Grice e Gaetani – L’implicatura di Catullo -- APVD
NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi Speranza (Martano). Filosofo italiano. Grice: “I like Gaetani,
for one, he is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he
philosophised on the ‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!”
Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina Chiriatti. La famiglia
Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche quello dei Laurenzana, di
cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del movimento radicale. L'insegna
araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo forgiato di due strisce blu
ondeggianti che lo attraversano in senso trasversale. I Gaetani, prima Caetani,
vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio VIII.
Il padre, Carlo, avvocato, fu ripetutamente eletto tra le file dei
radicali nel Consiglio comunale di Napoli. Da Napoli attiene, fino a tutta la
Grande Guerra, alla cura del patrimonio fondiario in Martano, acquisito dal
matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si era trasferita a Napoli dopo l'uccisione
del facoltosissimo padre Paolo, nell'ambito di una torbida vicenda che vide
infine coinvolta la madre di lei, Maria Fortunato, quale mandante, assieme al
prete Mariano, dato che i due erano in tresca. Diviso il patrimonio tra le due
figlie Giuseppina e Paolina Chiriatti, e la madre stessa, vennero iniziati i
lavori di costruzione del palazzo Chiriatti-Gaetani. A Palazzo
Chiriatti-Gaetani la famiglia venne a dimorare mentre man mano la gestione
delle fortune familiari passava in capo a Gaetani, che si impegna in un'ardua
opera di bonifica e di razionalizzazione colturale, culminata con l'acquisto di
diversi macchinari ad alta tecnologia. E però proprio il malfunzionamento
dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione dell'acqua dai pozzi, bene
capitale nelle aride campagne della zona, a determinare l'infiacchimento del
capitale di famiglia e il progressivo indebitamento verso il Banco di Napoli,
che culmina con la fine del fascismo.
Frattanto Gaetani, che si
fregiava del titolo di duca, a seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli,
Leopoldina, si dedica alla filosofia, mentre, del resto, ebbe a ricoprire la
carica di Provveditore a Potenza. La sua filosofia e ispirata dalla Francia,
della che fu un grande amatore, nonostante il fascismo e nonostante la sua
adesione al regime, che ad un certo punto ne impedì la circolazione in Italia.
Crociano, segue lo schema tracciato dal maestro, mentre l'ultimo ricordo della
natia Martano fu un canto dedicato alle tradizioni grike, di cui raccomandava
appassionatamente la conservazione e il culto.
Nei giorni furenti che precedettero il Referendum istituzionale appoggiò
in pubblici comizi la Monarchia, e per questo pagò dazio dovendosi allontanare
all'indomani del voto e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari. Altre saggi: Villon (Napoli); “Un carteggio
inedito di F. Bozzelli (S. Gaetani, F.B ozzelli), L'Aquila, Masseria, Martano
(Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il Torraca,
Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del rosso: commedia
in tre atti, Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo Bellincioni,
Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel Tempio,
nella scuola, negli studi: ), Lecce, “Ricordi di Benedetto Croce, Napoli); Vicende
tipi e figure del Casino dell'Unione, Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e
ricordi, Milano-Napoli); Apud Neapolim..., Napoli); Fonti storiche e letterarie
intorno ai martiri di Otranto, Napoli. "Catullo" rimanda qui.
Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua). Sirmione,
busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus,
pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, 84 a.C.
