la trascende. Ragione «critica » non è quella che si autonega la
capacità di oltrepassare l’esperienza, ma la ragione che sa che non può non
oltrepassare l’esperienza e se stessa, in quanto cosciente di possedere una
luce,la ve- rità, secondo la quale giudica, che è più di essa ed ha dun- 164
Filosofia e Metafisica que al di là della sua mutevolezza il Principio
creatore. Solo se la ragione conosce che la verità è più e non meno di essa, ritrova
se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di Dio non si aggiunge
all’esperienza quasi dall’esterno, ma è implicito nel problema dell’esperienza
e nella esperienza stes- sa, che, in questo caso, è testimoniante: per il fatto
che io ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima che per inferenza esplicita,
l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato che l’attesta. Kant ha il
torto di considerare l’esperienza sensoriale il limite della ragione,
affermazione che consegue dalla riduzione delle Idee o verità prime, intuite
dalla mente e fondamento della veridicità di ogni giudizio, a forme « prio- ri,
a pure condizioni della conoscenza. Qui il punto della questione: le Idee per
l’idealismo ontologico sono verità, conoscenze prime, oggetto interiore della
mente; sulla base di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo
verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee primali, che
l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una verità che è data ed è più
dell’io; dunque esiste Dio, la Ve- rità in sè donante, illuminante, creante.
Per Kant, le forme a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza e
da essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son funzioni di esso,
forme dell’attività sintetica del pensiero; non verità o conoscenze, ma pure
condizioni del conoscere e perciò vote: il contenuto lo riceviamo
dall’esperienza, 4 posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son
vuote, la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo dell’esperienza;
dunque valgono solo a costruire e sistemare contenuti empirici. È evidente che,
svuotate le Idee del loro contenuto di verità e fatte condizioni della
conoscenza delle cose, non possono più trascendere l’esperienza dalla quale re-
stano bloccate; dunque, non è più possibile una metafisica come scienza, tra
l’altro, una dimostrazione razionale dell’esi- stenza di Dio, in quanto le
verità, secondo cui la ragione L'esistenza di Dio 165 giudica dell’esperienza,
non sono più tali, ma pure condi- zioni di essa; le forme a priori non
trascendono la ragione, ma ne sono funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non
derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Cono- scenza valida è solo
quella razionale e tutto il sapere è identificato con la conoscenza
scientifica. Kant nega il sa- pere intuitivo dell’intelligenza e perciò deve
negare che si possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla sua
cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e lo si priva di Dio,
che non è problema della ragione, se prima non è problema dell’intelligenza.
Così è distrutta qual- siasi possibilità di dimostrare Dio perchè sono state
di- strutte le Idee. Chi ha parlato di « veleno kantiano », da questo punto di
vista, ha avuto ragione, anche se egli, se tosse vivo, ci darebbe torto, ma non
a ragione, per il tipo di apriorismo non kantiano qui sostenuto. In breve, Kant
nega l’onticità dell’Idea e un sapere in- tuitivo: limite della forma 4 priori
è l’esperienza senso- riale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a
tra- scendere l’esperienza, cioè è il « cosmo», la «scienza ». Il concetto
critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzio- nalità nell’esperienza,
e il concetto critico dell’esperienza che ha il suo limite nell’4 priori che la
organizza, sono criti- ci a metà: sono critici del concetto di scienza, non del
concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pen- siero, la sua
preformazione è tale da avere il suo oggetto ade- guato nel mondo fisico, in
quanto l’esperienza fenomenica adegua la forma: il pensiero è ordinato al
mondo, che è la sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione ini- ziale
all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il con- cetto di creazione;
infatti, se è posta la partecipazione ini- ziale, risulta contraddittorio
negare quella finale, cioè am- mettere che l’Essere creatore abbia preformato
l’ente creato 166 Filosofia e Metafisica in maniera da non essere ordinato a
Lui, ma da avere la sua adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura
è dal Creatore, non può non essere stata creata in modo da es- sergli ordinata;
dunque la partecipazione iniziale implica necessariamente quella finale. Per
Kant, invece, l’4 prio- ri ha la sua adeguazione nel mondo — nell'ordine na- turale:
«il cielo stellato» e «la legge morale» — per conseguenza il mondo è la sua
finalità suprema, e dun- que anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato
dall’or- dine del pensiero e da quello della realtà; non si spiega più neppure
come possano nascere l’esigenza di Dio e le Idee della ragione, che non si
giustificano, dentro il sistema kan- tiano, neanche come postulati della
ragione pratica; Kant ve li introduce, ma restano estranei alla Critica com'è
intesa da lui, la quale si risolve nel sistema della « cosmicità ». La Critica
non è tanto critica da approfondire l’interiorità del pensiero, da sondare le
profondità dell’intelligenza: le manca l'intelligenza dell’intelligenza, e non
s’accorge che esigenze e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli
altri pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni indelebili
e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, fa- cendo l’uomo ente pensante,
gli diede il lume della verità e la verità come oggetto del pensiero. Se ne
accorse il Rosmini, la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori
kan- tiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di Dio in noi
(partecipazione iniziale) e preforma il pensiero stesso in modo che ad esso è
impossibile invenire in alcuno dei contenuti di esperienza, o in tutta
l’esperienza, il suo oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in
solidarietà con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del reale,
all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, convogliante, come
letto d’immenso fiume, le innumerevoli sorgenti della vita, la totalità del
creato. L'esistenza di Dio 167 2. — L'Idea nell’'empirismo inglese. Kant deriva
il suo « criticismo » dal Locke, dallo Hume e dalla barbarie filosofica
dell’Illuminismo, di cui è il più grande rappresentante. Locke è il primo
consapevole e siste- matico distruttore dell’Idea nel senso dell’idealismo
ogget- tivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni, immagini, percezioni,
ecc., quanto è contenuto della «coscienza» : l’idea non è più l’oggetto
intelligibile, immagine « priori dell’Intel- ligibile in sè, ma immagine del
sensibile: l’anima, white paper, acquista le idee, puro contenuto della
coscienza sog- gettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke, funzione
della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo tra le idee-immagini
sensibili; per conseguenza, la verità è « unione o separazione di segni »
(joining or separating ofsigns), cioè di quelli impressi dalla esperienza
sensoriale: il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della verità.
Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sen- sibile complessa, cioè
una somma di qualità prive di vin- colo reale; è « coesistenza continua » di
alcune idee semplici, « considerate » (considered), per tale continuità di
esistenza, unite in una cosa ed indicate con un « nome »; 5) l’identità della
persona non viene da una sostanza permanente e perse- verante al di sotto del
suo divenire, ma semplicemente dalla continuità della coscienza: la mia
identità arriva fin dove arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di
cui si cono- scono solo le qualità, abbiano un « sostegno », un'entità reale €
che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: «Io non so cosa sia » (I dont know what).
Conclusione: l’idea è d'origine empi- rica, un puro nome, un contenuto della
coscienza soggettiva; non esiste un correlato oggettivo del pensiero; la
ragione unisce e divide « segni » che, soggettivi, non garantiscono l’oggettività
dei giudizi; dunque, non esiste una verità intel- ligibile, l’Idea come oggetto
della mente, non prodotta ma solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza.
Per l’ideali- 168 Filosofia e Metafisica smo oggettivo gli intelligibili sono,
come Verità in sè, il con- tenuto della Mente assoluta; come presenza della
Verità in sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento oggettivo
dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfet- tamente nelle cose, di cui
costituiscono l’essere o il grado di verità. In altri termini, sono il Primo
Vero da cui deriva ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è
di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Pla- tone nel Timeo
chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non sono il prototipo o l’esemplare
intelligibile, ma pure imma- gini di origine sensibile: quanto noi conosciamo
della realtà è quanto di « idee » o immagini ci forniscono i sensi; il reale conosciuto
s’identifica con il contenuto della nostra coscienza empirica. Com'è noto, lo
Hume, con maggiore coerenza del Locke e attraverso un approfondimento critico
dei presupposti del- l’empirismo, non dice di « non sapere » cosa sia la
sostanza, ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, s’identifica
tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con le « impressioni » e le «
idee ». Ma, per lo Hume, tra le une e le altre non vi è differenza di origine —
le prime sono « co- pie di nostre impressioni» (copies of our impressions) — bensì
d’intensità, le idee sono « percezioni più deboli » (more fleeble perceptions);
per conseguenza, di fronte ad un'idea, bisogna chiedersi di quale impressione
sensibile sia la copia. Non vi sono «sostanze »: quella che così si chiama è un
insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vin- colo causale
necessario ed oggettivo, ma solo I’ « attesa » che al fatto 4 segua il fatto d:
è l’« abitudine » (custom) che fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra
le idee se non per « somiglianze » (resemblance), per « contiguità tempo- rale
o locale » (contiguity in thime or place), per causa ed effetto, cioè seguenza
accidentale di due fatti. Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua
presenza L'esistenza di Dio 169 alla mente indipendentemente dall'esperienza
sensoriale, non è più possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento della
conoscenza e della realtà; vien meno ogni regola della vita intellettiva e
morale, ogni sostegno delle cose. Distrutte le Idee, non vi è più alcuna
ragione che le cose siano come sono e non diversamente, che la ragione giudichi
in un modo o in un altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il fatto
che non vi sono più princìpi necessari, immutabili ed universali (*). Ciò prova
come il punto cruciale del proble- ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro
metafisico, sia la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e come
la mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, come fa lo Hume, cade la
validità oggettiva di ogni prin- cipio e qualunque dimostrazione è impossibile
4 priori ed 4 posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in- fatti,
dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione argomenta; dunque dal
problema della verità: secondo che questo è risolto positivamente o
negativamente anch'esse sono valide o no. Ma se è risolto positivamente è già
dimostrata l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi altra
dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono (3) Ancora una volta il
Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non filosofo nel senso tecnico
del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- sismo), scrive il 17 luglio
1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100): « Quindi è chiaro che la distruzione
[per un errore di stampa nel testo si legge « distinzione »] delle idee innate
distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta e de’ loro
contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- mento,
una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- tengono,
e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei
detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma?
e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea ci
deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e
il buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate
dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341)
ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente
essere così 0 così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni
volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola
ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è
buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la
convenienza delle cose tra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente
». 170 Filosofia e Metafisica legate alla sorte di quella « dalla verità », da
cui dipendono, di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. Hume è
una buona lezione; negata l’oggettività dell’Idea è negato Dio; niente più
regge, non lo spirito nè le cose, non la filosofia nè la scienza. In questo
senso l’ultrailluminista Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo
del- l’«uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito illuminista, in
quanto rappresenta la vanificazione del reale ‘spirituale e corporeo e di ogni
categoria del reale, la banca- rotta del razionalismo e dello scientismo
illuministici. 3. — Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e validità
del giudizio. Kant si accorse della rovina della conoscenza oggettiva e della
metafisica come scienza, conseguenza della negazione delle Idee; se ne accorse
perfettamente anche il Rosmini. Ed ecco i due pensatori porsi gli stessi
problemi: 4) dell’oggetti- vità del conoscere; 4) della restaurazione della
metafisica co- me sapere razionale. La risposta di Kant è nota: i princìpi del
conoscere non possono essere ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 4
priori della mente, oggettive ed universalmente valide, con cui lo spirito,
mercè l’attività sintetica, costruisce l’esperienza, che alle forme fornisce il
contenuto. Ma, per Kant, come abbiamo detto, le forme @ priori non sono
conoscenze, ma pure («vuote ») condizioni della conoscenza: per lui non vi sono
verità 4 priori, interiori alla mente e da essa intuite, ma di 4 priori c'è
solo la « forma » del conoscere. Per conseguen- za, egli nega che vi siano
verità intelligibili, oggetto dell’in- telligenza, cioè è d’ accordo con gli
empiristi nel rigettare 1’ «idea » com'è concepita dall’idealismo oggettivo.
Per con- seguenza, quando affronta il problema della metafisica come scienza
non può non rispondere negativamente: le forme 4 priori, pur essendo
indipendenti dall'esperienza, come sue L'esistenza di Dio IZI pure condizioni,
al di fuori e al di là di essa non hanno al- cuna validità conoscitiva: 4
priori, ma bloccate nella e dalla esperienza. Prodotto dell’attività dello
spirito e prive di un contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma
sem- plicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono « giudicare »
solo le cose di esperienza sensoriale. Ogni meta- fisica come scienza razionale
risulta impossibile, come ogni prova dell’esistenza di Dio. In breve, Kant nega
un sapere intuitivo, nega l’intelli- genza e perciò l’intuizione
dell’intelligibile, la presenza alla mente della verità: la forma più alta di
sapere è per lui il conoscere razionale o scientifico, la matematica e la
fisica come scienze. Kant « critico » non è « platonico », è « aristo- telico
». L’intelletto e le sue forme « priori (le « categorie ») non sono attualità
di conoscenza, ma potenzialità di cono- scere: quello kantiano è un «intelletto
possibile», in quanto le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma pure
condizioni del conoscere e condannate a restare tali fino a quando non vengono
« riempite » dal contenuto del- l’esperienza; senza di esso, l’intelletto, in
sè, è privo di cono- scenza, è pura possibilità di conoscere. Per conseguenza
esso, che non è in sè attualità, può conoscere soltanto quanto è oggetto di
esperienza, le cose sensibili nella loro fenomeni- cità. La conoscenza di tipo
scientifico o razionale diventa così il modello del sapere e l’unico sapere
umano. Kant critico — almento il Kant della Ragione pura — è più « illuminista
» del Kant « precritico »: è il filosofo della ragione senza in- telligenza,
della razionalità impersonale e non dell’ uomo concreto. Ma egli vide
chiarissimo un aspetto del problema di Dio: che la prova cosmologica, come ogni
altra, in fondo dipende da quella ontologica, che non è da identificare con la
prova « dalla verità » o « dalla vita dello spirito », anzi la presup- pone e
in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 172 Filosofia e
Metafisica sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla mente. Fino
a quando Kant fu « platonico » — o come si dice « pre- critico» — considerò
valida la prova ontologica; diventato «critico » la rifiutò, perchè, negate le
verità primali date alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote con- dizioni
del conoscere, gli era preclusa la possibilità di dimostrare razionalmente
l’esistenza di Dio 4 priori e con- seguentemente 4 posteriori. Ancora: col
riconoscere la im- portanza primaria, rispetto a quella cosmologica, della pro-
va ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esisten- za di Dio inerisce
alla vita dell’ente spirituale più che a quella del mondo fisico; perciò egli,
dopo aver creduto di aver colpito al tallone l’Achille della metafisica,
riprese il pro- blema in sede morale, cioè a proposito di un altro aspetto della
vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’ « idea cosmologica » dall’
« idea teologica » facendo di quest’ ulti- ma un problema di pertinenza
dell’attività morale. Ma, per lui, l’Idea è sempre una forma « vuota », che
aspetta di rice- vere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione della
metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiusti- ficata nel suo
sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione nel senso kantiano, sarebbe un
puro possibile; ma se Dio è solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che
è diventa di colpo impossibile ed inesplicabile. L’idealismo trascendentale
salta il fosso della pura « nou- menicità » dell’idea teologica, come dell’idea
cosmologica e di quella psicologica; rovescia il fondamento metafisico del- l’idealismo
oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa il pensiero umano principio
della verità: non è « percettivo » ma di essa « costitutivo »; pensandola la fa
essere. Così l’im- manentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica
alla trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascen- dentale o
spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o autentico. Hegel è
implacabile contro l’ « immediato », cioè L'esistenza di Dio 173 contro il «
sapere intuitivo » o dell’intelligenza che, come implicante la Trascendenza, è
l’ostacolo maggiore alla ridu- zione di tutto il sapere al mediato conoscere
razionale. La metafisica della verità è negata in quella del Pensiero o della Ragione
assoluta, cioè nella metafisica dell’assoluta irragione- volezza, e l’uomo
decapitato come singolo. La metafisica è perduta, ma resta il problema kantiano
della sua restaura- zione. Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica
dell’em- pirismo moderno non concluse alla forma 4 priori come pura condizione
del conoscere, ma all’Idea come oggetto intuìto dalla mente. Egli riprende
l’Idea dell’idealismo oggettivo, verità intuita dalla mente, ad essa data e di
essa lume; restau- ra la verità primale come fondamento di ogni giudizio e su questa
base ricostruisce la metafisica. Rosmini comprese benis- simo che per arrivare
a Dio, o si passa dalla verità a noi inte- riore e trascendente, o non si passa
e non si arriva, tanto da distinguere, a proposito del problema delle idee, l’
aspetto «ideologico » da quello che chiama « teosofico ». Il problema
metafisico vero e proprio è quest’ultimo: origine da Dio dell’Idea dell’essere,
oggetto intuìto dalla mente senza che esso sia Dio. Qui la soluzione del
problema ideologico: le altre idee sono « figlie » dell’idea « madre » dell’essere,
cioè giudizi sulle cose che ci presenta l’ espe- rienza. Noi non accettiamo
alla lettera questa dottrina, ma facciamo nostra la sua anima di verità: vi
sono verità se- conde (i giudizi sulle cose) per le quali è necessaria l’espe- rienza
e sono dunque 4 posteriori, ma vi è in esse un ele- mento 4 priori, una verità
prima — e non kantianamente pura condizione del conoscere — che le rende
possibili, la quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla mente;
viene da Dio ed è alla mente data. Così è restaurata l’Idea nel senso
dell’idealismo oggettivo e, con essa, ricosti- tuito il fondamento per la
dimostrazione razionale dell’esi- 174 Filosofia e Metafisica stenza di Dio;
ripristinato il concetto della partecipazione iniziale e finale all’Essere (*).
Da Cartesio a Hume due esigenze fondamentali dividono il pensiero moderno
intorno al problema della verità: l’esi- genza razionalista e quella empirista.
Il razionalismo appro- fondisce un problema che non va perduto di vista: se non
vi è una verità prima indipendentemente dall’esperienza è im- possibile una
conoscenza oggettivamente valida; le conclu- sioni dell’empirista Hume
confermano la veridicità dell’istan- za razionalista. L’empirismo da parte sua,
contro l’apriori- (4) Nel grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto
in seno all’em- pirismo inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley.
Grossolana e senza fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la
realtà del mondo; in- fatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico
e nominalistico, resta in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea
dell’idealismo ogget- tivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno;
dice soltanto che è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito
che se lo « rappresenta ». Questa affermazione può essere intesa in due sensi:
2%) il mondo è la rappresentazione soggettiva di uno spirito — e non si sfugge
al fenomenismo —; 5) il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale,
co- me oggetto intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi.
Forse il Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco
che fa del termine «idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è
la se- conda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal
fatto che il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, «
io non deduco che le cose non esistono realmente », ma — siccome non dipendono
dall'essere percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione
— « concludo che deve esistere un altro spirito nel quale esistono ». Dunque,
per il Berkeley a) le cose esistono realmente; £) non esistono perchè io o
un’altra coscienza finita ce le rappresentiamo; c) siccome però non possono
esistere da sole per la loro finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito
infinito ed assoluto, cioè in quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le
cose pensandole, cioè secondo un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in
quanto Dio (la Mente) le pensa. Interpretato così — le idee hanno un valore
oggettivo di esemplari eterni della Mente creatrice — è sulla linea
dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo mondo perchè esiste, ma questo
mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tom- maso: Universas creaturas non
quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia movit. Che sia così lo prova
anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose non è nel « percepirle »
(in tal caso la loro realtà sarebbe « posta » dal soggetto come per altre forme
di idealismo), ma nell’« essere percepite », cioè nell’« es- sere pensate »
come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha creato, cioè lo
ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. Berkeley più che gnoseologo è
metafisico: tema primo della sua speculazione è la teologia naturale, esistenza
di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua me- tafisica interiorista c non
cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella linea pla- tonica; meglio, per
restare più vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non nella cartesiana. L'esistenza
di Dio 175 stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, ri- vendica
il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, il fatto o il dato
dell’esistenza. Le due istanze vanno conser- vate e perciò pongono il problema
della loro sintesi. Il vichia- no « giudizio storico », sintesi di « filologia
» e « filosofia », è il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di
vista, oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La « sintesi a priori »
di Kant e la « percezione intellettiva » del Rosmini sono la maturità del
problema e le sue due soluzioni. Dun- que, dopo Vico Kant Rosmini, non c’è più
questione sulla sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è, capitale e
decisiva, sulla natura della forma o del principio della validità del conoscere
stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del pensiero, o 5) sua attività
creatrice, o c) dati al pensiero, suo oggetto, sapere originario? Questa la
gran questione: la prima risposta differenzia Kant dall’idealismo trascenden- tale
(seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a Kant e all’idealismo. Come si
vede, è in questione il problema della validità del giudizio: l’4 priori è
oggetto della mente, o suo prodotto? Torna in discussione, in piena maturità
del pen- siero moderno, il problema centrale della teoria della cono- scenza di
S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica, anche se in diversa maniera,
fanno il pensiero umano crea- tore della verità, fondamento a se stesso: il
primo ontologico è il primo conoscitivo. La risposta rosminiana, conforme nel- lo
spirito a quella di S. Agostino e della tradizione plato- nica, fa della verità
primale il lume dell’intelletto, dono di Dio, una Sua presenza alla mente. La
verità, così intesa, implica l’esistenza di Dio ed è il fondamento
dell’argomen- tazione razionale che la dimostra. La prima risposta dice: «l’uomo
dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo e nega Dio: è la
risposta atea; la seconda: «l’uomo riceve la verità da Dio », e con ciò
stabilisce un rapporto di dipen- denza essenziale tra l’uomo e Dio: è la
risposta teista. Ma la prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo
fa- 176 a Filosofia e Metafisica tale: «se l’uomo dà la verità a se stesso, la
verità è tutta umana »; dunque, «deteologizzazione » dell’uomo e della sua
verità. Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nulli- smo. Lo sviluppo è
coerente: dalla negazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo; dalla
deteologizzazione dell’uomo alla sua negazione, al nulla. La parabola
dell’immanentismo si conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge
nel- la sua indistruttibilità. CapitoLo V LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO I. —
Critica e precisazioni. Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, mol- to
superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse a chi sa quali
«lontani pericoli ». È necessario intenderci sulla questione, anche perchè non
ci sembra onesto che l’ac- cusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi
dall’errore è immune. C'è conoscenza mediata di Dio quando: «@) obiectum se reddit
cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quod- ammodo similis; b) res
cognoscitur per speciem alterius rei (cognitio rei per speciem relucentem in
speculo, v. g. sensi- tiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito
della dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente alle due
proposizioni: a) la verità che la mente umana in- tuisce non è la Verità in sè
o Dio, quantunque ad essa si- mile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui
riflessa nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la Sua intima
essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è Dio; essa fa che Lui, pur essendo
la sua natura diversa da quella della creatura, non sia un fine separato
dall’uomo, co- me pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, per
opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua vo- lontà, per cui
l’uomo, tornando al Creatore attraverso la Sua presenza in lui, opera di Dio
stesso, compie un atto che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra
mente 178 Filosofia e Metafisica vi è una verità primale che viene da Dio e
dunque qual- cosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore attraverso
l’intermediario della verità. Consegue che lo spi- rito che cerca la verità
cerca Dio: chi pensa la verità e nella verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In
questo senso ab- biamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. In
altri termini: la presenza immediata della verità alla mente non significa
presenza immediata di Dio, intuizione della Sua essenza o contatto diretto
della mente; significa solo presenza immediata della verità com’è data alla
mente da Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. Se qualcuno
ci accusasse ancora di ontologismo gli do- manderemmo se esclude qualsiasi
rapporto tra l’uomo e Dio, qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di
partecipa- zione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha separato
il Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai Dio col pensiero: se per
noi il pensiero è teistico, per lui è ateistico. Certo, non vi è visione
immediata di Dio nè cono- scenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è
errore l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi è un tipo di
ontologismo — sfido l’uso della parola compro- messa — diverso dall’altro, anzi
di esso la confutazione, il quale non esclude l’intuizione di verità
intelligibili, interiori alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa
e poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, come abbiamo
sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presen- zialità della verità in noi e a
noi, non di dato inerte get- tato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia
ope- rante, di presenza attiva e attivante il dinamismo del pen- siero, da essa
orientato e guidato e senza di essa inesplicabile ed incomprensibile. E
«interiorità » della verità significa «trascendenza » della verità stessa. Ora,
se per ontologismo s'intende intuizione o visione immediata e diretta di Dio,
il nostro, ripetiamo, non lo è affatto; se, invece, si considera impropriamente
e a torto on- . L'esistenza di Dio 179 tologista ogni posizione filosofica che
ammette verità ante- riori all'esperienza e interiori alla mente che le
intuisce, al- lora anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente da
spartire con l’altro. Infatti, per noi, di Dio vi è solo co- noscenza mediata
ed indiretta, per partecipazione e analogia; dunque, l’impropria qualifica ci
lascia perfettamente tran- quilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di
chi ci chia- ma ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga che
l’uomo sia del tutto separato da Dio. E che noi parliamo di analogia e non di
univocità nessun lettore di buona vo- lontà può metterlo in dubbio. « Vedere »,
« intuire » la verità che è in noi, non è affatto « vedere », « intuire » Dio:
non conosciamo la Verità in sè, ma quanto di essa è riflesso nello « specchio »
della nostra anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi e la Ve- rità in
sè vi è « somiglianza»: dunque rapporto di « ana- logia », che esclude
l’identità o l’univocità delle due nature. La mente « partecipa » della divina
Verità non direttamente, ma mediatamente, attraverso l’intermediario della
verità ri- flessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: è riflesso
divino senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora vedremo facie ad faciem (!).
La verità, lume e vita del- l’umana mente, ha i caratteri divini della
immutabilità e dell’assolutezza, ma non è Dio: è «il più splendido riflesso » di
Lui (?). In questo riflesso la mente vede ciò che conosce assolutamente e ciò
si dice omnia in divina veritate vel ratio- nibus acternitatis videre et
secundum cas de omnibus iudi- care (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente —
non on- tologisticamente nè aristotelicamente — S. Agostino: l’ana- logia da
noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è identica a quella tomista tra
l’essere riferito a Dio e l’essere riferito a noi. (1) S. Agostino, De
Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. (2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c.
24, n. 40. (3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 180 Filosofia
e Metafisica 2. — Conoscersi ed essere conosciuti. Essenziale il problema del
conoscere, ma più, quel- lo dell’essere conosciuti; infatti, l'indagine sul
fondamen- to metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo co- nosce ed è
capace di verità in quanto è conosciuto. Il socratico « conosci te stesso », al
pari del cartesiano Cogito, va anch'esso integrato: « Conosci te stesso e
saprai che sei conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te troverai la pre- senza
di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando non avrai trovato questa
presenza. La scoperta della verità in noi, il passaggio dal suo stato implicito
e oscuro, avver- tito quasi come un lontano presentimento, allo stato d’in- tuizione
chiara ed esplicita è una folgorazione, come se un fascio di luce investisse di
colpo e improvvisamente la mente umana. Perciò l’intuizione della verità ci dà
ad un tempo gioia e sgomento, senso di possesso e di ossequio: scopriamo in noi
qualcosa che è più di noi. Nel momento che l’intel- ligenza è folgorata, quello
della scoperta, una ricchezza la riempie e la fa folgorante: ricchezza e
povertà, quella di chi è ricco per avere ricevuto in dono la ricchezza per cui
è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo anticipo per guadagnarsi la
vera Ricchezza. Umiltà ed en- tusiasmo: umiltà di fronte alla verità che è
divina; entu- siasmo chè essa, che è più di noi, è in noi. La verità intuita è
indissolubilmente della nostra mente: figlia della verità, perchè tale, la
mente è partorita madre di verità, creatrice di molteplici veri. L'intelligenza
è poessca; creatrice di bel- lezza, di bene, di giudizi veri in forme sempre
nuove ed infinite. Una verità scoperta è il motivo centrale che ri- torna, come
in una sinfonia, variamente orchestrato nei veri che produce; c’è armonia,
profonda, della intelligenza, del senso e della ragione; c’è l’unità concreta
dello spirito nella luce della verità, il quale vede chiaro dove prima era buio,
ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta, che L'esistenza di Dio 188 è
nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi in una zona di luce, al di là
della quale permane il sacro mistero di Dio: la verità che ci sovrasta rimanda
ad un Mistero che ci som- merge; ma nel suo abisso presentiamo che sarà la
nostra chiarezza totale e definitiva, alla quale tende la mente, dal mistero
sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite della filosofia totale
dell’uomo integrale, quella che è mania: meraviglia, entusiasmo, follia. La
verità in noi stimola, per- cuote, pungola, sferza, fa di chi la ama un « genio
di verità ». La preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa padre
di veri è una sola, semplice e vera: « Signore, che sei la Verità, fa che io,
nella umiltà della mia piccolezza e nell'amore per la Tua grandezza, possa
essere il più pazzo dei saggi ». CaritoLo VI LA DIMOSTRAZIONE DALLA «VITA DELLO
SPIRITO »: B) DALLA VITA MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE DI BEATITUDINE 1. —
Contraddittorietà dello scetticismo. I risultati, a cui fino ad ora la nostra
ricerca ha appro- dato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e fi-
nita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quan- to oscura e
confusa, ha intuizione originaria: le sono pre- senti, interiori; 2) di esse la
ragione si serve per giudicare di ogni cosa; c) son queste verità che ci
insegnano, quasi « maestro interiore », la presenza di Dio in noi; d) esiste la
Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esiste- remmo noi stessi e non
potremmo neppur dire che Dio esi- ste, in quanto mancheremmo di intelligenza.
Degli scettici del suo tempo Aristotele scrive: «somigliano più a delle piante
che a degli uomini » (4); lo scetticismo, in qualunque tempo, prima o poi,
finisce fatalmente per abbassare l’uo- mo al puro livello biologico. L'osservazione
di Aristotele, profondissima, merita un breve commento. Lo scettico nega che il
pensiero umano sia capace di conoscere la verità che gli compete: fatto per la
verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo es- sere sono nulli. Ma
l’uomo è uomo per il pensiero (intelli- (I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. L'esistenza
di Dio 183 genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che l’uomo
somigli più a delle piante che all'uomo che è. Op- pure: il pensiero, senza il
suo oggetto naturale che è la verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è
non-pensiero, è non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello bio- logico).
Qualsiasi questione sull’uomo non ha più senso, ma appunto per ciò, non ha
senso lo scetticismo, che, nel suo stesso porsi, è contraddittorio: si
autonega. Non solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che nega una
verità oggettiva è negazione del pensiero e dunque dell’uomo; lo è l’idealismo
storicista e dialettico. Se la verità e la sua validità sono storiche, consegue
che il pensiero greco è la verità « storica » dell’antichità, quello cristiano
la verità « storica » del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplice- mente che
l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, perchè verità significa verità
e nient'altro: nè antica nè me- dioevale nè moderna, ma verità — scoperta
nell’antichità o nel medioevo, da greci o da italiani — valida per ogni ente pensante,
una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la verità è dialettica e la
dialetticità è l’essenza del reale, conse- gue ancora che niente ha essere e
nulla è vero: la realtà o la verità di ciascun ente è in « rapporto al » suo
contrario dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è quello che
è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun ente ha una sua realtà o
essenza e la verità non è tale. Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della
verità alla mente, perchè solo così si può difendere la validità del pen- siero
e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il pen- siero, è svuotare l’uomo
di se stesso, della sua natura, farlo somigliante, come dice Aristotele, alle
piante e alle bestie. D'altra parte, se si nega validità oggettiva al sapere
umano, si nega il fondamento naturale di quello rivelato, cioè la base della
fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante non avesse lume oggettivo
d’intelletto e discorsivo potere di ra- 184 Filosofia e Metafisica gione ? Il
suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso senso, cioè nessuno,
che per le piante e le fiere; o tanti sensi mutevoli quante sarebbero le
contingenti posizioni « stori- che » del pensiero, o le autonegantesi sue
posizioni « dialetti- che »j cioè ancora alcun senso sensato. 2. — La prova
dalla vita morale. Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva,
af- finchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, e soprattutto
perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di Dio, a nostro avviso,
presuppone quella « dalla verità ». Ma ora è necessario analizzare gli altri
aspetti della vita dello spirito, affinchè la prova manifesti tutta la sua
aderenza al- l’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera la sua
forza normale. La verità originaria presente alla mente non interessa solo la
vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche la vita morale ha
il suo fondamento nei princìpi originari che guidano, orientano e informano
ogni azione, quantunque nes- suna li adegui: ne sono la misura senz’essere da
essa misu- rati. L'azione « buona » o quella « doverosa » non fanno es- sere
bontà e dovere, anzi non vi sarebbero senza la bontà e il dovere, che invece
sarebbero ugualmente anche se nel mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna
azione buo- na e doverosa. Possiamo concludere: non vi sono i valori morali
perchè esistono le azioni che li esprimono, ma queste in quanto esistono
quelli, preesistono a tutte le azioni e ne sono indipendenti. I valori morali
sono innanzi tutto verità oggettive, intuite dalla mente; in questo senso,
anche se « pratici », sono teo- retici, regole della volontà che ad essi è
obbligata a subordi- narsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni qualvolta
ne « riconosce » la verità ed il pregio: è la volontà volente se- condo
l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni L'esistenza di Dio 185.
cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pra- tica di ogni
azione secondo i valori morali, i quali sono verità (e come tali «teoretici »)
regolatrici della volontà e della no- stra condotta e perciò aventi un uso
pratico. Per conseguenza, come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del
cono- scere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in noi di
verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come Verità in sè; dalla
presenza in noi dei valori morali si argo- menta l’esistenza di Dio come Valore
assoluto, Bene sommo. L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito
della prova « dalla verità »: la mente umana è capace di conoscere valori
morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia della volontà che di
essi è come la rivelatrice; essi non sono creati dalla mente o dalla volontà,
nè indotti a posteriori dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque
esiste Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di tutti i valori,
di essi fondamento e sostegno. Il bene morale è anche «attrattivo »; la sua «
attrazione » conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la sua
potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il bene, sua verità; essa ne
è attratta, anche quando lo misco- nosce e gli si pone contro: il pentimento
del male fatto, rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il bene
è il principio motore della volontà e l’elemento infor- matore delle volizioni.
