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Thursday, December 19, 2024

Grice e Scarpelli

 Vengono riuniti in questo volume i primi due lavori analitici di Uber-to Scarpelli, Filosofia analitica e giurisprudenza e Il problema della definizione e il concetto di diritto, pubblicati originariamente nel 1953 e 1955'.

Questi libri erano di difficile reperibilità già pochi anni dopo la loro uscita. Ma Scarpelli non era autore che amasse ripubblicare i suoi lavori, nonostante che fossero stati per lo più ospitati in sedi «un po' appartate»?, talora poco accessibili persino alla platea ristretta degli specialisti, come i due qui riediti. Se si escludono i saggi raccolti nel volume L'etica senza verità', i libri da lui ripubblicati in vita sono solo due: Esistenzialismo e marxismo* e Contributo alla semantica del linguaggio normativo.

Il primo è un'opera di confine tra la giovanile formazione esistenzialista e l'incombente influenza della filosofia analitica. Questo suo primo e unico lavoro "preanalitico" fu dato alle stampe nel 1949, quando Scar-pelli era ancora immerso nell'orizzonte esistenzialista ma già respirava da qualche anno l'atmosfera analitica e anzi era attivo partecipante agli incontri del Centro di studi metodologici di Torino, nato nel 1947 per iniziativa di Ludovico Geymonat e impegnato proprio nell'approfondimento e nella diffusione in Italia delle nuove correnti filosofiche'. Ciò è del resto attestato da una sua nota pubblicata nel 1948, in cui presentò in Italia per la prima volta il metodo analitico, anticipando fin dal titolo ilcelebre saggio di Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio?.

Esistenzialismo e marxismo ebbe ben tre edizioni, l'ultima nel 19688.

Questa sorte abbastanza inusuale per un'opera filosofica di nicchia va presumibilmente ricondotta a due fattori. Il primo ha a che fare col pre-dominio, nella società italiana di quegli anni, della cultura marxista, ciò che favoriva l'interesse per un libro che al marxismo era appunto dedicato fin dal titolo. Il secondo ha a che fare con le idee filosofiche del nostro autore, il quale, come si sa, non rinnegò mai le sue ascendenze esistenzialiste, ma semmai le trasfigurò, come egli stesso ebbe a dire riprendendo un'affermazione di Abbagnano, riuscendo ad armonizzarle col nuovo quadro analitico'. Nelle opere qui riproposte, il lettore troverà alcuni accenni alla filosofia dell'esistenza; essi avranno spazio anche nella produzione successiva di Scarpelli, soprattutto negli scritti dedicati all'etica e alla metaetica.

L'altro lavoro da lui ripubblicato in vita è Contributo alla semantica del linguaggio normativo". Le ragioni per cui l'autore promosse questa nuova edizione, si può congetturare, sono almeno due. La prima è che egli desiderava dare visibilità a un'opera che in realtà non ne aveva mai avuta, ma che - Scarpelli era studioso privo di iattanza ma anche di falsa modestia - reputava importante per la cultura giuridica italiana. A pieno titolo, giacché in questo lavoro troviamo esposta una originale e compiuta semiotica del linguaggio normativo; come tale esso è oggi giustamente annoverato tra i classici del prescrittivismo semiotico, insieme a The Lan-guage of Morals di R.M. Hare e a Directives and Norms di Alf Ross. La seconda ragione è che questo libro - caso raro per un'opera giusfilosofi-ca - aveva suscitato l'attenzione di un certo numero di giuristi italiani, in prevalenza civilisti, che si erano interessati in specie alla teoria delle definizioni e all'analisi dei concetti giuridici ivi esposta. Scarpelli riteneva che esso potesse rappresentare un buon veicolo atto a promuovere quella collaborazione tra giuristi e filosofi da lui sempre auspicata e perseguita, ancorché, duole ammettere, con scarsi risultati.

Solo dopo la morte, avvenuta nel 1993, venne riedita l'opera sua più importante e più nota, Cos'è il positivismo giuridico, originariamente pub-blicata, nel 1965, nella collana "Diritto e cultura moderna" delle edizioni

Comunità, diretta da Renato Treves e dallo stesso Scarpelli". La riedizione per la verità non contribuì granché a promuovere la lettura o rilettura di questo libro «scomodo e inquietante», come ebbe a definirlo Mario

Sempre dopo la sua morte venne pubblicato, per la cura di Maurizio

Mori, il volume Bioetica laica, che raccoglie una serie di interventi brevi e d'occasione insieme con il fondamentale saggio sulla bioetical.

Si è ritenuto opportuno ripubblicare ora anche questi due primi lavori

analitici di Scarpelli, per molteplici ragioni.

Innanzi tutto, perché in essi l'autore pone le basi delle tesi che svilupperà in seguito, in specie sul terreno della semiotica giuridica (in Contributo alla semantica del linguaggio normativo e in Semantica, morale, dirit-to'4) e su quello del metodo giuridico (in Cos'è il positivismo giuridico):

ossia negli ambiti in cui egli ha dato i contributi più originali e profondi alla cultura filosofico-giuridica. Rileggere le due opere è dunque importante per chi sia interessato a seguire il percorso intellettuale e teorico di questo autore e a discernere le idee che hanno rappresentato fin dall'inizio una costante nella sua riflessione filosofica da quelle che invece sono state da lui rettificate o accantonate in seguito.