– Roma, 54 a.C.) è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle
passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo
Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei
componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e
degli Alessandrini in generale. Indice 1Biografia 1.1Origini
familiari 1.2Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria 2Opera 3Il mondo
poetico e concettuale di Catullo 4Note 5Bibliografia 5.1Rassegnebibliografiche
5.2Traduzioni italiane 5.3Commenti 5.4Studi 6Altri progetti 7Collegamenti
esterni Biografia Il busto di Catullo presso la Protomoteca della
Biblioteca civica di Verona. Origini familiari Catullo da Lesbia, dipinto
di Lawrence Alma-Tadema (1865). Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata
famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella
Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare
in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto
concerne gli estremi cronologici della sua biografia, San Girolamo[2] pone l'87
a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica
che appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi
carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a
console di Pompeo[3] e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è
maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C.,
dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni. Trasferimento a Roma,
vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale, si suppone intorno al 61-60
a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani,
conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio
Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto
lusinghieri, con Cesare e Cicerone; con una ristretta cerchia d'amici
letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e
solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante il suo soggiorno
prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno
Clodio, tale Clodia.[5]. Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo
letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara
a Catullo e proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina
d'anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma
anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque,
alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultimo carme
che Catullo scrisse all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene
citata la spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi emerge,
inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un
giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie
volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul
lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo
fascino ameno, situato nella sua terra di origine e che per questo induceva al
poeta distesi periodi di riposo. Nel 57-56 a.C.seguì Gaio Memmio in Bitinia: in
quella circostanza andò a rendere omaggio alla tomba del fratello situata nella
Troade. Quel viaggio non recò alcun beneficio al poeta, che ritornò senza
guadagni economici, come sperava al momento della partenza, né la lontananza
riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza e
dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti. Fu tuttavia una nota positiva
la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme
101 (a cui si ispirò in seguito anche Ugo Foscolo per la poesia In morte del
fratello Giovanni). Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica,
anzi voleva fare della sua poesia un lusus fra amici, una poesia leggera e
lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo[6].
Disprezzava infatti la politica di allora, dominata da politici corrotti che
servivano soltanto il proprio interesse: riteneva dunque che favorire l'uno o
l'altro non significasse niente di meno che aiutare l'uno o l'altro a
perseguire il suo vantaggio personale. Tuttavia, seguì la formazione del primo
triumvirato, i casi violenti della guerra condotta da Cesare in Gallia e
Britannia, i tumulti fomentati da Clodio, comandante dei populares, fratello
della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Marco Tullio Cicerone, che
verrà da lui spedito in esilio nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di Lucca
e il secondo consolato di Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52 dove,
per usare le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica
si fa disprezzo per la vita stessa": (LA) «Quid est, Catulle? quid
moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat
Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori?» (IT) «Che c'è, Catullo?
Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso, per il
consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»
(Carme 52) Opera Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Storia della letteratura latina (78-31 a.C.). Marco Antonio
Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554.
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber
(Catullo). Il liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva
concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo
stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha
diviso il liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i
carmi da 1 a 60, sotto il nome di "nugae" (letteralmente
"sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri
giambici; i carmi da 61 a 68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta
alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi dal 69 al 116
sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci. Il
mondo poetico e concettuale di Catullo Il poeta Catullo legge uno dei
suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi
uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè
"poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica
alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo
stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta
a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità
(in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla
qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli
antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e
quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto
che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore
solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara
nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque
gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani»
(traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse
per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia:
«nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di
andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da
questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita
e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari
dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito,
Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia
erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti
latini. Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè
"levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente
elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche
peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ,
con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario
della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni
profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando
pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e
tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di
Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici. Il carme
66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma
di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una
raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica,
linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo
un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa. Note ^
Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ Chonicon, ad annum. ^ Carme 113, 2. ^ Carmi 11,
12; 29, 4; 45, 22. ^ Secondo un'indicazione di Apuleio nell'Apologia, 10, la
donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova nel 59 a.C. di Quinto Metello
Celere, sicché si può pensare a Clodia. ^ Al riguardo si veda il carme 93: «Nil
nimium studeo, Caesar, tibi velle placere / nec scire utrum sis albus an ater
homo» - «Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere se tu sia bianco
o nero». ^ Eccezion fatta, forse, per i carmina 63 e 64. ^ Morelli Alfredo
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B. Koziou-Kolofotia (a cura di), Modern Greek folk songs and history, pp.