Non c’è felicità senza bene; il suo possesso è la felicità di ogni ente
spirituale; dunque il bene è il principio di ogni nostra azione. Vi è una
intuizione intel- lettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come Bene
sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di Lui e pertanto il rapporto
tra il bene intuito e Dio come Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione
operante, crea- trice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti; esso
genera il movimento della volontà e ne concentra gli sforzi verso lo stesso
fine, che non è solo il bene che l’ente 486 Filosofia e Metafisica finito può
conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il Bene Sommo, che trascende
ogni bene e lo fonda. Amare il bene è operare nel bene, che si possiede in esso
operando; le azioni buone sono le risposte veraci che noi diamo all’oggetto della
nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa regola costante e
continua della condotta, l’ente razionale, stimolato interiormente
dall’attrazione del Bene sommo, cammina e si approssima sempre più alla meta. È
la sag- gezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed in- digente,
suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la norma regolatrice ed
orientatrice. Il Bene Sommo, lume del- la mente e della volontà, illuminando,
ama: Dio illumina ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo amandoci
ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attra- zione del bene; Dio è
l’attrazione assoluta del Bene assoluto. Il dinamismo della volontà, alla quale
è presente il bene, è originariamente orientato verso il Bene Sommo o Dio, Cen-
tro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, che,
altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente spirituale finito
ha dunque il desiderio naturale del Bene Sommo, assolutamente ed infinitamente
perfetto. 3. — La prova dal desiderio naturale di beatitudine. L’ultima
proposizione è la « maggiore », se alla dimostra- zione si dà la forma
sillogistica, di un 'altra prova dell’esi- stenza di Dio, la quale si fonda pur
essa su quella « dalla verità ». Infatti, la proposizione — «tutti gli uomini
deside- rano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto » — non sarebbe
formulabile se non avessimo la nozione del bene oggettivo; ma tale nozione non
potremmo avere — non la crea la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si può
indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la presuppo- ne — se non ci
fosse data originariamente come oggetto in- tuito. Per conseguenza: «) gli
uomini desiderano natural- . L'esistenza di Dio 187 mente il Bene sommo solo in
quanto vi è in loro la sua pre- senza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il
desiderio del Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un principio
di verità. Ciò rileva — diciamo fugacemente — quanto sia errata
l’interpretazione modernista di tale argo- mento, la quale si fonda su un
presupposto agnosticismo che distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo
della prova; come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teo- retico,
limita la forza dell’argomento alla sua portata pra- tica e volontaristica. «Tutti
gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. Quali che siano i
differenti mezzi che adoperino, tendono a questo scopo... La volontà non muove
mai il più piccolo passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte
le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono perdere... »;
così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desi- derio di felicità, naturale
ed irresistibile, è il movente della volontà che, spinta di volizione in
volizione, non sa e non può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce
del Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può ade- guare le
tendenze e i desideri della volontà, il suo desiderio intimo e profondo del
Bene assoluto, anzi il possesso dei beni finiti lo accresce sempre di più: la «
volontà voluta » non adegua la « volontà volente », che vuole ancora e vorrà
sem- pre fino a quando non possiederà l'oggetto della sua suprema aspirazione,
come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli uomini, anche quando si perdono,
vogliono la felicità piena — quella che non rinvia — è evidente che la loro
volontà è originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che è in
essa la presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si può dire con Agostino:
qualsiasi cosa l’uomo cerchi e voglia, cerca e vuole Dio. C’è al fondo del
desiderio naturale di beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può
restare sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 188 Filosofia e
Metafisica volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà rea- lizza
il piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la caduta dell’uomo al
disotto dell’uomo. Vi è un dramma es- senziale alla radice della volontà: vuole
con tutta se stessa il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al
mas- simo della loro forza normale non la garantiscono dalla ca- duta, nè
bastano ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono la condizione
indispensabile perchè essa resti conforme alla sua norma e non evada dalla sua
partecipazione finale. In- fatti, orientare tutta la capacità della volontà
volente verso un voluto finito è atto innaturale, è la guerra della volontà contro
se stessa, contro il suo desiderio naturale del Bene infinito; è il male, in
quanto, dato che il desiderio di infinito è indistruttibile, l’infinita
capacità di volere, concentrandosi in un finito, lo assolutizza, non lo
riconosce per quello che è. Così l’aspirazione all’infinito, teista e
religiosa, degrada in idolatria e fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al
falso per aver detto falso vero. L'autenticità della natura umana è perduta
fino a quando, caduto l’idolo, l’orientamento genui- no della volontà non
riprende il suo corso naturale e non si eleva al vero livello umano di
desiderio naturale di beatitu- dine in Dio. Ma l’esigenza, come la pura
esperienza vissuta, non ba- sta e, se puramente psicologica, non è
dimostrativa. Rispon- diamo: 4) qui si tratta di un’esigenza naturale,
essenziale ed universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano; 5) i dati
psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c) l’esperienza
interiore, per il fatto che è tale, è più vera di qualsiasi esperienza
esteriore; d) non ci troviamo di fronte al puro dato psicologico nel senso
ristretto e soggettivistico del termine, ma alla vita dello spirito, che è un
dato reale e all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora, il
dato psicologico che qui consideriamo — tutti gli uomini desiderano la felicità
piena e dunque tutti aspirano al Bene - L'esistenza di Dio 189 sommo, il solo
che possa appagare questo loro naturale desi- derio o essenziale esigenza —
oltre che indicativo di una con- dizione reale, è anche aztestativo o
testimoniante, in quanto quella condizione sarebbe inesplicabile senza la
nozione o la presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movi- mento
della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo che in questo scopo unico
ed assoluto trova la sua direttrice essenziale e la sua unità totale. Ma
proprio nella indicatività e attestazione della condizione reale è il
fondamento della dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi po- trebbe
essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita spirituale ed
orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non esistesse il Bene sommo, a cui
la volontà stessa aspira. In breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio,
se Dio non esistesse. L’« indicatività » dell’esigenza, chiarita, approfon- dita
e colta nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela fondamento oggettivo
della dimostrazione razionale. Ma se è così, anche se il desiderio di Dio si
manifesta per ultimo, an- che nel caso che non si manifestasse affatto, esso è
ugual- mente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita spirituale:
senza questa originaria « presenza della trascen- denza » (dell’Al di là
interiore e trascendente) l’uomo sarebbe privo di ogni segno di Dio perchè da
nient'altro potrebbe riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il
desiderio naturale e necessario del fine ultimo o del Bene sommo non è una
inclinazione incosciente, contingente e transitoria della volontà, ma
un’inclinazione consapevole, che ci porta verso il bene, non della sola
volontà, ma di tutto l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione
del- l’appagamento del desiderio essenziale e fondamentale della beatitudine,
cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque, (2) S. Tommaso, De veritate, 22,
3, ad 5 m. (3) Qui non si confondono affatto Bene e felicità, Valore e
beatitudine: l'aspirazione alla felicità non significa volere il Benc per la
felicità. Se fosse pos- sibile pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire
ed è stato detto dai mistici, 190 Filosofia e Metafisica la spiegazione di
tutto il movimento della volontà va cercata in questo « implicito essenziale »,
sua unità primitiva, di cui le singole azioni non sono che l’esplicazione
parziale e a cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene infinito
a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli altri beni: come
l’oggetto della intelligenzaè il Vero asso- luto, così l'oggetto della volontà
è il Bene sommo. L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e per- ciò
è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo «ver- ticale» e non
«orizzontale», che è di ordine fisico o biolo- gico e non di natura spirituale;
la dinamica dello spirito è processo di trascendenza reale e non apparente o
spuria, quello che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascen- de, che
guarda « avanti » e non «in alto », avanza ctelluri- camente » verso ciò che è
più ir /è e non sale « iperurania- mente » verso quello che è 42 di lè. Noi
abbiamo perduto il senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e per-
ciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali quelli di
dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dal- l’uso immanentistico, e
perciò naturalistico, che li ha depau- perati, depotenziati, detonalizzati. Un
dinamismo che non è mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è
agitazione inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza come
posizione provvisoria di un che che sarà immanentiz- zato è appiattimento dello
spirito nell’orizzontalità del li- vello terrestre e perciò negazione del suo
slancio ascendente alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infi-
nito, lo « realizziamo » nel nostro stesso tendere e lo « co- e come
espressione mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a sof- frire
tutte le pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene sommo.
Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche se
tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si preoccupi
della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la beatitudine
dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, se il
possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugual-
mente desiderio di beatitudine e felicità. L'esistenza di Dio 198 struiamo »
nel nostro divenire, dice cosa che non ha alcun senso e, degradando l’infinito
alla nostra finitezza, degrada noi al livello della fisicità e ci assimila alle
cose. Il Gott-im- werden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto usa
il termine Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, con- traria alla Sua natura. Dio
non è un fine che « produce » l’uomo — ed è ridicolo che lo possa produrre — ma
un fine a cui l’uomo « tende » e può « attingere »; e ogni fine a cui « si
tende » e che si vuole « attingere » presuppone precisa- mente l’esistenza del
fine desiderato. Dio, dunque, a cui ogni uomo tende, è la Mente che è Verità,
la Volontà che è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni vero
e di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente creatrice. Il Bene sommo
trascendente è appunto il fine ade- guato dell'umano naturale desiderio di
beatitudine. Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene som- mo; ma
potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qual- cosa di inesistente e
impossibile. Abbiamo già risposto a questa obiezione, la cui forza è puramente
apparente, in quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano natu- ralmente
il Bene sommo, è provato anche che il loro desi- derio naturale non può essere
vano, proprio perchè natu- rale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è
desi- derio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un desiderio
naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato sarebbe contraddittorio
ed inintelligibile: una potenza senza il suo atto, nel linguaggio tomista. Per
conseguenza, come ar- gomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe
avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non potrebbe
eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo ec- cede è perchè l’Essere
infinito dà fondamento a questo suo desiderio; dunque esiste il Bene sommo,
infinitamente per- fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua (4)
S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 192 Filosofia e Metafisica natura
tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- mente diffusivo, Attività
creatrice, da e per cui è ogni bene creato, di Lui debole immagine. Ma per quel
che è di bene è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine del
suo movimento (7). Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine ‘presuppone
l’altra « dalla verità », senza l’intuizione della quale non vi sarebbe in noi
il desiderio del Bene sommo, in quanto l’uomo non sarebbe creatura
intelligente. Dio, creandomi ente intelligente, mi dà quanto è necessario che io
abbia per essere tale; la verità a me interiore fa che la mia vitaintellettiva
resti sempre sotto la dipendenza divina: cammino sulle orme di Lui e dunque su
una via già se- gnata ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della mia
volontà. Nessuna verità finita può soddisfare la mia intelligenza e nessun bene
creato il desiderio infinito della mia volontà; io ho avuto quanto basta
affinchè la nostalgia della « patria » sia invincibilmente impressa nella mia
vita spirituale e ne segni la « via »: et irrequietum est cor nostrum donec
requiescat in te (6). L’autocoscienza o la consapevolez- za di quel che sono è
insieme coscienza di me o dell’io e di Chi o del Tx che trascende; sapere me è
sapere che Dio è; ed è amarLo. L’autocoscienza profonda, sapersi fino in fondo,
involge la coscienza dell’esistenza dell’ente finito e quella dell’Essere
infinito. L’autocoscienza kantiana ed idealistica, invece, è coscienza di me
come trascendentalità o unità delle forme trascen- dentali. Per conseguenza: è
coscienza di me vuoto (le forme a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma
del contenuto dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- lida
delle forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, (5) Il desiderio
naturale di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene spesso ciò si
dimentichi, « sostiene e comanda ogni speculazione filosofica sul mondo,
sull’umanità e sul loro destino » (Le problème de la philosophie catho- lique,
Paris, 1928, p. 161). (6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. L'esistenza
di Dio 193 non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra- scendentale
non può mai trascendere il mondo, non è mai coscienza di me e di Chi mi
trascende. L’idealismo trasfor- ma l’Io trascendentale kantiano in entità
metafisica per cui, da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la
«cosa in sè» come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- soluto è lo stesso
Io trascendentale, lo identifica coerente- mente con l’unità del mondo. Così
l’autocoscienza resta pri- gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto,
si assimila alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo muore nella
trascendentalità: il suo desiderio naturale di beatitudine è compresso e
soffocato; il suo fine ultimo è il mondo, il suo unico amore la terra. Dio è
morto e, con Lui, l’uomo. CapiroLo VII BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI ONTOLOGICO
E COSMOLOGICO Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova « dalla
vita dello spirito » non è riducibile nè a quella onto- logica nella forma di
Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- vuto nel corso della storia della
filosofia, nè alla prova co- smologica, di cui la più chiara ed esatta
formulazione sono le « cinque vie » di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne esclude
alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più forza, perchè di esse è
il fondamento. Sarebbe quanto mai opportuno, ma non rientra nei limiti della
nostra indagine, un esame approfondito delle due prove ontologica e cosmo- logica,
nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno avuto, in rapporto a quella
da noi sostenuta; mostrerebbe come esse, in molti punti concordanti e
convergenti, sono riducibili in fondo ad una sola. Qui ci limitiamo a qualche osservazione,
che giova a chiarire quanto abbiamo scritto. — La prova ontologica. È la più
accanitamente difesa e combattuta, ma resiste sempre; non si tratta di
respingerla o accettarla integralmen- te, ma di bene intenderla e soprattutto
di integrarla. Infatti, se essa presuppone la prova « dalla verità », tipica di
S. Ago- stino, ci sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, in tal
caso, muovendo dalla realtà della vita spirituale, vien meno la forza della
principale obiezione: impossibilità L'esistenza di Dio 195 di dedurre dall’idea
di Dio la sua esistenza, di passare dal- l’ordine del pensiero a quello della
realtà. A nostro avviso, l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina
agostiniana della verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. I
sostenitori della prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- naventura sicuramente,
sono preoccupati del fatto che, se la nozione di Dio non è in noi, non può in
alcun modo essere indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se
non è presente alla mente e da essa interiormente intuita la ve- rità,
fondamento di ogni vero particolare e modo come Dio può essere in noi, non è
possibile all'uomo partecipare del suo Principio: senza una verità originaria
che illumina la mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo verità;
di pensare e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea di Dio, come chiariremo tra
poco, è partire dal fatto del pensare: è un fazto che la mente conosce verità
aventi i ca- ratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’asso- lutezza;
un fazto che essa non le crea e non le riceve dalle cose finite e contingenti;
dunque esiste Dio come Verità in sè, da cui deriva la verità che è in noi.
Intuire l’idea di Dio è possibile in quanto si intuisce la verità in noi,
quella di cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità illuminante
e operante, tanto è vero che le operazioni del- la ragione (il giudizio e la
dimostrazione) sono possibili in quanto presuppongono quel lume di verità che è
anche lu- me di bene, che alimenta il movimento della volontà e fa che sia
desiderio ed amore del Bene sommo. Se teniamo presente la formulazione
agostiniana della prova « dalla verità » nella forma sillogistica in cui
l'abbiamo enunciata, la minore — «la mente umana intuisce verità immutabili e
assolute, ad essa superiori » — implica l’esi- stenza di Dio, cioè della Verità
in sè: non vi potrebbe essere verità presente alla mente e ad essa superiore se
non esistesse la Verità. Abbiamo avuto cura di dimostrare che non c’è verità
semza un pensiero che la pensa e che, d’altra parte, 19% Filosofia e Metafisica
non c’è pensiero senza verità: nell’uomo vi è verità, dun- que egli è un ente
pensante; privo della verità cesserebbe di esserlo. Per conseguenza: esiste un
pensante, dunque, esi- ste Dio, Pensiero assoluto creatore di ogni ente
pensante. Certo, per analisi, posso distinguere e distinguo tra il pen- sare e
la verità oggetto della mia mente, ma, in concreto, il pensare, perchè tale,
involge già la verità e questa il pen- siero di cui è oggetto; dunque
concretamente io esisto come essere pensante la verità e pensante per la
verità: l’una ade- risce all’altro e sono inscindibili. Perciò la prova « dalla
ve- rità » non muove da un possibile, ma dall’ente pensante, dal- l’uomo.
D'altra parte, la verità oggetto della mente e per cui la mente è mente, non ha
la sua sussistenza nell’ente pensante che la pensa, in quanto questo è finito e
contin- gente e quella infinita e necessaria; dunque, pensata dalla mente, le è
superiore. Di qui la necessità che esista il Pen- siero infinito, necessario e
assoluto, Soggetto sussistente del- la Verità, che con esso s’identifica.
Nell’ente creato la verità non scindibile dalla mente è suo oggetto, da nessuna
cosu creata adeguato; perciò l’unità non significa anche identità; nell’Ente
increato Pensiero e Verità s’identificano. A noi sembra che l’argomento
ontologico di S. Anselmo vada inteso tenendo presente quanto già detto. Egli
muove dall’idea di Dio come « l’essere di cui non si può pensare nulla di
maggiore »; tale idea importa innanzi tutto che sia pen- sata, cioè che vi sia
una mente che pensa; ma non vi può essere pensiero senza presenza di verità;
dunque l’idea di Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, dotato
di verità. Per conseguenza, la presenza alla mente dell’idea di Dio presuppone
l’esistenza dell’ente che è pen- siero ed è tale perchè in lui è presente la
verità; l'argomento ontologico presuppone la prova « dalla verità ». Una
sarebbe la difficoltà, che non è alcuna di quelle prospettate da Gau- nilone,
S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare Dio? ad averne un’idea vera? In
fondo, l’ateo nega Dio per-. L'esistenza di Dio 197 chè nega che si possa
averne un’idea vera; se lo si con- vince che l’idea di Dio è presente alla
mente e che perciò ne- garne l’esistenza è contraddittorio, si arrende 0, se
non al- tro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque, superata la
difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova è imbattibile, in
quanto basta pensare Dio per pensarlo esi- stente. L’alternativa che pone
l’argomento ontologico è la seguente: o si pensa Dio o non Lo si pensa; se lo
si pensa, Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel momento che Lo
nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dun- que, ripetiamo, se Dio si pensa,
esiste; ma per il fatto che la mente Lo pensa, le è presente la verità e con
essa l’idea di Dio. Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può pensare nul- la
di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce che le è presente
qualcosa che è superiore ad essa, e ad ogni cosa esistente o pensabile; per
conseguenza conclude (l’argomentazione è identica a quella della prova « dalla
ve- rità ») che esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla men- te le
aderisce, come già detto, per cui non c’è mente senza verità e verità che non
sia oggetto di una mente. L’idea di Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso
modo: in concreto, c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qual- cosa
che fa parte della sua natura; non il pensiero e l’idea di Dio, ma il pensiero
che pensa Dio. Così intesa, la prova perde quel carattere concettuale ed
astratto che, a prima vi- sta, presenta e acquista tutta la sua concretezza:
non muove dall’idea di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui aderisce
la verità, connaturata, nell’atto creativo, alla crea- tura umana. Bisogna
ancora notare che nei sostenitori dell’argomento ontologico c'è un’altra
preoccupazione legittima, quella di dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio
cristiano, cioè del- l’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore,
Verità illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 198 Filosofia e
Metafisica si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ra- gione
ma anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto proprio della religione e
della coscienza religiosa. Per il filosofo cristiano, il problema
dell’esistenza di Dio si pone in questi termini: è razionalmente dimostrabile
l’esistenza del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razio- nale
della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provviden- za? Per lui, senza che la
fede abbia a pregiudicare la razio- nalità della dimostrazione, non si tratta
solo della ragione, ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a
servizio della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio Causa prima
non causata del divenire, Legge dell’Uni- verso, come quello aristotelico, ma
di Dio Padre Creatore ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema,
il punto di partenza dell’argomentazione ha una grande im- portanza: bisogna
partire da un ente che contenga tutti gli elementi per concludere a Dio come è
creduto per fede e poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su questo
punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum,
da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es
quod credimus (Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostra- zione:
Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod prius credidi te donante, iam
sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non
intelligere (Proslo- gion, c. IV). È qui il punto: la mente intende Dio perchè
Egli, la Ve- rità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che rendono
valida la discorsività razionale. In questo senso è vero che, se Dio non fosse
originariamente a noi interiore, non potremmo mai dimostrarne l’esistenza, non
saremmo neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche razio- nali. Ma,
oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè notata: chi parte dal
mondo fisico rischia di non incontrare il vero Dio — quello in cui si possa
credere, che si possa L'esistenza di Dio 199 pregare, adorare, sentire vivente
nel cuore di ogni uomo — ma un Principio impersonale, una Causa cosmica, una
Leg- ge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filo- sofo di un
deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega perchè San Tommaso, filosofo
cristiano, pur essendo aristo- telico, ha trasposto il pensiero del filosofo
pagano in ter- mini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non è aristotelico.
Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza aristotelica del suo pensiero e
non se ne rivive la profonda ispirazione cristiana di origine agostiniana, di
essere cristiani di fede, ma aristotelici — e dunque non cristiani — di -pen- siero,
cioè dei piissimi... atei. Invece, chi muove dalla vita dello spirito nella sua
integralità, se riesce nella prova, di- mostra il Dio che è Mente e Volontà
creatrici di spiriti e di menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di
libertà a loro volta creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, sentire nel
cuore. D'accordo: si tratta di partire da un dato positivo di esperienza su cui
esercitare la riflessione; perchè non può essere la nostra vita spirituale? la
nostra esperienza interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’espe-
rienza interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? Ma proprio
l’esperienza interiore e la vita tutta dello spirito sono intelligibili per il
lume interiore di intelligibilità che le fa tali, per la verità presente alla
mente, immagine di Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa c'è,
la ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somi- glianza e analogia,
razionalmente corretto e perfettamente ortodosso. Se l'argomento ontologico è
inteso nel suo nucleo di verità ed in stretto legame con la prova « dalla
verità », da esso presupposta, perde le sue apparenze di astrattezza e di
argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella realtà della vita
spirituale non è più raggiunto dalle obie- zioni di Gaunilone o di S. Tommaso,
il quale non nega la presenza in noi delle verità prime che, anche se è neces- saria
l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 200 Filosofia e Metafisica
dopo «cronologicamente »), non sono date dall’esperienza sensoriale. Così
impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza fuori discussione
derivantegli dall’identità in Dio di essenza ed esistenza (!). La stessa
affermazione che nell’essenza di Dio è contenuta l’esistenza ha un significato
più che altro chia- ritivo ed esplicativo; in effetti, non è che nell’essenza
di Dio è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è necessariamente
la Sua esistenza. Non essendo Dio «ricevuto» in alcuna essenza specifica, come
abbiamo detto sulla scorta di S. Tommaso, perchè la Sua stessa essenza è l’atto
di es- sere — o il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza — consegue
ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. Dire che a Dio è
necessaria l’esistenza significa che l’esi- stenza è identica alla Sua essenza,
che non è alcuna speci- fica essenza; in breve, Egli è la Verità che è Verità,
l’Essere che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente. Chiaro
che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto per Dio e non per l’«isola
beata » di Gaunilone o per i «cento talleri» di Kant; isola beata, talleri e
ogni altra cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e perciò dipen- dono
dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente asso- luto. La derivazione,
nell’argomento ontologico, dell’esistenza dall’essenza serve per convincere la
nostra mente, a cui Dio non è evidente per se stesso, con la forza del
ragionamento;DI cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in Dio (I)
Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza, S.
Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma nega
la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio. S.
Tom- maso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza
essere concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in
intellectu e non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere
perfettissimo, che non può non essere concepito che come esistente, per ciò
solo esiste. Il passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è
richiesto da tutte le altre cose, che possono essere concepite esistenti e non
esistere affatto în rerum natura perchè non perfettissime, tranne che da Dio,
in quanto solo in Lui, come S. Tom- maso ammette, essenza ed esistenza
s’identificano. L'esistenza di Dio 201 non si può parlare di derivazione alcuna
per la identità di essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che
dalla essenza deriva necessariamente l’esistenza — e per la mente finita non
può essere diversamente in quanto nello stato naturale non le è presente Dio
com'è in sè — così si può. dire, ma non più rispetto a noi, che dall’esistenza
deriva la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è lo Essere che è
l’Essere, identità assoluta di essenza ed esi- stenza come di esistenza ed
essenza. Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue l’esistenza;
per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, ma tutti gli enti che non
sono Dio ricevono l’esistenza, non la « pongono », non esistono da sè. Solo in
Dio, posta l’es- senza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta con
essa l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque non Lo si può
concepire senza concepirLo esistente: l’esi- stenza non si aggiunge, è nella
Sua essenza. Ma, se è ne- cessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza,
è neces- sario per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, cioè non
può concepirsi esistente senza concepirlo con una sua essenza. È qui la forza
della prova cosmologica: partendo dalle cose, non possiamo non muovere dalla
loro esistenza, cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma ap- punto
perchè non sono atto di se stesse, pongono il pro- blema del principio del loro
esistere. D'altra parte, non la sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza
contenente una essenza, un ordine, una « verità »; dunque, pongono il pro- blema
del loro principio non in quanto soltanto esistenti, ma in quanto esistenti con
un'essenza o essenze esistenziate. Per conseguenza, l'argomento dalle cose
contingenti si riallaccia a quello « dalla verità », come, del resto,
l’argomento on- tologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che non
può non partire dall’esistenza delle cose, non può muo- vere che dall’essenza o
idea di Dio, la sola che contiene necessariamente l’esistenza. Da ultimo
notiamo che l’argomento anselmiano con- 202 Filosofia e Metafisica tiene un
altro elemento di verità, del resto, già da noi evi- denziato: mettere l’ateo
di fronte al senso dell’affermazione «Dio non esiste ». Che Dio non esiste si
può «dire» e l’ateo lo « dice »; ma ha un senso questa espressione ver- bale e
le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che quel che dice l’ateo non ha
senso, e per questo è insipiens, «non sa quello che dice »: parla di Dio, ma «
pensa » ad altro, manca della vera nozione. Non perchè non ce l’abbia, ma
perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua vita spirituale e
perciò della verità: i suoi giudizi non pos- sono essere che da insipiens,
della ragione sensitiva non della ragione intellettiva. Che Dio non esista non
si può neppure pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso pensare come
non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore, perchè
pensandolo non esistente mon si pensa più a Lui, ma ad un qualsiasi altro ente
che si può pensare senza pensarlo esistente appunto perchè non è l’Essere di cui
non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, nel momento che nega
Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova ancora che l’esistenza di Dio non è una
verità immediata nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa di
dimostrazione, ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio {e
dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cer- cato nel dato
sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da noi stessi e dalla luce
interiore, essere assenti a noi, « fuori di noi », lontani dal sapere
intellettivo ed immersi nel cono- scere sensitivo. La dimostrazione occorre non
perchè manchi in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è immediata nè sempre
attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse su quello che « dice » non
potrebbe « pensare » che Dio non esiste nè «assentire » alla sua affermazione
negativa, in quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in lui,
si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta chiaramente la sua
origine agostiniana, da dove trae for- za. Esso è anche valido negativamente:
dimostra assurda. la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia
valore L'esistenza di Dio 203 razionale la proposizione « Dio non esiste », che
l’insipiens pronunzia in cuor suo (?). 2. — La prova cosmologica. Ci siamo più
di una volta richiamati alla prova (alle prove) cosmologica o a posteriori
dell’esistenza di Dio, an- ch’essa vera se riportata a quella « dalla verità ».
L’argo- mentazione — vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è mosso da altro
(quidguid movetur ab alio movetur); la serie causale non può procedere
all’infinito; dunque esiste un Primo Motore, qui ipse est immobilis — prima che
di S. Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese formula
l’argomento cosmologico. Ma lo stesso Agostino la riduce a quella « dalla
verità » per il motivo che la prova, la quale parte dai dati sensibili, dipende
da alcuni elementi intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza,
quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non (2) E’ nota la
critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un oggetto non contiene
la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè non implica
contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla espe- rienza,
cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analitica- mente);
c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta dall'esperienza,
consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque to- glierla o
aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza; d) pertanto,
anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna perfezione.
In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto del
concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò conferma
che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua essenza,
ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’espe- rienza
non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimo- strare
che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che ciò
impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può pensare
nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente aggiunge
e toglie all'idea di un oggetto. Kant considera Dio alla stessa stregua degli
enti finiti per i quali vale la distinzione di essenza ed esistenza, senza
senso per Dio, che è identità di essenza ed esistenza; infatti, l'affermazione
di Anselmo, che l’idea di Dio involve neces- sariamente l'esistenza vale solo
per Lui, per l’ente di cui non si può pensare nulla di più grande. Kant non si
accorge (il paralogismo è suo) che quando afferma che dall’idea di Dio non si
può dedurre l’esistenza, la quale dunque dovrebb'essere aggiunta, non parla più
di Dio, in quanto non parla dell’essere di cui non si può pensare nulla di più
grande: quando critica l’argomento onto- 204 Filosofia e Metafisica possiamo
ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appog- giarci alla Verità interiore.
Esatta l’affermazione di S. Tom- maso che la prova deve avere il suo punto di
appoggio in un dato reale e non in una pura entità concettuale, ma il dato
reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale e quanto in essa è
implicitamente presente. Per esempio: esistono cose che hanno un certo grado di
perfezione; ciò indica che esiste il perfetto del quale partecipano le perfe- zioni
finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). Esatto, ma come può il
soggetto conoscere, misurare, il grado di perfezione delle cose, se non
intuisce la perfezione, se non ha in sè la misura con cui misura? In altri
termini: non potrei dire «questa cosa ha un grado di perfezione » se non fossi
illuminato dalla perfezione, cioè se non fosse in- teriore alla mia mente una
nozione di essa, che le cose pos- sono anche esplicitare, ma non mi possono
dare. La propo- sizione «le cose hanno un grado di perfezione » è un giu- logico
non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di Dio è
qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a quello
che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un concetto
reale, cioè implicante la realtà del suo oggettoTutta l’argomentazione di Kant
è errata sostanzialmente. La sua afferma- zione: sia che Dio esista o no, nulla
si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, vale per l’ente finito, ma non ha
alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità di essenza ed esistenza, non ha
senso parlare di togliere o di aggiungere a Dio- l’esistenza. Ne ha solo uno:
togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta la sua perfezione, ma
negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa essenza; dunque,
negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta confermato che
se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso ateo che « pensa
» di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è ancora negare
l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, dunque Dio
esiste. Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri
hanno, in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non
si è badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in
partenza nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le
obiezioni alleprove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare
i presupposti del sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei
limiti della esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato
nei contenuti finiti dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il
reale nella sua totalità, e che le «idee » non sono conoscenze ma pure «
condizioni » del conoscere il. % cui contenuto dovrebbero ricevere
dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espe- L'esistenza di Dio 205 dizio:
come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del giudizio a cui
conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltre- passo i corpi e anche me stesso, in
quanto quella verità pri- male è più di me, misura anche la mia ragione e la
mia intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non « dalle cose »,
ma in quanto mi sono elevato da esse alla verità che è in me e da questa a Dio:
dall’esteriore all’inte- riore e dall’interiore al Superiore. Quella
cosmologica è una via anch'essa, ma più lunga; l’altra « dalla verità » più breve:
dalla verità in me (interiore) alla Verità in sè (al Superiore). Entrambe si
fondano sulla dipendenza essenziale dell’ente finito dall’Essere che lo pone,
ma nella prima il rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo atto
intuisce la verità che in lui è presente e lo illumina; di qui argomenta che,
partecipato, esiste l’Essere di cui partecipa, il Principio da cui è. Pertanto
l’autocoscienza implica la presenza a se stessa del Principio creante: avver- rienza)
e se non lo ricevono sono « vuote », egli ha escluso non solo la soluzione del
problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello
spirito: ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un
infinitesimo il livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è
altra verità ncl- l'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col
processo sintetico del conoscere, ne fa il legislatore della natura (cioè gli
attribuisce il potere che spetta a Dio), ma nello stesso tempo,
mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto di se stesso, al livello
dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della ragione pratica
sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non con- traddicendosi.
Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teo- logia, bensì
verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. Non possiamo
non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontolo- gismo critico del
Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso un'elaborazione
critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto puro
assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esi- stenza
è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è soggettività
nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste è fare di Lui
un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento ontologico de- v'essere
pertanto abbandonato così come è nella sua forma tradizionale e accettato solo
nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, oggettiva
immanente allé singole coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei singoli,
come sarebbe se si ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può negare con
il pensiero, pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con un
atto di pensiero e ciò è contraddittorio. «/o penso, dunque affermo Dio; se tu
neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 206
Filosofia e Metafisica tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se
esiste l’uomo, esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta che esista
un pensiero, perchè sia implicata l’esistenza del Pensiero assoluto. Infatti,
dato un pensiero, come abbiamo detto, è dato un essere pensante e se è dato un
essere, esiste l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla
verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di cui ogni uomo
partecipa per una dipendenza essenziale ini- ziale e finale. Attraverso di
essa, se vuole esser valida, è costretta a passare la via cosmologica per il
motivo che sono i prin- cìpi primi o le verità primali che rendono possibile il
giu- dizio vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno che sia
valida ogni argomentazione dalle cose finite e con- ungenti a Dio essere
infinito e necessario. Ogni regola di giu- e in quella negativa » (P.
CaraseLLEsE, 1 problema teologico come filosofia, Roma, 1930, pp. 181-183). Ma
quale argomento ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo l’affermazione
che io penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire « io penso, dunque
affermo Dio »; altro «io penso, dunque Dio esiste ». Le due formule sono
antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma il pensiero; la
seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che c'è perchè
Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esi- stenza; il
Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne nega
l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze singole
e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il mondo; ma se
Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e ad esso
relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; è
l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale,
delle singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in
quanto esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza
ed esistenza. Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il
concetto panteistico spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano
di Idea o noumenicità pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito
della sua filosofia, l’idea dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze
estreme: se Dio è pura nou-menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una
coscienza pensante, Egli è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze
pensanti. Così il Carabellese all’immanenza idealistica, con la quale ha
polemizzato efficacemente tutta Ja vita, sostituisce l’immazenza ontologica,
dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti sin- goli. A noi qui non interessa
l’importanza polemica di questa posizione nei confronti dell’idealismo
trascendentale, ma la sua validità ai fini del problema dell’esistenza di Dio;
e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto anche lui l’errore di
distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è accorto che, negare l'esistenza,
è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmi- L'esistenza
di Dio 207 dizio lo è innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le possibili
prove cosmologiche dipendono da quella « dalla ve- rità ». Le due forme di
argomentazione — a) esiste qual- cosa di contingente e finito, dunque esiste
l’Essere necessario ed infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è
su- periore; dunque esiste la Verità in sè — nella loro profon- dità si
riportano allo stesso principio di verità, da cui rice- vono la loro forza.
Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, l’argomentazione non può non
seguire questo procedimento: le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali,
non possono avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna « trascen- derle
» per cogliere il Principio da cui derivano quanto han- no di ordine, di
perfezione e di essere; al di sopra dell’or- dine e della perfezione delle cose
vi sono l’ordine e la per- fezione del nostro pensiero, con cui conosciamo, «
giudichia- mo » e « misuriamo » quelli delle cose; la verità che è in niana
idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea assoluta
avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui importa il
problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco, identifica Dio
con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità del molteplice
è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità reale. - Per la critica
dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G. Zamsoni nell’ Itinerario filosofico,
(Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto presenti. Per altre nostre osservazioni
al pensiero del Carabellese su questo punto cfr. 1! Secolo XX, Milano, 19472,
pp. 277-281; Il problema di Dio e della religione nella filosofia attua- le,
Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza non
è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente che esiste
nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che esiste nel
pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in quanto
l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero lo
pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che l’esistenza non
aggiunge nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al
pensiero umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il pensiero lo
pensa. Perfetta- mente il contrario: io penso in quanto in me è presente la
verità che è presenza di Dio e dunque in quanto la stessa idea di Dio è luce
del mio pensiero. Ma Kant, tornando a lui, nega che esistano nello spirito
conoscenze primarie ed in- tuitivé e dunque una verità originaria; consegue che
non c'è altra verità nell'uomo oltre quella che egli stesso si costruisce con
la sintesi della forma 4 priori e del contenuto a posteriori: Dio è escluso dal
processo della vita dello spirito. Le obiezioni di Kant all'argomento
ontologico provengono dalla corruzione del significato del termine «idea »
operata dagli empiristi inglesi ec mirano molto lontano: c'è già in nuce
l’idealismo trascendentale, che è la riduzione dell’essere all’immanenza del
pensiero. 208 Filosofia e Metafisica noi ci è data, dunque, il ragionamento ci
porta a trascendere noi stessi, a risalire dalla verità-data alla
Verità-Principio, a Dio. In altri termini: il pensiero discende dalle verità
pri- mali intuite per conoscere e giudicare secondo queste verità le cose
sensibili; da queste ascende alle verità che sono in lui, inferiori alle cose,
e da esse a Dio, l’Essere perfettissimo, che ogni cosa ed ogni verità
trascende. Per conseguenza, l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono
con i sensi ma con la ragione, cioè misurandole con la verità che è in noi: il
fondamento della loro conoscenza è l’intuizione primitiva della verità; dunque
le prove 4 contingentia mundi passano dalla vita dello spirito. È vero quanto
scrive il sal- mista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et opera
manuum cius enuntiat firmamentum; ma nulla mi direbbero e mi indicherebbero, se
in me non lucesse la luce della verità. Così impostata, la prova cosmologica è
incon- futabile; non si può negare Dio senza spingersi ad affer- mazioni
assurde come questa: è contraddittorio concepire l’Essere assoluto ed ammettere
l’esistenza, per poi attribuire l’eternità e l’assolutezza alla materia e al
mondo che sono contingenti e finiti! La prova cosmologica non solo suppone
quella « dalla verità » ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova onto- logica:
Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esi- stenza nella sua stessa
essenza; perciò in Lui essenza ed esi- stenza s’identificano; ma è questo, come
sappiamo, il fon- damento dell’argomento ontologico (*). (3) Com'è noto,
all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso il razionalismo
cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile applicare
all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei li- miti
dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, ogni
causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della esperienza,
è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti di questa
critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non infirma la
validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. G. BontapinI nel
vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi filosofici
cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma «che la filosofia non x persegue
la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato dalla co- L'esistenza
di Dio 209 D'altra parte, la formulazione della prova — esiste qual- cosa che
non è da sè, dunque esiste Dio — è insufficiente a dimostrare l’esistenza
dell’Essere creatore e trascendente, In- telligenza e Volontà; infatti, il puro
Ens realissimum può essere una causa o un principio impersonale, una legge co- smica
ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è ne- cessario che esistano
degli effetti tali, da cui si può argo- mentare per analogia l’esistenza
dell'Essere creatore, trascen- dente ecc., cioè di Dio, quale Lo crede per fede
la coscienza religiosa. L’Ens di ragione, causa dell’origine del mondo, è un’idea
cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli sia scienza religiosa; che, perciò,
essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile, ma dalla coscienza cristiana
(la quale rientra nella unità dell'esperienza); che la più ricca delle cose
reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si dimostra con tutto l'uomo;
che la metafisica, come voleva S. Agostino, è metafisica della verità, la quale
si coglie in interiore homine ». Successivamente aggiunge: « con questo si dice
che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pen- siero (per
questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica stessa come
scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la metafisica dell'essere
a quella della verità: si tratta di aspetti di una medesima posizione ». Certamente,
una volta che il Bontadini mi concede che l'essere non è estraneo al pensiero,
cioè gli è interno originariamente come idea; del resto, non ho mai opposto la
metafisica della verità a quella dell'essere se ben intesa, nè Agostino e
Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre sostenuto il contrario. Proprio la Neoscolastica
italiana, invece, trova opposizione, o tutto vuol ridurre al suo to- mismo;
perciò il problema dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo Bontadini io
ho «sottoscritta » (nel vol. 17 problema di Dio e della religione nella filos.
attuale, cit.) « la prova tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto con
quel riferimento a ’’tutto l’uomo’ » e anche qui si dichiara d’accordo; ma, come
per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente scritto.
Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i « personalisti concilianti »; invece, io
non concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presup-
pone due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; è
sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come posso
e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Suc- cessivamente
il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno francescano, di
occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della prosa contenuta in
questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e pubblicare
(Spiritualismo cristiano e metafisica classica, « Giorn. crit. d. filos. ital.,
I, 1955) dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e « cri- ticato
» sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche se «
neo-scolastica » non è oggetto di discussione. Del resto, il superamento della
fase esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio spiritualismo nella
linea della metafisica classica è stato ampiamente vagliato e riconosciuto
dalla più autorevole critica mondiale, compresi i più accreditati tomisti e
neotomisti. 210 Filosofia e Metafisica l’Ente assoluto; di qui ancora la
necessità di partire « dalla vita dello spirito » che è intelligenza di verità,
volontà mo- rale ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza di
Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Per- fezione infinita.
Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai farmi pensare che Dio è Libertà e
Persona? Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio Primo Motore
Immobile, principio del movimento o del di- venire, non potenza ma Atto puro;
ma quale abisso tra il Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio
filo- sofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer! (*). È il Dio di una
filosofia ma di nessuna religione e non può esserlo di una filosofia cristiana.
Non diciamo che il Dio della religione (e della cristiana) non si possa
chiamare anche Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa termi- nologia
va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario non solo integrare
Aristotele, ma trasporlo come ha fatto S. Tommaso, la cui metafisica, che
utilizza filosoficamente il concetto di creazione, non culmina
nell’aristotelico Mo- tore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere
crea- tore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uo- mini
invocano. Non basta partire dal reale finito e dive- niente per arrivare a Dio;
è necessaria una «critica » del- l’ente finito e diveniente in quanto tale, in
modo da sta- bilire quali elementi contenga e se tali da farci conclu- dere non
ad una o più cause immutabili del divenire, ma al Principio creatore e
provvidente. Daccapo: non è pos- sibile alcuna critica dell’ente finito, cioè
alcun giudizio oggettivamente vero, se non è presente alla mente la ve- rità
che è fondamento di ogni giudizio e della ragione giudicante; ma se è presente
la verità, esiste Dio, che è la Verità, il Lume eterno e trascendente, che
illumina la mente e riscalda il cuore delle creature. (4) H. Bercson, Les deux sources
de la morale et de la religion, Paris, 1946, pp. 256 segg. ° L'esistenza di Dio 211 Da ultimo, la prova
cosmologica dev'essere spogliata di quel suo carattere puramente razionalistico
e gnoseologico, più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il proble- ma,
infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto co- noscente ed
oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, s'imposta in quelli ontologici
di ciò che è empirico e con- tingente e di ciò che è metafisico e necessario;
altrimenti, se il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è impossibile
da questo arrivare all’essere. Dopo quanto abbiamo detto, le tre prove — dalla
verità, che include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata all’altra
del desiderio di beatitudine e cosmologica — si pre- sentano concorrenti e
solidali: tutto il creato, nel suo ordine o nel suo essere o nella sua verità,
con una voce sola, attesta la sua dipendenza da Dio e in Lui, e solo in Lui,
cerca ed attua la sua finalità suprema (5). (5) Credo che ciò possa
tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, « Salesiamum », I, 1948, p.
64), il quale esige da me e da altri « una interiorità più robusta che non
avesse timore della materia nè la fuggisse », cioè un'interiorità profonda,
universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: come
una a filosofia dell’integralità » potrebbe aver timore della materia e del mondo,
e fuggirli? CaprrroLo VIII L’IPOTESI PROIBITA La nostra indagine, muovendo
dall’ipotesi « Dio», ha dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato
la sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è oppor- tuno domandarsi
se è possibile porre l’ipotesi opposta, « Dio non esiste » e, se porla, sia
razionale. La si può porre, ma con un atto non razionale; dunque, non è
razionale porla, come del resto abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è insipiens.
Se fosse razionale porre, al pari dell’ipotesi « Dio esiste », l’altra « Dio
non esiste », le due ipotesi si distrug- gerebbero e bisognerebbe, come lo
scettico antico, « sospen- dere » il giudizio e con esso la filosofia. Se è
razionale porre l'ipotesi « Dio» non è razionale porre quella opposta. Qui non
siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile che domani sia una bella
giornata com'è possibile che sia brutta; invece, non è razionalmente possibile
che Dio esista ed altrettanto razionalmente possibile che non esista. Per porre
una ipotesi è necessario che sia razionalmente possi- bile che possa essere
dimostrata vera; non posso porre come ipotesi da dimostrare una tesi destituita
di qualsiasi fonda- mento razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma
ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la verità della tesi
opposta. Se così, l’ateo non pensa, « vocia »; non è consapevole dell’assurdità
della sua negazione: la sua non è una conclusione critica, ma un’affermazione
domma- tica; non il risultato di una riflessione esauriente, ma uno stato
passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di fare , L'esistenza di Dio
213 apparire «logico ». « Dio non esiste » è l’ipotesi proibita, l’impossibile
razionale. Non si tratta di ammettere l’esisten- za di Dio perchè soddisfa un
mio desiderio ed è consolante, ma perchè tale affermazione risponde all’ordine
della ragione e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi « Dio » non fosse ra- zionale
— e lo fosse quella opposta — tutto l’uomo e l’univer- so sarebbero un falso
incomprensibile ed assurdo. Ma non è razionale che sia razionale l’ipotesi «
Dio non esiste », ap- punto perchè l’uomo — in ogni forma della sua attività e
in tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine e in ogni
grado della sua normatività, attestante la razio- nalità dell’ipotesi « Dio » —
sarebbe sostanzialmente contrad- dittorio e assurdo, nel caso che l’ipotesi
opposta, anche come ipotesi, si ponesse razionale e dimostrabile. L’ipotesi
teista inerisce alla natura dell’uomo e all’ordine della ragione; se quella
ateista v’inerisse ugualmente, col solo porla come ra- zionale, si
distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È con- traddittorio che alla stessa
razionalità umana inerisca l’ipo- tesi « Dio esiste » e l’opposta; perciò « Dio
non esiste » è l'ipotesi proibita perchè contraria alla ragione e alla natura dell’uomo.
Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la verità del- la pascaliana prova
« della scommessa » e non nel suo pre- sunto carattere pragmatistico e
volontaristico, che è solo una interpretazione scorretta o insufficiente.
Pascal, posto che è impossibile la neutralità di fronte al problema, vuol dimo-
strare e dimostra che non si può non scommettere a favore dell’ipotesi « Dio
esiste », perchè non si può scommettere a favore dell’opposta, in quanto è
irrazionale, contrario, non ad una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo
ordine. Scom- mettere per l’ipotesi « Dio non esiste » è implicitamente pun- tare
per il mondo, cioè per un bene finito; scommettere per l’altra « Dio esiste »
lo è per il bene infinito, senza scommet- tere contro il mondo. Ma, una volta
che si tratta dell’Infi- nito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non
scom- mettere per Dio. Non perchè sia più conveniente e con- 214 Filosofia e
Metafisica fortevole scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè per un
reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale bene finito (il mondo) non
si spiega più come sia un bene se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è
assurdo scommettere per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, ma basta
che sia tale, perchè la realtà e positività del mondo comporti l’esistenza di
Dio; nè, ancora, si può scommettere per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della
ragione giudica ra- zionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per
conseguenza irrazionale e disforme la sua opposta. Perciò la scelta, se- condo
Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi, ma tra la ragionevolezza dell’una
e l’irragionevolezza dell’altra, tra il seguire la pienezza della ragione e
l’abbandonarsi all’insen- satezza della passione sofisticata; non è tra due
condizioni reali dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la nega- zione
insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di essere contro Dio è contro se
stesso: si nega come uomo e nega Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio,
attraverso cui l’uomo coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la sua
è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio o Lo dimentica per
attaccamento al mondo o a sua cosa (atei- smo pratico) vi è sempre la presenza
di Lui, perchè l’atto con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e
non c’è pensiero senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al suo «sì»
profondo ed indistruttibile: offendendo Dio of- fende se stesso, si degrada al
di sotto della razionalità. Nè di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato
Dio per il mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di essersi
attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla negazione pratica della
Sua esistenza, che è negazione della sua natura umana e della finalità che le è
propria e non è il mondo. Ipotesi proibita è il « dubbio iperbolico » di
Cartesio, che, perchè iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche Dio,
tanto da ammettere l’ipotesi di un « Genio maligno ».. L'esistenza di Dio 215 Ma
il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrug- ge se stesso, perchè
distrugge il pensiero: se davvero fosse possibile bloccare la mente nel dubbio
assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non
nascerebbe mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso tempo
annullare il pensiero con un atto del pensiero quale è il dubbio assoluto. Chi
dubita pensa e, se pensa, anche nel grado più negativo del dubbio, non può
dubitare di pen- sare; ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero del
dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque il dubbio iperbolico è
impossibile, in quanto, negando sia pure come momento metodologico, l’esistenza
di Dio, si ne- ga il pensiero e anche quell’atto di pensiero che è «il dub- bio
iperbolico » e con esso l’ipotesi ateista. « Metodo » si- gnifica « via»; ma il
pensiero per trovare la verità non può seguire la « via » che lo porta alla
negazione di se stesso nel dubbio assoluto che comporta la « sospensione »
dell’esisten- za di Dio. Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del «
Ge- nio maligno », che implica, sia pure provvisoriamente, la pos- sibilità di
concepire razionalmente ciò che non è razional- mente concepibile, cioè che
tutto sia assurdo stupido insi- gnificante, al punto che un tal Genio avrebbe
potuto aver fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evi- dente
e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma è precisa- mente questa l’ipotesi
proibita perchè assurda; dunque impos- sibile ed irreale, informulabile
nell’ordine razionale come ad esso contraddicente. Non per seguire un metodo
che porta alla verità, ma contro ogni metodo confacente alla ragione, Cartesio
si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al dubbio iperbolico e alla
ipotesi del « Genio maligno » (). (1) Lo stesso discorso vale per la « Volontà
» cieca ed irrazionale dello Schopenhauer, altra specie di Genio malefico,
tanto è vero che, irrazionale quanto si voglia, in fondo, pensa e delibera se,
come dice il filosofo, crea illusioni cd allettamenti per alimentare negli
uomini la volontà di vivere; dunque pensa e delibera l’assurdo; ma è assurda
una pura volontà dell'assurdo. 216 Filosofia e Metafisica Proprio alle origini
del razionalismo moderno, nella sua stes- sa posizione, c'è insito un elemento
d’irrazionalità: l’atto irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora
esser tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esisten- za di
Dio, autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che si autopone, si
autonega: è l’elemento dissolvente immanente alla stessa filosofia moderna. Concludiamo
che il dubbio sull’esistenza di Dio si può spingere al punto da esigere una
prova razionale, da di- scutere questa o quella prova, ma non fino a negare la
ra- zionalità dell’ipotesi « Dio esiste » e ad ammettere quella dell’ipotesi
opposta, la quale, se posta, distrugge lo stesso dubbio e lo stesso pensiero:
se l’ipotesi « Dio non esiste » fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque
anche l’ipo- tesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razio- nalmente
perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a quella ipotesi varca i confini
della razionalità e della ragio- nevolezza, si pone fuori dell’una e
dell’altra, del pensiero e dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato
irreale dell’uomo, è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di se
stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal suo inizio
cartesiano, contiene un elemento di « insensatez- za»: ammettere la razionalità
e la verità del pensare anche se Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. Secondo
Kant, è « pensabile » che Dio esiste, anzi è solo « pensabile », perchè non
implica contraddizione. Egli esclu- de il dubbio iperbolico e l’ipotesi del «
Genio maligno », ma non che sia razionalmente possibile e dunque « pensabile » l’altra
ipotesi « Dio non esiste »; se così non fosse, le « anti- nomie » o i «
conflitti » della ragione pura non sarebbero possibili. Infatti, i due corni
dell’antinomia, la tesi e l’an- titesi, propri della dialettica dell'idea
cosmologica, sottinten- dono il primo che Dio esiste e l’altro che non esiste:
«il mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo spazio, è chiuso dentro
limiti », dunque Dio esiste; « il mondo non ha L'esistenza di Dio 217 cominciamento
nè limiti spaziali, ma è infinito sia rispetto al tempo come rispetto allo
spazio », dunque Dio non esiste; «la causalità secondo le leggi della natura
non è la sola da cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò è
necessario ammettere per spiegazione di essi anche una cau- salità per libertà
», dunque Dio esiste; « non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade
universalmente secondo leggi della natura », dunque Dio non esiste ecc. Come
sap- piamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non contraddittorio,
che Dio esiste e dunque è pensabile la se- rie delle tesi; ma, come abbiamo
dimostrato, non è pensa- bile razionalmente che Dio non esiste e dunque non è
razio- nalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contradditto- rio
pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare quella delle tesi,
cessa l’antinomismo della ragione pura. In breve: è pensabile che Dio esiste,
non che Dio non esiste; dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si
fonda sulla pensabilità della ipotesi « Dio non esiste »; perciò non vi sono
antinomie o conflitti della ragione pura, in quanto la pensabilità della serie
delle tesi non consente razional- mente la pensabilità e dunque la razionalità
di quella delle antitesi. Se l’ipotesi « Dio non esiste » è impensabile, anche la
serie delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa ipotesi, risulta
impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e il conflitto, restando compatibili
con l’ordine della ragione solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa,
soltanto la serie delle tesi. Possiamo aggiungere che neppure secondo un
convenzio- nalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi atei- sta,
in quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un dato convenzionale
intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è il dilemma — o « Dio esiste », 0 « Dio
non esiste » — perchè il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente
anche come ipotesi: nell’ordine razionale manca l’alternativa di questo 44 aut.
Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa- 218 Filosofia e Metafisica bile,
rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che è im- pensabile, perchè in sè
assurdo; dunque razionalmente è for- mulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di
Dio, la sola pensa- bile. L’ateismo non è neanche un problema perchè non è un
problema sensato (?). (2) Indubbiamente la psicologia dell’ateo è molto più
complessa di quel che risulta da quanto sopra si è detto limitatamente
all’ateismo considerato come posizione speculativa. Abbiamo trascurato tutti
gli elementi che formano lo « stato d'animo » dell’ateo, interessantissimi ma
marginali per un metafisico che non desidera farsi sopraffare dalla psicologia
e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo « filosofico » vi è un aspetto sul
quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo — ‘egli come individuo o la
ragione umana in generale, fa lo stesso — vuole essere Dio senza Dio: è qui la
contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, in quanto nessuno
penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio non esistesse!
Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che esista l’Essere
assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero che
identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio. L’ateismo
filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria; ma anche
in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non potrebbe
autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione ad
aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio, invece
di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti non potrebbe
autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda gli è impossibile:
la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della sua aspi- razione (M.
BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien, vol. I, p. 78), tanto che egli,
in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la forma
mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primi- tivo e
radicale del pensiero umano verso Dio « non è sterminabile ». Lo si può tradire;
e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, dice
di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel cuore
dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, e si
può guadagnare dalla misericordia di Dio la « chiamata ». La sua condizione è
quella di chi ad ogni momento «si rifiuta » ad una « chiamata » interiore, generosamente
cd instancabilmente insistente. CapitoLo IX RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE
DELL'ESISTENZA DI DIO A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato che
S. Anselmo si propone dimostrare che esiste il Dio a cui si crede per fede e
quale la fede Lo indica; anche noi te- niamo fermo questo punto: non si tratta
di dimostrare l’esi- stenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede
per fede. Ciò non significa nè che la ragione penetri la sua essenza (!), nè
che la fede sia il fondamento della dimo- strazione della Sua esistenza, la
quale, verità di fede e ve- rità di ragione insieme, interessa la filosofia e
la religione. Certo, esse vanno distinte e la via per cui la ragione arriva a
Dio è diversa da quella per la quale vi arriva la fede, ma le due vie devono
concludere allo stesso concetto di Dio, in modo che la ragione sia una conferma
della fede: conosco razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così impostato
il problema, la fede non solo non è un ostacolo, ma è anzi un aiuto per la
ragione e nulla toglie alla forza razionale della dimostrazione; anzi, in un
certo senso, gliene conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di cui
si cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che l’uomo prega, invoca,
adora ed in cui crede e spera. (1) Evidentemente il fatto che la ragione non
penetri l’essenza di Dio non infirma l’argomento ontologico nel senso che, se
la ragione ignora Dio nella sua essenza, non si comprende come dall’essenza o
idea possa dedurre l’esistenza. E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua
essenza, questa s'identifica sempre con l’esistenza. 220 Filosofia e Metafisica
Impostare la questione in questi termini ci sembra estre- mamente importante
per oltrepassare l’apparente antitesi, tan- to rovinosa quanto inconsistente,
tra il « Dio della fede » e il « Dio della ragione », il Dio d’Isacco e di
Giacobbe e il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a verità,
cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, un fideismo che, per il
fatto che nega la ragione, non salva la fede, la quale non dev'essere invocata
per provare l’esi- stenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la fede,
di essa non è più una conferma e se anche dimostra Dio, egli non è quelio della
coscienza religiosa, ma una causa cosmica, una legge della natura. È
necessario, invece, con- servare nella sua interezza il contributo della
ragione e del pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce — sia detto
per i volontaristi ed i pragmatisti — proprio la ricchez- za di quella vita
spirituale che credono difendere contro il razionalismo astratto), senza
separare la ragione dalla fede. Se separata, non sa precisamente che cosa si
proponga di dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di un'’astratta
concatenazione concettuale e priva di quella forza reale che può attingere solo
dalla pienezza e dalla concre- tezza della vita spirituale, è di un Dio che non
è quello dell’esperienza religiosa ed umana. Teniamo fermo il punto centrale
della questione: l’esi- stenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una
verità di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fon- darsi
sulla fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che gli uomini invocano ed
adorano, e, per una filosofia cri- stiana, il Dio della Rivelazione. La fede
non interviene e non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare alla
ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare l’esistenza; è indicativa
della meta da raggiungere e, dun- que, in certo senso, orientativa: è l’assente
presente. L’esi- stenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. Ma
il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi L'esistenza di Dio 221 tre
secoli di accanita corrosione della metafisica, è tentatore e non risparmia
neppure la coscienza comune. Infatti, quasi sempre si dice: « io credo o non
credo nell’esistenza di Dio » facendo di essa, implicitamente e spesso
inconsapevolmente, una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno,
quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista ed afferma che
l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi-genza, non è dimostrabile
razionalmente: è una credenza, un bisogno morale, un atto di volontà, un «
affare » intimo, un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volonta- rismo
religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso dimostrare razionalmente;
credo, « voglio credere » che esi- ste e « dunque » esiste. Un « dunque »
inconcludente. Fidei- smo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone la vo-
lontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. Vi è ancora un’altra
forma non agnostica nè scettica di fideismo, quella protestantica, che non
nasce dalla sfiducia nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di
essa, considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro la ragione che
pretende di risolvere, non solo il problema dell’esistenza di Dio, ma anche Dio
stesso nel processo del pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni
pura- mente razionali e filosofiche. È il « fideismo » che combatte il
«razionalismo» deista o ateo (il deismo, in fondo, è ateismo bello e buono), la
pretesa della ragione di dire tutto intorno a Dio, di costruire una religione
naturale o razionale, o di risolvere il momento «inferiore » della co- scienza
religiosa in quello « superiore » della coscienza filo- sofica o della
razionalità. In questa forma di fideismo vi è un fondo di verità: rivendicare i
diritti della fede contro la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come
tale, irra- zionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si cerca
non è quello « filosofico » o l’« Ente supremo di ra- gione » del deismo e
neppure il « Dio che si fa ». Ma vi è anche un gran torto: rivendicare i
diritti della fede contro 222 Filosofia e Metafisica la ragione e concludere
che essa nega Dio e la fede, è loro nemica, il « diabolico» nell’uomo, come
sostengono, per esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far valere i
suoi diritti non «contro» ma «con» la ragione, di essa giovandosi; se è contro
la ragione è contro se stessa: non si può credere « senza » o « contro » la
ragione; il con- flitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica che la sua
è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre imbevuta di ragione,
come quest’ultima, pur «distinta », non è « separata » dall’altra, altrimenti è
ragione atea: deista, illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della
ragione e dunque « fede per disperazione », è esso stesso ateo; l’ateo precisamente
si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la ragione smentisce la fede. La
difesa della ragione, dentro i limiti delle sue capacità naturali, è anche
difesa della fede (2). Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della ragione
è architettare un’antitesi convenzionale ed inesi- stente, se per ragione
s'intende non quella «immaginata » dal razionalismo assoluto, ma la ragione
normale, la quale non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la fede
ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, essa argomenta intorno
all’esistenza di Dio per dimostrarne la verità, cioè per confermare la credenza
religiosa. Colla- borazione, dunque: dimostrare cor la ragione l’esistenza di Dio
a cui si crede per fede. (2) Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono
inspiegabile il « di- screto sospetto » dello STEFANINI (Ricostruzione
metafisica, cit., p. 387) che anch'io « non rasenti la metafisica della fede »
per la mia « insistenza » (sì, insistenza, e senza sospetti neppure discreti)
nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza di Dio bisogna tener conto
della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto quanto questo saggio
esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio principii di
presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro (Guida
storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa
me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di « fideismo » e «
volonta- rismo »; ma che si può fare contro le accuse gratuite ed orchestrate
sempre nello stesso ambiente se non alzare le spalle e continuare
tranquillamente il proprio lavoro? L'esistenza di Dio 223 Con ciò si soddisfa
ancora un’altra profonda esigenza: la esistenza di Dio non è solo una verità
razionale, ma di tutto l’uomo: verità integrale dell’uomo integrale. Non della
ra- gione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta, profondamente
umana, che non «prescinde » dall’uomo nella pienezza della sua vita spirituale.
La ragione filo- sofica, che non è quella «geometrica », non ha da es- sere «
passionale » ma non può non essere « appassiona- ta», « accesa », ad alta
tensione; è passione di verità (eros) e, come tale, anche finesse. Solo in
quanto eros è ragione penetrante: solo in quanto si accende di amore per la verità
attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo co- nosce anche
razionalmente per quanto ama, e più ama e più conosce. Pertanto dimostrare
l’esistenza di Dio non è un'operazione, diciamo così, di ordinaria
amministrazione; non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione indifferente,
con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci «si esercita» con questo
problema. È necessario viverlo intensamente, nella drammatica alternativa del
sì e del no, da cui dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle cose,
la consistenza essenziale del nostro accidentale vivere. « Riflettere » sul
problema dell’esistenza di Dio è sopravvan- zare con la ragione, nell'amore per
la verità, la stessa ragione per renderla aderente a quella, verità primale che
la illu- mina, per mezzo di cui giudica e che pur la trascende (*). Dimostrazione
rigorosissima, ma il cui rigore logico deve essere vita e non morte dello
spirito, fiamma di verità e non estintore. È qui che presta il suo aiuto la
fede, pur senza interferire: la sua presenza indicativa è anche incen- tiva,
eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata al massimo della sua forza
normale dalla consapevolezza che la rispo- sta che da essa si attende, è quella
del sì o del no al pro- blema assoluto. La risposta dev'essere senz'altro
conforme 6 Amore petitur, amore quacritur, amore pulsatur, amore revelatur,
amore denique in co quod revelatum fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus
cath. ecclesiae, c. XVII, 31). 224 Filosofia e Metafisica alle conclusioni
della dimostrazione, quali che siano, ma le conclusioni stesse sono più sicure
razionalmente se si è certi che la ragione abbia fatto il suo dovere, fino in
fondo. Per- ciò la ragione riflessa non può non tener presente l’oggetto della
fede religiosa, di un’esperienza che non può essere un'illusione universale (se
il teismo lo fosse, sarebbe la ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a
sua volta, la fede si tenga sempre ancorata al suo fondamento razionale: credendo
cogitat et cogitando credit (*). (4) S. Acosrino, De praedestinatione
sanctorum, c. Il, p. 5. CapritoLo X LA CONVERGENZA TOTALE « Molti i portatori
di ferule, pochi i bacchi », nè basta portar la ferula per essere un bacco; lo
è chi è acceso del sacro fuoco. Similmente, non basta «esercitarsi » a dimo- strare
l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati di- scorsi, anche se «
indispensabili »; è necessario « impegnarsi » con la totalità di se stessi,
dirigere, unificate e solidali, tutte le proprie energie spirituali e vitali
verso lo stesso punto; fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa
assolutamente seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari dispo- sizioni,
una reale condizione psicologica di tutto l’essere spirituale che esclude
l’indifferenza e la pigrizia ed include la consapevolezza della profondità
della questione, dell’ur- genza improrogabile di risolverla, della
totalitarietà della risposta, dalla quale dipende persino se noi siamo vera- mente
o solo apparentemente degli esseri intelligenti e non cose, il cui
funzionamento organico ha delle singolari ma- nifestazioni — dette
impropriamente pensiero, ragione, vo- lontà — che gli altri organismi animali
non hanno, beati loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza aderire
pienamente alla verità che si vuol provare, se non si è disposti a dimostrarla,
« chiamati » dall’interno di noi a tentare la prova. Non è una chiamata
qualsiasi: è quella dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del nostro
essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della crea- zione non ci avesse
radicato in Lui. La chiamata aspetta in si- lenzio quando noi, perduto il senso
autentico del nostro 226 Filosofia e Metafisica esistere nell’onda del tempo,
dall’Essere ci sradichiamo: déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le
ore ine- sorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel cerchio del
finito più insignificante, opprimente, insoppor- tabile. Se le cose stanno
così, dimostrare Dio significa de- siderare una tale certezza della sua
esistenza da essere poi nella condizione di non più dubitare; infatti, è sapere
tutta la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto toglie il potere di
dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboc- cante, il momento
della piena armonia, dell’equilibrio del nostro essere integrale, che trova il
suo appagamento nella conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire
di no. L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della ve- rità.
Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè la ragione sia nella
condizione di « rendere al massimo », esige preventivamente una « conversione »
di tutto l’uomo a quel problema. Tale « conversione » al problema (non a Dio)
riguarda innanzi tutto la ragione. « Sofistica » non è la ragione retta, ma
quella deviata; sofisma è un’argomentazione corretta nella forma ma
sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze non forza di ragionamento; perciò
chi sofistica è sempre contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi
e relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è ugual- mente errato ('). È
la stessa ragione che lo corregge dimo- strando falsa l’affermazione da cui
muove e argomenta, ma non potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a
cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità non è nel nesso razionale, ma
nel principio secondo cui esso è fatto: i nessi razionali (le argomentazioni)
sono veri se il principio è vero, sono solo formalmente corretti e
sostanzialmente errati se muovono da un errore assunto come verità. Da questo
punto di vista la ragione è inferiore all’intelligenza (1) « Le raisonnement
n'est pas la raison; il en est souvent la parodie » (E. Hetto, Du Néant è Dieu,
Paris, 1921, p. 154). L'esistenza di Dio 227 che intuisce i princìpi,
fondamento su cui la ragione argo- menta; ma la verità dell’argomentazione non
è nel puro nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, cono- sciuto
dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelli- genza è illuminata
direttamente dalla verità, la ragione mediatamente attraverso la prima, la
quale, nella sua im- mediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica,
la ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e falso al vero, di
convincere di menzogna, di sofisticare la verità: il sofisma è l’alibi della
menzogna; buona parte della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La
ragione riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e crea- trice di
verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la verità delle cose, ma solo in
quanto l’intelligenza la illu- mina, la fa feconda di verità; l’una è la verità
fresca, allo stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la verità
riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è necessario che sia
«riflessione secondo verità », che «si converta », s'indirizzi alla verità e
soltanto ad essa: solo purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si
eleva al livello della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta la forza
di cui è capace; affinchè possa dimostrare la verità di una proposizione e
conferirle tutta la sua potenza logica è necessario che essa sia tutta della e
per la verità. Solo a questo livello la ragione conquista e realizza tutta la
sua forza normale; fino a quando è nell’errore, è al di sotto di se stessa e
l’uomo al di sotto dell’uomo. La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente
a vi- vere al suo livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra tutti gli enti
creati, non vive al suo livello normale, sem- pre in squilibrio sul punto del
suo equilibrio integrale; tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la
bestia che è, difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tre- mendo,
drammatico, quello che alimenta insopprimibile una filosofia dell’integralità.
Sembra di facile attuazione il 228 Filosofia e Metafisica comando «sii tutto
l’uomo che puoi essere »; è invece tre- mendamente difficile: io non so mai in
quale condizione raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure che
lo raggiungessi e ne fossi sicuro, non basterebbe per salvarmi: questo livello
posso perderlo in ogni attimo ed ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non
dipende solo da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: qui
tutto il senso di una filosofia cristiana dell’integralità. È evidente, dunque,
che quando parliamo di ragione o del- l’uomo senz’altro al livello di tutta la
sua forza normale non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo su- peruomo,
che è la negazione dell’uomo o meglio la subli- mazione di quello inferiore, ma
semplicemente della ragione che sia tutta la ragione, dello spirito che sia
tutto lo spi- rito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integral- mente
tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo che sia la pienezza
di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è attuale e totale normatività dell'uomo
se ogni sua energia e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è salvezza
se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pie- nezza dell’uomo è colma. La
filosofia cristiana dell’inte- gralità è la filosofia dell’umiltà assoluta. La
disposizione intellettuale di « conversione » alla ve- rità è anche
disposizione morale, processo di purificazione di tutto lo spirito, elevazione
al suo livello autentico: è met- tersi nella condizione di esser liberi
dall’errore. Per dimo- strare secondo verità, è necessario escir fuori dal
nostro egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo allora la
ragione dispone di tutta la sua efficacia; non sottomettere il pensiero alla
concupiscenza, le norme del giudizio alle cose da giudicare, in modo da
ascendere al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua at- tività,
convertita al problema, converge tutta nella sua so- luzione. Non basta
ragionare secondo la logica, è neces- sario esistere, pensare, ragionare
secondo la verità. Alla base L'esistenza di Dio 229 dell’autentica ricerca
filosofica vi è una iniziale onestà di pensiero e di volontà, che è frutto di
ascesi e purificazione: non si conosce la verità se non si è già nella
condizione in- tellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua scoperta
è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il premio di chi si è
liberato dell’io superficiale, egoista, fram- mentario, disperso; premio
dell’onestà fondamentale di una ragione votata alla verità e di una volontà che
è buona vo- lontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i poeti; e
non vi è poeta senza una particolare condizione di spirito, quella che chiamano
«estro»; e vi è anche un « estro » filosofico, come ve ne è uno religioso ed
uno anche scientifico. L’« estro » della filosofia è l’amore incondizio- nato
della verità, che è poi, anche quando non se ne ha coscienza, amore di Dio, che
è la Verità; i « bei discorsi », di cui parla Socrate, sono il suo modo di
pregare, la ma- niera con cui la ragione si rivolge alla verità, come ne testimonia
purificata e purificantesi sempre più e meglio nella verità stessa. Solo allora
le argomentazioni manife- stano tutta la loro forza normale (?). Questa la
condizione per acquistare tutta la consapevo- lezza possibile della nostra
iniziale e finale partecipazione all’Essere. Come abbiamo già detto, del «
nulla» non c’è discorso nè filosofia: il nulla è il nulla e non avrebbe alcun senso
senza la positività dell’essere. Ogni ente è l’essere che è; è il richiamo, la
sollecitazione dell’Essere che lo stimola ad essere il pieno attuale ed
ascendente del suo essere: l’ente spirituale emerge perennemente dal suo essere
per la spinta che riceve dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipa-
zione all’Essere gli dà tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, (2)
Difficilmente la forza « attuale » delle attività dell’uomo è tutta la loro forza
« normale », la quale, d’altronde, anche allo stato interamente attuale, non è
mai autosufficiente, anche se sufficiente nell'ordine naturale. Anzi la
normati- vità piena è impossibile senza la convergenza di tutto lo spirito in
Dio, cioè senza la condizione attuale della transnaturalità. L’autosufficienza,
invece, è l’al di là della norma, l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 2%
Filosofia e Metafisica più che dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che
non riesce a rendere tutta attuale. L'uomo è sempre più di quel che è in
un’ora: in ogni oggi ha sempre un domani. Perciò è speranza e fedeltà e non
nostalgia, che è del di- sperato, di chi non ha domani significante ed eterno,
dei sradicati dall’essere. È nostalgico chi nel futuro vede il nulla e nel
presente il vuoto: misconosce la partecipazione ini- ziale e perciò si volge al
passato, non perchè lo trovi signi- ficante, ma per un fatale abbandono «in ciò
che non è». L’uomo è lievitato dall’essere: farina che si fa pane, sempre nuovo
pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile. Ogni ente è dato, ma è esso
che si fa, si costruisce nello spirito, ma solo perchè si costruisce nel e
sull’essere; il livello dello oggi sporge sempre in quello del domani: lievito
e lievita- zione perenne. È la tensione della vita spirituale nella sua integralità;
nè teme rotture, perchè la tensione dell’essere all’Essere è il «tonico », il «
ricostituente » dello spirito. È la tensione al finito che spezza l’esistenza;
quella all’infinito, risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della
creatura, che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto creativo.
Da un punto di vista empirico questa tensione incandescente può far sembrare
allucinata e allucinante la vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere
al li- vello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, che ha
saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e riconquista) tutta la
pienezza della vita. « Pour étre vrai- ment homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre
sans aucune réserve » (*. L'’ontologo,
il metafisico vero, non « parla » dell’essere, « vive» del e nell’Essere
assumendosi il problema totale del significato del suo essere integrale, fin
nelle sue profonde ed abissali radici. Tale condizione è esigita assolutamente
dalla dimostra- zione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro- (3)
BaLtHAsar, op. cit., p. IX. L'esistenza di Dio 231 blema essenziale della
filosofia essenziale: tutto il dinami- smo della vita spirituale è chiamato a
convergere nella soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora
non capiterà d’incontrare persone che conoscono benis- simo tutte le prove
dell’esistenza di Dio tanto da saperle esporre meglio di coloro che ne sono
convinti, ed essere atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare esatta- mente
l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo costoro perfettamente
inteso per filo e per segno tutti i processi logici. Che manca? manca la
tensione, la conver- genza totale della vita spirituale e di tutte le sueinfinite
ed a volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ra- gione, a
tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in moto, con la ragione, tutto
me stesso, in modo che essa viva di tutta la mia vita, pulsante di tutte le
energie del mio spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza insospet- tata
e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e laragione scopre nello spirito
la presenza di qualcosa che prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e
nella luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con quell’intelletto
di amore, che potenzia le sue capacità di- mostrative senza comprometterle. La
ragione cerca e trova, cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito,
non l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio creante, vivificante,
provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita ed è artefice di verità, perchè
dalla verità illuminata. La originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed
il pre- sentimento primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato ogni atto
spirituale, si svela come verità razionalmente vera. La dimostrazione è ricca
di tutta l’intensità presentativa della verità: tutto lo spirito dimostra
l’esistenza di Dio, perchè tutto convergente in questa dimostrazione. La prova non
è soltanto lavoro di dialettica e concatenazione astratta di concetti, ma di
logica incarnata, piena di tutte le risorse, adesione integrale dello spirito
integrale. Allora ogni ente 232 Filosofia e Metafisica conosce il senso
assoluto della sua contingenza: la risposta è tutta la sua verità, tutta la sua
realtà; orienta indefettibil- mente la vita nel tempo — di un passato che
altrimenti non importerebbe più e di un futuro che diversamente sarebbe inutile
— all’eternità. La prova non ha fatto certamente che Dio esista; il suo rigore
logico ha confermato l’essere di Dio, del Trascendente interiore; ed è tale
presenza che ha reso possibile la prova stessa. Il presentimento, prima se- greto
e confuso, si traduce in termini discorsivi: la vita dello spirito, nella
consapevolezza razionale della sua si- gnificanza, trova pace nella verità
operosa e creatrice di nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là
delle parvenze sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una pace che è
solennità di pensiero maturo e compiuto, ope- rosità di volontà inesauribile
nella realizzazione del bene. « Trop de vérité m’étonne », scrive Pascal. M°étonne non direi, perchè la verità non
stordisce nè fulmina: la verità illumina. Certo che, nello stato naturale
dell’uomo, resta una zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si
penetra. Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine del- l’uomo, la
sua felice e feconda infelicità sulla terra. « La Grande Luce» è per noi «la
Grande Tenebra»: più si riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed
acce- cante nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bi- sogno del
ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta la Luce. Con Agostino ed il
migliore agostinismo — e S. Tom- maso ne è il più originale assimilatore — noi
rivendichiamo una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua effi- cacia
concreta, che solo la vita dello spirito e il suo inte- riore dinamismo le
possono conferire. Dio non si dimostra ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio,
insegnava « pas- seggiando ») ed astrattamente sillogizzando come se ba- stasse
un sillogismo per far decidere del senso di tutta la umanità e delle cose. La
vita spirituale è più ricca della ragio- ne, anche se è vero che non vi è vita
spirituale senza ragione. È necessario che nella prova vi sia la solidarietà
essenziale di L'esistenza di Dio 233 tutti gli elementi attivi e reali della
vita dello spirito (ve- dute dell’intelletto, disposizioni della volontà, amore
di ve- rità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio di possederla,
insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti allo stesso scopo: solidarietà
essenziale di elementi in una convergenza totale, orientata e guidata dalla
primitiva ve- rità interiore. A questo livello e sulla base di una razionalità sì
piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come verità assoluta e la sua
non esistenza come affermazione insensata e ipotesi proibita; a questo livello
la ragione di- mostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere creatore tra- scendente,
Bene e Provvidenza, Principio unificatore della vita spirituale di ogni singolo
ente razionale, Verità che dona a noi la verità, Luce della nostra mente,
Valore asso- luto, fonte di ogni valore. Tutto converge in Lui perchè tutto è
da e per Lui. La verità in me, immagine della Ve- rità in sè, presentimento
primitivo di Dio e principio mo- tore originario di tutto il mio movimento
spirituale, se non sono assente a me stesso, fa sì che tutta la mia attività
ar- monizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha il potere di
unificare tutti i momenti della mia vita e diri- gerli verso la meta unica. Se,
come abbiamo scritto altrove, in me mancasse la presenza operante di questa
intuizione originaria, « se essa non esercitasse il suo potere sintetico ed unificante,
la mia vita sarebbe sparpagliata, dispersa in tan- te direzioni insufficienti e
tutte insieme inefficaci ad uni- ficarla e a dirigerla verso un punto assoluto
e totale. E’ la condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove va- dano
e dove cadano i brandelli della sua insignificante esi- stenza. Ed è una
condizione ”’irreale”’ perchè frutto di igno- ranza e di errori,
disconoscimento o falsificazione della reale condizione dell’uomo... ». Perduto
l’essere, si spezza l’unità dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la
disintegrazio- ne, il disfacimento; questa la morte, non quella corporea. Un
uomo ed una società senza Dio sono fuori dell’uomo € 234 Filosofia e Metafisica
dell’umana convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo perchè ha ucciso
Dio, non si comunica perchè la comuni- cazione è possibile solo nella verità.
Solo tenendo presente che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve ‘e
mette in moto l’interezza della vita spirituale, per cui la forma logica
dell’argomentazione aderisce perfettamente alla concretezza dell’integrale
realtà umana, si coglie tutta l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della
mente nel- la verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della volontà
inesauribile nella realizzazione del bene: volontà operosa. Mente vera e
volontà buona: è la rettitudine del- l’uomo. La pura « razionalità » non è «
intelligenza », che inclu- de l’altra e l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi
e di rapporti, o è astrattismo e formalismo, o conoscenza dell’empirico: c’è
razionalità pura dell’astratto e delle cose fisiche (la Critica della ragion
pura, da questo punto di vista, è una metodo- logia delle scienze). Di Dio non
c’è pura razionalità, ma in- telligenza penetrante. Nel conquistare la verità
della Sua esi- stenza vi è un recupero dell’io profondo, del sensus sui, della
verginità e schiettezza del nostro essere, della sua ‘autentica originarietà: è
la prossimità del noi sorgivo alla Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha
voluto essere « ra- zionale » e perciò è scientifico e metodologico; si è
privato dell’ « intelligenza » di Dio e perciò ha cercato di demolire o fare a
meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi dell’empirico e del
metafisico. Posizione formalisticamente «razionale », ma non ragionevole. La «
ragionevolezza » è la razionalità fatta penetrante dall’intelligenza e
vivificata dal sentimento: chi è ragionevole non può negare l’esistenza di Dio.
Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non ‘essere puramente
razionali o passionali, tanto calore di sen- timento da rendere umana la
ragione e tanta forza di ragione da purificare ed illuminare il sentimento, in
modo che la verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua razionalità L'esistenza
di Dio 235 e ragionevolezza, che sono anche quelle della ragione. Tutto il
nostro discorso è un invito ai « razionali » e ai « passio- nali » affinchè
tornino ad essere « ragionevoli ». A questo punto, dimostrata razionalmente — e
con una ragione ricca di tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il di- scorso
della filosofia cessa e comincia quello della fede. Ma il filosofo deve dire di
sì alla sua vocazione di « arrivare », di spingersi fino a questo punto, se
pensa interamente, se è spietatamente «critico »: non deve fermarsi a metà.
Egli non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equi- librio, in
cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale e unificata, in cui si
attua la rormazività piena, inclusiva di tutte ie norme di ogni forma di
attività e di tutti gli equi- libri parziali. Il filosofo non può sottrarsi,
costi quel che costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere di
quanto ha positività — al livello in cui l’essere conquista la sua chiarezza
nella partecipazione consapevole all’Essere, in cui si coglie l’intelligibilità
metafisica del senso dell’esi- stenza, il suo significato assoluto
nell’immortalità e nella spe- ranza della salvezza. Poi la fede, quella che ha
tale forza at- trattiva da sollevare l’anima al punto in cui « cade » in Dio, suo
centro di gravità. Se mi seppellisco nel mondo, mi faccio cosa tra le cose, mi
sottraggo alla legge della gravitazione degli spiriti, la terra mi ghermisce,
mi attrae e terra e fango mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per perderlo di
vista ma per riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Es- sere che
è Verità. Da questa altezza il mondo non mi attira e lo vedo sospeso a Dio, in
cui gravito, in cui bramo « ca- dere » non per annullarmi, ma perchè la sua
Luce mi tra- sfiguri. A questo punto il discorso si conclude — come Ago- stino
il XV ed ultimo libro del De Trinstate — precatione melius quam disputatione. APPENDICE
IL CONCETTO CATTOLICO DI LIBERTA’ DI PENSIERO Di diritto e di fatto il solo
Istituto e il solo sistema dot- trinale che riconoscono e garantiscono la
libertà autentica del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa
catto- lica e il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolice- simo.
Una tale affermazione, nei tempi perduti che l’uma- nità attraversa, a prima
vista, superficialmente e solo in ap- parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal
Rinascimento in poi, attraverso i « libertini », gli « spiriti forti », i
deisti del Seicento e successivamente i cosiddetti «liberi pensatori » del
giacobinismo settecentesco e del laicismo dell’800, si è prevenuti a vedere
nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega- zione della libertà e di ogni libertà
e ad identificare l’una e l’altro con la coazione più oppressiva e tirannica.
La lotta. tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, le teorie politiche moderne,
il liberalismo e il marxismo è stata interpretata, da storici e scrittori non
cattolici, come la lotta tra l’oscuranti- smo della tirannia chiesastica e
clericale e l’affermarsi della libertà dell’uomo, con una confusione di
problemi e piani € un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi
con la graduale e progressiva ignoranza, caratteristica del mondo moderno e
contemporaneo, di quel che sono la Chiesa e il suo complesso dottrinale. Di
fatto è accaduto sempre al contrario: quando un’au- torità ha misconosciuto i
diritti della persona umana e ogni forma più elementare di libertà, si è
trovata di fronte, non nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di
Roma senza paure al cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 240 Filosofia
e Metafisica oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estre- mo
rifugio. Così ogni qual volta gli stessi uomini che met- tono in moto le forze
oscure del potere e dell’ambizione, sopraffatti dallo stesso ingranaggio da
essi scatenato ed im- potenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità
a cui consegue anarchia, perdono smarriti il controllo e il presti- gio
d'’istituti e leggi è atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida ancora tra
tanta tenebra di sanguinosa violenza negatrice di ogni libertà, è la Chiesa. Ai
nostri giorni, in quei Paesi dove tirannia impera e libertà è delitto da punire
di morte, è la Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi ristoratrice
di libertà al gregge di uomini che terrorizzato applaude alla sua schiavitù.
Per rendersi conto di come sol- tanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica
tutrice della-libertà umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per
fina- lità diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per una sua
concezione strumentale, bisogna che vengano tempi duri, anni in cui la libertà
è minacciata o calpestata. Quando tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la
Chiesa protesta per quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi
oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stes- si, possano
di nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi dalla colpa di aver negato
agli altri questo naturale e fonda- mentale diritto. Questo storicamente. Ma
quale il concetto cattolico di libertà, e, più particolarmente, della libertà
di pensiero? Co- me intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Pro- blema
imponente, che in una brevissima nota può essere sol- tanto sfiorato in quelli
che a noi sembrano i suoi aspetti teo- retici essenziali. Innanzi tutto,
libertà di pensiero significa libertà del pen- siero, cioè non libertà di
pensare quello che piace, che è la negazione radicale della libertà
nell’arbitrio irrazionale e nel non-pensare, ma di pensare in maniera conforme
alla natura del pensiero, cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta Il
concetto cattolico di libertà di pensiero 241 che quel che pensa è confacente
alla sua essenza e non una violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di
pensiero come tale significa semplicemente libertà del pensiero di pensare
l’oggezto che gli è conveniente e a cui la sua natura lo porta e sollecita. Ma
l’oggetto del pensiero alla sua essenza conforme è la verità; pertanto libertà
di pensiero significa libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella
verità. Chi pensa nella verità non può non pensare la verità che l'umano
pensiero può conoscere e chi la pensa, pensa confor- memente alla natura del
pensiero stesso e dunque in piena libertà di pensiero, conformemente ai
princìpi illuminanti la ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. Ma
la verità è più del pensiero che la pensa e per cui esso pensa, in quanto non
vi è pensiero senza il suo oggetto. E’ più perchè non è il pensiero a crearla:
la verità è prima ed indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente può
conoscere perchè c’è la verità, presente in ogni vero € per cui ogni vero è
tale. Se la verità è più del pensiero, gli sovrasta, lo trascende; dunque, il
rapporto verità-pensiero è di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla
verità. Il « diritto » alla sua libertà, a pensare il vero nella verità, lo esercita,
afferma e garantisce solo a patto che compia il « do- vere » di ubbidire alla
verità, in quanto è libero solo ubbi- dendole. Altrimenti si fa schiavo
dell’errore, esce dalla verità che è come escire fuori di strada, perdersi nel
buio di sè a se stesso, pensare disformemente dalla sua natura, che è non pensare,
soffrire della privazione della verità e del peso del- l’errore. Dunque il
concetto cattolico di libertà di pensiero si può così formulare: chi pensa
conformemente alla verità pen- sa conformemente alla natura stessa del
pensiero, il quale è libero quando pensa il suo oggetto proprio, cioè quando si
sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà del pensiero è
libertà dall’errore: solo chi si fa servo della verità è libero dall’errore ed
in possesso dell’oggetto che ap- paga la sua natura e, appagandola, gli dà la
gioia della libertà 242 Filosofia e Metafisica piena. La libertà è processo di
liberazione dall’errore senza che tuttavia s’identifichi con il processo
attraverso cui si conquista. Similmente la libertà della volontà è libertà dal
male, cioè volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la trascende;
dunque la volontà è libera quando è libera di ubbi- dire al bene, come il
pensiero lo è quando è libero di ubbidire alla verità. Il concetto cattolico di
libertà della volontà si- gnifica: obbedienza libera a legge giusta e buona;
disubbidire in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del volere.
Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di liberazione dal male,
conquista del bene e conformità del- l’azione al bene voluto, che,
cristianamente, significa amato. Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni:
qui s’im- pone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a seguirla;
non gli si consente che si scelga la sua verità. Hanno un senso razionale
queste parole ? Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo sospeso
a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto libero nel vuoto, anzi
tende a liberarsi dal vuoto da cui ri- fugge. Bisogna dunque dargli un oggetto;
e quello che gli è conforme e lo rende libero è proprio la verità, che è tal
cosa che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: è di sempre,
extratemporale o superstorica, quantunque sia madre del tempo e della storia; è
tal cosa che non può non imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il
pensiero dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schia- vitù. i Che
significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la sua verità? Ha solo un
senso: scegliere la verità invece che l’errore. Ma di fronte alla verità non
c’è scelta, perchè non c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il
pensiero sce- gliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la fatica
della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì an- cora nel senso che in
essa si trova a suo agio e vi si adagia, anche se per una veglia perenne. No,
invece, se significa che Il concetto cattolico di libertà di pensiero 243 la
verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da lui dipendente,
tanto da essere verità per uno e non-verità per un altro. Tal verità non è più
tale, è opinione; ma qui delle opinioni non si fa questione. In breve: o si
dice dimo- strandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pen- siero,
per il semplice motivo che il pensiero è sempre nella non-verità; o verità c'è
e allora, siccome la verità è tal cosa che è sempre vera e mutare non può, la
libertà del pensiero ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di
essere nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare secondo
essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha pro- prio negato l’esistenza di
una verità oggettiva ed immuta- bile, dei principi stessi della ragione, per
una verità storica e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del
pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole della mutevole mente
umana. Perciò, perduto il vero con- cetto di libertà del pensiero, schiavo
dell’errore, accusa di negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne
abbia un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè conforme alla
genuina natura del pensiero, la cui libertà si realizza nell’ubbidienza alla
verità, che è tal padrone che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone
tale di- pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. Dentro
questa libertà del pensiero nella verità e della volontà nel bene è legittima e
vera ogni altra libertà: po- litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre
tale che si attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il concetto
cattolico della libertà di pensiero è fondamento e garanzia di ogni altra
libertà, della libertà integrale; perciò la Chiesa difende i diritti naturali
della persona umana, che si compendiano in un solo fondamentale diritto:
libertà di essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e liberati
dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo limite: la verità per il
pensiero, il bene per la volontà; perchè non ha senso una libertà del pensiero
e della volontà oltre 244 Filosofia e Metafisica la verità, al di là del bene.
Oltre la verità e il bene c'è il nulla di verità e di bene, che è il nulla di
pensiero e di volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di schiavitù:
c’è il nulla della persona umana, di ogni suo di- ritto e dovere. Pensare fuori
della verità è non pensare e non essere affatto liberi di pensare; è
sbrigliarsi nell’errore, che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è
rifiu- tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò che piace
non è oggetto del pensiero ma del senso. Se si abbandona il piano della libertà
spirituale o di pensare nella verità si scende a quello della libertà biologica
o vitale, governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle passioni.
Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che piace » fa che l’uomo venga
meno alla sua prima libertà so- ciale e morale, quella di riconoscere e
rispettare la libertà dell’altro: è la violenza in tutte le sue forme,
dell’assassinio singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta o della
tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero di non fare quel che gli
piace, e di fare quel che è giusto perchè conforme all’ordine del bene, in cui
soltanto la sua volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto il suo pensiero
è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. Da un punto di vista
teologico questa formula si traduce in quest'altra: libertà nell’ortodossia. La
verità è infinita e si manifesta in aspetti infiniti, che mai la esauriscono;
pen- sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa, armonizzante col tutto, al
sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad una cattedrale. Perciò noi
crediamo che una filosofia, per quanta verità possa contenere, non è mai tutta
la verità e dunque non vi è alcuna filosofia che possa dirsi tutta la verità
cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come tante verità, bensì come tanti
veri, parziali e concordanti, della unica verità, in essa convergenti, come i
raggi di un cer- chio convergono tutti al centro. La Chiesa ha conosciuto nel migliore
Medioevo questa magnifica libertà di pensiero den- Il concetto cattolico di
libertà di pensiero 245 tro l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può
identificarsi senz'altro con una filosofia o con una determinata corrente filosofica.
Non una philosophia perennis, perchè perenne c’è solo la verità e la filosofia
come ricerca e scoperta di sempre nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è
perenne come particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- lano
un aspetto della verità, perchè vive della vita perenne della verità; è ogni
pensare nell’ortodossia, senza esclu- sione, in quanto la verità è soltanto
monopolio di se stessa ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà
onesta. Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana conoscenza
dell’unica eterna verità, anche se si dice ateo, contro se stesso, pur essendo
schiavo dell’errore, è libero per quanto pensa e conosce di vero, nella misura
in cui ubbi- disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa non
contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della libertà di pensiero è
tal cosa che rende liberi anche coloro che fanno di tutto per essere schiavi
dell’errore e del male. INDICE DEI NOMI A Abelardo, p. 204. Acri, p. 143; vol.
II, p. 53. Agostino (S.), p. 35, 40, 62, 67, 99, 124, 125, 127, 128, 137, 139,
140, 141, 143, 145, 147, 148, 149, 150, 151, 154, 155, 156, 165, 166, 180, 184,
187, 194, 207, 210, 216, 217, 223, 224; vol. II, p. 8, 40, 97, 112, 115, 136,
145, 155, 162, 175, 177, 179, 187, 192, 194, 203, 209, 223, 224, 232, 235. Alembert
(d’), p. 109, 180. Alessandro, p. 187. Aliotta, p. 130. Amerio, p. 137. Ampère
(d’), p. 180. Anselmo (S.), vol. II, p. 130, 194, 195, 196, 197, 198, 202, 203,
206, 207, 219. Antonelli, p. 13. Ardigò, vol. II, p. 50, 51, 123. Aristotele,
p. 51, 52, 61, 91, 97, 105, 113, 122, 123, 127, 128, 129, 138, 139, 140, 141,
142, 143, 144, 145, 146, 147, 149, 150, 152, 153, 156, 181, 184, 190, 193, 194,
220, 221, 227; vol. II, p. 42, 91, 147, 183, 199, 210, 232. Arnauld, vol. II, p. 10. Arvon,
vol. II, p. 76. Bacone, p. 181
vol. II, p. 73, 160. Bakhtavar, vol. II, p. 27. Balmes, p. 127. Balthasar, vol. II, p.
143, 230. Bayle,
vol. II, p. 9, 23, 25, 27, 38, 43, 45, 46, 76. Berdiaeff, p. 188, 205. Bergson,
p. 116; vol. II, p. 94, 210. Berkeley,
p. 107, 108; vol. II, p. 174. Bernardo (S.), p. 204. Bertini, vol. II, p. 204. Besant, vol. II, p.
60. Bespaloff, p. 205. Blavatsky,
vol. II, p. 60. Blondel, p. 40, 67, 80, 127, 128, 129, 143, 155, 225, 226; vol.
II, p. 7, 141, 187, 218. Bogliolo, p. %; vol. II, p. 211. Bonatelli, vol. II,
p. 137. Bonaventura (S.), p. 99, 156, 144; vol. II, p. 150, 195. Bontadini,
vol. II, p. 208, 209. Borne, vol. I, p. 76. 250 Indice dei nomi Bossuet, vol.
II, p. 15. Bruno, vol. II, p. 56. Brunschvicg, vol. II, p. 8, 35, 69. Bruto, vol. II, p.
20. Buber, vol. II, p. 76. Biichner,
vol. II, p. 50. c Calvez, vol. II, p. 76. Campanella, p. 127; vol. II, p. 130,
191. Camus, p. 189, 211; vol. II, p. 17, 28. Capone Braga, vol. II, p. 148. Carabellese,
p. 221; val. II, p. 32, 76, 130, 205, 206, 207. Caracciolo, p. 13. Carlini, p.
101, 137, 138, 140, 141, 143, 145, 146, 147, 148, 150, 151, 156. Cartesio, p.
15, 37, 89, 100, 105, 106, 107, 108, 111, 118, 144, 204, 215; vol. II, p. 10,
105, 108, 155, 160, 174, 214, 215. Cesare, p. 187. Chestov, p. 208; vol. II, p.
39, 222. Ciro, p. 187.Comte, p. 114; vol. II, p. 7, 37, 61, 75. Condillac, p.
108. Copernico, p. 73. Crippa, p. 13. Crizia, vol. II, p. 26. Croce, vol. II,
p. 35Cusano, p. 127; vol. II, p. 161. D D'Amore, p. 227, 228. Dario, p. 187. De
Bonald, vol. II, p. 41. De Finance, p. 143. De Lubac, vol. II, p. 76, 99. Destutt
de Tracy, p. 108. Diagora di Melo, vol. II, p. 26. Diderot, vol. II, p. 44. Diels, vol. II, p. 26. Diogene di Apollonia,
vol. II, p. 26. Diogene Laerzio, vol. II, p. 29. Dostoiewskij, p. 164, 210; vol. II, p. 8, 45. Drochmann, vol.
II, p. 76. Du
Bois Reymond, vol. II, p. 50. Duméry, vol. II, p. 76. Durkheim, vol. II, p. 48. ‘E Eddigton, p. 201. Egesia, vol.
II, p. 24. Eliot, p. 177. Epicuro, p. 67; vol. II, p. 23, 26. Eraclito, p. 159.
Erode, p. 187. Eschilo, vol. II, p. 53. Eucken, p. 118; vol. II, p. 49. Euripide, vol. II, p. 17. Evemero, vol. II, p. 26. Ferro, vol. II, p.
222. Festa, vol. II, p. 50. Indice dei nomi 251 Feuerbach, p. 114, 211; vol.
II, p. 61, 63, 66. Fichte, p. 114; vol. II, p. 55, 56, 59, 61, 63. Ficino, p. 127. Flint, vol.
II, p. 76. Fondane,
p. 205. Fourer, vol. II, p. 48. Franchi,
p. 186. Franck, vol. II, p. 76. G Galilei, p. 73; vol. II, p. 43, 160. Gandhi,
vol. II, p. 20. Gaunilone, vol. II, p. 130, 199, 200. Gentile, p. 14, 38, 91,
115, 116, 117, 138; vol. II, p. 61, 122, 135. Giacobbe, vol. II, p. 220. Gilbert, vol.