Rileggere queste opere è poi importante per chi sia interessato ad approfondire le origini della filosofia analitica del diritto in Italia. In questi due libri troviamo infatti documentata una fase cruciale di snodo della cultura giusfilosofica del nostro paese: la fase dell'entusiastica scoperta e assimilazione originale del metodo analitico e del correlativo distacco critico prima, e superamento definitivo poi, degli orientamenti filosofici dominanti nel pensiero giuridico della prima metà del Novecento: primo fra tutti l'idealismo. Sappiamo che il momento topico di questa svolta si colloca esattamente nella metà del secolo scorso; coincide infatti con la pubblicazione, nel 1950, del già citato saggio di Norberto Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, che è a buon diritto considerato il manifesto di quella che verrà in seguito chiamata Scuola di Bobbio, la scuola italiana di filosofia analitica del diritto. Il confronto di Scarpelli con la filosofia analitica prende l'avvio, nel libro del 1953, proprio dal saggio diBobbio e dalla discussione da esso suscitata. Egli, per primo, presenta in modo sistematico alla cultura giuridica italiana il metodo analitico,

che predandia fornime una leta cria si a idato apie oreiale,

oltre che in innumerevoli saggi. In questi suoi primi due lavori analitici egli pone le fondamenta di una semiotica del linguaggio normativo che negli anni a venire diverrà un punto di riferimento imprescindibile per la filosofia analitico-giuridica italiana. Imposta poi la revisione critica del metodo giuridico che lo porterà, in Cos'è il positivismo giuridico, a rovesciare la visione bobbiana del giuspositivismo inteso come accostamento scientifico allo studio del diritto.

Le ragioni che hanno suggerito questa riedizione non sono però solo di ordine biografico e storiografico, ma sono ragioni teoriche a tutti gli effetti. I temi affrontati da Scarpelli - principalmente il metodo giuridico e il concetto di diritto - per quanto oggi poco frequentati come tali, sono ineludibili. Nessun problema giuridico può essere trattato proficuamente senza una previa e consapevole presa di posizione su questi temi, così come nessuno può essere adeguatamente risolto, o almeno impostato, trascurando i principi e le costrizioni del metodo analitico. Questo insegnamento è uno dei lasciti principali di Scarpelli, insieme con la convinzione che le scelte di fondo su che cosa sia il diritto e come si possa o debba conoscerlo sono inevitabili e condizionano in modo pregnante il modo in cui affrontiamo anche i problemi giuridici più minuti. E bene perciò che tali scelte siano compiute in modo consapevole, che siano rese esplicite e puntualmente giustificate.

Non è necessario, in questa sede, riassumere il contenuto dei due lavo-ri. Del resto a ciò provvede in modo egregio l'articolatissimo sommario-riassunto che l'autore antepone alle due opere. Mi limiterò invece a poche notazioni, essenzialmente finalizzate a mettere alcuni aspetti del suo pensiero di quegli anni in rapporto con gli sviluppi successivi. Concluderò con qualche osservazione sullo stile filosofico di Scarpelli.

Dico subito che a mio parere c'è una stretta continuità tra queste due opere e la ulteriore produzione scarpelliana. Certo, quando ci si occupa dei lavori "giovanili"

di un autore incombe sempre il rischio di interpre-

tarli alla luce di quelli successivi, "maturi", per trovarvi una conferma delle tesi elaborate in seguito. Nondimeno, si ha la netta impressione di ritrovare nei due libri, per quanto talora elaborati in maniera un po' acer-ba, tutti gli elementi caratteristici della filosofia dello Scarpelli "maturo": empirismo, nominalismo, costruttivismo, normativismo. A mio parere la continuità riguarda anche le due idee più originali di Scarpelli, ossia ilprescrittivismo semiotico e la concezione politica del positivismo giuri-dico, che vengono invece di solito datate in corrispondenza ai già citati

Contributo alla semantica del linguaggio normativo e Cos'è il positivismo giuridico. In realtà, il superamento della teoria verificazionista del significato e il rigetto del giuspositivismo scientifico sono già presenti in queste due opere giovanili.

2. Tra idealismo e filosofia analitica

Negli appunti scritti per una relazione in seminario a Padova, da lui intitolati La mia meta-etica e la mia esperienza etica', Scarpelli illustra in questi termini il suo incontro con le correnti della filosofia analitica:

«Non è facile, oggi, comunicare il senso di scoperta e di liberazione che ci dava l'accesso a quelle filosofie, il gusto di pulizia e di onestà che ci procurava la loro castità concettuale, il piacere di un buon lavoro artigianale che ci fornivano le loro analisi pazienti, dopo tanta gonfia retorica e vuote generalizzazioni e discorsi autocelebrativi in maniera masturbatoria propri del fascismo e dell'attualismo».

Ma il nostro autore non era uomo da lasciarsi travolgere da facili entu-siasmi, nemmeno per un metodo filosofico di cui pure avvertiva le enormi potenzialità innovative, sia sul piano filosofico generale sia nell'ambito degli studi giuridici, terreno elettivo della sua indagine. Egli non era il tipo di studioso che si lasciasse accecare da una fede filosofica; si dedicava invece al lavoro meno eclatante del paziente scrutinio e della cernita degli argomenti, vagliati uno per uno, ciascuno nel proprio merito. Onde non stupisce che nei due libri qui riproposti, e specialmente nel primo, il suo atteggiamento verso la filosofia analitica sia caratterizzato da vivo interesse ma anche da prudente distacco critico.

In ambedue i libri la filosofia analitica è messa a costante confronto con l'idealismo, la filosofia che specie nella versione attualista ebbe tanta parte nella sua formazione giovanile'. Lo spazio notevolissimo de-dicato all'idealismo, specie nel lavoro del 1955, da un autore che ormai si era da esso irreversibilmente congedato, può essere letto in chiave psicologica come espressione dell'urgenza di fare i conti con le proprie radici filosofiche. Ma può essere letto anche in chiave filosofica, come espressione della esigenza, costante anche nelle sue riflessioni succes-sive, di mettere la filosofia analitica a confronto con accostamenti filosofici e correnti di pensiero pur da essa molto distanti (v. in proposito ancora infra, $ 4)"7.