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Modifica su Wikidata Opere di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo
(altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata
(EN) Opere di Gaio Valerio Catullo, su Open Library, Internet Archive. Modifica
su Wikidata. Opere di Gaio Valerio Catullo, su Progetto Gutenberg. Modifica su
Wikidata (EN) Audiolibri di Gaio Valerio Catullo / Gaio Valerio Catullo (altra
versione), su LibriVox. Bibliografia di Gaio Valerio Catullo, su Internet
Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Gaio
Valerio Catullo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Il Liber di Catullo
tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it. Il Liber di Catullo con
concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le grotte di Catullo, su
smugmug.com. URL consultato il 1º maggio 2019 (archiviato dall'url originale il
9 luglio 2009). Scansione metrica del Liber di Catullo, su rudy.negenborn.net.
La Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci, su
digilander.libero.it. Il carme 64: traduzione di Alessandro Natucci (PDF), su
classiciscriptores.weebly.com. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Letteratura Categorie: Poeti romaniRomani del I
secolo a.C.Nati nell'84 a.C.Morti nel 54 a.C.Nati a VeronaMorti a RomaGaio
Valerio CatulloEpigrammistiValeriiPoeti italiani trattanti tematiche LGBTSalvatore
Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura di croce. Croce,
Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Grice e Gagliardi – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Marino). Filosofo italiano. Grice: “I like Gagliardi; I spent some
time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow, Gagliardi shows why the
Angles prefer physician – since ‘medicare’ is such a trick!” – Grice:
“Philosophically interesting bit is that Gagliardi applies ‘medico’ and qualifies
it with ‘morale’!” –Nacque a Marino, feudo dei Colonna, nell'area dei Colli
Albani, come riferisce lMoroni nel suo Dizionario di erudizione, e come
riferito dallo stesso Gagliardi nel in "L'idea del vero medico fisico e
morale formato secondo li documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In
effetti, il cognome Gagliardi esiste all'epoca a Marino ed è tuttora
tramandato. Fu impegnato in ricerche morfologiche, microscopiche ed anatomo-patologiche
a proposito delle ossa, compiendo importanti scoperte in questo campo: in “Anatomia
delle ossa illustrata con le nuove scoperte", Roma) descrisse per primo la
struttura lamellare delle ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche
comparative tra le ossa umane e quelle del vitello. Descrisse probabilmente per
primo un caso di tubercolosi ossea. La sua opera fu piuttosto lodata, e l'
“Anatomia” fu ristampato. Fece importanti studi sul "mal di petto". Filosofa
sull'educazione morale. Diede anche ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e
fornì alcuni suggerimenti deontologici.
Abitava nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe Oscure. In
questa strada un suo servo fu ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le
villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo Gagliardi
ha il privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un
titolo nobiliare, ma non sappiamo quale.
I suoi lavori, conservati nelle maggiori biblioteche di Roma, rivestono
un particolare interesse se anche duecento anni dopo la loro scrittura, il
vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata, diede alle stampe
una lettera inedita del Gagliardi sull'itterizia. Si ha svolto un proficuo lavoro
di ricerca su Gagliardi, scoprendo anche una firma del medico in margine ad un
saggio discusso all'Università La Sapienza.