II, p. 46. Gilson, p. 14!, 142,
143, 192, 197, 202, 218, 222. Giovanni di S. Tommaso, vol. II, p. 86. Goethe,
vol. II, p. 54. Gratry, p. 127. Guyau,
vol. II, p. 48. H Haeckel,
vol. II, p. 50; 51. Hamann, p. 204. Hamilton, vol. II, p. 30, 33. Hardouin,
vol. II, p. 10. Hasting, vol. II, p. 76. Hazard, vol. II, p. 42, 43, 44, 46,
76. Hegel, p. 57, 59, 93, 113, 115, 124, 134, 154, 166, 168, 183, 185, 186,
202, 203, 204, 206, 211, 213; vol. II, p. 47, 49, 55, 56, 58, 63, 64, 66, 68,
94, 108, 116, 121, 122, 123, 124, 134, 172, 175, 191, 221. Heidegger, p. 102,
124, 1%, 203, 205, 206. Hello, p. 225; vol. II, p. 226. Herbert di Chirbury,
vol. II, p. 42, 45. Herder, p. 179, 180. Hobbes, p. 108. Holbach (d’), vol. II, p. 23, 30. Huizinga,
p. 174. Hume, p. 108, 109, 144; vol. II, p. 30, 120, 146, 167, 168, 169, 170,
174. Huxley, vol. II, p. 29, 31, 50, 76. L Isacco, vol. II, p. 220. J Jacobi, p. 204. Jaeger, p. 122. James, p. 118. Jaspers, p.
205, 206. Jaurès, vol. II, p. 47. K
Kant, p. 59, 74, 91, 93, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, II6, 117, 144, 204;
vol. II, p. 25, 252 Indice dei nomi 29, 31, 33, 41, 42, 43, 72, 5, 122, 130,
141, 145, 146, 147, 152, 164, 166, 167, 170, I71, 172, 175, 196, 200, 203, 204,
205, 207, 208, 216, 217. Keplero, p. 73. Kierkegaard, p. 114, 198, 202, 203, 204, 206, 208,
210. L La Bruyère, vol. II, p. 27, 40, 151. Lachelier, p. 108, 118; vol. II, p.
13. Lagneau, vol. II, p. 152. Lalande, p. 199; vol. II, p. 76. Le Dantec, vol. II, p. 7, 26, 76. Leibniz, p.
107, 108; vol. II, p. 47. Leopardi, vol. II, p. 22, 162, 169. Le Roy, p. 99; vol. II, p. 33.
Le Senne, p. 209. Levi Ad., vol. II, p. 33. Liard, p. 117. Littré,
vol. II, p. 31. Locke,
p. 109, 111, 144; vol, II, p. 30,
44, 120, 167, 168. M Machiavelli, vol. II, p. 43. Malebranche, p. 106, 107,
127; vol. II, p. 10, 121. Mansel, vol. II, p. 30, 31, 33. Mansfield, p. 226. Manthner, vol. II, p. 76. Marcel, p. 205, 206, 222. Maritain,
p. 197; vol. II, p. 4, 76. Martinetti, vol. II, p. 42. Marx, p. 114, 168, 211;
vol. II, p.- 52, 61, 64, 66, 67,
68. Masnovo, p. 151, 223. Moleschott, vol. II, p. 50. Naville, vol. II, p.
31. Newton, vol. II, p. 43, 46,
135. Nietzsche, p. 166, 168, 210; vol. II, p. 58, 61. Novalis, vol. II, p. 55. o
Occam, p. 98, 182. Oleschtschuk, vol. II, p. 76. Olgiati, p. 19, 92, 93, 95,
105, 126, 127, 128, 129, 130, 13I, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 139, 140, 141,
142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157.
Ollé-Laprune, vol. II,
p. 39. P Parker, vol. II, p. 10. Parmenide,
p. 97, 159, 190, 201; vol. II, p. 57. Paolo (S.), p. 68. Pascal, p. 40, 53, 56,
68, 75, 76, 80, 127, 151, 155, 1907, 204, 240; 214, 216; vol. II, p. 10, 21,
40, 41, 72, 73, 107, 213, 214, 232. Indice dei nomi 253 Pico della Mirandola,
p. 158. Pindaro, vol. II, p. 53. Pitagora, p. 49, 56. Platone, p. 40, 49, 52,
62, 64, 66, 79, 97, 125, 128, 141, 143, 151, 153, 155, 165, 184, 190, 193, 194,
202, 206, 212; vol. II, p. 17, 57, 73, 160, 163, 168, 169. Plotino, p. 98, 202;
vol. II, p. 42, 55, 56. Plutarco, vol. II, p. 34. Poincaré, p. 34. Pompeo, p.
187. Prini, p. 13. Protagora, vol. II, p. 29. Proudhon, vol. II, p. 48. Reid, vol. II, p. 31. Renouvier,
vol. II, p. 7. Rensi, vol. II, p.
9, 27, 72, 76. Ricciotti, p. 21. Richard, vol. II, p. 76. Rickert, p. 117. Rideau, vol. II, p. 76. Rosmini, p. 32, 40, 58,
64, 68, 116, 124, 127, 151, 155, 156, 187, 222, 224; vol. II, p. 4l, 140, 141,
143, 152, 155, 161, 166, 170, 173, 175, 177, 206, 209. Rossi, vol. II, p. 45. Rousseau, p.
204; vol. II, p. 42. S Saint-Simon, vol. II, p. 48. Salomone, p. 50. Sartre, vol. II, p. 17, 69, 76. Scheler, p. 124. Schiller,
vol. II, p. 55. Schlegel,
vol. II, p. 55. Schopenhauer, p. 114, 183; vol. II, p. 74, 144, 145, 146, 147, 215.
Sciacca, p. 138, 140, 143, 147, 151,
154; vol. II, p. 76. Scotuzzi, p. 13. Sesto Empirico, vol. II, p. 26. Socrate,
p. 50, 51, 128; vol. II, p. 10, 229. Sofocle, vol. II, p. 53. Spaventa, p. 115,
I16. Spencer, vol. II, p. 50, 51, 53. Spinoza, p. 107, 108, 113, 134; vol. II,
p. 45, 47, 49, 53, 55, 56, 57, 91, 121, 130, 143. Stalin, p. 164. Stefanini,
vol. II, p. 222. Stephen,
vol. II, p. 29, 76. Stirner, vol. II, p. 61. Strauss, vol. II, p. 31. Stuart
Mill, vol. II, p. 3I. Suarez, p. 127. Sully
Prudhomme, p. 115. T Teodoro, vol.
II, p. 26. Toland, vol. II, p. 42, 45, 49. Tommaso d’Aquino (S.), p. 68, 122,
127, 128, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 145, 146, 147, 148, 149, 151, 152, 153,
154, 155, 156, 165, 166, 190, 217, 221, 224, 226, 227, 228; vol. II, p. 88,
179, 189, 194, 1%, 254 Indice dei nomi 199, 200, 203, 204, 209, 210, 211, 232. Tucidide, p. 31. U Unamuno,
vol. II, p. 39, 222. Vv Vacherot,
vol. II, p.
31, 32. Valensin, vol. II, p. 57. Van
Steenberghen, vol. II, p. 87. Varisco, vol. II, p. 207. Vico, p. 127, 137, 173,
183; vol. II, p. 175. Voltaire, p. 108, 179; vol. II, p- 11, 27, 38, 42, 43,
46, 73, 76. W Windelband,
p. 117. Wolff, p. 100, 106, 107; vol. II, p. 49, 147. Z Zamboni, vol. II, p. 207. Zenone, vol. II, p. 50.Michele
Federico Sciacca. Sciacca. Keywords: il veintennio fascista. Refs.: Grice e
Sciacca” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Scipione:
la ragione conversazionale del circolo degli Scipioni – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Si trova al centro del più antico portico romano.
Console, distrugge Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in
Oriente, e di nuovo console, distrugge Numanzia. È un appassionato lettore
della "Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza del Portico. Forse,
anche per questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la
corruzione. A
statesman, military leader, and scholar. More a patron of philosophers than a
philosopher himself, he is particularly close to Panezio. Cicerone regards him
sufficiently highly to include him as character of some of his philosophical
works. He is much admired for his courage and moral integrity. C UM in Africani
veniftem, M. Manilio z Confuti ad quartam legionem Tribunus , ut fcitis,
mili- tum ; nihil mihi potiusfuit, quam ut $ Mafmif- fam convenirem,
regem farri il \x noftrsejuftis decauflis amicìfllmum * Ad quem ut veni,
complexus me (enex collacrymavit : aliquantoque polì (ulpexit in calum,
Grate (inquic) tibi ago, furarne Sol, vobifque, 4 rel qui Caelites; quod,
antequam ex bac vita migro, confpicio in meo regno & histe&is P.
Cornelium Sci* pionem, cujus egO nomine ipfo recreor .* ita numquam
ex animo meo difcedit illius Optimi atque invitìiffìmi viri
memoria, Deinde ego illum de fuo regno , illemd denofìra Repub.
percontatus eft : multifque verbis ut- tro citroque habitis, i 1 le nobis
confumptus eli dies « Poftautem regio apparatu accepti, fermcnemin mul-
tata nodem produximns; cumfenex nìtiil nifi de Afri- cano
loqueretur, omnìaque eius non fafta folnm, fed ttiam di&a m^miniflet;
deinde, ut cubitum difcedi. mus,
me & de via fefl'um, & qui ad multam noflem vi- t
Seipio . Figliuola di Lucia Emilio Paolo Macedonico , adot- tato da
Scipittne figliuolo dell* Affici cano il maggiore , che di- flrutfe
Cartagine e Numanzla nell'anno 609 Or etto nella dif- puta di
Repubblica follenea cotitra l' oppln Ione di Filo, che tan- to era falfo
non poterli lenza commettere inglnftiiie la Repub- blica governare,
che anzi dicea non poterli reggere Lina una » fornirla gluftizia
Sant* Agoftino di clb ragiona nel libro il cap. 21. de Civltate D
I, a' cui tem- pi quelli libri di Rtpubl. fi leg- geano , come pare
, ed andavano attorno . 1 Confuti ...... tribunus
militum . Ulata maniera , nort Confuti. Diccafi fimilmente Ir* gatus
confuti non confuti . I Maftnifj'am . Re d' una pat- te d' Affrica
. Solleone in prima 11 partito de* Cariaginelì contra i Romani ,
nell' anno di Roma 541. Ma quattro anni apprelfo , avendo Scipione
niello in rotta l'armata d'Afdrubale , rimandò fé u za prezzo di
rifcatto 11 nipo- te a MalTìnilfa ; per tale eciiero- fo ano sì
ptefo e per taf modo fu quello principe , che poi fu fempre
cffezionjiiflimo a' Roma- ni . Con erti congluofe l lue forze , e
nell'anno 55I. di Ro- ma lì trovb alla battaglia , che quelli
guadagnarono contro N SCIPIONE PARLA,- / K . E Sfendomi
portato in Affrica, militar tribuno, co» me fapete, alla quarta legione
fotte il Confole Manio Manilio; non ebbi cofa, che piò a cuor mi
folle, quanto il far vifita a Maflìniffa re per giu» Hi titoli
aftezionatiflìmo alla noftra cafa* Al qua! co- me fui giunto, il vecchio
abbracciatomi, versò lacri- me : ed alquanto appreflo levò, gli occhi al
cielo, e, Grazie , difTe o fommo Sole, ti rendo , ed a voi al* tri,
celefti Dii, che, prima di pa (Tare di quella vita, nel mio reame veggio,
ed in quelli foggiorni Pubblio Cornelio Scipione, pel cui nome i He ITo
prendo riftoro: s\e per tal modo dall’animo mio non fi diparte giam-
mai la memoriadi quell’ottimo , ed invittiffimo uomo Apprelìò io gli
feciftudiofe ricerche del reaméluo, ed egli Culla Repubblica noftra .
Accolti pofeia in reai trat- tamento, menammo per la lunga irragionar
lioftro fino a gran pezza di notte; conciofoffèchè il vecchio non
avelie alla lingua altro che 1* Africano, è ricor- dane non folamente
tutte le azioni di lui, mà i detti altresì: come ci fummo fu levati per
andare a letto, e per efier dal viaggio fianco , e perché io vegliato
ayea fino a notte molto inoltrata, mi prefe cm Tonno più ferrato,
che nonfolea. In quefto a me (credo ve- ramente da ciò procedeffe , di
che avevacn parlato ; • O o a che Afdrubale , e dì Si face .
Dopo, la pace conci «fa tra.* Romani ed i Carraginifi ebbe la
fovfanirà di diverfe provincle d* Affrica , e vide Tempre amico de*
Romani . Morì di qo. anni , e lafciò 44. figliuoli di di vetfe
conferii . Di- cefi che nell’ ultima malartia pregafle Mal Ho
generale dcll'ar- mata Romana, ad Inviargli il giovane Scipione ,
affine d* aver la conio lezione di morire nelle Tue braccia , e per
dargli gli op* portunLordioi , che offcrvati vo- lea fui
rìpaftimento del fuo re- gno .\E da quella contezza per, avventura
s’accatta I’occalìone data al fogno . 4 Reìt^ui Calìtes . Accenna
la luna e gli altri pianeti e del- le del elei fu premo ,
annoverate dalla pift parte degl’Antichi tra gli Dei. Di che
Lattanzio ragiona nel de Fal/a Religione . Platone nel
Cratilo deride sì beftiaJe oppimene vigilaflem, ar&ior, quam folebat
; fomnuscomplexus eft. Hic mihi (credo equidem ex hoc» quod eiamus Jocuti
: 1 fit enim fere, ut cogitationes fermonefque noflri parfant aliquid in
fonino tale, 2 quale de Ho- mero fcribit Ennius, de quo videlicetj
faepifTime vigì- Jans folebat cogitare & loqyi) Àfricanus fe oftendit
il- la forma , qua: mihi 3 ex imagine ejm , 4 quam ex ipfo, erat
notior. Quem ut agnovi , equidem cohor- rui. Sed ille, Ades, inquit,
animo ; & orni tee timo- rem , Scipio ; & , quae dicam , trade
memori. V Idefne ilfamurbem, qu* parere Pop. Roro. eoa da per me, renovat
priftina bella , nec poteft quiefee- re (oftendebat aurem Carthaginem 5
de excelfo , & pieno flellarum , illuftri , & darò quodaro loco)
ad quam tu oppugnandam nunc veois piene miles? hanc hoc 6 biennio
Conful evertes : 7 eritque cognomen id tibi per te partum , quod habes a
nobis adhuc heredita- x Fit enim fere iti cogita- iiona
<y c . Socrate appretto Pla- tone nel 1 bro 9. de Repub. di
quelle cagio.ù , il fognar generanti, va nobilmente filosofando. a
Squali de Homero fcribit Bnrtiuf . Leggendo Ennio % e meditando 1
verfi d* Omero e fluitandone con premura Pihri- taiiene , fognò
<1* effere dive- nu'O O nero , e che l’ anima di colui (offe pattata
m etto gia- lla il Pitagorico domina . A ciò allude Orai. uell’Epift.
, Ennius & f api Citi , for «* tis (5 f alter Homerus . ÌJt Critici dicunt , leviier curare
vìdetur. Ut pronti fa cadant , <y fo» mai* Pytbagorea w v
Oc. nel Luculìo cita un etrffU- cMo del luogo , dove Ennio
>1 fuò fogno narrava . Fifus Homr. rus adejfe poeta. j Ex
imagine ejus &c. Allu- de a que* ritratti degli antenati, che
fottenuto a reano curut ma* gittrato,oche tener fi folcano appetì
uell* atrio. Quam ex ipfo . Vuole 11 Sigonio che nell' anno , che
trapafsò 1* avolo Scipione Af- focano il Maggiore , venitte a
htee il nipote adottivo 1' Affricano il Minore , cioè nel 571. fotto 1
confoli Apjlo Claudio Pulcro, e Marco Sempronio Tuditano . Altri però lo
fanno nato due anni prima : e* pare che ciò piò confuoni
all'efpref* fumé , che nel prefeme luogo fi adopera . 5 De
exctlf» . 1/ Affocano parlava dal cerchio ^ della via Latea ,
gremita di piccole ttel* le , come dicono Ariftoti- le 1 thè
d* ordinario fuccede che ipenfamenti e difcorfi no* Ari generano un non
fo che di Tinnii nel Tonno , come Ennio Tcri ve a lui Tu d’Omero
avvenire, del qual fo- vente Tolea nel Vero penfar vegliando e parlarne)
in quello, dilli, a me mi fi fe l’ Affocano vedere in quel
iembiante , che più dal ritratto di lui , che da elio medefimo,
m’era noto* Cui come ravviato l’ebbi , fen- tii del ribrezzo. Ma egli dà
qua mente, prefe a di* re, o S., e caccia via il timore; ed a memo-
ria manda quel, che dirò* Q Uella città vedi tu, cheper
opera mia cofirettaa predare ubbidienza al popolo romano, le guerre
prilline rinnovella , nè può racchetarli (ed ad- ditava Cartagine
da un certo alto lungo , e pien di flelie, illuminato, ed arioTo) a cui
oppugnare ora tt| ne vieni quali faldato? quella tu interinine di due an-
ni con podellà conlolare diroccherai: e ti avrai quel cognome per
tua opera procacciato , che d^noi fina do* ra pofliedi ereditario. Quando
avrai poi fllrtag'n di firutto, menato trionfo , e Tara illato Cenfore, e lega-
to avrai cerco attorno T Egitto, la Siria, .T Alia , e la Grecia ,
Tarai di nuovo eletto Confole Tenza cohcorre. re, e recherai a fine una
poderofiffi ma guerra, rovine* O 0 ì rat ^ } Eritrite càgnomin
&c. Di- te 1* Affricano il Maggiore ; t* acq unterai per tue
valorofe Opere II cognome d* Africano, che firtadora da me avolo
tuo 1* hai ereditarlo . Ottervano che 1* A Africano il Maggiore fu
il primiero -tra* Romani comandan- ti , dopo terminata la seconda guerra
Punica , che fregiato forte del ritolo formato da na- tiorte
foggìogata da lui . Su tal prorofi'o Liv. nel fine del llb. 3CXX.
riflette . Exemplo fèittdg hujus , tìffHaquàm V'&ori* p*-, tei
•> infignes , imaginum tiiulot tlaraque cognomina f amili* fi*
cin le e Toìommeó , la qUale pef coiai fimiglianza od apparen-
za , che ha col ìatte , fa da Greci detta a (• Svariate furono le
oppiniont del- la cagione di cotal comparfa , ma la piA naturai
pare « quel color fifultare dalla moltttudin folta di quelle piccole
«elle .. Biennio tonfai . Ottervà il Slgonio che 1* Affrica
no fu ben confole due anni appretto , ma pattaron tre anni prima di
com- pier r imprefa , e la città di- tteutte In carattere di
proconsole , come egli dimoftra ue* com- mentar j de' ratti . .
tanurn , Cum aurem Carthaginecn deleveris, triumphum egeris, Ceniorque fueris,
& i obieris legatus Egyptum , Syriam , Afìam, Grgciam, deligere
iterum conful x abfens, bellumque maximum conficies » Nu- mantiam
exfcindes: fed , cum eri* curru Capitolium inve&us , offencles Renripub.
perturbatane confiliis $ nepotis mei • 4 Hic tu, Africane, oflendas
opcrtebit patri» lumen animi , ingemì , confiliique tui . Sed ejus
temporis aneipitem video quafi fatorum viam. Nam, cut» aetas tua feptenos
otììes 5 t Solis anfratìus, reditufque converterit ; duoque .hi numeri
(quorum utetque plequs , alter altera de caufla habetur) cir- cuicu
naturali fummam tibi fatalem confeceriot ; in te unum , atque in tuuic
nomen , fe tota con verter civiras : te Senatus, te omnes boni , te focii
, te La- tini intuebuntur : tu eris unus, in quo mtatur civi- tatis
falus: ac, ne multa, 6 diélator Rempub. confti. tuas oportet | fi impias
propinquorum manus effugerìs. Hic cum exclamafTet Laelius ingemuiflentque
cete- ri vehementius, leniter arridens Scipio. Qn^fo, io* quit, ne me e
fonino excitetis ; 8 pax ; audite ce* tera. W 1 Oliar is legatus.
Scrive Giuntino nel ìib. j8« che per esplorare gli animi de re, e
de comuni fu mandato legato con Spurio Mummio, e Lucio Metello . Oc. però
dice nel I.ucullo che quella lega, rione feguì prima della esercirata
ceuftira, e così pur fen- te il Sigouio . Che qui poi prima fi
accenni la ce n fura, fi P u h cib riportare al cumino, do della
efpouzione , alla quale tornava piti in acconcio il mct. terla
prima. z Abfens . Giulia la maniera , d-: Ila qual parla fovente
.Livio, quando fi ragioni dell* elezione de* magiftrad 1* ai»
fetts importa 11 non concorrervi ed il non proiettarli candidato
coll'andare in quel mi- merò nel campo Marzo • Glb ben ritrae fi
dal conte fio di molti luoghi degl’istorici, ed olcraccib il
comprova la pro- pria forza di abejj*, il qual verbo importa non
l'efier lontano , ma il non efier prefente. ? Nepotis mei . Intende Ti.
berlo Gracco, figliuoi di Cor- nelia figliuola dell* lAiTrjcano
il Maggiore, il quale , colla legge agraria taflarsu i 5 0. ju«
ger! di poflefTo, voleva abbat- tere lo fiato già corroborato de-
gli ottimati *11 fatto t coìrti Itinio nella llorfa Romana , del
quale abtiam già fatto pai volte ricordo. 4 Hic tu , Africane, Vuole. s
ui rai Numanzia; ma quando in cocchio farai condito al
Campidoglio, troverai la Repubblica fcompigliau per le màcchine del
nipote mio. Qui converrà che tu, o AfFricano, facci alla patria vedere il
la^reddl* animo, ingegno ed accorgimento tuo . Ma di quel tempo io
veggio ambigua effer quafi la traccia de’ fati . Imperciocché quando la età tua
voltato avrà per otto volte fette tortuofi giri e ritorni del Sole: e
queRi due numeri (che amendue per pieni tengonfi qual per una cagione e qual
per altra) come con periodo naturale t* avranno compiuta renduto la fatai
fomnru : tutta la città in te folo rivolgeralTì , ed a| tuo nome:
in te Afferà lo (guardo il fenato, in te tutti i buoni, in te gli alleati, ed i
Latini: tu farai 1’unico, nel quale la fai vezza della città foflerraffi: e, per
non farla più lunga , d’uopo è che tu dittatore metti in buon ordine la
Repubblica , fe ti verrà fatto di fcanfare 1 empie mani de’ tuoi parenti
In quello avendo Lelio levato alto la voce, e dato aceefi gemiti gli
altri , S. per maniera piacevole (or? ridendo , deh, difTe , non mi
rifcotcte dal foono: fiate chieti : fentite il refìo. qui il Sigonio
accennato il fac- to di Cajo Carbone tribuno della plebe, quando
condii fle fu’roftri Scipione, ed il coftrinfe a dire , che gli parerle
dell* uccisone di Tiberio Graccp, al J [uale egli con franchezza rifpo-e
, eum [iti fare cafum videri. 5 Soli* anfratti* s Cosi nomina i giri del
Sole per la obliquità del' Zodiaco , per cui vigore il fole or piega a fetten-
trione ed ora a meriggio . Cosi pur chiamanti le curve e sinuose
vie de* fiumi e de lidi con rutta proprietà latina. 8 Dittator rempub.
Significa, che fenza fallo farebbe ft.uo dittator creato, per
acchetare gli fcompigU della Repubblica, te non folle flato tolto
di vita da* parenti con infidie , ed in O 0 4 HL Affetto fu trovato
morto fui fuo letto. Hic cum exclamafjet . Si finge che nella leena
del fogno v* Intervenirle Lelio e gli altri perfonagoj accennati di
fopra, che deputavano di Repubblica. Or qui Cic. l’erba il
carattere decoroso di S. . Perciocché mentre alPafcoltarfi de fu-
turi rifichi di lui gli alcolcnnci dimoftrano conimozion d* ani-mo:
folo l’eroe, a cui appar- tengono , ferba intrepidezza e cofanza %
Pa . Voce da Latini concici ufata ad accennare filenzio. Terenz, Eavtont. 4. j*
Unus eiì dits , dum argentarti eripio, pax , ni AH amplia s . U fai
la pur Plauto. C*ED; quo fis, Africane, alacrior adtotandamRem- ò
pub. fic habetoi omnibuJ, qui patriam conferva- rint, adjuveriot,
auxerint, certum effe incacio ac definitum locum , ubi beati aevo ftmpiterno
fruantur. Nihil eft enim illi principi Deo, qui omnero hunc mundum regie, quod
quidem interrii fiat , acceptius, «pian» concilia caetulque hominum ajure
lodati, qu* civitatesappellantur : harum redloresS confervatores ahinc
profefti, huc revertuntur. Hic ego, etfi eram perterritus non tatti metu
mortis, quam infidiarum a meis, quaefivi tamen, viveretne ìpfejPauIlus
pater, salii, quosnos extinflos arbitraremur . Imo vero, inquit , 11
»ivunt, qui 4 exeorporum vinculis, tamquam e carcere evolaverunt . Veftra
vero , qua; dicitur vita , mori eft. Quin tu afpictas ad te venientem
Paullum patrem. Quem ut vidi, equidem vim lacryroarum profudi. Jl-
le autem me amplexus, atque ofculans Aere proh.bebat Atque ego ut primum
ftetu repreflo loqui polle 1 cce- t 1 Jure focidti. Si accennano
tutte le raguuanie , che risulta- no dal conienio ed offervauza di
legpl . Dà buon lume all* ef- prcllìone un luogo di Macrobio.
Servili s quondam, die* egli f & gladiatoria manus concilia,
CcBtufque hominum fuerunt , fed non jure {odati . JUa autem fola eli
jufia multitudo , cujus vnitfrjitas in legum tonfentit otfequium. E
quella definizione conviene con quella» che Platone ci da della
legittima moltitudine ne' J'hfl della Repubblica, ed Ariflotile nel
ljb. II. de* Poikic*. I Bine profetili Già nel llb. de'Senec
Spiegammo la fenten- za Platonica Sulla origin di ti- ra delle
anime , ammetta pure da Cic. Qui aggiungo in conferma un patto tratto dal
V. l* b » delle Tufculane . Bumanus ani-f ntus decerptur ex
mente divi- i *4, cum alio nullo , nifi cum \ tpfo Deo % fi hoc fas
e fi diflu , \ comparar i potefi . Or in quello luogo Spezialmente
attribuisce il ritorno in Cielo a quegli Spiriti , che /landò in quella
vita, dirittamence prefederono alle Repubbliche . 3 Vaullus . Che fu
naturai padre di Scipione Affricano il Minore , il quale foftiene
il Sogno . Quegli chiamoflì Lucio E- milio Paolo , che Soggiogò Per-
feo Re di Macedonia . L* adot- tivo fu Pubblio Scipione fi-
gliuolo dell* Affricano il Mag* giore : quello Affricano ha da-
to principio all* iftruzione del , fogno ; la quale è fiata Inter.
rotta da Paolo . 4 Ex cor forum vitteulis Ella 1 . v
M A, oAflfrictno, acciocché pibcoraggiofofii a fofìcner la Repubblica, Tappi,
che a tutti coloro , i quali confervatohan la patria, aiutata, e
vantaggiata , v’ha in cielo uo fitto e determinato luogo, dove go-
dan beati un eterna vita. Imperciocché a quelprinci- pale Dio, che
tutto queir univerfo governa, di quello, che fi opera almen nel mondo,
nulla v’ha di pih accet- tevole , che le ragunanze ed i ceti degli uomini
per leggi aflTociati, che città fi appellano : i reggitori, e confervatori
di quelle quinci partiti, quafsh fan ritor- no. In quello io, febbene mi
trovava (paventato, non tanto dal timor della morte, quanto dall’
infidie, che m’ordirebbono i miei, ricercai tuttavia Te vi veflfe l’iftef-
fo mio padre Paolo , ed altri , cui noi cedevamo e- flinti • Che
anzi, loggiunfe, e(Ti vivono, i quali da’ corporali legami, come da
carcere, fono via volati La voftra
poi, che vita dicefi, ella è morte. Che an- zi volgiti a vedere il padre
Paolo, chea te ne viene. Il qual come veduto ebbi, verfai veramente gran
copia di lacrime, Maegli abbracciatomi , ed imprimendo ba- ci, il
piangere mi vietava. Maio come prima, ripreffo il pianto, cominciai a poter
parlare, deh, dilli , o fintiamo, ed ottimo padre, poiché quello egli é
vive- re (come lento dire all’ Affricano) che fio a fare nel mondo?
perchè non m* affretto a venire da voi quaf. sii ? Non va così la
faccenda , replicò egli. Se quel Dio, del quale è tutto quello profpetto,
che vedi, non t'avrà dal corporal carcere liberato, non ti fi può aprire
ac- ceffo Ella è dottrina ed efpreltìone Socratica .
Nei Fedone di Pla- tone Sando Socrate per ber la cicuta, tra le
altre cofc , cui viene introdotto a dire full* a- nlma , prefenti 1
difcepoli; af- ferma il corpo efierc una car- cere dello fpirlto ,
che ivi con violenza dimora come legato , il di lui naturai luogo,
e plft puro elTere 11 cielo , e la mor- te altro non elTere che un
difcloglinienro da quello carcere , ed un ritorno alla maggion
celefte . E coerentemente nd ' Fedone, nel Ostilo , ed in
altri dialogì di Platone il cor- po chiamali« 7 a vi»» cui a
animi , e lèCfduvnpiOf career . Che ami alcuni vo- gliono che
ìsutui corpus trag- ga Parlino logica origine da Ai? f/os ,
coltcch<è Ha come Vinculum animi , ed al corpo li a
0Uìlihp&vn 'luXt! colli» gatus animus capi, Quasfo, inquam , pater
fan&iflìme atque optime , quando hasc eft vita ( ut Africana m audio
dicerc) quid - luoror in terris? quia huc ad vos venire propero ì Noti
eft ita, inquitille. NifiOc*usis, i cujus hoc templum eft omne,
quod confpicis, iftis te corporis cuftodiis Jif beraverit, huc tibi
aditus patere non poteft . Homines cairn funt hac lege generati, qui
tuerentur ilium globunri , quem 2 in hoc tempio medium vides, quae terra
dicitur . Hifque animus datus eft ex illis lempiternis ignibu9,
quas 5 fiderà & ftellas vocatis ; 4quae globo» fae & rotundae,
divi nis animata^ mentibus, circos fuos orbefque confìciunt celeritate
mirabili. Quare& tibi, Publi. , & piis omnibus retinendus eft
animus in cuftodia corporis: nec injuftu ejus, a quo ilie eft vobis da
tus, ex hominum vita migrandum eft ; ne munus humanti m aflìgnatum a Deo,
defugifte videamini. Sedfic, Scipio, ut avus h*ic tuus, ut ego, qui ce
genui , juftitiam cole & pi età te m ; quas cum fit magna in paren-
tibus & propinqui, tum in patria maxima eft . Ea vi* ta via eft
in caelum, & in hunc ccetum eorum , qui jam vixerunt, & corpore
iaxati illum incolunt locum, quem vides (erat autem is fplendidiflìmo
candore in» t ter ffommas circuseluceni ) quem vos, ut aGrajisac-
cepìftis, $ orbem la&eum nuncupatis. Ex quo omnia mihb
contemplanti preclara cetera & mirabilia vide» bantur. Erant autem
eae ftellas, quas numquam ex hoc loco vidimus; & eae
magnitudinesomnium, quas erte numquam fufpicati fumus . Exquibus erat
ili* minima, qua ultima cacio, citima terris, luce lucebat aliena.
Stellarum autem globi terrae magitudinem facile vin* cebant . Jam
ipfa terra ita mihi parva vifà eft, ut me 1 Cu fui hot templum e
fi o* mnt , Tutto il ciclo dicefi t*m~ plum con proporzione , cbe I
luoghi rilevati , per tenere le Kf elioni degli auguri , dicean*
v tempi a % che viene a. Tigniti* care laogo , che da ogni par-
te ha profpetto c veduta . D* onde nato è il verbo tontem»
flavi. Così pure Terenzio chia- ma 11 cielo tempia nell* atto HI.
dell'Eunuco • v*;: -1 .• Ai quem Dtum , qui lem pia cali fumma
fonitte coifcutit . 1 In toc tempio medium . Cioè la terra ,
che da ogni parte dal cielo è circondata , come punto da fmifurara
cir- conferenza tujvs templi di que- llo hnmenfo profpetto.