Il nostro autore constata il declino dell'idealismo, ma lo fa senza troppi rimpianti, osservando che le sue acquisizioni positive si sono disperse ed è andato prevalendo un atteggiamento irrazionalista e, in filosofia del diritto, un distacco dai problemi del giurista. Tuttavia l'idealismo, a suo dire, non è interamente da buttar via: almeno nel pensiero dei suoi iniziatori se non degli epigoni, e specialmente in quello di Croce, vi sono aspetti positivi che meritano di essere salvaguardati, perché rappresentano altrettanti tratti comuni alla filosofia analitica.

Oltre a un«anima metafisica», in esso è infatti presente «un'anima mondana» (p. 133): «Il terreno su cui si muovono la filosofia analitica e la filosofia italiana idealistica e post-idealistica è in gran parte comune; è il terreno della filosofia moderna, della filosofia intesa come chiarificazione dell'esperienza dell'uomo nel mondo, come processo mediante il quale l'uomo acquista coscienza del proprio operare. Sono entrambe filosofie dalla parte dell'uomo» (p. 45, corsivo dell'autore).

Inoltre l'idealismo, al pari della filosofia analitica, si caratterizza per un approccio nettamente convenzionalista e strumentale al linguaggio e ai concetti. Esso considera «così il linguaggio descrittivo, impiegato dalle scienze della natura, come il linguaggio prescrittivo, su un piano prag-matico, comprendendo la loro funzione: consentire all'uomo di raggrup-pare, distinguere, classificare, mettere in rapporto i dati individuali dellasua esperienza mediante concetti astratti, grazie ad essi istituendo un ordine nelle proprie esperienze e nei propri comportamenti» (p. 146). Per Croce e Gentile gli pseudoconcetti e, rispettivamente, i concetti astratti sono «forme, la cui dimensione può essere variata». Anche in tema di definizione del concetto di diritto le convinzioni dei due filosofi sono an-tiessenzialiste e convenzionaliste. In sintesi, «l'idealismo italiano sblocca un complesso di posizioni filosofiche irrigidite su elementi che si può includere o non includere nelle definizioni, distoglie dalla ricerca di definizioni reali, rende possibile il controllo del linguaggio che viene dalla consapevolezza della natura della definizione» (p. 199).

Infine, Scarpelli fornisce una lettura benevola dell'idealismo (ma in questo caso solo di quello crociano) anche sotto il profilo del suo atteggiamento nei confronti delle scienze empiriche, e in particolare della sociologia, sottolineando che, benché di fatto abbia contribuito senza dubbio a screditare tale disciplina e ritardarne lo sviluppo nel nostro pa-ese, sul piano dei principi filosofici sia ingeneroso attribuire ad esso un atteggiamento distruttivo. Al contrario, la sistemazione crociana dei rapporti tra filosofia e scienza favorisce a suo avviso un affrancamento delle scienze sociali empiriche, e in particolare della sociologia, da assunzioni metafisiche e ipotesi ontologiche: «Rimane [...] al Croce il merito, importante nella cultura italiana, di considerare le scienze e la verità scientifica non entro una qualche metafisica del conoscere, ma nella loro funzione pragmatica nella vita degli uomini» (p. 223).

Insomma, Scarpelli ravvisa nell'idealismo aspetti da preservare, ma è chiaro che per lui è necessario ricollocarli all'interno di un quadro metodologico che sia accettabile e fecondo: il quadro, appunto, della filosofia analitica.

Egli osserva infatti che il contributo maggiore della filosofia analitica si colloca sul piano del metodo: gli strumenti apprestati da questa filosofia «nata nel cuore della scienza» (p. 43) consentono precisione, ordine e rigore, dunque sono funzionali a un approccio razionale ai problemi filosofici, e in questo senso possono dirsi «una manifestazione di spirito illuministico» (p. 44). Nei due libri il lettore noterà un ricorrente, quasi ossessivo richiamo ai valori del rigore e della chiarezza, che troverà evocati quasi ad ogni pagina. L'adesione di Scarpelli alla filosofia analiticasi spiega e si giustifica primariamente alla luce di quei valori; il metodo analitico è da lui visto fin da subito come l'unico che possa garantire

approccio fecondo ai problemi filosofici, perché consente di identificarli con nitidezza, di distinguerli da altri con cui vengono di solito mescolati e di affrontarli in maniera rigorosa. È evidente che per Scarpelli chiarezzae rigore sono valori non solo metodologici ma anche eticils: sono infatti strumentali alla scelta e alla responsabilità umana in tutti gli ambiti,


teoretici oltre che pratici. La filosofia analitica ha per lui una «funzione

illuministica» perché consente di «chiarire i presupposti ed i modi di svolgimento delle attività dell'uomo, rendendolo in tal maniera consapevole delle scelte e decisioni che ogni attività scientifica o pratica suppone ed implica; rendendolo pertanto consapevole della responsabilità che egli porta al riguardo» (p. 126). Non sfuggirà al lettore l'eco esistenzialista di queste parole, in cui l'autore riassume le sue propensioni costruttiviste, che non lo abbandoneranno mail°.

Nondimeno, Scarpelli avverte che «la filosofia analitica non è un indirizzo che possa essere sposato senza rilevanti riserve» perché è afflitto da «astrattezze e chiusure gravi» (p. 45), e segnala subito le sue insod-disfazioni, che si appuntano sul metodo analitico così come sviluppato dal positivismo logico della scuola di Vienna?. Sono tre i limiti da lui rilevati: a) la mancanza di una soddisfacente risposta al problema della natura della stessa analisi; b) la mancanza di una dottrina filosofica del valore e c) una teoria del significato troppo angusta. Esaminiamoli in breve uno per uno.