Altre opere: “L'infermo istruito nelle scuole” (Roma); “Consigli
preventivi e curativi in tempo di contagio dati in forma di dialogo” (Roma); “Relazione
de' Mali di Petto che corrono presentemente nell'Archiospedale di Santo Spirito
in Sassia” (Roma); “L'educazione morale” (Roma). “Come sopra l'influenza
catarrale che presentemente regna in Roma e Stato ecclesiastico” (Roma). Note: Si
veda l'annotazione di “Due baiocchi” in "Castelli Romani", Bossi,
Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia TreccaniGagliardi, Domenico, Luciano
Sterpellone, I protagonisti della medicina, Girolamo Tiraboschi, Storia della
letteratura italiana, Lucarelli,
Domenico Gagliardi, Giornale de'
letterati d'Italia, Guillermo Olagüe de Ros, La "Relazione de' Male di
Petto" en el ambiente anatomo-clínico romano, in Dynamis: Acta hispanica
ad medicinae scientiarumque historiam illustrandam, Gaetano Moroni, Dizionario
di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, Tipografia Emiliani, Antonia
Lucarelli, Memorie marinesi, 1ª ed., Marino, Biblioteca di interesse locale
"Girolamo Torquati", Ordinamento universitario dello Stato Pontificio
Tubercolosi ossea Domenico Gagliardi, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1
te cose senza profondarvi in alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più
capaci di fare maggiori progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore
delle vostrej operazioni di quel saggio avvertimento feftina lente:
Esplorerò dunque con private conferenze l'animo di ciascun di voi
separatamente, per meglio accercarmi di ciò,che vi farà bisogno , non potendo
il Medico dare ajuto al suo Infermo s se prima non avrà ben conosciute le
cagioni del suo male, e spero in oggi; e domani di potere ricavare da voi ciò,
che sarà più necessario, ch'Io sappia, per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora
à fare il privato esame, per potere Lunedì prossimo dar principio alle nostre
Giornate. [ocr errors][merged small] [merged small][merged small][ocr
errors][merged small] M Nella quale si moftra cofa fi ricerchi
d'eljena ziale per efere Medico je ciò, che
gli rechi ornamento . Avveddi jeri dal vostro parlare;
che non siete tutti voi di genio uniformi,perche conobbi
bene, che tal'uno di voi non restava persuaso, & altri più ; ò
meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo, che ciò possa nascere
dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, & animofe. Quindi è,
che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo necessario di
premettere una breve partizione delli vostri ingegni, à fine di regolare
ciascuno di voi secondo la propria capacità : Ecer tamente , conforme
nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno sarete
differenti, cioè, che non avrà ciascuno di voi la medesima capacità, &
apertura di mérite ; il medesimo talento, ē spirito, la medesima memoria , e
ritentiva , & il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò
suppofto, io non potrò con la medesima misurd, e regola mostrare à tutti voi
ciò, che vi converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri
Medici. Dunque mi converrà necessariamente dividere left fenziale
dall'ornamento, perche l'effenziale dovrà competere egualmente à voi, che fiete
di mente più sublimi, che agli altri d'inferiore capacità : L'ornameiro poi,
perche non potrà competere egualinente , nè potrà essere in tutti voi uniforme,
bisognerà regolarlo fecondo la propria capacità, e genio di ciascuir di
vois con pensare al modo, che poffino l'ingegni inferiori uguagliare per altra
via ancora nell'ornamento li più subliini ; E ciò servirà primieramente per
dare un'ottima direzzione alle menti di maggior capaci. tà, in farli
conoscere ciò, che si debba di elli premettere d'essenziale , per poscia
potersi avanzare in quello di più, di cui saranno capaci. In secondo
luogoperche non si confondano, & avviliscano le menti meno sublimi, anzi
per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire con l'Arte al di, fetto di
Natura, Certo, che ognuno di voi deve avere il medesimo fine, cioè di divenire
Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri incaminarsi per la medesima strada,
e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo in, tento ; Mà perche chi si trova
in forze maggiori trà voi è portato facilmente dal suo spirito ad uscire dalla
careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi un caso, che dia un buon
regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente : Vi fia trà voi chi
posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e che voglia
ciascuno per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad d'avere il medesimno
uso, e la medefima fruto struttura, certo è, che li fondamenti
converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà alzarsi eguale, le
stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili, altrimenti non avrà la
medesima struttura. In idearsi queste case non potrà l'Architetto eccedere la
spesa di due talenti, altrimenti non potria senza indebitarsi compire la sua
fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si dolerà facilmente con
l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia delineato fabrica più
sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio, che litalenti vi
avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato, e così la vostra
farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli due talenti vi
dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da spendere per
ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al pari delle
altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il modo per
far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per
vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole
dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che
avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più
del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri;
con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi
la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non
potendola in tutto compire per renderla usuale? Tanto peggio seguirà in
voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che
dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi
rimarria affatto infruto tuosa, Altro inconveniente ancora potrid fascere
si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti
qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le
vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella
apparenzas fatta [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò
che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono
fallire. Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina
Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere , e nella medema conformità,
affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se
in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete
stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con
tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà
divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci,
meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in
questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere,
& imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono
nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di
pensieri,d'ideese di modi con tutto che la 7 verità delle cose sia
una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi
Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ
hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che
quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare
l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una
pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in
conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri
Compagni , li quali à cagione della maggiore attenzione, che hanno in
apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e
la loro pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al
parere di Cicerone : (6) Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ; &
Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia care
ad altro , allora che prendete lame pra(a) Comment 1. Aphorism. 1. ex Lecuno
in Epit, (6) Cicero pro Cornel. Balb. 1 [ocr errors] pratica, che à
quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati per Ja Notomia,
e per la Boštanica, Perfezionati, che farete in detta, pratica , &
appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare, allora converrà
di ornarla di altre cose , che abbiano correlazione con la Medicina , secondo
il proprio genio , e capacità, con fermo proponimento però , che non vị abbiano
da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò, che auete con li
propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe appreso per ornamento
non l'avrete da profeflare come negozio principale, altrimenti vi distoglierà
da quello , che avevate già acquistato dị buono nella - Medicina, ma sopra di
cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto Questą praticą, appunto
acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e diligenti osservazioni fatte
intorno li Malati è quello , che fi ricerca d'essenziale nel Medico , &
oltre di questa ogn'altra cosa, che s’acquisterà di più gli servirà d'ornamento
maggiore : Che sia così,per consolazione di yoi, che siete d'ingegni meno
sublimi, yeniamo alle prove. La prima sarà con l'autorità d'Ippocrate
chiara , e testuale ; Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām mihi tota inventa
ese videtur, quæ fic comparata eft, ut fingulas, da consuetudines , temporum
occasiones doceat. Qui enim hoc pactó Artis Medicæ cognitionem habet , is
minimum ex, fortuna pendet , fed & citrà fortunam, çum fortunâ rectè eam
adminiftrabit ; Firma enim eft Ars tota Medica , cjusque prçceptiones , ex
quibus conftat dr. Consistendo dunque tutta la Medicina in sapersi ciò,
che sia solito à farsi, e le congiunture de' tempi, nelle quali fi deve
operare, queste chi meglio di voi le potrà sapere, avendole con li yostri
propri occhi più volte osservate? e bastando ciò per bene medicare, secondo la
dottrina d'Ippocrate, sarete dunque , mediante la vostra buona pratica, allora
già divenuti Me(a) Hippocr. in lib. de loc. in bom.nesa Medici; E
fe poi desiderate sentire sopra ciò più chiaro parere d'Ippocrate , legge. xe
De decenti ornatu, dove così vi parla ; Sint cu in memoria tibi morborum
curatio. da harum modi, quo multipliciter, quomodò in fingulis fe habent;
bọc enim principium eft in Medicina , medium, & finis = che sono appunto
questi il costitutivo del. l'essenziale: Sia all'oppofto tal'uno ornato
di tut, te le scienze, nià che non abbia acquistato ancora in Medicina una
buona pratica , questi non si potrà dire con tutte le sue scienze Medico
pratico, perche non saprà ben mcdicare, e gl'accaderà per l'appunto, ciò, che
succederia ad un'insigne Geo. grafo se volesse viaggiare senza la guida ,
queiti nelli bivj, ò trivj sbaglierebbe la strada , per non averne la buona
pratica , e con tutto , che possedeffe la situazione di tutto il mondo, in un
piccolo tratto di paese si smarrirebbe; Mà tutto questo con Pesempj più chiari
ve lo farò costare, Tralasciando di riferirvi un lungo Catalogo de'
Medici , che hanno scritto in fola sola Medicina pratica, e che
fiorirno con gran lode, mentre vissero, senza effere ornaci d'altre scienze,
perche lo potre te, volendo, con li vostri proprj occhi rincontrare , leggendo
i loro libri ; Vi riferirò solamente alcuni casi accaduti à Medici, ch'avevano
appreffo di noi molta ftima', per essere versatiliminella buona pratica di
medicare, e si poteuano annoverare trà quelli, di cui parla, Ippocrate nel
libro De Arte : Viri hujus Aricis periti , re ipfi lubentiùs, quàm vero bis
demonftrant ; li quali vennero al cimento con Medici di maggior grido di loro
nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì . Gio: Giacomo Baldini ne fù
uno di questi , il quale efsendo folamente un buon Pratico, e dotato
d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui guadagni molto invidiato da
alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte scienze superiori di gran lunga
à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto con due Medici delli più celebri
nella facondia, 1 B с рiй e più versati in molte altre
scienze,e per tal cagione poco conto facevano di lui; Ora questi avevano già
premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine, che meglio comparisse à
tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la poca sufficienza, &
infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì lunghi li sudetti eruditiffimi
ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose fuori del propofito, che in vece
di dilettare annojarono tutta l'Udienza, & avvedutofi di ciò il buon
Pratico, in vece di gareggiare con loro nell'eloquenza , fece un breve di.