ì Sidera. Propriaménte fo- no 1 fegni celefti componi di più Itelle
, quali fono T Arie- te ceffo quafsà . Imperciocché
fono gli uomini con quella condizion generati , che quel globo guardino,
cui col* locatovedi nel mezzo di quello profpetto , il qual globo r
dicefi terra. Ed a quelli è flato dato lo fpirito da quei fem- piterni
fuochi , cui voi codellazioni e delle chiamate ; le quali eflendo globofe
e rotonde, e da divine menti anima- te, i cerchi e i giri Tuoi
compifconocon mirabileceleri- tà • Laonde ed a te , o Pubblio, ed a tutte
le pie pedo- ne dee lo fpirito rimanere nel carcere corporale : nèfen-
za il beneplacito di colui, da! quale vi fu compartito, non fi
deedalla vita, che menan gliuomini, diloggia re; per non parere di volere
sfuggitela umana incom- benza da Dio afTegnata, Ma in quefla condizione,
o S., come fatto ha quello tuo avolo, ed io, che t’ ho generato, la
giudizia pratica e la pietà ; la qua. le ficcome ne genitori efercitata e
ne’ parenti è di gran pregio, così verfo la patria è d* eflìmazione
grandini* ma. Queftotenor di vita firada è pel cielo, ed in que-
llo ceto di coloro, che viffergià, e dal corpo difciolti, quel luogo
abitan, cui tu vedi (ed era quello un cerchio tra le fiamme lucente d’un
candore rifplendentifTimo) il qual voi, come avete da’Greci apprefo, il
chiamate la via lattea. Dal quale io ogni oggetto contempiando , nobililTimemi
fembravan le altrecofee ma. ravigliofe. Erano poi quelle flelle, le quali
nonabbiam giammai da quedo luogo veduto ; e di effe tutte tali le
grandezze, quali non le ci damo immaginategiam- mai Infra le qua ! i quella era di minor
grandezza , che nell’ ultimo cielo , e pih vicina alla terra ,
rifplendeadi luce accattata . Ma' i globi delle delle la grandezza
della terra vinceano lenza fallo. Orla terra mededma co.
tc , l’Andromeda , 11 Leone ec. 4 . J£ud globofd . Crede Ari.
dotile che le ftelle fieno di forma sferica, sì perchè In
qualunque lor progre filone noti ci dinioftran couiparfa d* alcra
figura , sì ancora , perchè , fie- come la luna , che annoverar
fi dee tra le ftelle , è di for- ma sferica , egli è arresi vo-
rifimilc , che le altre ftelle pu- re portin P Iftdfa figura . Ol-
tracciò gli Stoici appretto Cic. nel
de Nat. Deorum furon d* avvita aver le ftelle la forma e
figura ìftetta dell* Uni verfo , perciocché quefta è la pi fi
bella, la piA univerfale, che le altre comprende, ina fen* za 1
difetti . Orbem laHeum . Della via httea già parlammo di (opra »
Per dottrina degl] antichi filo, fofi quella era deftinato feggio
de* beati {pirici imperii nofì ri, quo quali punftum ejusattingimus, pae*
niteret. Quam cum magis intuerer, quacfo, inquit Africa- nus,
quoufque humi defixa tuamenserit? Nonne aipicis, quae in tempia veneris?
i Novem cibi orbibus , vel potius globis, connexa lune omnia, quorum unus
eft cfleftis extimus, qui reliquoSvOmnes compie-élitur, 2 lummus ipfeDeus,
arcens& continens ceteros; in quo infixi funt illi, qui volvuntur,
ftellarum curfus fempiterni ,• cui fubjeéli funt feptem , qui ver.
fantur retro, $ contrario morti , acque Cglum, ex qui* bus unum
globum pofTidetilIa, 4 quam in terris Saturniam nominane; deinde eft hominum
generi prosperus et falutaris i Ile 5 fulgor, qui dicitur Jovis ; tum ruti-
Jus horribilifque terris, quem Martem dicitisi dein- de 6
fubtermediam fere regionem Sol obtinet, dux& princeps , &
moderator luminum reliquorum , mens mundi & 7 temperano, tanta
magnitudine, ut cunéta (uà 1 Movent tìii orbi bus . 1 cerchi Tono
nove , comprefa la terra , la nual non fi muove: l’uno e l’altro è giuda
1’oppìnion degl’antichi . Sicché sopra I’ottavo cerchio celefte
altro non ne poneano, e quello {limavano che tatti gli altri comprendere
e deiTe Ior confiftcma , come Oc. viene qui dichiarando. 1
Summus ipfe Devi . Quefta. fuprema ed . ultima sfera rego- latrice
delle altre chiamai» Dio per ecce llema , come Cic. ta. lora cotal
titolo attribuire ad uomini fingolarmente valenti in alcun genere .
V. G. nel Ut. I. de Orat. Te fetnper in dicendo putavì Deum . Ad
Art. IV. 15. Feci idem , qvod in Tolitia fu a Detti 'tilt nofler Fla-
to . Altri interpreti poi credo- no ( ed è il plfi
verifimile ) che qui Oc. parli fecondo l'op- pìnione non tua . ma
di molti Antichi , che I* Onlverfo , 11 Cielo e le Stelle
riputavano divinità . Nel de Nat. Deor. esponendo Clc. la fem
tema fu di cib di Platone co- sì feri ve . Idem in Timeo
Jrcit in legiius fy murtdum Deum effe , & célum , & 4-
Jira , fV terram , animo t . Nell' iftetfa opplnione fu Seno-
crate , e Cleame , come ivi ri- porta fi poco appretto. j
Contrario motu atquè Ca 0 lum . U atqtte è particola cor- relativa
di contrario , polla li» cambio di quam . 4 jQuam in tetris
Saturni dm , La della di Saturno » la piil alta delie erranti :
chiamata é da' Greci QctiVCùV j Uccome quel- così
piccola mi fembrò, che (enea mi malcontento del noftro imperio, nel quale
ne tocchiam come un punto di quella. LA quale io vie maggiormente
riguardando, deh, l’ Af- fricati foggiunfe, e fino a quando farà la tua
men- te in terra fida? E non vedi tu in che profpetti fei venuto? ogni
cola ti viene concatenata in nove giri . o piuttofto globi, de 1 quali
l’uno è il celefte nell’ultima efterior parte, che tutti gli altri contiene, in
sé fommo Dio, che tutti gli altri lega e comprende : nei quale
fermati fono que’ (empitemi corfi di delle, che fi vanno aggirando; al
quale fot topofìi fono i fette glo- bi, che indietro fi volgono, con moto
contrario a quello ; che fa il cielo, de* quali un ne poftiede quella
della, che nel mondo chiaman Saturnia; fuccede ap- pretto quel
fulgore profperoe (aiutare all'uman genere, che chiamali Giove; quindi ne
viene il rodeggiante pianeta, fpaventevole al mondo,. cui dicono Marte;
il Sole occupa pofeia la regione, colà intorno a lotto mezzocielo,
guida, e capo, e direttore degli altri lu- minari , fpirito, e temperamento
dell’univerfo, di sì fmifurata grandezza, che colla luce illumina, ecora-
pie ogni cola. Tengono a quedo dietro, comecompa- gni, l’uno il
camino di Venere, e l’altro di Mercu- quella il Mercurio c/
h/?àtv voci latinamente per
Aufonio adoperate . Tempori qua StiU von volvat , qua facula Pia.
i io* . Queita ftclla crederi mandare influenze gelide e tor-
pide : oude fu rlpurato iL^la- ncta de* vecchi,* che però ueno
tantalici e fartidiori . Compie il Tuo cerchio iu anni ig. f
iorii! 1 6t. ed ore iz. Cic. pel uo tardo procreilo nel de Nat.
Deor. vuole che così chiamili quod •fdturrtur attui s . li
Ricciolio peri» nell* Alme- girto dà al dì lei corfo ip. an- ni c
ipo. giorni • 5 Fulgor , qui dieitur Jo* v'tt . Quanto alla
difporizion rio; grammaticale, o Jovis i ge- nie.
retto da fulgor , ovvero è nomin. giufta 1* ufo , nel qual era
nell* antichi (limo La- zio . Quefta rttlla fu da* Gre- ci detta
(pctttitùv da /«- • cto , ardto . Da Latini fu detto Jupittr Jovis
da j uvando , at- teri gi’influflì fuol temperati e falutarl : onde
da Cic. chiamali prosperus (gf f alutaris . 6 Subttrmediam . Vocfe ottima , ma
pure dal Calepino riformato non ricordata punto nè popo . 7 T
tmperat io . Perchè il So- le col calor fuo comcmpera il deio e la
terra. ; sua luce iUuIIrer & compleat. Hunc ut cornice» conte»
quuntur alter i Veneris, alter a Mercurii curfus ; in infirooque
orbe Luna radiis Solis accenta convertitur infra autem jam nihil ed >
nifi mortale & caducum , praster animos generi hominum munere Deorum
datos» fupra Lunam funt aeterna omnia. Nam ea , quae media &
nona tellus, j neque movetur : infima eli , in eam feruntur omnia 4 nutu
luo podera. Q xjk cum intuererflupens , utmerecepi, Quishic, inquarti
, quis ed, qui complet aures meas tantu$ & tam dulcis fonus < Hic
eft , inquic ille , qui intervallisconjunfìusimparibus, fed tameng prò
rata parte ratione diftin&is, ó impulfu & motu ipforum or»
r bium t Veneris . Quello pianeta fi difttngue per la fua
lucidezza , e biancheria « onde avatua tut* tl gli altri pianeti »
ed è si notabile , che in un ofcuro luogo fpòrge ombra fenfibìle •
11 fuo luogo e tra la terra e Mercurio . Egli accompagna
collantemente 11 Sole, e mai non fene dilunge più di 47.
gradi. Quando quella ftcjla va innanzi al Sole , che fi leva 9
dicefi Fosforo, Lucifero o Ilei- la mattutina t c quando gli tien
dietro , e che tramonta dopo di lui, chiamali Espero, o Vesper , o stella
Vespertlna . 1 Mercurii . Il piò piccolo de* pianerf inferiori ,< ed
il piò vicino al Sole. La mezzana diltanza di mercurio dal Sole
per rispetto a quella della ter* i;a al Sole tiene la proporzione
di 387. a I00O. Giulia il fentimento di Neuton , fonda- to fulle
prefe efperienze per mezzo d* un termometro , il calore del Sole
fulla fuperficle di Mercurio < 7 volte più Intenso, che fulìa
fuperficle della terra . La rivolnzion di Mercurio attorno al Sole , ov-
vero il fuo anno compie fi in 87. giorni e 17. ore La rivoluzione diurna poi , ovvero la
lunghezza del fuo giorno non è ancora determinata . Per iò altre
contezze vedi gli A* ronoml . ì Neque movetur , Fa oppi*
ninne comun degli Antichi che la terra non fi mo velie , cd
anche univerfal de* moderni , Ma non fono mancati filofoli e
ne* vetulll tempi , e ne' mo- derni , che ne folteneflero il fuo
continuo moto , e fpezlal* mente al prefcntc . Furon tra* Filofofi
' antichi Filolao Pitta- gorico ed Eraclide Pontico ec. ed Ecfanto
pur pittagorico, Clc. ' nel Lucullo riporta I*op- plnione di Niceta
da'Siracufa con quelle parole . Nicetas Si racupus , ut aìt T beophrafius
% c eel urti , folem , lunam , f ìellas % fupera dentque omnia
(tare ten - fet t neque pr^ter ieh*m , rem ul- «•IL SOGNO DI
SCIPIONE. 5*1 , rio; e nell’infimo cerchio la Luna da raggi del Solé
accefa raggirali: di foteo poi nulla pili altro v’è, it toon
mortale, t cadevole, dalle anime in fuori , pet grazia degli Dii all’uman
genere compartite; foprala Luna le fòftanze tutte fono immortali. Che
quanto aU la terra, eli 5 è in mezzo ed è la noni, nè muovefi t
élla è 1* infima, e verfò di ella viene ogni pefo per propria
inclinazione portato. I Quali oggetti io attonito rimirando, come in me
fui ritornato, che è egli n a*, dirti, quello sì grati* dee sii
foave fuono, che m’empie le orecchie ) Quello, ti loggiunfe, è quel
fuoho, che da intervalli dilpari venendo a un tempo, ma con avvedimento
però diflin ti fecondo la debita proporzione, per impullo e moto
delle orbite illelTe fi forma; il qual fuonoagli acuti tuoni co* gravi
contemperando, proporzionatamente for- ma fvariati lonori concerti.
Imperciocché movimenti di tanta mole non poflòn ertère chetamente
incitati ; e itìlam in mundo mtverì : qud tum circa axem jumma fe
et licitate -tonvertat , torqueat , tadem effici omnia , qua , fi
fi ante terra , cdlum movéretur, Àtque hoc ttiam Platonem in
Timeo dicere quidam arbitrantur. Sed pattilo obfcwìus. Ma «toppo
pift foro i moderni, iCopernico GALILEI ec. Di quella fi fica controversa
, quali che fieno quinci e quindi i fondamenti il certo fi , che ogni vero ed ubbidiente catto-
lico dee contenerli a norma delle ordinazioni dalla Romana chiefa
emanate, ciò* che il moto della terra foftenere 1- ppteticamente fi
pofiTa , in quanto , fe tale fikppofizion fi faccia * fi
fpicgherebfcutio age- volmente molli fenomeni del- la natura : ma
cl vieta il sostener ciò , come tefi . Ma por- Ì3;0 voglia
che alenili non facciali pafiaggio dalPjpotcfi a di- fender la tefi 1
4. Nutu fuo . Importa indi- nazion , tendenza , ed affézion
naturale. E’ di frequente ufo in Cic. Pro rata parìe fattone ,
Col Gronóvlo riconofeo . quella lezione non punto fconciata ,
perciocché ben confuona con tutto il cancello del fentimen- to.
E viene a dire che quelli difpari intervalli delle sfere , che ne*
loro moti rendon fuo- 110 , fono proporzionati a* diversi gradi de* tuoni
, che formano : né fono quelle diflanze fatte a cafo , ma catione con
avvedimento, come appunto ricerca la natura di quello con- certo armonico
. 6 ìmpulfu & mota . Ancor Platone ammife quell 1 armonia dello s9 2
biuro conficitur; qui acuta cum gravibus temperans , variòs^quabiliter
concentus efficit . Nec enim filentio tanti motus incitari poffunt ;
& natura fert , ut excre- ma ex altera parte graviter, ex altera
auteni acute fo. nent. Quam ob cauflam funimus ille ftelliferi Cfli cur-
fus, cujus converfio ed concitatior , acuto & excita- to
movetur fono, graviamo autem hic lunaris arque indmus Nam terra nona
imobilis manens , ima fede femper haeret complexa medium mundi locum . Il
! ì autem o&ocurfus, inquibus eadem vis ed deorum i Mercurii, &
Veneris, septem efficiunt didintìos ìntervallis fonos: qui numerus rerum
omnium fere nodus ed . Quod 2 dodi homines nervis imitati acque cantibus,
aperuere fibi reditum ad hunc locum; ficut alii, qui f traedantibus ingeniis in
vita humana divina fludìaca- uerunt. Hocfonitu oppletae aures hominum
obfurdue- runt; nec ed ullus hebetior fenfus in vobisjficut, ubi
Ni. delle sfere celelH , colicchè nella Repub. deputò a tutte le
eelefti orbite ciafcuna firena , che fopra dj effe dan- doli
giraffe con quelle , acconpugnandone col canto loro la rivoluzione. Altri
poi appref- fo Aridotile nel lib. 11. de Carlo cap. 9 . c di Plin.
nell* Iftor. Nat. vollero que- llo fuono non procedere dalle
celeftl orbite , ma dalle (Ielle medefime in quelle fide, che nelle
orbite fanno loro ri vo- ltinone . Quindi è che i Pla- tonici
filofofi credettero che il uiov imeneo de* corpi celefli una vera
ed effettiva armonia formaffe s al qual errore drè luogo la
feutenza de* Pittago- ricl , i quali per formare giu- dizio de*
tuoni ad_ altro non aveati riguardo che alle ragio- ni delle
proporzioni efatte, che perfette appari van ne numeri, i quali furon 1’ìdolo
di Pittagora, fenza punto attendere al giudìzio dell' orecchiò • Ma
quella oppinione ne* con» feguenti tempi , a proporzione che
abbracciata era la dottri- ua Platonica , fece i Cuoi progredì . Quindi è
che Filone Ebreo , i>. Agoftino , S Am- brogio , S. lddoro , Boezio 9
ed altri molti furono molto impegnati per quella celcfte
armonia, cui attribuivano al- le varie proporzionate impref-
fioni de* globi celefti , che fan 1 un fopra l'altro t le quali comu-
nicate per certi giudi intervalli formano cotale armonia . Non
ut> far , dicon* efli , che sì erminar! corpi con tanta ra-
pidità movendoli , cheti (fieno ed In filentio . Ed all* In- contro
1 ' atmosfera di conti- nuo da que' corpi fofpinta dee produrre una
ferie di fuoni proporzionati alle itnpulfioni » che la riceve : e
per confeguen- te, conciodìachè tutti i globi ce ledi non facciano
la medefrma m perù il
altura 1 ordine delle cofe, che gli eftremi fi et* dall* una parte rendano
grave Tuono, dall’ altra poi il rendano acuto. Per la qaale cagione i! Tu
premo corio del cielo ftellifero, la cui rivoluzione è più concitata ,
vien molto con acuto ed elevato (uono, c con gravif- fimo quefto
lunare ed infimo corfo . Che quanto alla terra, nona d’ordine', ilandofi
immobile, rimanfi Tempre nel feggio infimo , occupando il luogo di* mezzo
nell 5 univerfo. Quegli otto corfi poi , infra i quali il tuono de*
due Mercurio e Venere fi èd’un tenore me. defimo, formano Tette fuoni
difpari per intervalli diversi: il qual numero fi è, quali come il legamedi
tut- te le cole. Cotal concerto i dotti uomini colle corde da Tuono
avendo imitato, e co 5 canti, fiaperfero il ri- torno a quello luogo ;
ficcome altri , che per loro ec- cellenti ingegni nella umana vita
coltivarono divini ftudj. Diquefio ftrepito ingombrate le umane orecchie
fi fono aflordite ; nè vi è in voi alcun feotimento più ottufo : a
quella guila che, dove il Nilo in quelle par- ti, cheCatadupe fi
appellano, da altiffimi monti pre- cipita , quella gente , che intorno a
quei luogo abita) P p per ma rivoluzione , né colla medesima
velocità, 1 tuoni diffe- renti t che provengono dalla di- versità
de* moti , dall* Altif- fimo Indirizzati, formano tm ammirabile musicale
concerto. Il difeorfo par ragionevole r ma noni effondo foftenuco dall’efperienza
delle nostre orec- chie , che pur parrebbe dovcSTe- ro averne alcun
femore , cosi concludo il mio debole fen ti- mento fu di tale
oppfnione. Quell* armonia de* cieli fe ri- dur SI voglia a muftcal tuono
è una bella e fpeciofa favola degli antichi fi Io Toft , che pre-
tendeano alle oppinlonl loro dare aria e fembiania di maravlgliofe
. Ma quefta celaste muSica ed armoniofo concerto altro non è
veramente che le proporzioni, cui I dotti mo- derni astronomi han
riprovato nelle mifure e quantità , che foco portano i movimenti di que-
sti oeleSli corpi ; i Mer curii (f Ventri s . I quali
pianeti accompagnando il Sole , fi comprendono elfere dell* IfteSfo
fuono t ficchè gli otto globi formano fette diversi fuoni .
z DoRi hominet . Ritrovato- ri 'dell* eptacordo , cioè dei mnltcale
iftrumento di fette corde , annoverati perciò tra» Semidei.
Macrobio e Severi- no furono in opinione che co- storo col numero
ferteunarlo di queftè corde IntendeSTero d* imitare il moto
armonlofo de* fette pianeti . L* Affrlcano pe- rò qui intende da
costoro imi- tato il. fuono delle, otto orbi- te già divlf.ite. Su
di costoro non vo* tralafciare 1* oppiato- ne , che n: portò
Quintiliano usi Nilusad illa,
qu^e | Catadripa nominantur, prscipitat CI altiflimirThontibus, ea gens»
quae illum Iocura ag- colie propter magnitudi bear fonitus> fenfu
audiendi caret. Hic vero cantu* eft totius mundi incitati rti ma,
converfioneionitus, ut euoi aures bominum capere noti portine: ficut
intuerì folem nequitis adverfum , ejufque radiis acies vedrà (enfufque vi
nei tur- Hate ego admì- fans » referebam tamen oculos ad te&rain
ideutidem. T UM Africanus , Sentio , inquit, te fedem etiarn dune
bominum ac domum contemplali: qusefiti- bi parva, ut et!, ita videtur,
haeccaeleftia femper (pe- lato, illa Humana contemnito. Tu enim quam
cele-, britatem fermonis hominum, aut 2 quam expetendam gloriam
confequi pote$> Vides hab tari iti terra rana & anguftis in !oci$,
& in ipfis quali maculis, ubi ha- - bjtatur, vaftas folitudines
incerje&as; hofque, qui in-, colunt terram,»non modo interruptos ita
erte, utnihil incer Jpfos ab aliis ad alios manare portìt ; led par.
tim£ obliquos, partim 4 averfos, parcim etiam 5 ad- verfos flare
vobis ; a quibus expeéhre gloriam certe nullam poteftis. Cernis autem
terram eamdem, quali 1 quibufdam redimitami circumdatam òcingulis, equi»
'bus • t nel lib. I. io. Claror dòmini fapitnt'ue
viros rtemo dubita* Vtrit Jìudtofor tnuficis fuifft tum * Vytb
agoras , dtque tum fittiti acce pt am fitte dubio an « tiquituf
opittionem vulgati* itint f mundum ipfum tjm ra - fiotti ifit rompo
jltum , quam Pojlta fit lyra imitata . Quin- di cred* io che procedcfie
la cftimation grande J od anzi la venerazione , che gli antichi
Greci Nerbavano per, |a molici! che però I mutici dic^nfi pare
tatts e fapitttttsi e T^fepiilhcle effendi» inesperto in toccar la
cetera , gli folte imputato a di- fetto d* imperizia .
Catadupa . Le cataratte fono del Nilo dette da Xaf<T«J
ovvric* dt or furti cado, 2 fhfdm txptttttdam glor*am . Cic.
ne* lib? ! della Repubblica fu di, parere , che dovefle chi
maneggia la Repubblica effe re fomentato , ed eccitato alle ge-
nerofe imprefe colla gloria , e credc'a che ciò folle alla
Repubblica vantaggio^» , - rifle Alo- ne t che altresì de* Romani fece
S Agoftino nel Uh. V- c*.- ij. de Cl. Ir. Dei . Or coerentemente
1 # Atfricano non condanna del •tU'to 1' appetito della . lori a ,
ma vuole a quello rlufcire, che qualunque umana gloria i pef
enrro ad auguttl tifimi con- fini rirtretta , e non pur non e ter-
1 5 p* per U grandezza dello flrepito, priva è d’udito. fVfa
quello Crepito di tutto l’utiiverfo con rapidiffima rivo- luzione è
di tenore sì fatto > che le umane orecchie noi poffon comprendere:
ficcome non potete fiflar gii occhi del Sole 5 quando Ila di rincontro, e
da’raggidì lui l’acume voftro e’1 (enti mento del, vedereè lover.
chuto. Quelle cofeie con ammirazione afcoltando, ri* volge» pure di
tanto in tanto gli occhi alla terra. Vi. . » . # i
A Llora T AfFricano , ben m’ accorgo, logp^iunfe, che tu anche al
prefente il faggio contempli e l’abita- zione degli uomini; la quale fé piccola
ti pare, com’è ineffetto, tieni (empre rivolto l’occhio a quelle cele-
fti magioni, e quelle non curare, che umane fono • Im* perciocché
tu qual mai confeguir pool ftrepitofa fama dell’uman ragionare, o qual
gloria, che da appetir (la ? Vedi che nel mondo abitazioni fono in rari ed
retti luoghi , ed infra quelli medefimi, come fparfe macchie, dove
fi abita valle folitudini vi fono interpone; e co- li oro , che abitan la
terea , non pure edere per tal ma- niera feparati, che tra elTì nulla
dagli uni polla trape- lare agli altri; ma parte rifpetto a voi dare a
fgem- bo, parte alle (palle, e parte ancora di rinccntroal di fotto
; da* quali certamente fperar non potete veruna gloria. Vedi poi la
medefima terra , come coronata di certe zone ed intorniata, delle quali
due fommamente tra 1 or* dittanti* e quinci equjndt fugli fletti celefli
po* P p a li eterna , cria neppur durevole lun- go tempo. Quelli
rifletti peri» a chi per la evangelica Fede cre- de una eterna
immortai vita , in elei prometta a chi dirittamente opera , debbono
eflere podetofi incitamenti a . non curare la umana gloria dei
tutto , ed a prendere àccefi ttimoli per ri- volgere ogni aiion
noltra a pro- muovere la gloria divina I Obliquo * . Qaefti fur
detti da* Greci 9rfpi oi xf f * 4 /ìdterfos . Coloro fono che
tfgaafd;in diverfo polo , e di- coivi» * vvoixOt . Quelli fono ,
:hc abitano nella cont rapporta na temperata fotto il rontrap-
pcflto paralello, ma nell* Irte fio' fenutircolo meridiano.
5 Adterfos . Sono gli antipo- di , così de^ti per li piedi o
veftigj , che fi rifpondono di rincontro . t)i qoett! termini
vedine fplegazioite pift ampia appretto gl/ A Urologi 'ed I Geo-
grafi. 6 Cittguljs . Divifa le di,* ode zòne , delle qual!
le po- rtreme frigidi ttìme fono, la aie# dia caldi Éfi ma . % >
bus duos maxime intet fe diverfos, & iceji «ertici* bus ipfis ex
utraque parte fubnixos obnguiffe pruina vides: medium autem lllum &
maximum folis ara?'"® torreri. a Duo funt habitabiles, quorum a
udrai is «Ile tin quo qui infiftunt, 3 adveria vobis urgent veft.gia)
4 nihil ad veftrum genus . Hic autem alter (ubieflus Aquiloni ,
quecn incolitis , cerne, 5 quam tenui vospar- te contingat • Oronis enim
terra, quac coli tur a vo* bis, 6 anguQa verticibus, 7 laterìbus latior ,
8 parva quaedam infoia eft; circumfufa ilio mari, quod Atlanticum , quod
Magnum , quod Oceanum appellatis m terris: quitamen tanto nomine, quam
fit parvus , vi» des. Ex his ipfis cultis notifque terris, nutnaut tuum ,
aut cojufquam noftrum nomen , vel Caucafum nunc, quem cernì* ,
trascendere pctuit , vel illum Gangem tranfnare? Qui* in reliquis
orienti*, aut abeuntis folis ultimi*, aut. Aquilonis* Aufirive partibus
tuum nomen audiet^ Quibus amputatis, cet ni s profeto, quanti* in
.anguftiis veflragloria fedilatari velie • IpOautem, qui de nobis
loquuntur, quamdiu loquentur ? * Y va ; . ', Q Uinctiam fi cupiat prole*
illa futurorum hominum deincep^ laudes uniufcujSque noftrum apatribus
acceptas pofteris prodere, tamen prepter eluvio- nes
exuftitionefque terrarum, qua* accidere tempore certo necefle eft , non
modo aeternam , fod ne diu tur- nam quidem gloriano affequi poffumus.
Quid autem in ter- t % Cai* Virtìcibur. Ai p»U
. 1 Duo furtt Jbabit abile s . Vie* tic efponendo le due zone
temperate intermedie quinci e quindi da' lati t auftrale l* una
boreale 1* altra* $ Adverfa vobis . Perciocché dimorano
dall* altra parte dell*’eccliptica folare . Niktl' ad vefitum genus .
Perciocché «è voi a loro nè efli a voi trapalano . JQuàm
tenui vos parte , Vedi quanto fi a piccolo fpaxio quello ) dove fi
aggirano le Volbe glorie . Angui a vertieibus * ' In brevi parole
accenna la latitu- dine della terra fottopofta a’ Romani , la quale
coi. fitte nel- la dittatila d * un luogo dall* Equatore ed un arco
del meridiano , comprefo tra *1 Zenit h del luogo, e l'Equatore. (Quindi
la latitudine dlctfi efiere fettcRtrionaie 0 meridionale, fecondo che li
luogo del qual fi parla è fett^ntrionale , 0 meridionale . Or 4a parola
wr- ticibus fignifica i poli Artica
Afr .; fp 7 ii pofàndo, vediefTere per la brina irrigidite ♦
equeila di mezzo» e la più ampia edere dal folare ardore av-
vampata* D.ie le abitabili fono, delle quali l’audrale ( dove chi
dà (opra imprimon veftigj di rincontro a noi ) alla vodra fpecie non
appartiene . Di queO” altra poi all* Aquilon foggetta , cui abitate ,
guar- da come tenue parte a voi ne tocchi * Imperciocché tutta
quella parte di terra , che da voi fi abita , da vertici rifìretta, più diflefa
da fianchi, è come una picco- la ifola; bagnata intorno da quel mare, che
in terra chiamate Atlantico, Magno, ed Oceano: il qual però
comecché di si gran nome, pur vedi quanto picco! fia. Da quelle
idede coltivate e note regioni o*l nome tuo, ovvero il nome d* alcun de’
nodri potette egli forfè o queft’Oceano valicare, cui tu vedi, o
traghetfarequel Gange? Chi mai i]\nome tuo afctìlrerà o nelle altre
parti del nafcente fole, o nefl’eftreme del medefimo tramontate,
ovvero nelle parti dell’Aquilone, edell’Aulirò? Le quali regioni edendo
feparate, certamente fcor* gi in che augufli fpazi la vodra gloria alpi
ri ad ed'er didefa. Quelli poi, che di noi ragionano, finoaquan* do
il faranno? G HE anzi fe quella gènéraxìone di futuri uomini bràa
mera fuceeflìvamente di trafmetterea’poderi legio- ne di ciafcun di
noi da* padri loro fentite, tuttavia ber le inondazioni, e divampamenti
de'paefi, i quali Fora* è che in determinati tempo fuccedano, nonpoflìamò
acquiflar gloria, non che fempiterna, ma neppuf lungamente durevole. Or
che mónta che da colorò, i quali nafceran dappoi, fu di tefìterran
difcorfimen- Pp - j tre fe Aritattlco t che fono 4 ter,
mini , per cui rapporto fi mi. fura r eftenfione della latitu-
dine ' Ì Ut tribù s f
Attor. Viene ef- pretta la longitudine dell* Impe- rio Romano ,
cioè 1’eftenfione , che area da Ponerite a Le- vante fecondo la direzione
dell' Èquatore . E quindi fi viete a concludere che maggior nc
forte ia longitudine che la la tir udinè •8 Par va quaJatn ihfulA
efb &c- Dal Cielo additando l'im* perfo Romano lo dlmoftra come
una piccola ifola conirtefa e bagnata dall* Oceano. Ma quella è una
mani fetta efagerazld<* ne per efprimerne la piccolezza , chfe dal
cielo all* Affrica* no appariva . Aulì , a dir ve- ro, non fi potea
ncppor chia- mar ifola . r tereft ab iis, qui poftea
nafcentur, fermonem fore de te, cum ab iis nuilus fuerit, qui ante nati
fint ; qui nec pauciores , & trerte 1 meliores fueruntviri? cam pradertim
apud eos ipfos, a quibus a udiri nemen no. flrum poteft, nemo uniusanni
memoriam confequi pof. fit . Homines eoiro populariter annum tantummedo
So- Jis, ideft unius aftri rHitu metiuntur ; cum autem ad idem,
unde femel profeta funt, cun£te aftra redierint, eamdemque tetius cadi deferiptionem
longis interva!- Jis retuleriot , tum ille 2 verevertens annusappellari
poteft; in quo vix dicere audeo, quam multa incula, bominum
teneantur- Nacnque, $ ut olimdeficereSoi •bominibus extinguique vìfus eft
, cumRomuIi animus baec ipfa in tempia penetravi; ita quardoque eadem
parte So^ , eedemque tempore iterum defecerit, tum fibus ad idem
principium ftellifquerevocatis, ex«1 Meliores fuerunt , I coftumi degli’antichi,
la fede, gli andamenti ec. univerfalmente dagli fcrittori
commendane : quello è vezzo comune anche a eh! è vecchio, deferitto
da Orazio con quelle parole. Lau- dai or tempori s afri . Onde que-
llo giudizio non Tempre al ver corrifponde . 1 Vere verterti
annus . Que- lle maniere verterti annus , verterti menfis fono
pagamen- te prefe per un anno , .per un mele trafeorfo . Altri
parcirlp j n'arreco di voce attiva in for- za partiva alla nota 7.
nella vi- ta d* Agelìlao apprettò Nipote. Qui però mi 'pare pift
coturno- da V interpretazione in forza attiva , actefe tutte le
parole ed il contefto. Or qui li parla •* dell' anno grande , che\
ebte più e dlvcrfi titoli . Fu chiamato, or ma gnu s , or fidereus,
quando mundanus , tal Hata Platonìcus , e comprende tutta
l’efteulion di tempo, ovvero il perìodo di tanti anni , quanti
li richiedono perchè i corpi ce- lefti torniti tutti a
Quella poli» zion primiera , nella quale fu- rono al principio del
mondo • Cic. acconciamente il divlfa nel lib, 11. cap. de Nat.