a) Il primo punto è solo abbozzato. Scarpelli cita le celebri parole che concludono il Tractatus di Wittgenstein, ove la filosofia viene liquidata come discorso privo di senso. Cita altresì la via d'uscita indicata da Russell nella sua introduzione al Tractatus, che rimanda alla teoria dei livelli del linguaggio e alla collocazione del discorso filosofico a livello metalinguistico; manifesta infine una misurata simpatia per il solipsismo metodologico di Schlick. Ma il problema verrà da lui affrontato sistematicamente solo alcuni anni dopo, in un saggio del 1958, in chiave nettamente costruttivista; qui il discorso filosofico verrà trattato come un metadiscorso i cui concetti e principi sono frutto di scelte convenzionali espresse tramite ridefinizioni e definizioni stipulative21b) Riguardo al «problema del valore», Scarpelli si avvede subito che la filosofia analitica, se può contribuire a impostare il problema del si-gnificato dei termini di valore e a distinguere nei discorsi valutativi tra questioni di linguaggio e questioni empiriche, non è in grado di dare criteri di scelta e di orientamento dell'azione: «Queste indagini [...] non esauriscono una dottrina filosofica del valore, non dànno un criterio di scelta, non rispondono alla domanda: ma in questa situazione, io, che devo fare? Per avere una tale risposta bisogna andare fuori della mera analisi linguistica» (p. 83). La filosofia analitica ci aiuta a costruire e con-trollare i discorsi etici, ma quali valori etici sposare e perseguire dipende da un atto di scelta individuale che in quanto tale ha natura extralingui-stica ed extralogica, ed è apprezzabile solo nel contesto della «situazione esistenziale» in cui ciascuno di noi viene a trovarsi. Dopo aver identifica-to quel limite, egli però aggiunge: «Ma per determinare il carattere della risposta; per chiarire la struttura ed il funzionamento del linguaggio in ordine ai comportamenti morali e giuridici; per evitare le suggestioni e i disorientamenti derivanti da usi linguistici non significanti e non logici; per illuminare insomma le possibilità della situazione esistenziale in cui la scelta deve avvenire, e la portata della scelta, l'analisi del linguaggio è strumento utilissimo, ormai necessario» (p. 83). Anche la prospettazione di questo momento di scelta è però questione che rientra a pieno titolo nella riflessione filosofica. Il limite del positivismo logico sta dunque so-prattutto nella sua pretesa di estromettere il problema del valore dalla ri-flessione filosofica, anzi, sta nella sua generale «guerra contro la filosofia» e nella convinzione di «avere distrutto ogni filosofia» (pp. 76-7): laddove, invece, conclude asciuttamente Scarpelli, esso fa filosofia senza saperlo.

Come si sa, nel prosieguo delle sue riflessioni sui temi della metaetica, della Grande Divisione e della Legge di Hume, il nostro autore giungerà a sostenere il carattere arbitrario della scelta dei principi fondativi di qua-lunque etica, nonché della scelta del criterio di scelta, ossia della stessa metaetica. Arbitrario solo dal punto di vista logico, s'intende, non neces-sariamente da quello esistenziale. E su questo aspetto delle sue riflessioni che l'influenza esistenzialista risulta più evidente e persistente??.

c) Il terzo limite della filosofia analitica è dato dalla concezione angu-sta del significato coltivata dal neopositivismo della scuola di Vienna, al quale egli fa costante riferimento specialmente nella prima delle due ope-re qui riproposte. Tale concezione del significato, nota come verificazioni-smo, è infatti ritagliata sul linguaggio della scienza ed è tale da escludere dall'orizzonte della significanza qualsiasi altro tipo di linguaggio: specialmente il linguaggio normativo dell'etica, della politica e del diritto - una rinuncia com'è ovvio impensabile per uno studioso come Scarpelli. Egli collega il disinteresse del positivismo logico verso i linguaggi diversi da quello della scienza all'inclinazione a privilegiare le dimensioni sintattica e semantica del linguaggio.

La via di fuga da questa «dogmatica limitazione neopositivistica della significanza al linguaggio delle scienze empiriche e delle scienze formali»

(p. 161), già nella prima e più decisamente nella seconda opera, viene ricercata negli contributi forniti dalla filosofia analitica britannica, ma soprattutto dal pragmatismo americano. Da questi indirizzi il segno linguistico viene infatti studiato «in relazione al comportamento di chi lo adopera e di chi reagisce ad esso, cercando di tenere conto di tutti gli elementi biologici, psicologici, sociali, storici, della situazione in cui il segno interviene» (p. 79).

Guardando all'uso effettivo dei segni linguistici nella comunicazione, nessuno potrebbe seriamente negare che anche il linguaggio prescrittivo esplichi una funzione: la funzione di guidare i comportamenti, che è poi la medesima del linguaggio descrittivo, salvo che nel caso di quest'ultimo si esplica solo indirettamente, per il tramite delle conoscenze che con esso si trasmettono. Ma questa funzione di guida non può essere ridotta a mera dimensione emotiva e a un gioco di meccanismi di stimolo e risposta: viceversa essa presuppone, per potersi esplicare, strutture di regole logiche e semantiche - strutture che è possibile analizzare come tali e, se del caso, rettificare per renderle meglio adatte agli scopi che lo studioso si propone?3

Dunque la via di fuga dal dogmatismo verificazionista viene ravvisata da Scarpelli nello studio della dimensione pragmatica del linguaggio. È proprio sul piano pragmatico che a suo avviso si può cogliere la differenza tra il linguaggio descrittivo e il linguaggio prescrittivo ed è possibile «vedere come sono usati, come esplicano la propria funzione» (p. 147).

Scarpelli trova un sostegno a questa prospettiva nei lavori di Carnap e Morris per l'Encyclopedia of Unified Science, che rappresenteranno un suo costante punto di riferimento anche negli anni a venire24.lato que a fase del sue celesto Sea peli ste ha và leto e asine

linguaggio diverso dal linguaggio scientifico possa essere superata senza porre in questione l'identificazione tra significato e metodo di verificazio. ne, ma semplicemente estendendo allo studio dei segni l'indagine prag-matica, da lui intesa come studio di «tutti i fenomeni psicologici, biologici e sociologici che intervengono nel funzionamento dei segni» (p. 166).