scorso, mà tutto indirizzato all'urgente bisogno, conobbe meglio degl'altri il
male, lo confermò con l'autorità puntuale d'Ippocrate, fece il suo pronostico
mortale, che si verificò in breve, venne alla cura , propose alcuni rimedj, e
terminò il consulto con applauso uniuersale di tutta quella nobile Udienza ,
diccndo : : mo, che ha discorso à proposito, e se ne partì tutto
contento, e consolato. Gio [ocr errors][merged small] 1
1 Giovanni Tiracorda già in questo Archiospedale degnissimo Decano, che
nella pratica Medica aveva quei bei lumi, che felicirano le cure ardue , si
abbattè in un consulto con un Medico catedratico eruditissimo nelle lingue , c
Greca in ispecie, nelle Matematiche, ed ancora nella Teologia ; L'Infermo era
Oltramontano y poco prima giunto in Roma , che li ainmalaffe, ed in tempo di
aria sospetta, il' di cui male fù creduto dal sudetto eruditiffimo Professore
eflere una febbre etica , e con tali, erante ragioni s'ingegnava di provarlo in
ispezie per il pollo basso che aveá, che fariano per certo bastate à formarne liga
gran ležzione in cattedra. In tanto il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire
ciò, che conosceva non potersi in modo alcuno verificare, e dovendo egli
concludere , con breve discorso fece capire essere il male del povero
foratieri) una febbre maligna,e di pelimo costume, che se presto,e validamente
non era foc corso farebbe morto, disse ciò, che con veniva B2
[ocr errors] veniva farsi con sollecitudine, e l'esito funesto, in breve
seguito , ne fù il Giu- dice, chi di loro avesse meglio conosciu-
to il male, Riferirò per terzo ciò, che seguì ad Antonio
Piacenti mio Maestro, la di cui perizia nel ben medicare è nota , per via vere
ancora molti, che furono da effo ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per
essere io interessato , non m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò,
che facciano altri quella giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano.
Questi ebbe occasione più volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto
grido, per le varie scienze, che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò
era feguitato, ò volendosi fare diversamente per lo più si sbagliava;
Accadde una volta nella cura di un'Infermo, che pativa di un male graue di
testa, creduto da esso procedere da pienezza d'umori viziofi, che nel basso
ventre dimoravano, c per ciò gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si
oppose chi era versato più di luiin altre scienze fuori della pratica
medicinale, con il motivo, che l'evacuazione glavria inolto pregiudicato.