Deo-. rum . Maxime vero funt ad*n i- r abile s mot us earum
quinqete jtellarum , qua falfo vocantttr errante s $ nihil enìm
trat , quod in omni eetemitate conferva progreffus , regrejjus t
reli- quofque motus confante s (jf ra- tos .... jQuatum ex dijpn- ribus
Motiombur magnurn an- riunì mai he mutici nominate- runt , qui tum
efficitur , tum folis fy lume, & quinque er- rarti ium ad
earrtdem itJer fé zompar ationem.y tonfi fòt) 0 nt- niuru fpatiis ,
ejl fatta conver- go. Pare che qui nel coffo di que(|' anno inetta
in confi- de razione i Ioli pianeti . Ma gli alt» i fcrìttoti, e
Cic. iftef- lb nel prefen.t fogno palla .di tu^tc le ftellc u*b ver
Talmente -\ Quale poi lia il numero precifo degli auul ella è
controverfìa non 1 V * i $. * . m
tre nonfen’è fatto pur parola da quelli , che negli ante- • riori
tempi vennero a luce; i qua!» nè furono in mirtor numero, e certamente
uomini furono più valenti? maffime che apprerto quegli flerti, da’ quali fi può
il nome noftro afcoltare; niiino ne può la ricordanza ottenere d'un fole
anno. Imperciocché g li uomini giulia J’efti- mazion popolare dal rirorno
(oltanfo del Sóle mifuran l’anno, cioè d’una fola (Iella : quando poi
faran tutte le (Ielle al punto medefimo ritornate, onde una volta
fi modero ; ed avranno ne* lunghi loro intervalli riportato il
drvifamento medefimo di tutto il Cielo, allora quello fi può veramente
appellare anno , che opera rivolozione: nel quale appena d’efprimer ro* attento
quan. ti fecoli umani fieno comprefi. Imperciocché, ficcome una
volta agli uomini parve che il Sole foftenedè ec. elidi , e fi
ammorzarti;, quando l’anima di Romolo pe- netrò in quelli (ledi profpetti
; coslallor quando il Sole nella parte medefima, e nel tempo irteffo da capo
avrà (ottenuto ecclirtì, allora ertendo tutti i celetti corpi, etutte le
(Ielle al lor principio medefimo richiama, re, terrai l’anno erter
compiuto . E Tappi chedftjueft* anno non n’ è per anche la‘- vigefima
parte trafeoria % Che però (e difpenerai di far ritorno in quello luogo,
; ... y a r P p 4 nel non per anche decffa . Clc. Iftetfo
parlando di quella rivo» In z. ione foggi agile appreflb .. Quaquam
longa fit , 'magna quelito ejl , ejfe Viro cirtam defintiam necejfe
eji . Si cita perb un frammento dell* Opera intitolata l'Orccnfm ,
dove chia- ramente efprime il fuo Tenti, mento. 1s eft magnai &
Virus annus, quod i aderti pofìtìo cali fiderumque cum maxima ifi ,
rurfum exijigt j ifque an- nui horutn , quoi tocamui , an- norum
Xll. . com- pie Bit ur 9 cioè dodici mila no- vecento quatir' anni
. In. cib fono fvariatiifime le eppinioni degli altri-, che ci
danno argomento ad affermar con cer- teira non effor ancora 1’agronomia
pervenata a tanto, eh» pocefle fame probabile decifìo. ne. Sicché
quel, che fi foggiti, gne pift innanzi in quello ci- po , hu)us
anni nondum vieeji- matn partem itfi cot/Virj'am , fb. vuol
prendere per piccolo , c fcarfo tempo, non per determi- nata mifura
trafeorfa . Ovvero fe Clc. ha pretefo di far dire * all* Affricano
il preclfo fpazio del trapalato tempo , non fi vuole attendere in
cofa cotanto incerta. j Ut olim. Ferma il principiò dell* anno
grande dalla morte di Romolo , cu! dicono che moriffe nelPecliffe
del fole . Per altro da ogni punto di tempo fi pub dare
cominciamento al computo di quello anno Platonico. Qxpietum aonum habeco.
Hujus quidem anni nóndulft vicefimam partem fcitoeffe converfam. Quocirca
fire- ditum iit hunc locum deiperaveris , in quo omnia fune magnis
& praeflantibus viris ; quanti tandem eft ifta ho- minuui gloria,
quae pertinere vix ad unius anni par* temexiguam poteft ? Igitur alte
(pelare fi voles,. a tque hanc fedem & aeternam domum contueri ,
neque te fermonibus vulgi „ dederis , nec in praemiis humanis fpem
pofueris rerum tuarum ; fuis te oportet iilece brìs ipfa virtus trahat àd
verum decus, Qui detealiì loquantur, ipfi videant, fed loquentur tamen.
Serma autem omnis ilie, & augufliis cingitur iis regionum, quas
vides, nec umquam de ullo perennis fuit ; & obruitur hominum inceritu
, & oblivione pofteritatis extinguitur. Q UiE cumdixiflet, Ego
vero, inquam, oAfricatie* fiquidem bene mentis de patria, i quali limes
ad cali aditum patet, quamquam a pueritia vedi* giis ingreflus
patriis & tuis, decori vefìro non defui; nunc tamen, tanto
praemiopropolìto, enitar multo vi* gilantius. Ét ille : Tu vero enitere ,
fitfic habeto, non esse te mortalem , fed corpus hoc: 2 necenim i9
es, quem forma irta declarat ; fed mens cujufque, is eft quifque,*
non ea figura, qua? digito demonOrari po* teli. 1 Deum te igitur fcitoeffe;
fìquidem 4 Deused , qui viget, qui fentit, qui meminit , qui provider ,
qui tam regie & moderatur & movet id corpus, cui P**-
1 lima. Sono propr lanterne
le ftrade , che fervono di’ cfivifionc alle campagne, e per
confeguente fono od hanno an- che T. varchi per enrrare né *
campì . Quindi fi accatta la metafora , e fi trafpórca al cielo. a
Nec e» im is es , quem &C. Qucfii rifleffì e dottrine con aU
tre , che fieguono, fono Plato- niche. Socrate appretfb del di-
vi» filofofo dìmoftra al fuo Alcibiade che I* uomo noli £ il
foto corpo , ne il corpo colla mente , ma ta fola men- te .
E nell* Affoco cosi ferivi Hgeif uiV yip tVjuiv * «d tf VOtOZfV y
tv •Sl'l/- <7» xat$HpyfjisvGÌr Qpoupta Imperciocché noi pani lene V
44 stinta , immortale animale, rat • eh tufo in mortai cufiodia .
SI- niigliantc fu 'il fenthnento d* Arnobio e di Lattanti©. ^ ' 3 Deum te igitur jtito effe . Gli
Stoici definivano 1* nomo animai rationale mortale , e Diù
t 6o i hel quale per li grandi ed eccellenti uomini v'è ogn
* bene ; alla fin fine corefta gloria degli uomini a che valore
monca , la quale appena comprender fi può in una parte piccola d' un folo
anno? Se vorrai pertanto fi (Tare l'occhio dell’intelletto in alto, e
quefto feg- gio rimirare , e quella eterna magione , non ti farai
fervente a’ parlari del volgo, nè Tulle ricoropenle umane la fperanza
riporrai delle imprefe tbe; conviene , che la virtù medefima cogli allettativi
fuoi ai decoro vero ti tragga . A quello, che gli altri fieno per
parlare di te , ci penfino erti , ma pur parleran- no . Ma ogni lor
difcoirere e vien compralo tra le anguftie delle regioni, cui vedi, nè fu
d’alcun fog- getto fu perenne giammai; e riman fepolto dal mori- re
degli uomini, e nellaoblivione della pofterità vien meno . « o - t è »*’ 1 a* . Y* ~ l * i 1 »
VHI. • % - r ' , * ! * • L E quali
contezze avendomi efpofto , or io , fog. giunfi , o Africano, giacché a’
foggetti) bene me- fiti della patria è come quafi aperto il varco all'
ingreflo del cielo , febbene fin dalla puerizia mefTomi ìu i paterni
vefiigj e fu de’ tuoi , non ho al decoro voftro mancato j pur nondimeno
al prefence , portomi avanti cotanto premio, con troppo maggior vigilanza
farò miei sforzi . Ed ei replicò : Metti pur tuoi sfor- zi ; e
pervaditi, cbfc tu non fei mortale, ma quello corpo fibbene * che non fei
dello , cui la fembianza tua dimoftra; ma Io fpirito di cialcuno è
quello, che fi è ciafcuno ; non è tal la figura f che accennar fi
polla col dito * Sappi adunque che tu lei Dio: poiché Dio è chi ha
vivacità, fentimento, memoria, provvidenza, e che tanto regge, e modera , e
muove quello corpo, cui è a governar deputato, quanto quel
principale Dio queil’universo; e ficcome l'iddio eterno Dio animai
rationalt immortaìe . Sicché giuda la loro dot* trina 1* uomo per quella
pondo ne di fc, ond’è immortale , non farà da Dio differente k
4 Ùeus e fi qui Iftitulfce la parità tra Dio e l’uomo e la ragione,
onde provati l’immortalità deirefTema divina, l’eftende a provare rìnynorta-
lità dell'anima, eziandio anteriore. prstpofitus ed , quam hunc tnuodum
princeps ille Deus: & ut mundum exquadam parte mortalem ipfe
Deus asterifus, fic fragile corpus animus fempirernus nrovet. Nam i
quod femper movetur, «ternani eft: quod autem motum affert alicui , quodque
ipfum a. gitatur aliunde, quando finem habet motus, vìvendi
*|faemUiabe*t neceflè est. Solum igitur quod iefe mo* •vèt , quia 1
numquam deferitur a fé , numquam ne moverì quidem definii : quin etiam
ceteris, qu« moventur, hic fons, hoc principium eft movendi. Principio autem
nulla eft origo: nam ex principio oriuntur omnia; ipfum autem nulla ex re: nec
enim id efl’et principium , quod gigneretur aliunde . Quod fi numquam
oritur, uè occidit quidem umquam Nam principium extinàum , nec ipfum ab
alio renafcefur, nec ex se aliud.creabit: a fiquidem neceffe eft a
princi* pio oriri omnia. Ita fit , ut motus principium ex eo fit ,
quod ipfam a fe^ roovetnr ; ìd autem nec calci poteft nec mori: v *el
concidat omne caelum, om- nifque natura confiftat necefl'e eft ; nec vira
ullam nancifcatur, qua prime impulfu moveatur. CUM pateat igitur ,
aeternum id esse, quod a fe ipfo moveatur; quiseft, qui hanc naturai»
ariimis effe tributam neget ? Inanimum eft enim omne, quod pulfu agitatur
externo. Quod autem animai est, id mota cietur interiore & fuo. Nam
haec eft natura propria animi atque vis*; quae fi eft una ex omnibus,
quae fefe moveant , oeque nata eft certe , & atterri eft. Hanc tu
exerce in' optimis rebu 9 . Sunt autem hae opti ma? cura? de falute
patriae , quibus agitatus & exercitatus animus, i velocius in nano
fedem & do- mum fuam pervolabit . Iraque ocyus faciet , fi iam
tu, cum erit inclufus in corpore, croincbit foras; & ea , - i jQuotì
femper movetur tye. Quefto argomento lo efpóne quafi colle iftefle
parole nelle Tumulane 1. 2 $. Latta mio. v ancora .lo tratta con
principi ancor più forti 2 Yel tonciÀAt omne tàtìum &c. $ no
Dio T univerlo muove per alcuna parte cadevole, così l’immortale spirito
muove il fragile corpo. lm* perciocché eterno è quello , che Tempre
muovei: quello poi , che communica moto ad altra cofa, e che pure
impulfion foftiene da altra cagione , quando il moto ha fine, egli è di
neceffieà , che al fin pervenga del viver Tuo . Quel foio adunque , che le
Hello muove, perciocché non è mai da sé abbandonato, nep* pur cella
giammai di muoverli ; che anzi alle, altre cole àncora , che muovonfi ,
egli è origine, egli -è principio di moto. Ma il principio non riconofce
ortgine i che dal principio tutte le cole traggono lor nalcirrienio;.e(To
poi da ninna il trae; imperciocché non farebbe principi® quello, che
generato folle d’ai* tronde. Che fe giammai non nalce, neppur muore giammai.
Concioflìachè il principio edendo venuto meno, nè eflo da un altro
rinalcerebbe , nè di sé po- trà creare un’ altro ;* poiché egli è forza
che tutto nafea da un principio . Per tale maniera n’avviene, che
il princìpio del moto da quello fi a , che da le lleflb fi muove; or
quello nè nafeer può nè morire: ovvero di necelfìtà è che rovini giù
tutto il cielo, e l’universa natura fi arrefti; nè trovi alcun vigore,
onde colla impulfion primiera fi muova. E Sfendo pertanto manifeflo quel
lo effere eterno 9 che da le ftelfo fi muove, chi negar potrà che
quella naturai proprietà fia fiata alle anime conceda» ta ? I
mperciocchè- inanimato è tutto ciò, che foftien moto da impullo eflerno .
Quello poi , che è anima Te , viene per interiore e proprio moto rifeoffo. Im-,
perciocché quella è la natura propria e la virtù dell* anima ; che
fe P una é infra tutte quelle nature, che fe ftcflfe muovono, non ha
certamente avuto prin-ci- &c. Il fentimento e le parole 1’anima più
facilmente da fe altresj, fono di Platone nel - fcocerà il mortale e
torpido Tedro. ' ' pefo del còrpo , e pift fpedita-; V elotius fife. Con
quello niente voleranne alla celeitc ma cfcrdifo e moto d' ojcraiìonl gione.
} éo
ea, quae extra erunt, contemplans, quam maxime (e a Corpore abftrahet .
Nam eorum animi , qui (e corporis voluptatibus dediderunt, earumque (e quafi
mi* ni (Ir os praebuerunt , impuifuque libidinum voluptati* bus
obedientiurti * Deorum & hominum jsra violavo* runt , corporibus
elapfi i circum terram ipfam volo, tantur, noe in hunc locum, nifi multis
exagitati (ae- culis, revercuntur « Iile diiceffìt : ego (ornilo folutus
fum. i Circum terrdm ipfdm . Quella 6 oppiatone dì Socrate , da Platon f ragionata nel Fedone
dove dice che le anime de* malvagi rimaugonfi In terra condannate a
divagare intorno a* fepolcri , dave pagan le pe« ne della vita
malvagiamente menata . £d alla fatta oppi* ninne dà pure alcuna
compatta di fondamento 1’apparire ta« lora in si fatti luoghi
fpcttrf cd ombre 60$ cipio dì nafci mento, ed eterna è. Quella tu
eiercita in ottime operazioni . Ed ottime lono le premure fall*
falvezza della patria, {ielle quali Panima meda in moto ed efercìrata,
piò velocemente a quello leg- gio e magion (ua ne volerà E ciò pib
fpeditamente farà , Te già fin d* allora, quando farà nel corpo rac-
cbiufa , fi loileverà fuori di sè, e contemplando quegli oggetti, che
eftranei faranno , fi difiorrà, quanto può mai, dal corpo. Imperciocché
le anime di colo, ro, che fi fono a corporali piaceri dati, e
fi rendette- v ro quafi minidri di quelli , e che , per impulfo
delle didemperate padroni a* piaceri fatti obbedienti, le leg- gi
ruppero e degli Dii e degli uomini, da' corpi ufci te fi vanno intorno
alia terra medefima ravvolgendo, nè io queflo luogo, fe non dopo d’edere
(late tribo late molti fecoli, fan ritorno. Egli dipartirti; edio
mi difcoHi dai fonno. INTERLOCUTORI P. C. SCIPIONE TENORE LUCEJO, principe de'
Celtiberi SOPRANO C. LELIO, duce romano .TENORE ERNANDO, re delle isole Baleari
.. BASSO BERENICE, prigioniera . SOPRANO ARMIRA, prigioniera SOPRANO La scena è
in Cartagine nova.All'eccellenza..Scipione All'eccellenza..di Carlo Lenos duca
di Richmond e Lenos, conte di March e Darnly, barone di Setterington e Methuen,
e cavaliere del nobilissimo Ordine del bagno. My lord, nulla meno dell'eroico
deve dare pubblico divertimento alla britanna nobiltà per interamente
compiacerla. Gli antichi Romani sono il modello di questa in armi e in lettere
floridissima nazione: e non può trovarsi soggetto più nobile delle loro gran
geste, per un teatro ove la medesima vegga rappresentati i personaggi a' quali
i suoi più gloriosi figli somigliano. P. C. Scipione che fu poi nomato
l'africano, vittorioso, amante, e vincitor di sé stesso, comparisce al pubblico,
e mi dà una giusta
occasione di attestar
pubblicamente l'interno mio sentimento di stima e devozione verso l'e.
v. con dedicarglielo. Io sin da che v. e. tornò da' suoi viaggi, la stimai,
l'ammirai, ed ottenutone l'accesso ed il patrocinio, la ritrovai adorna delle
più belle doti e naturali e acquistate: prestanza di persona, vivezza
d'Ingegno, nobiltà di costumi, grandezza di maniere, affabilità di
conversazione, conoscimento di lettere, buon gusto nelle belle arti ammirai
nell'e. v. e godei vederla felice presso a nobile gentile e bella consorte.
Negli affetti di padre e di marito dio prosperi il corso de' suoi floridi
anni, al quale se non mancheranno
occasioni, non potranno mancar fatti che lo rendano ancor più simile a quegli
eroi, che d'uno de' più Illustri de'quali, io presento la più ragguardevole
azione all'e. v. in questo mio novo dramma. Ed ossequiosamente mi rassegno di
v. e. umilissimo servitore ROLLI. P. Rolli Händel, Argomento Argomento. Publio
Cornelio Scipione proconsole nelle Spagne prese per assalto Cartagine nova
signoreggiata dalli Cartaginesi:
s'innamorò d'una bellissima
prigioniera, ma trovandola già
promessa a Lucejo principe de' Celtiberi, gliela rese generosamente con tutti i
doni portati dal di lei padre per suo riscatto. N.B. Il solo primo motivo ed
alcuni pochi versi di questo dramma sono stati tolti da un vecchio dramma del
medesimo titolo. Il celebre signor Federico Handel ne compose la musica, al
sommo espressiva ed armoniosa: ed il tutto fu eseguito in tre settimane.
librettidopera.it Atto primo Scipione ATTO PRIMO [Ouverture] Scena prima
Piazza con arco trionfale. Scipione su carro trionfale seguìto dall'Esercito
vittorioso, Schiavi d'ambo i sessi, e Lelio duce romano. [Marcia] [Arioso]
SCIPIONE Abbiam vinto: e Iberia doma, par che dica il fato a Roma, serva Egitto
ancor sarà. Recitativo SCIPIONE A Tiberiolo e a Sesto porgo egualmente la mural
corona, ché noto è a me, ch'ambo saliro i primi sovra il muro scalato. Lelio,
al roman senato fia noto il tuo sommo valore, in tanto segno d'illustre militar
decoro splendati al crin questa corona d'oro. LELIO Scipione, grazie ti rendo e
del dono e del merto: ché se i doveri adempio; di tua grand'alma sol seguo
l'esempio. Di tanti illustri prede, queste stimai degne di te; cui rende rare
amabil beltà che i cori accende. SCIPIONE (Numi! Che gran bellezza!) Bella, nel
vago petto ad un vano timor non dar ricetto: cadesti in sorte a vincitor
cortese. BERENICE Ah mia sorte infelice! SCIPIONE Il nome? BERENICE Berenice.
librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726 Atto primo SCIPIONE Non ti
lagnar: tu nel bel volto porti armi che il vincitor rendon già vinto. (ad
Armira) E tu chi sei? ARMIRA De' predatori all'ira tolta da Lelio illustre, io
sono Armira. SCIPIONE A te duce fedel consegno queste sì preziosa spoglie.
BERENICE A te Scipione confido l'onor mio: tu che le leggi sai tutte di virtù,
tu lo proteggi. [N. 3 Arioso] SCIPIONE Scaccia o bella dal seno il timore, di
tua vaga beltà, dell'onore la virtù a difesa starà. Abbiam vinto, e Iberia doma
par che dica il fato a Roma, serva Egitto ancor sarà. (parte) Recitativo
BERENICE Oh Lucejo! LELIO E qual nome con dolor proferisti? BERENICE È forse
noto tal nome a te? LELIO Del generoso parli principe de' Celtiberi? BERENICE
Deh come t'è noto? LELIO Prigioniero un tempo io fui del re suo padre, e
generoso ei volle rendermi libertade, e il cor m'avvinse. BERENICE Destinato in
mio sposo egli a me fu, ma di nemica sorte il barbaro furore cangiò in dure
ritorte i bei lacci d'amore. Oh prence amato che fia di me! Di te che fia!
LELIO Non darti in preda al duolo. librettidopera.it Atto primo Scipione ARMIRA
Io spero, che il vincitore ancor sì generoso libere ne farà. BERENICE Misero
sposo! LELIO Nella regal magion ricetto avrete vaghe illustri donzelle: nei
giardin dilettosi troverete riposi al vostro affanno. BERENICE Ahi qual riposo
i miei tormenti avranno? [N. 4 Aria] BERENICE Un caro amante gentil costante
mi diede amor, e un empio fato me 'l tolse allor che amante amato venia fedele
in braccio a me. Infin che porto tal piaga al cor, senza morire al mio martire
altro conforto no che non v'è. (partono) Scena seconda Lucejo in abito di
soldato romano. Recitativo LUCEJO Quando vengo alle mie nozze bramate con
Berenice l'idol mio, ritrovo Cartagin presa d'improvviso assalto, e cerco invan
l'anima mia: mi vesto qual soldato roman: vengo alla pompa trionfal di
Scipione, e per mia sorte la veggo, oh dèi! ma prigioniera. Udii che Lelio n'è
custode: ne' giardini reali m'introdurrò: seconda amor la frode. Oh con quai
fissi sguardi l'ammirò il vincitore! Ahi! La perdo per sempre s'ella non
fuggirà. M'aita amore. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo
[Aria] LUCEJO Lamentandomi corro a volo, qual colombo che solo solo va cercando
la sua diletta involata dal cacciator. E poi misero innamorato prigioniero le
resta a lato, ma la gabbia pur l'alletta perché restaci il su' amor. Scena
terza Giardino. Scipione, e poi Lelio. Recitativo SCIPIONE Oh quante grazie
amore in quel bel viso accolse! Ma non son io già preso da quel celeste
sguardo? La mia gloria è in periglio. E si dirà. LELIO Signor, le due vezzose
prigioniere lodar tua cortesia. SCIPIONE Lelio, alla vaga Armira troppo spesso
girar ti vidi i guardi. LELIO Perché celarlo? Il cor per lei sospira; ma il
vincitor tu sei... SCIPIONE Molto l'avanza di beltà Berenice. LELIO E pur
soggiace all'altra l'amor mio: d'ogni bellezza è più bel quel che piace.
SCIPIONE A te la cura d'ambe già diedi. Capital delitto sia l'ingresso a tutt'altri
in queste mura. Armira tua sarà. (parte) LELIO Generoso Scipione! Ecco la
bella. librettidopera. Atto primo Scipione Scena quarta Armira e detto. LELIO
Armira, e perché mesta? ARMIRA Oh quante volte in questa selvetta amena a mio
diporto venni! Chi mai creduta avria le delizie cangiarsi in prigionia? LELIO
Dal momento che tu fosti mia preda, che t'affanna? ARMIRA Il pensar che serva
io sono. LELIO Ma di questa crudel sorte al rigore involar ti potria. ARMIRA
Chi? Dillo. LELIO Amore. [Aria] ARMIRA Libera chi non è i lacci del suo piè no
mai, non porta al cor. Chi adora una beltà, le renda libertà poi le domandi
amor. (parte) Recitativo LELIO Indegna è inver di servitude un'alma di sì bei
pregi ornata: quand'ella in mio poter sarà concessa, risolverò. Scena quinta
Berenice e detto. LELIO Del vincitore, o bella, vittoria avesti co' begli occhi
tuoi: che t'ami un tanto eroe vantar ti puoi. BERENICE Onde scorgesti l'amor
tuo? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto primo LELIO M'impose che a
tutt'altri che a noi delitto capital sia qui l'ingresso. BERENICE E tal segno è
d'amor? LELIO Dirne potrei altri ancor: ti consiglio a riamare il primo fra'
Romani. BERENICE E ingrato sei. Che? Già ti prese oblio dell'amico Lucejo?
LELIO Ah! Che diss'io! BERENICE Giunger dovea l'istesso dì, che presa fu
Cartago infelice. Chi sa? Forse perì. LELIO No, Berenice: spera miglior
destino, e ti conforta. BERENICE Ah! Chi scampar può mai, quando a ruina il
fato inesorabile ne porta? [N. 7 Aria] LELIO No non si teme d'incerto affanno
quando la speme con dolce inganno l'alma che brama può lusingar. Cangian
vicende il male e il bene: spesso un s'attende, e l'altro viene, se vuol
temere, non disperar. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Oh sventurati,
sventurati affetti! Di Cartagin col fato periro le mie gioie, cadder le mie
speranze. Chi sa, chi sa, se mai rivedrete il mio bene, occhi dolenti. Continua
nella pagina seguente. librettidopera.it Atto primo Scipione BERENICE Che
fortunosi eventi hanno sempre delusa la speme (o dèi!) de' puri miei diletti!
Oh sventurati sventurati affetti! [Aria] BERENICE Dolci aurette che spirate,
deh volate all'idol mio, poi tornate a dir, dov'è. Aure dolci se 'l trovate,
velocissime tornate: oh potesse ove son io, dolci aurette, far con voi ritorno
a me. Dolci aurette che spirate, deh volate all'idol mio, poi tornate a dir,
dov'è. Scena sesta Lucejo dentro la scena, e detta. Arioso e recitativo LUCEJO
Molli aurette v'arrestate. Sì malgrado al fato rio, idol mio, pur vengo a te.
BERENICE E che ascolto! Che veggio? LUCEJO Mia Berenice. BERENICE Oh dèi! Quale
ardir? Qual consiglio? LUCEJO Così accogli lo sposo? Che turba la bell'alma?
BERENICE Il tuo periglio. LUCEJO Son deluse le guardie dall'abito mentito.
BERENICE Ah se scoperto in finte spoglie sei, chi dall'ira di Scipion ti
toglie? LUCEJO Non bramasti vedermi? BERENICE Sì vederti bramai. LUCEJO Che
più, mio bene? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, Atto primo BERENICE
Ma vederti tornar liberatore, e non compagno delle mie catene. Parti, se m'ami,
e a quelle del mio padre unisci le tue squadre, e torna armato: e se ingiusto
anche il fato il tuo zelo tradisce, e il mio desire; vedrai se o cor che nacque,
se non teco goder, teco a morire. [Aria] LUCEJO Dimmi, cara, dimmi, «tu dei
morir» ma, o cara, non mi dir, «parti lontan da me». Pria di vederti, sì forse
potea partir: or che ti veggio, no no che non vuol non può partire il cor e il
piè. Recitativo BERENICE Ah t'ascondi: non lunge veggo Scipione: ahi! di timor
son morta. LUCEJO Non temer, ti conforta. BERENICE S'ami la vita mia, prence
t'ascondi. LUCEJO T'ubbidirò. (si ritira) BERENICE Numi 'l celate! Ei giunge.
Che improvviso timor m'ingombra l'alma! Lo scorgerà nel volto: altra cagione ne
fingerò! Scena settima Scipione, e detta, e poi Lucejo. BERENICE Guardin gli
dèi Scipione... SCIPIONE Bella, perché turbata ne' begli occhi sereni? Non
rispondi? Perché? Forse non lice saperlo a me? BERENICE Come apparir può mai se
non turbata ognor serva infelice? librettidopera.it Atto primo Scipione
SCIPIONE Deh rasserena i languidetti lumi: la servitù non ti sarà penosa.
Comanda al vincitore chi tanta ha in sua beltà forza amorosa. BERENICE Ignoti
senti a me ragioni. SCIPIONE Ancora a donzella di sì vago sembiante, ignoto
ancora è forse il parlar d'un amante? LUCEJO Soffrir più non poss'io. BERENICE
Oh ciel! SCIPIONE Qual calpestio? Che fai tu qui soldato? Chi sei? Rispondi.
LUCEJO Io sono uom qual mi vedi innanzi ad un altr'uomo e se fra noi v'è
differenza alcuna, non è merto, è fortuna. SCIPIONE (Sotto latine spoglie
straniera è la favella.) Qui che pretendi? BERENICE (Anch'ei si scopre, oh
dèi!) LUCEJO Io non pretendo in costei di te maggior ragione. SCIPIONE
Grand'ardire! Chi sei? LUCEJO Sono... BERENICE Scipione, lascia, ch'io parli: e
quale hai ragion sovra me? LUCEJO Sono... BERENICE Tu sei o folle o temerario,
che con finto pretesto insidi l'onor mio, cerchi la preda rapire al vincitor.
LUCEJO Sogno! Son desto! Librettidopera P. Rolli / Händel Atto primo [Aria]
BERENICE Vanne, parti, audace, altiero, menzognero. Ahi! Non bastan le mie
pene, ch'altri viene più infelice a farmi ancor. Taci, fuggi, non m'intendi? Mi
proteggi, mi difendi o cortese vincitor. (parte) Scena ottava Lelio, e detti.
Recitativo LELIO (Giunsi a tempo, si salvi.) LUCEJO (È Lelio.) LELIO Erennio,
che fai qui? Vanne al campo! Signor, folle soldato ti disturbò. (a Lucejo) Non
ubbidisci ancora? LUCEJO (Errai nel mio trasporto.) Ubbidirò. SCIPIONE
All'accento credei fosse un ibero. LELIO Servì Publio tuo padre, e restò
prigioniero, e nelle ostili tirannie perdette parte del senno, ma il mio cenno
teme, ed anche è pieno di valor. SCIPIONE Gran cura prendine o Lelio nella sua
sventura. Pietade inver l'amico abbi eguale al valor contro al nemico. (partono)
librettidopera Atto primo Scipione LUCEJO Gelosia,
m'ingannasti? Gratitudin d'amico oh quanto industriosa mi scampasti! Ma!
Soffrir chi potea sentir parlar d'amore alla sua bella? Non è costume ibero un
rivale soffrir: ma... menzognero! Audace! Vanne! Parti! Fur sentimenti d'alma,
o fur sol arti? Ahi! Con troppo diletto ella certo sentia parlar d'affetto.
[Aria] LUCEJO Figlia di reo timor, freddo velen d'innamorato sen, o gelosia
crudel esci dal cor, lasciami in pace. Gelo ed ardor, smania ed affanno,
dubbiosa fé, nascosto inganno porti con te, e alfin così di vita e amor spegni
la face. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel Atto secondo ATTO
SECONDO [Sinfonia] Scena prima Porto con nave approdata. Ernando padre di
Berenice, che sbarca, e poi Lelio. Recitativo ERNANDO Mercé del vincitor mi fu
concesso pacifico lo sbarco. Se i tutelari numi che veglian d'innocenza alla difesa,
scampar la figlia dal furor di Marte, le portate ricchezze ne renderanno facile
il riscatto. Vadano diligenti esploratori subito sulla traccia: ma fino a sua
scoperta l'infortunio si taccia. Un roman duce s'appressa. LELIO Al forte
Ernando che alle due Baleari isole impera, manda Scipion salute. ERNANDO Al
proconsol romano la gloria e l'armi cedo, offro tributo, ed amistà gli chiedo.
LELIO Grata a Scipione sia l'amistà d'Ernando, ma il tributo maggiore anzi il
sol ch'ei ricerca, ad offrir vieni, a Roma e a lui pien d'amicizia il core.
[Aria] ERNANDO Braccio sì valoroso core sì generoso il mondo vincerà. E senza
usare il brando, co 'l nobil cor pugnando tutto vi cederà. librettidopera.it
Atto secondo Scipione Scena seconda Appartamenti delle due prigioniere.
Berenice e poi Scipione. [Arioso] BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. BERENICE Ah! pria di rivederti adorato mio sposo in tal
periglio, prendi dagli occhi miei perpetuo esilio. Quanto propizia sorte ebbe
il regal mio genitore Ernando non approdaro per contrario vento! Ch'abbia già
Lelio il fido amico, io spero, persuasa la fuga al prence amato: ma so che
disperato soffre di gelosia le pene amare, e fuggir non vorrà. Gravi tormenti
alfin cadrò sotto la vostra salma. BERENICE Tutta raccolta ancor nel palpitante
cor tremante ho l'alma. Recitativo SCIPIONE Di libertate il dono, prigioniera
gentil, grato ti fia? BERENICE Mi renderà del donator più serva. SCIPIONE
Spera, ma dimmi pria tuo vero stato: i nobili sembianti spiran grandezza.
BERENICE Io son d'Ernando figlia re delle Baleari isole. SCIPIONE E come in
Cartagine? BERENICE Il principe Sitalce che n'è morto a difesa, era germano
della mia genitrice, ed in sua corte vissi gran tempo, ah! librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo SCIPIONE Deh non darti in preda a vano duolo: è inesorabil
morte. Libera tu sarai, ma libertà per libertà si chiede. Del suo laccio più
forte per te già strinse amor. BERENICE Signor, t'arresta, non mi dir che tu
sei... SCIPIONE M'odi. BERENICE No, ascolta. De' Celtiberi al prence, che meco
un tempo visse, il cor già diedi. Riamar non poss'io se non... SCIPIONE
(Spietato spietato mio destin! Misero core scoppierai di tormento e di furore.
[Aria] SCIPIONE So gli altri debellar, ma porto nel mio cor chi mi fa guerra.
Che giova trionfar, se tirannia d'amor l'onor ne atterra.) [Aria] SCIPIONE
Pensa o bella alla mia speme e il desio non ingannar. (Ahi che l'alma troppo
teme, e comincia a disperar.) (parte) Recitativo BERENICE Troppo qui noto è il
mio natal, celarlo era timido e vano: dissimulare affetti è di me indegno.
Scena terza Lelio, Lucejo, e detta. LELIO Ecco o prence la bella cagion del tuo
dolore. librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Tu per me le favella: io
non ho tanto core. BERENICE Oh numi! E questa di Lucejo è la fuga? Ah folle! Ei
torna a turbar l'alma mia. LELIO (Sì mi dicesti 'l vero, o gelosia.) BERENICE
Lelio, da me l'invola. LELIO E non vuoi tu? BERENICE Voglio che parta, e che
non torni più. LELIO Ei brama sol..BERENICE Folle colui che vuole perdere le
pupille per rivedere una sol volta il sole. LUCEJO Lelio andiam. Vado a morte.