Più avanti, e segnatamente in Contributo alla semantica del linguaggio normativo, egli abbandonerà dichiaratamente il verificazionismo come teoria del significato e proporrà la distinzione tra un principio di significanza e un principio di verificazione?. In Semantica, morale, dirit-to, inoltre, egli muterà notevolmente la sua concezione della pragmatica, che distinguerà dalle discipline sociologiche e psicologiche concernenti il linguaggio e concepirà come studio di strutture e regole linguistiche, introducendo altresì la distinzione tra pragmatica prescrittiva e pragmatica descrittiva. Collocherà poi la distinzione tra linguaggio prescrittivo e linguaggio descrittivo sul piano semantico e non più pragmatico26. In Semantica, morale, diritto la semiotica scarpelliana troverà la sua sistemazione definitiva.

Ma è pur vero che nel libro del 1953, e in modo più netto in quello del 1955, sono già presenti tutti gli elementi che porteranno al superamento dichiarato del verificazionismo. Il nostro autore indubbiamente si professa verificazionista e giunge ad attribuire questa posizione anche a Hare.

Nel suo discorso si notano peraltro delle incongruenze: così da un lato egli afferma che gli enunciati «in tanto sono significanti in quanto sono verificabili o falsificabili» (p. 66), dall'altro lato sottolinea però l'esistenza di aspetti comuni alla logica e alla semantica di descrizioni e prescrizioni.

Tuttavia, nella sostanza i suoi argomenti esprimono una concezione del significato che è referenziale ma non verificazionista. Del resto, ciò risulta chiaro fin dalla definizione di "significato" da lui proposta: «Noi diremo significanti le espressioni linguistiche di cui si sappia a quali attuali o possibili dati di esperienza si riferiscano, in modo immediato o mediato»

(p. 144).

Nel corso degli anni neppure il suo modo di intendere l'analisi del

linguaggio ha subito mutamenti significativi.

Nel libro del 1955 egli osserva che «il metodo analitico non è, nellasua essenza, nulla di straordinario né di nuovo. L'esigenza di un uso proprio e corretto del linguaggio, secondo i significati e la logica di esso, è sempre stata sentita da tutti i seri hlosoh, come dagli scienziati» (p. 171).

Nondimeno, è evidente che per lui la filosofia analitica non si riduce a attività di chiarificazione del linguaggio e al perseguimento del rigore e della chiarezza nella trattazione dei problemi filosofici. Non è dunque l'attenzione per il linguaggio ad essere l'elemento qualificante del meto-do, ma il fatto che questa attenzione passi attraverso l'applicazione di una serie di principi e distinzioni filosofiche. I principi che caratterizzano fin dall'inizio il modo scarpelliano di fare filosofia analitica sono oggi ben noti, essendo quelli che proprio grazie a Scarpelli sono giudicati imprescindibili dalla cultura analitico-giuridica italiana, vale a dire la distinzione tra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo, tra enunciati analitici e sintetici, tra livelli del linguaggio e tra il contesto di scoperta e il contesto di controllo?

Fatta eccezione per la distinzione descrittivo-prescrittivo, a cui dedica molte pagine specie nel libro del 1955, Scarpelli non si ferma a teorizzare su questi principi, ma li mette direttamente in opera nella esposizione delle proprie idee e nella critica di quelle altrui. Solo per citare alcuni esempi alla rinfusa, si vedano: la critica a Moritz Schlick, accusato di confondere la logica con la psicologia della scienza; l'addebito a Del Vecchio di incorrere in una circolarità definitoria tra il concetto di azione e quello di diritto; l'accusa a Adolfo Ravà, di presupporre proprio quella distinzione prescrittivo-descrittivo che pretende di superare; il rimprovero a Kelsen di mescolare in tema di coercizione questioni definitorie con questioni empiriche; «la confusione di piani tra definizioni, problemi logici e fattuali, prese di posizioni morali e pratiche» (p. 190) in cui si irretisce Icilio Vanni. Ciascuna di queste critiche, sia detto per inciso, è un magistrale esercizio di analisi filosofica, condotto con ritmo serrato, godibilissimo e sempre altamente istruttivo anche quando verte su temi e autori ormai non più presenti nel dibattito odierno.Come si ricordava all'inizio, la riflessione di Scarpelli sul diritto è stata inizialmente molto influenzata dal saggio di Bobbio Scienza del diritto e analisi del linguaggio. Intorno ad esso ruota il libro del 1953, che ha come tema centrale proprio quello della scientificità della giurisprudenza. La scienza giuridica di cui ambedue gli autori parlano è naturalmente quella normativistica di stampo kelseniano. È nota la tesi di Bobbio: la giurisprudenza può essere considerata scienza nel senso del neopositivismo, nella misura in cui svolge il lavoro preliminare a ogni scienza, sia empirica che formale, lavoro che consiste nella costruzione di un linguaggio rigoroso. Vale la pena di riportare le sue parole: «La giurisprudenza [...] consta della parte critica propria di ogni sistema scientifico, vale a dire della costruzione di un linguaggio rigoroso [...] Ma proprio perché la sua operazione fondamentale consiste nella costruzione di un linguaggio rigoroso, cioè scientifico, essa è scienza al pari di ogni altra scienza empirica o formale. Le sue operazioni, insomma, coincidono perfettamente con le operazioni, o per lo meno con una parte vitale ed ineliminabile delle operazioni di ogni altra scienza, e senza la quale nessuna ricerca può pretendere di valere come scienza»28.

Scarpelli, in questa fase, dichiara di aderire all'impostazione bobbia-na, ma i suoi argomenti non sono interamente sovrapponibili a quelli di

Bobbio.

Intanto, egli mette in guardia dai pericoli legati all'uso del «titolo ono-rifico» di scienza per qualificare il lavoro dei giuristi, perché potrebbe in realtà mascherare operazioni inconfessabili e tutt'altro che legittime in un quadro genuinamente scientifico. Egli poi sottolinea a più riprese che la giurisprudenza per Bobbio non è una scienza formale e neppure una scienza empirica, e non gli sfugge l'importanza del riferimento che Bobbio fa al suo essere "fondata sull'esperienza": un aspetto a cui Bobbio

- fa notare Scarpelli - darà sempre maggior rilievo negli scritti successi-vi. Il giurista infatti si occupa non di un linguaggio quale che sia, ma di quello prodotto effettivamente da un legislatore. D'altro canto, lavora su proposizioni normative e produce proposizioni normative, ossia discorsi in cui dice non che cosa accade ma che cosa deve accadere; non descrive qualunque discorso di fatto prodotto dagli operatori giuridici, ma solo i discorsi che costoro devono produrre secondo le regole del sistema.

Questa è la sua conclusione: «Se per scienza intendiamo un com-plesso di operazioni di indagine dirette ad aumentare la conoscenza che l'uomo ha del mondo, tali cioè da rendere capaci di un maggior numero di previsioni, e più esatte, l'espressione "scienza" giuridica è impropria ed abusiva; benché rispetto al linguaggio-oggetto l'atteggiamento dei giuristi si possa definire, almeno tendenzialmente, conoscitivo, ciò che essi conoscono è un prodotto della cultura umana, un linguaggio, che poi non serve a fare previsioni, ma qualificazioni» (pp. 126-7, corsivo mio). Ciononostante, prosegue Scarpelli, qualificare come scienza un discorso rigoroso è più fedele all'uso comune: «Determinando [...] il significato di scienza in modo da ricomprendervi ogni attività dell'uomo che si svolga per mezzo del linguaggio, e sia disciplinata con regole e criteri rigorosi, la giurisprudenza, secondo il modello normativistico, ha carattere scientifico» (p. 126-7).

E evidente però che il suo richiamo all'uso comune è debole almeno tanto quanto la convinzione di Bobbio che il rigore sia condizione sufficiente di scientificità?. E infatti Scarpelli lo abbandonerà Come sappiamo, in Cos'è il positivismo giuridico egli negherà il carattere scientifico della giurisprudenza giuspositivistica proprio in ragione del divario tra essa e il modello neoempirista delle scienze formali ed empiriche. Abbandonato il "titolo onorifico" di scienza, a giustificare il lavoro del giurista non resterà che il rigore, o meglio i fini a cui esso è strumentale.

Il linguaggio giuridico, dice Scarpelli, è un universo chiuso e finito, identificato in base alla norma fondamentale, che può essere intesa come un assioma scelto, convenzionalmente ma non arbitrariamente, dal giuri-sta. Egli in questa fase non si avvede ancora che neppure una concezione costruttivistica della scienza (e quella di Scarpelli, come si è detto, lo è fin da subito) può tollerare siffatta chiusura precostituita dell'oggetto d'inda-gine. Del resto questo è proprio l'argomento con cui dimostrerà, nel 1965, che la giurisprudenza normativistica non è e non potrà mai essere una scienza: il campo d'indagine della giurisprudenza infatti non è, «come il campo di indagine d'una scienza empirica aperto al collegamento degli eventi studiati con ogni evento che apparisca sotto qualsiasi profilo rilevante in ordine alla spiegazione e alle previsioni. L'insieme delle norme poste dalla volontà degli esseri umani, in cui è identificato il diritto èassunto fra le esperienze attuali e possibili come un quid unicum, un dato assolutamente privilegiato»

Se il giurista identifica il proprio oggetto in base a un criterio con-venzionale, non si potrà più parlare di vera scienza giuridica. La giurisprudenza normativistica è perciò solo «una possibile scienza costruita su presupposti e su regole la cui scelta è, dal punto di vista della scienza stessa, libera, e consigliata da ragioni pratiche» (p. 125). Non consegue da ciò che la scelta della norma fondamentale abbia un carattere arbitrario:

«Vi sono gravi ragioni morali, politiche, pratiche, per scegliere un sistema di norme piuttosto che un altro, per scegliere una norma fondamentale individuatrice del sistema, piuttosto che un'altra norma fondamentale in-

dividuatrice di un altro sistema» (p. 96).

Non stupisce perciò che un capitolo del libro del 1953 sia intitolato

«Argomenti pratici in favore di una giurisprudenza come scienza» (corsi-vo mio). Qui egli osserva che «per giustificare o raccomandare il complesso di regole e di criteri di procedimento della scienza giuridica, occorre andare fuori dalla scienza giuridica. Gli argomenti che possono venire addotti hanno carattere pragmatico e politico, e sono in relazione con le nostre preferenze ed inclinazioni e con i nostri ideali morali e politici» (p. 123, corsivo dell'autore). La giurisprudenza dunque non si autolegittima; la sua giustificazione dipende semmai dagli obiettivi a cui il suo lavoro è strumentale e dalle modalità con cui esso viene condotto. Il giurista pre-para, accompagna e consiglia la legislazione e la giurisprudenza pratica dando qualificazioni di conformità e disformità e dichiarando dovuta o meno la sanzione. E se il sistema è efficace, ossia se operatori giuridici e cittadini si comportano così come devono comportarsi secondo le sue re-gole, allora il rigore delle operazioni del giurista contribuirà a realizzare gli ideali della certezza del diritto e dell'uguaglianza. La giurisprudenza normativistica è dunque per lui una tecnica, «la più efficiente tecnica»

(p. 227) per realizzare tali valori"!.

Alla fin dei conti, la difesa della scientificità della giurisprudenza fatta da Scarpelli nel 1953 è ben più tiepida di quella operata da Bobbio, anche se le conclusioni dei due autori finiscono per convergere 2: per entram-bi, alla fin dei conti, la giustificazione della giurisprudenza normativista dipende dal rigore delle operazioni che essa compie sul linguaggio giu-ridico.