BERENICE A morte! Ah no. Lelio l'arresta. LELIO A morte. Sirena ingannatrice,
che importa a te? L'amor la fé giurata son questi? E qual ragione puoi dirmi
ingrata? BERENICE Ahimè! Verrà Scipione. LUCEJO Verrà il novello oggetto
dell'amor tuo? BERENICE Cieco, e non vedi? LELIO Io vidi già ne' tuoi lumi
infidi il cor fallace. In vana ambizion cangi il tu' amore, e il mio divien
furore. Resta con quella pace che a me dai, ma la falsa alma poi tema piangere
del rivale o dell'amante o d'ambo a un tempo sol, fu l'ora estrema. Ma no,
risolvo abbandonar. BERENICE Rivolto ogni pensiero in te... LUCEJO Va', non
t'ascolto. librettidopera.it Rolli
Händel Atto secondo [Aria] LUCEJO Parto, fuggo, resta e godi di tue frodi, tu
sarai felice altera, menzognera. Sventurato io resterò sventurato sol per te.
Resta ingrata, e che puoi dire? Quando invece di fuggire, vuoi restar co 'l
vincitore. Quest'è amore? Questa è fé? (parte) Recitativo BERENICE Seguilo o
duce. L'agitata mente lo trasporterà certo al suo periglio. LELIO L'orme ne
segue, e penserò allo scampo. (parte) BERENICE Misera Berenice! Ah già preveggo
il fine della tragedia mia tutta infelice. [Aria] BERENICE Com'onda incalza
altr'onda, pena su pena abbonda, sommersa al fine è l'alma in mar d'affanno. E
tutt'i miei momenti oh come lenti lenti di dolore in dolore a morte vanno!
(parte) Scena quarta Armira, e Lelio. Recitativo ARMIRA Importuno tu sei.
Quando in tua man sarà il darmi libertà, penserò allora di riamarti. LELIO Ed
ora perché amor non prometti? ARMIRA Sarian forzati e men sicuri affetti. librettidopera Atto secondo Scipione [Aria]
LELIO Temo che lusinghiero il labbro menzognero amor prometta per ingannar. Pur
benché finga, sì dolce è la lusinga, che più m'alletta sempre a sperar. (parte)
Recitativo ARMIRA Lusingarlo mi giova, finché del mio servaggio a Indibile il
mio padre giunga l'infausta nuova, onde s'attenda soccorso tal, che libertà mi
renda. [Aria] ARMIRA Voglio contenta allor serbar del piè, del cor, la cara
libertà. L'amante avvezzo a dir che sol volea servir, tiranno poi si fa. Scena
quinta Lucejo e detta. Recitativo LUCEJO Qui torno, e qui vuo' pria morir, che
mai lasciar. ARMIRA Qui che vuoi tu? LUCEJO Vuo' quel che vuole la mia
disperazione. ARMIRA Chi cerchi? LUCEJO Berenice. ARMIRA Ancor non sai, che
l'adora Scipione? LUCEJO E corrisposto credi il romano amante? ARMIRA E tu qual
cura ne prendi? L'ami ancor? librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel, 1726
Atto secondo LUCEJO Per mia sventura. ARMIRA Del vincitor latino non paventi lo
sdegno? LUCEJO Alma che nacque al regno non conosce timor. ARMIRA Dimmi chi
sei? LUCEJO Ora de' casi miei non mi lice dir più. ARMIRA M'offendi: in pegno
di fé, la destra mia prendine. LUCEJO O bella, tu mi conforti. (si danno la
mano) Scena sesta Berenice, e detti. BERENICE Bella! Mi conforti! Ah traditore!
Ah indegno! LELIO Oh van sospetto! BERENICE Sospetto il ver? Ma il tuo decoro,
Armira? Sì l'audace correggi? ARMIRA Lascioti sola con quest'altro amante, così
titolo avrai d'insegnar di modestia a me le leggi. (parte) LUCEJO E la mancata
fede? Con finta gelosia pur si colora? BERENICE Va' traditor. Scena settima
Scipione, e detti. SCIPIONE Tanto s'ardisce ancora, contra gli ordini miei?
LUCEJO Scipione, a te costei diede fortuna, a me la diede amore. BERENICE È
quel folle soldato. www.librettidopera.it Atto secondo Scipione LUCEJO Io son
Lucejo de' Celtiberi il prence: un vil timore non mi celò: tentai ritor la
preda, se si potea, con onorata fuga, ma la crudel non m'ascoltò. SCIPIONE
Tentasti, prence, un delitto: e prigionier già sei. BERENICE Ah misera! Il previdi.
LUCEJO Se qual duce roman parli, ti cedo. Ma come un mio rivale, so ch'hai
nell'alma onor, se non m'abbatti; prigionier non son io: ceder non voglio fin
che vivo, il mio ben. SCIPIONE Deggio al senato risponder della mia, della tua
vita. LUCEJO Disperazion non t'ode: il ferro stringi. Scena ottava Lelio con
Guardie che circondano Lucejo con l'aste al petto. BERENICE Numi, lo
difendete... Io manco... Io moro... SCIPIONE Olà? Non m'offendete. Non temer
principessa, ei salvo fia. LELIO Cedi amico quel ferro. LUCEJO Avverso fato!
Lelio m'uccidi tu... Son disperato. [Aria] LUCEJO Cedo a Roma, e cedo a te.
Questi dica innanzi a me, s'ebbi già romano il cor: ma in amor, no non ti cedo
no, ti sfido all'armi. E se rival tu sei, esser duce più non déi: l'onor ti
vieterà privar di libertà chi non disarmi. (Lucejo, Lelio e guardie partono)
librettidopera.it Rolli Händel Atto secondo Recitativo BERENICE Signor, del tuo
fisso pensar pavento. SCIPIONE Sì sì Roma altro sposo sceglierà del tuo merto
ancor più degno. BERENICE Lucejo è nato al regno. SCIPIONE Merta però di
posseder tuoi pregi un che dia legge ai regi, un romano. BERENICE In vil core
han sempre forza ambizion, fortuna; nel mio non già, dove ha sol forza amore.
SCIPIONE Del senato a' decreti forza è chinar la fronte, ed ubbidire. BERENICE
Forzata esser non può, chi può morire. SCIPIONE Odi tanto i Romani? BERENICE Io
n'ammiro il valor, n'amo il bel core, e se mia fede e l'amor mio non fosse
avvinto altrui, sì n'arderei d'amore. [Aria] BERENICE Scoglio d'immota fronte
nel torbido elemento, cima d'eccelso monte al tempestar del vento, è negli
affetti suoi quest'alma amante. Già data è la mia fé: s'altri la meritò, non
lagnisi di me; la sorte gli mancò del primo istante. librettidopera. it Atto terzo Scipione
ATTO TERZO Scena prima [Sala magnifica.] Scipione e poi Lelio ed Ernando.
Recitativo SCIPIONE Miseri affetti miei! Tutte le vie d'onore saranno chiuse
all'amor mio? LELIO Scipione a privata udienza Ernando vedi, secondo i cenni
tuoi. ERNANDO Del vincitore l'alta presenza onoro. SCIPIONE A cortesia amistà
corrisponda: accetta Ernando la destra in pegno. Fortunato evento pose tua
figlia in mio poter. ERNANDO Già Lelio tutto narrommi: dal tuo nobil core spero
sua libertà. SCIPIONE La sua bellezza l'alma m'avvinse: in casto nodo io spero
ottenerla da te. ERNANDO Sì grande onore, per mia sventura, troppo tardi è
giunto. La promisi a Lucejo principe de' Celtiberi. SCIPIONE Ma questi è nostro
prigionier. ERNANDO Con la sua vita la mia parola irrevocabil vive. La mia
vita, il mio regno son tuoi, né per serbarli unqua io vorrei mancare all'onor
mio. Corso è l'impegno, memore sino a morte animo grato n'avrò. SCIPIONE Vanne,
e ci pensa. ERNANDO Ho già pensato. librettidopera.it P. Rolli / G. F. Händel,
1726 Atto terzo [Aria] ERNANDO Tutta rea la vita umana saria sol brutale e vana
senza il freno dell'onor. Dar parola, è dar sua fede: e la lingua che la diede
fu ministra sol del cor. (parte) Recitativo SCIPIONE Degni amici di Roma son
questi Iberi. Il saguntino onore sparso di tutti è nelle vene! Vanne, qui
conduci Lucejo e Berenice, e a lui dirai, che deve gir prigioniero al novo
giorno a Roma. LELIO Esperienza, e senno ai più ch'io possa consigliar. Fia
tosto eseguito il tuo cenno. (parte) [N. 24 Recitativo accompagnato] SCIPIONE
Il poter quel che brami, il bramar quel che puoi sono in tua forza, e tu goder
non vuoi? Della vita i diletti non sono che momenti, se brami... pensi... e
speri, fuggono come venti. Chi meno gode, vive men. Virtute è tormentosa
opinion per cui muor di sete il desire al fonte appresso. Sì sì voglio... ma...
no...torna in te stesso. Puoi non usar tua forza, puoi non voler, giusto perché
tu puoi posseder quel che vuoi. Questo è un piacer che non avrai comune co'
bruti e co' tiranni. Qual fama di virtù! Ma no. Per fama ben oprar non si dée.
Ben far verace è quel ch'uom fa, perché al su' interno piace. Oh fecondo
pensier, sei generoso, tu riporti, lo sento, il mio riposo. (parte)
librettidopera.it Atto terzo Scipione Scena seconda Lelio, Lucejo, in proprio
abito, e Berenice e Guardie. Recitativo LELIO In questo luogo o prence, ov'io
dovrei renderti quel che tu a me desti, in questo devo darti un annunzio aspro
e funesto. BERENICE Numi! Che fia? LUCEJO L'alma ho maggior dei mali. Di' pur.
LELIO Prence, tu devi... ah! LUCEJO Da un romano con sì lungo esitar, morte si
noma? LELIO Gir prigioniero ero al nuovo giorno a Roma. LUCEJO Questo è più
fier che morte. BERENICE No non andrai senza di me, mio bene. Il dolore o la
mano l'alma mia scioglierà da sue catene. Ti seguirò nud'ombra. LUCEJO Oh fida!
Oh cara! Di cieca gelosia perdon ti chiedo! Oh compensati affanni miei! Deh
resta, deh vivi sì amorosa, e sì costante alla memoria mia sola, e poi serba
serba a fato miglior tua nobil vita. Amico un solo da te aspetto, un solo segno
di gratitudine infinita, deh fa che cangi il vincitore in morte l'aspra
sentenza della mia partita. [Aria] LUCEJO Se mormora rivo o fronda, sussurrano
venticelli, di', che i sospir son quelli, ho l'alma mia che viene, mio bene,
intorno a te. Dia vita o morte il fato, fian' ambe ugual tormento: sarò sol
consolato pensando alla tua fé. (parte) librettidopera.it Rolli Händel Atto terzo Recitativo LELIO Più
resister non posso. Il cor si spezza. Se a sì teneri affetti, se a lacrime sì
belle può resister Scipione, il cor romano ei non ha, ch'esser dée grande ed
umano. (parte) [Recitativo accompagnato] BERENICE Ah! Scipion dove sei? Ascolta
i pianti miei: o rendimi il mio bene, o avvinta in sue catene, mandami seco, sì
spietato vieni saziati delle mie lagrime amare. Scena terza Scipione e detta.
Recitativo SCIPIONE (Tenerezze del cor, cedo, son vinto.) BERENICE Non dovevo
sdegnarti, ma non potevo amarti. La rea sola son io; mortal sentenza deh fa
ch'io sola dal tuo labbro senta. SCIPIONE Bella non pianger più. Sarai contenta.
(parte) [Aria] BERENICE Già cessata è la procella e la calma tornerà. E ne' rai
d'amica stella l'amor mio scintillerà.librettidopera.it Atto terzo Scipione
Scena quarta Sala con trono. Scipione assiso che riceve Ernando preceduto da
Mori che portano vari presenti d'argento e d'oro. [Sinfonia] [Sinfonia]
Recitativo ERNANDO All'invitto proconsole romano, all'inclito Scipione, e al
Campidoglio offro tributo e pace. SCIPIONE In nome del senato l'amiche offerte
accetto, e patrocinio ed amistà prometto. ERNANDO Queste ancorché inuguali al
tuo gran merto ricchezze accetta ancor: prezzo al riscatto della mia figlia
Berenice. Oh degno cui tutto il mondo ceda, rendimi della vita il conforto
migliore. SCIPIONE Venga la bella. Scena quinta Berenice e detti. ERNANDO Oh
dolce figlia! BERENICE Oh genitore amato! SCIPIONE Libera sei: ma le ricchezze
tutte del mondo, prezzo eguale a te non sono: ti rendo al caro genitore in
dono. BERENICE Ho il cor da gioia oppresso. ERNANDO Vieni al paterno affettuoso
amplesso. Cortese vincitor, pregoti almeno d'accettare in legger segno
d'affetto i nostri doni. SCIPIONE Accetto le preziose offerte: ma in tuo volto
tutta non veggo scintillare ancora l'anima lieta o Berenice. librettidopera.it
Rolli / Händel Atto terzo BERENICE È vero. Troppo timida ancor l'alma paventa.
SCIPIONE Spera, non sospirar, sarai contenta. [Aria] SCIPIONE Gioia si speri
sì, sol voglio in questo dì letizia e pace. Marte riposo avrà, e lieto
accenderà amor la face. (partono) Scena sesta Appartamento. Lelio ed Armira. Recitativo
LELIO Tu d'Indibile figlia tanto amico a' Romani? E perché mai tacermi il tuo
natal? ARMIRA Bastante asilo pareami aver nel tuo cortese affetto. LELIO In
risponder così, mostri chi sei. In piena libertate or vivi, ed io rimango in
tue catene. ARMIRA Qual Berenice, io non ho dato ancora ad altri il cor. LELIO
Se a fedeltà sincera vorrai darne possesso. ARMIRA Amami, e spera. (parte)
[Aria] LELIO Del debellar, la gloria, è il bel piacer d'amor, sono del mio
valor pregi immortali. Del par con la vittoria un corrisposto ardor è il sommo
del gioir, ch'è senza uguali. (parte) librettidopera.it Atto terzo Scipione
Scena settima Berenice e Lucejo. Recitativo BERENICE Dove o principe amato?
LUCEJO A te mio bene. BERENICE Veggoti al fianco il nobil ferro. LUCEJO Dianzi
per man di Lelio, Scipion me 'l rese, ed a sé m'invitò. BERENICE La gioia
intera speriam da un cor generoso. LUCEJO Oh cara, abbiasi il mondo tutto, mi
lasci del tuo cor libero il dono, e il più felice io sono. BERENICE Anch'io
dovea senza vederti ire a Scipione, ma volli, principe amato, rivederti pria.
Vo piena di lietissima speranza. LUCEJO Oh fida! Oh dolce? Oh cara anima mia.
Aria] BERENICE Bella notte senza stelle chiaro sole senza rai tu vedrai, non il
mio core senz'amore e senza te. Mancheranno al mar le sponde, mancheranno ai
fiumi l'onde, pria che manchi la mia fé. (parte) Recitativo LUCEJO Squarciasi
'l fosco vel del mio sospetto, e qual fra nube il cui torbido seno rompa e
dilegui il vento, veggo apparir più chiaro il ciel sereno. .librettidopera.it
P. Rolli Händel Atto terzo [Aria] LUCEJO Come al natio boschetto augel che vien
dal mar vola nell'arrivar, l'anima mia così impaziente già se 'n vola al caro
ben. No più non è crudele la bella mia fedele: anima mia sì sì vattene innanzi
a me posati nel bel sen. (parte) Scena ultima Scipione, Lelio, Ernando, Armira,
Berenice, e poi Lucejo. [Arioso] SCIPIONE Dopo il nemico oppresso voglio esser
di me stesso più forte vincitor. (ascende il trono) Recitativo SCIPIONE Venga
Lucejo... SCIPIONE Prence, vinto dai primi sguardi arsi d'amor per la beltà che
adori: la trovo tua: vinco me stesso, e illesa pronto a renderla io sono,
poiché d'ambedue noi fia degno il dono premio da te si chiede a Scipio e a Roma
d'amicizia e fede. Lelio all'illustre tuo scampo tentato per l'amico Lucejo
tutta la lode io do d'animo grato. Ernando, i doni tuoi accettai per poter
disporne poi: seguano la vezzosa Berenice al possesso del suo sposo felice.
LELIO Oh magnanimo core! ERNANDO Oh virtù rara! LUCEJO Oh senza esempio anima
grande! librettidopera.it Atto terzo Scipione BERENICE Oh degno d'esser fra i
numi accolto! [Recitativo accompagnato] LUCEJO In testimonio io chiamo Giove e
gli eterni numi, che la mia vita e il regno a Scipione a Roma, in guerra e in
pace, impegno. [ Duetto] BERENICE E LUCEJO Si fuggano i tormenti, si vengano i
contenti di bella fedeltà. Non più crudel timore il dolce dell'amore amareggiar
potrà. Recitativo SCIPIONE Marte riposi, accenda amor la face sia questo un dì
sol di letizia e pace. [Coro] CORO Faran la gioia intera vittoria pace e amor.
E sia l'Iberia altera d'un tanto vincitor. librettidopera.it P. Rolli Händel,
Interlocutori All'eccellenza Argomento Atto Ouverture Scena Marcia Arioso]. Arioso
Aria Scena Aria Scena Scena Aria] Scena Aria Recitativo accompagnato Aria] Scena
AriaScena AriaScena AriaAtto SinfoniaScena AriaScena Arioso Aria Aria Scena
Aria Aria Scena Aria] Aria Scena Scena Scena Scena Aria Aria]. Atto Scena Aria Recitativo
accompagnato]. Scena Aria Recitativo accompagnato]. Scena Aria Scena Sinfonia Sinfonia
Scena Aria Scena Aria Scena AriaAria Scena ultima. Arioso Recitativo
accompagnato Duetto Coro Brani significativi Scipione BRANI SIGNIFICATIVI
Abbiam vinto: e Iberia doma (Scipione) Il poter quel che brami (Scipione)
Scoglio d'immota fronte (Berenice) Se mormora rivo o fronda (Lucejo) PIETRO METASTASIO / WOLFGANG AMADEUS MOZART Il sogno di
Scipione Azione teatrale Scipio Costanza Fortuna Publio Emilio Recitativo
Fortuna Vieni e segui miei passi, O gran figlio d'Emilio. Costanza I passi
miei, Vieni e siegui, o Scipion.
Scipione: Chi è mai l'audace Che turba il mio riposo? Fortuna: Io son. Costanza Son io; E sdegnar non ti dèi. Fortuna Volgiti a me. Costanza Guardami in volto. Scipione Oh dei, Qualle abisso di luce! Quale
ignota armonia! Quali sembianze Son queste mai sì luminose e liete! E in qual
parte mi trovo? E voi chi siete?
Costanza Nutrice degli eroi.
Fortuna Dispensatrice Di tutto il ben che l'universo aduna. Costanza Scipio, io son la Costanza. Fortuna Io la Fortuna. Scipione E da me che si vuol? Costanza Ch'una fra noi Nel cammin della vita
Tu per compagna elegga. Fortuna Entrambe
offriamo Di renderti felice. Costanza E
decider tu dèi Se a me più credi, o se più credi a lei. Scipione Io? Ma dèe... Che dirò? Fortuna Dubiti! Costanza Incerto Un momento esser puoi! Fortuna Ti porgo il crine, E a me non
t'abbandoni? Costanza Odi il mio nome,
Nè vieni a me? Fortuna Parla. Costanza Risolvi. Scipione E come? Se volete ch'io parli, Se
risolver degg'io, lasciate all'alma Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa. Ditemi dove son, chi qua mi trasse, se vero è quel ch'io
veggio, Se sogno, se son desto o se vaneggio. Aria Risolver non osa Confusa la
mente, Che opressa si sente Da tanto stupor. Delira dubbiosa Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia Fra'moti del cor. Recitativo Costanza Giusta è la tua
richiesta. A parte, a parte Chiedi pure, e saprai Quanto brami saper. Fortuna
Si, ma sian brevi, Scipio, le tue richieste. Intollerante Di risposo son io.
Loco ed aspetto Andar sempre cangiando è mio diletto. 2. Aria Fortuna Lieve sono al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace; Or m'adiro, e in un momento Or mi torno a
serenar. Sollevar le moli oppresse Pria m'alletta, e poi mi piace D'atterrar le
moli istesse Che ho sudato a sollevar. Recitativo Scipione Dunque ove son? La
reggia Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi Al sonno abbandonai, Certo questa
non'. Costanza No. Lungi assai É l'Africa da noi. Sei nell'immenso Tempio del
ciel. Fortuna Non lo conosci a tante Che
ti splendono intorno Lucidissime stelle? A quel che ascolti Insolito concento.
Dele mobili sfere? A quel che vedi Di lucido zaffiro Orbe maggior che le
rapisce in giro? Scipione E chi mai tra
le sfere, o dèe, produce Un contento sì armonico e sonoro? Costanza L'istessa ch'è fra lorto Di moto e
di misura Proporzionata ineguaglianza. Insieme Urtansi nel girar; rende
ciascuna Suon dall'altro distinto; E si forma di tutti un suon concorde. Viarie
così le corde Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa E l'orecchio e la man
l'acuto e il grave, Che dan, percosse, un'armonia soave. Questo mirabil nodo,
Questa ragione arcana Che i dissimili accorda, Proporzion s'appella, ordine e norma
Universal delle create cose. Questa è quel che nascose, D'altro saper
misterioso raggio, Entro i numeri suoi di Samo il saggio. Scipione Ma un armonia si grande Perchè non
giunge a noi? Perchè non l'ode Chi vive lá nella terrestre sede? Costanza Troppo il poter de'vostri sensi
eccede. 3. Aria Ciglio che al sol si
gira Non vede il sol che mira, Confuso in quell'istesso Eccesso di splendor.
Chi lá del Nil cadente Vive alle sponde apresso, Lo strepito non sente del
rovinoso umor. Recitativo Scipione E quali abitatori... Fortuna assai chiedesti:
Eleggi alfin. Scipione Soffri un
istante. E quali Abitatori han queste sedi eterne? Costanza Ne han molti e vari in varie
parti. Scipione In questa, ove noi siam,
chi si raccoglie mai? Fortuna Guarda sol
chi s'appressa, e lo saprai. 4. Coro
Germe di cento eroi, Di Roma onor primiero, Vieni, che in ciel straniero Il
nome tuo non è. Mille trovar tu puoi. Orme degli avi tuoi nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè. Recitativo Scipione Numi, è vero o m'inganno? Il mio
grand'avo, Il domator dell'Africa rubello Quegli non è? Publio: Non dubitar,
son quello. Scipione Gelo d'orror!
Dunque gli estinti.... Publio Estinto,
Scipio, io non son. Scipione Ma in
cenere disciolto Tra le funebri faci, Gran tempo è giá, Roma ti pianse. Publio Ah taci: Poco sei noto a te. Dunque tu
credi Che quella man, quel volto, Quelle fragili membra onde vai cinto Siano
Scipione? Ah non è vero Son queste Solo una veste tua. Quel che le avviva Puro
raggio immortal, che non ha parti E scioglier non si può che vuol, che intende,
Che rammenta, che pensa, Che non perde con gli anni il suo vigore, Quello,
quello è Scipione: e quel non muore. troppo iniquo il destino Sraia della
virtù, s'oltre la tomba Nulla di noi restasse, e s'altri beni Non vi vosser di
quei Che in terra per lo più toccano a'rei. No, Scipio: la perfetta D'ogni
cagion Prima Cagione ingiusta esser così non può. V'è doppo il rogo, V'è merce
da sperar. Quelle che vedi Lucide eterne sedi, serbansi al merto; e la più
bella è questa In cui vive con me qualunque in terra La patria amò, qualunque
offri pietoso Al publico riposo i giorni sui, Chi sparse il sangue a benefizio
altrui. 5. Aria Se vuoi che te
raccolgano Questi soggiorni un dì, degli avi tuoi rammentati, Non ti scordar di
me. Mai non cessò di vivere Chi come noi morrì: Non merito di nascere Chi vive
sol per sè. Recitativo Scipione Se qui vivon gli eroi... Fortuna Se paga ancora
La tua brama non è , Scipio, è giá stanca La tolleranza mia. Decidi... Costanza Eh lascia Ch'ei chieda a voglia sua.
Ciò ch'egli apprende Atto lo rende a giudicar fra noi. Scipione Se qui vivon gli eroi Che alla
patria giovar, tra queste sedi Perchè non miro il genitor guerriero? Publio L'hai su gli occhi e nol vedi? Scipione É vero, è vero. Perdona, errai, gran
genitor; ma colpa Delle attonite ciglia É il mio tardo veder, non della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente. Ah sei tu! Giá ritrovo L'antica in
quella fronte Paterna maestá. Gia nel mirarti Risento i moti al core Di
rispetto e d'amore. Oh fausti numi! Oh caro padre! Oh lieto dì. Ma come Si
tranquillo m'accogli? Il tuo sembiante Sereno è ben, ma non comosso. Ah dunque
non provi in rivedermi Contento eguale al mio! Emilio Figlio, il contento Fra
noi serba nel Cielo altro tenore. Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore. Scipione Son fuor di me. Tutto quassù m'è
nuovo, Tutto stupir mi fa. Emilio Depor non puoi Le false idee che ti formasti
in terra, E ne stai si lontano. Abassa il ciglio: Veddi laggiù d'impure nebbie
avvolto Quel picciol globo, anzi quel punto?
Scipione Oh stelle! É la terra? Emilio Il dicesti. Scipione E tanti mari E tanti fiumi e tante
selve e tante Vastissime province, opposti regni, popoli differenti? E il
Tebro? E Roma?... Emilio Tutto è chiuso in quel punto. Scipione Ah, padre amato, Che picciolo, che
vano, Che misero teatro ha il fasto umano! Emilio Oh se di quel teatro Potessi,
o figlio, esaminar gli attori; Se le follie, gli errori, I sogni lor veder
potessi, e quale Di riso per lo più degna cagione Gli agita, gli scompone, Li
rallegra, gli affligge o gl'innamora, Quanto più vil ti sembrerebbe
ancora! 6. Aria Voi collogiù ridete D'un
fanciullin che piange, Che la cagion vedete Del folle suo dolor. Quassù di voi
si ride, Che dell'etá sul fine, tutti canuti il crine, Siete fanciulli ancor.
Recitativo Scipione Publio, padre, ah lasciate Ch'io rimanga con voi. Lieto
abbandono Quel soggiorno laggiù troppo infelice. Fortuna Ancor non è
permesso. Costanza Ancor non lice. Publio Molto a viver ti resta. Scipione Io vissi assai; Basta, basta per me.
Emilio Si,ma non basta A'disegni del fato, al ben di Roma, Al mondo , al
Ciel. Publio Molto facesti e molto Di
più si vuol da te. Seza mistero Non vai, Scipione, altero E degli aviti e
de'paterni allori. I gloriosi tuoi primi sudori Per le campagne ibere A caso
non spargesti; e non a caso Porti quel nome in fronte Che all'Africa è fatale.
A me fu dato Il soggiogar sì gran nemica; e tocca Il distruggerla a te. Va, ma
prepara Non meno alle sventure Che a'trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L'istessa è la virtù. L'agita, è vero, Il nemico destin, ma non l'opprime; E
quando è men felice, è più sublime. 7.
Aria Quercia annosa su l'erte pendici Fra'l contrasto de'venti nemici Più
sicura, più salda si fa. Chè se'l verno le chiome le sfronda, Più nel suolo col
piè si profonda; Forza acquista, se perde beltá. Recitativo Scipione Giacchè al
voler de'Fati L'opporsi è vano, ubbidirò. Costanza Scipione, Or di scegliere è
il tempo. Fortuna Istrutto or sei; Puoi
giudicar fra noi. Scipione Publio, si
vuole Ch'una di queste dèe... Publio
Tutto m'è noto. Eleggi a voglia tua.
Scipione Deh mi consiglia, Gran genitor! Emilio Ti usurperebbe, o
figlio, La gloria dela scelta il mio consiglio.
Fortuna Se brami esser felice, Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t'offro il crin. Scipione Ma tu
che tanto importuna mi sei, di': qual ragione Tuo seguace mi vuol? Perchè
degg'io Sceglier più che l'altra?
Fortuna E che farai, s'io non secondo amica L'imprese tue? Sai quel
ch'io posso? Io sono D'ogni mal, d'ogni bene L'arbitra collagiù. Questa è la
mano Che sparge a suo talento e gioie e pene Ed oltraggi ed onori, E miserie e
tesori. Io son collei Che fabbrica, che strugge, Che rinnova gl'imperi, Io, se
mi piace, In soglio una capanna, io quando voglio, Cangio in capanna un soglio.
A me soggetti Sono i turbini in cielo, Son le tempeste in mar. Delle bataglie
Io regolo il destin. se fausta io sono, dalle perdite istesse Fo germogliar le
palme; e s'io m'adiro, Svelgo di man gli allori Sul compir la vittoria ai
vincitori. Che più? Dal regno mio non va esente il valore, Non la virtù; chè,
quando vuol la Sorte, Sembra forte il più vil, vile il più forte; E a dispetto
d'Astrea La colpa è giusta e l'innocenza è rea.
8. Aria A chi serena io miro Chiaro è di notte il cielo; Torna per lui
nel gelo La terra a germogliar. Ma se a taluno io giro Torbido il guardo e
fosco, Fronde gli niega il bosco, Onde non trova in mar. Recitativo Scipione E
a sì enorme possanza Chi s'opponga non v'è? Costanza Sì, la Costanza. Io,
Scipio, io sol prescrivo Limiti e leggi al suo temuto impero. Dove son io non
giunge L'instabile a regnar; che in faccia mia non han luce i suoi doni, Nè
orror le sue minacce. É ver che oltraggio Soffron da lei Il valor , la virtù;
ma le bell'opre Vindice de'miei torti, il tempo scopre. Son io, non è costei,
Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi, La tua Roma lo sa. Crolla ristretta da
brenno, è ver, la liberta latina Nell'angusto tarpeo, ma non ruina. Dell'Aufido
alle sponde Se vede, è ver, miseramente intorno Tutta perir la gioventù guerriera
Il console roman, ma non dispera. Annibale s'affretta Di Roma ad ottener
l'ultimo vanto E co' vessilli suoi quais l'adombra; Ma trova in Roma intanto
Prezzo il terren che vincitore ingombra. Son mie prove sì belle; e a queste
prove Non resiste Fortuna. Ella si stanca; E alfin cangiando aspetto, Mia
suddita diventa suo dispetto. 9. Aria
Biancheggia in mar lo scoglio, Par che vacilli, e pare Che lo sommerga il mare
Fatto maggior di sè. Ma dura a tanto orgoglio Quel combattuto sasso; E'l mar
tranquillo e basso poi gli lambisce il piè. Recitativo Scipione Non più. Bella
Costanza, Guidami dove vuoi. D'altri non curo; Eccomi tuo seguace. Fortuna E i
donni miei? Scipione Non bramo e non
ricuso. Fortuna E mio furore? Scipione Non sfido e non spavento. Fortuna In van potresti, Scipio, pentirti un
dì. Guardami in viso: Pensaci, e poi decidi.
Scipione Hò giá deciso. 10. Aria
Di' che sei l'arbitra Del mondo intero, ma non pretendere Perciò l'impero
D'un'alma intrepida, D'un nobil cor. Te vili adorino, Nume tiranno, Quei che
non prezzano, Quei che non hanno Che il basso merito Del tuo favor. Recitativo
Fortuna E v'è mortal che ardisca Negarmi i voti suoi? Che il favor mio Non
procuri ottener? Scipione Sì, vi son io.
Fortuna E ben, provami avversa. Olá venite, Orribili disastri atre
sventure, Ministre del mio sdegno: Quell'audace opprimete; io vel
consegno. Scipione Stelle, che fia? Quel
sanguinosa luce! Che nembi! che tempeste! Che tenebre son queste? Ah qual
rimbomba Per le sconvolte sfere Trerribile fragor! Cento saette Mi striscian
fra le chiome; e par che tutto Vada sossopra il ciel. No, non pavento, Empia
Fortuna: in van minacci; in vano Perfida, ingiusta dea... Ma chi mi scuote? Con
chi parlo? Ove son? Di Massinissa Questo è pure il soggiorno. E Publio? E il
padre? E gli astri? E l'Ciel? Tutto sparì. Fu sogno tutto ciò ch'io mirai? No,
la Costanza Sogno non fu: meco rimase Io sento Il nume suo che mi riempie il
petto. V'intendo, amici dei: l 'augurio accetto. Licenza Recitativo Non è Scipio, o signore (ah
chi potrebbe Mentir d'inanzi a te!) non è l'oggetto Scipio de'versi miei. Di te
ragiono, Quando parlo di lui. Quel nome illustre É un vel di cui si copre Il
rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro, e di Girolamo il
core. 11a. Aria Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'oblio Ciò che in
te ne dona il Ciel! Di virtù chi prove chiede, L'ode in quelli, in te le vede:
E l'orecchio ognor del guardo É più tardo e men fedel. Coro Cento volte con
lieto sembiante, Prence eccelso, dall'onde marine Torni l'alba d'un dì sì
seren. E rispetti la diva incostante Quella mitra che porti sul crine, L 'alma
grande che chiudi nel sen. Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano
Minore. Keywords: Silio, il sogno di Scipione.
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