Scarpelli in questa fase non ha tratto ancora tutte le implicazioni della sua idea, che il lavoro del giurista possa essere giustificato solo piano etico-politico e non su quello scientifico, ma ha già espresso con nettezza questa tesi. Alla interpretazione politica del positivismo giuridico risulterà decisiva, ritengo, la lettura de Il concetto di diritto di Hart; è proprio riflettendo su questo libro che egli maturerà la convinzione che neppure il principio di effettività possa valere come fondazione scientifica di una giurisprudenza normativistica.

Come si è appena ricordato, Scarpelli già nel 1953 giudica errato ritenere che «non siano possibili più sistemi di linguaggi giuridici diversamente costituiti, e in relazione più scienze giuridiche, più giurisprudenze, diversamente costituite, ma che nel diritto vi sia qualche costante fonda-mentale, che in relazione a tale costante vi sia la "vera" scienza del diritto, la "vera" giurisprudenza, della quale la teoria della conoscenza giuridica ha il compito di determinare l'oggetto ed i metodi» (pp. 87-8).

Uno decisivo sostegno a questa tesi viene dalla teoria della definizione elaborata nel libro del 1955. Questa si basa su due elementi: da un lato sulla critica alla equivoca categoria della definizione reale, dall'altro lato sulla distinzione tra definizioni lessicali e definizioni stipulative e sul ruolo privilegiato attribuito a queste ultime. In questa fase Scarpelli non concettualizza ancora le definizioni esplicative come categoria autonoma, limitandosi a raccomandare misura nell'uso delle stipulazioni linguistiche e a esprimere un prudente conservatorismo linguistico?. Ammette poi la legittimità di molteplici tecniche definitorie, soffermandosi in particolare sulle definizioni condizionali, giudicate più adatte a definire i termini che designano disposizioni. Sono tutti elementi che verranno ripresi nel libro del 1959 sulla semantica del linguaggio normativo, specie in sede di analisi di quella categoria di concetti giuridici che Scarpelli chiama qualificatori.

In questo lavoro, tali elementi gli servono però specialmente per smantellare i tradizionali accostamenti preanalitici al tema della definizione del concetto di diritto. «Non esistono la definizione e il concetto di diritto», esordisce il libro, ma esistono varie possibili definizio-ni; e la scelta tra esse dipende «dai fini a cui il concetto è per servire»(p. 131). Lungi dal porsi come problema di ricerca di una definizione rea-le, quello della definizione del concetto di diritto si pone dunque «o come problema lessicografico, ossia di accertamento del significato di "diritto" nel linguaggio di una data persona o di un dato gruppo sociale, o come problema di scelta di una definizione stipulativa [...]» (p. 182). Quest'ultima è la direzione privilegiata da Scarpelli.

Libertà definitoria non vuol dire, beninteso, licenza di chiamare diritto ciò che più ci aggradi, perché da un lato vale la cautela di non discostarsi dagli usi comuni ove non necessario, dall'altro lato si tratta di scegliere la definizione più adeguata ai fini che ci si propone, siano essi conoscitivi o pratici, e di giustificarla alla luce degli stessi. Scarpelli in questo libro mette l'accento sui fini conoscitivi, dichiarandosi interessato a formulare una definizione «capace di essere utile alle scienze giuridiche e sociologiche»4. Il fine pratico di tenere il diritto separato dalla morale per ragioni morali verrà da lui esplicitato solo successivamente'.

Da un lato dunque Scarpelli smantella le visioni ingenuamente oggettiviste del diritto, che lo raffigurano come un dato della realtà indipendente dai nostri atteggiamenti, dall'altro lato egli censura la altrettanto pericolosa pretesa di chi ne presenta la definizione come scoperta della essenza universale del diritto, in realtà occultando al suo interno le proprie opzioni personali. Oggi queste critiche per gli analitici rappresentano un luogo comune, ma sono diventate tali proprio grazie al lavoro

pionieristico di Scarpelli.La teoria scarpelliana della definizione, tuttavia, non è semplice prof

fessione di nominalismo; essa è infatti intimamente legata al costruttivismo di Scarpelli, ne rappresenta anzi un elemento essenziale, e lo colora in senso nettamente prescrittivo. Usare per il concetto di diritto una definizione stipulativa ci consente di «distinguere tra la questione della determinazione del modo di uso della parola e le questioni riguardanti i giudizi, filosofici o scientifici, che a proposito del diritto si formulano, e i criteri da impiegare nella formulazione di tali giudizi, favorendo così una discussione pulita e chiara, un pertinente impiego dei criteri» (p. 186).

Non è dunque solo questione di nomen juris; la stipulazione linguistica è semmai la modalità elettiva per esprimere e giustificare le inevitabili scel-te teoriche e pratiche su ciò che il diritto è e su come si deve conoscerlo e valutarlo; scelte che sono per Scarpelli costitutive dell'universo giuridico.

Anche su questo punto fondamentale il nosto autore non ha mai cam-

biato idea.

4. Questioni di stile

Non è superfluo soffermarsi, per concludere, su alcuni tratti dello stile che caratterizza i due lavori di Scarpelli qui presentati. Abbiamo a che fare in questo caso con elementi esteriori solo in apparenza, perché in realtà dicono molto sul modo scarpelliano di intendere e praticare la filosofia.

Innanzi tutto, è già di per sé eloquente il modo in cui i due libri sono strutturati. In ciascuno di essi infatti si giunge al cuore dell'argomento solo dopo un lungo discorso preparatorio che tocca temi filosofici generalissimi quali la natura del discorso filosofico, la conoscenza e la scienza, il rapporto tra linguaggio e realtà, e via dicendo.

Questa modalità di avvicinamento ai problemi, che va dal più generale al meno generale, è in effetti un tratto inconfondibile di tutta la produzione del nostro autore, ed è assai indicativa delle sue idee filosofiche intorno al diritto. Come si è già sottolineato, per lui ogni problema giuridico presuppone questioni filosofiche più generali e ad esso pregiudiziali, che vanno affrontate sempre in modo espresso e nell'ordine logico in cui si presentano: a partire dall'indicazione delle scelte filosofiche apicali, la cui chiara e previa enunciazione soddisfa il valore illuministico della pubblicità e controllabilità; le si chiarisce e giustifica, in primo luogo a se stessi, e le si sottopone allo scrutinio altrui.

Un secondo aspetto dello stile di Scarpelli che è importante sottolineare riguarda il suo atteggiamento in rapporto alle idee dei propri interlocutori e antagonisti filosofici. Si è già detto della cautela con cui egli si avvicina inizialmente alle tesi analitiche e dell'attenzione privilegiata che continua a riservare all'idealismo. Lo stesso atteggiamento di apertura Scarpelli ha sempre manifestato verso correnti di pensiero e autori pur lontanissimi dal suo modo di fare filosofia e spesso non più alla moda.

Questo perché, come egli osserva, «nessun uomo, nessuna scuola ha il monopolio della verità, a tutti gli insegnamenti occorre accostarsi con buona volontà e rispetto, perché vi può essere qualcosa o molto da impa-

rare» (p. 133).

Non si tratta però di ecumenismo, ma del primato dato alla sostanzadegli argomenti, al di là della cornice filosofica in cui si innestano. Anche sotto questo profilo Scarpelli ha sempre applicato in primo luogo al suo stesso modo di fare filosofia le costrizioni e i principi del metodo anali-tico. Primo fra tutti il metaprincipio che impone il vaglio critico di ogni argomento giudicato degno di attenzione. Una volta scoperta l'impossibilità di fondare non solo l'etica ma anche la scienza, il confronto tra le proprie tesi e quelle altrui diviene imprescindibile.

Infine, il modo in cui Scarpelli si misura con altri autori e correnti di pensiero è sempre improntato a un atteggiamento di carità interpretativa.

Egli non ridicolizza mai il suo interlocutore, si guarda bene dal fornire caricature dei suoi argomenti e, al contrario, cerca di offrirne una ricostruzione fedele presentandoli nella loro luce migliore, cosa che riesce a fare sempre con lucidità e sintesi mirabili. Anche tale atteggiamento contribuisce a spiegare perché Scarpelli non abbia mai liquidato completamente le filosofie che influenzarono la sua formazione e abbia continuato a trovare in esse, viceversa, aspetti accettabili e persino integrabili nella filosofia analitica.

Ma sarebbe un grave errore scambiare questo suo atteggiamento per mancanza di nerbo teorico. E difatti, una volta che la tesi con cui interloquisce è stata esposta, di solito arriva presto la rasoiata analitica: ad evidenziarne, per esempio, la circolarità o l'inconsistenza interna oppure a mostrare che è fondata su presupposti sbagliati o ancora che è al più recuperabile in tutto o in parte ma a patto di inserirla in una cornice completamente diversa. Si possono richiamare al riguardo gli esempi già menzionati (sopra, $ 3). Come ulteriore esempio, si veda la sua critica dell'istituzionalismo, di cui Scarpelli respinge la pretesa di porsi come concezione alternativa al normativismo. A suo avviso l'istituzionalismo potrebbe semmai candidarsi al ruolo di concezione pragmatica del dirit-to, ma a patto di superare le incertezze metodologiche che lo affliggono.

La benevolenza si coniuga qui, come altrove, con la critica implacabile: garbato ma deciso, il suggerimento all'istituzionalismo è di darsi finalmente un metodo e in buona sostanza di trasformarsi in sociologia del

La carità interpretativa è anch'essa per Scarpelli un principio filoso-fico, o se vogliamo un metaprincipio che orienta l'applicazione dei principi della sua filosofia analitica. Principio anch'esso volto alla ricerca dell'argomento migliore. Mi dilungo su questo punto perché il dibattito contemporaneo, specie nel mondo angloamericano, sembra avere obliterato la carità interpretativa: come attesta il fatto che fiumi d'inchiostro sono stati versati e fortune filosofiche edificate su fraintendimenti tropposmaccati per poter essere considerati semplici infortuni interpretativi. Far leggere Scarpelli alle nuove generazioni di studiosi ha perciò anche un non trascurabile valore pedagogico.

Avvertenza

Nella presente riedizione ci si è limitati a correggere i (rari) refusi e a uniformare l'accentazione delle parole agli standard correnti. Inoltre, per ragioni redazionali, la numerazione delle note all'interno di ciascun capitolo di Il problema della definizione e il concetto di diritto è stata parzialmente modificata rispetto all'originale.

È bene avvertire il lettore che in Filosofia analitica e giurisprudenza

Scarpelli usa il calco dall'inglese "sentenza" (sentence) per indicare quello che correntemente, e da lui stesso in Il problema della definizione e il concetto di diritto, viene denominato "enunciato".

Sempre nella stessa opera, Scarpelli adopera "definizione reale" come sinonimo di "definizione lessicale" e "definizione nominale" come sinonimo di "definizione stipulativa". Come egli stesso avverte in Il problema della definizione e il concetto di diritto (p. 183), questa terminologia è stata da lui abbandonata, anche dietro sollecitazione di Hare, perché potenzialmente foriera di equivoci.

Di seguito sono elencati i principali scritti su Scarpelli. Una bibliografia degli scritti di Scarpelli si trova in Filosofia analitica 1993, a cura di P Donatelli e L. Floridi, Lithos, Roma 1993.Una bibliografia aggiornata alle pubblicazioni postume si trova nella voce su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Uberto_Scarpelli, origin

nariamente redatta da S. Zorzetto nel 2007.

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