Stette egli faldo nella proposta già fatta, quale fù esaminata da altri
Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù, l'efito moftrò d'onde procedeva il
male, e chi l'aveva meglio accertato, posciache mediante l'evacuazione ne
rimnase libero. Due gran motivi si poffono dedurre dalli riferiti casi,
uno di confolazione per voi, che non avete genio ; ò abilità all'acquisto di
altre scienze, vedendo, che nella vostra sfera pratica; abilitati che sarete ,
potrete ftare à fronte con quelli di più letteratura di voi, purche abbiate
prudenza , e giudizio in sapervi ben regolare; e l'altro servirà d'avvertimento
à voi d'ingegno più perspicaces che desiderate apprendere tutto lo scibile, à
non fidarvi folamente sù quello, ch'è ornamento Medico, dovendo ancor voi
poffedere Fondatamente, al pari degl'altri, quella buona pratica Medica, ch'è
la direttrice del ben curare, senza [merged small][ocr errors] la quale
sono inutili tutti gl'altri ornamenti: Consolatevi però ancor voi, che bramate
d'apprenderli : perche quando saranno uniti alla buona pratica, vi ferviranno
ancor'elli di scorta, e vi faranno divenire eccellenti Medici, & in prova
di ciò non vi mancano esempj di cafile, guiti, che fanno conoscere quanto
accrescano di chiarezza alle nostre menti le Filosofie sperimentali, la
Ģeometria, l'Aftronomia, & altre scienze, che porfono avere correlazione
con la Medici. na, mà per ora potrà bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che
scrivendo à Tel, Lalo gli notificò: Geometria mentem acuit, e longè
Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere, Aquis, & locis ; Ad Artem
Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed plurimum poteft conferre ; Ben'è
vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft adire Corintum , perche tutte
queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à quel segno, che conviene, cnon
più oltre non a ricerca minor prudenza di quella, che aveva il Re Mitridate iu
reggere un Coco [ocr errors] Cocchio tirato da bravi , e numerosi
de strieri, altrimenti andandosene tutte in pampani , e fiori, che non legano,
produrranno pochissimo frutto, quantuns que fosse vaghiflima la loro prima ap.
parenza. Sicché parmi d'avervi à bastanza mostrato , che l'essenziale del
Medico non consiste in altro, che nella buona, e soda pratica acquistata
mediante le re. iterate osservazioni di ciò, che fiegua nelli progrefli
de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia tutto ornamento. E da questo
si possono comprende reli gran vantaggi, che necessariamente nel ben medicare,
non solamente li Gio. uani Praticanti, & Aliftenti ne riportano dalle
continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali ove sono numerosi
gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi esercitano, potendo
questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in lunga serie di
anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel medicare,
conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa. E
finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che
ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti
assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria
capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che
meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani,
venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace
deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e
mortificazione infieme. [ocr errors][merged small] [blocks in formation]
Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben
confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo
la propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è
ornamento. Mi : I dispiace nella Giornata
di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus
feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me
rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati,
mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene. Ditemi di grazia
à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi
risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la
prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più
spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe. daledale, confabulando
trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere
pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più
tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci
inutilmente il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria
infetta, chi non brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada
in aria migliore, e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e
non mi faccia cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente
daria à divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa
in conto alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da
principio vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li suoi foldati,
che non aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula ta
vidi Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò
direfin'ora di voi: Multa vidi discipulorum [ocr errors] corpora , fed
difcipulum vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi
soldaţi le parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno
susseguente Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire
ad operare con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa
perche non sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione,
oltreche recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi
sbrigherete, e con miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica
Medica, à cui devono indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di
mia somma consolazione. Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà
di mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche,
con le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge
d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo
aver detto: (a) I* Hippocratis lige : detto: Institutionem à puero
fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint
, facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ
facris initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò,
che vi si presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione
de'mali , vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b )
che Qui autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem
aggredietur, caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e
lo farere ; con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno
venire in cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li
essenziali ; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono
distintivi; che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia
vera , ò falfa gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che
hanno bisogno di (b) la lib.de Media [ocr errors] [ocr errors] di
qualche segno proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è
necessario à farsi, perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo
niale , e questi sono neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può
ricorrere à leggerli ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ;
Dovrete ancora lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta
bianca in ciasche, dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per
notarvi ciò, che biso, guerà in appresso, Acquistata , ch'avrete la
cognizione de' mali più frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in
breve tempo lo potrete fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale
si curano , & in quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni ,
v.g. della Punfura , capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo
la cura, e mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in
meglio, che in peggio, con tutto ciò , che offerverece di riguardevole,
mà succintamente con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura
voluminosa. Di dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche
da principio, e le più facili , per poterle esattamente confiderare, e capire
bene, quali in progresso di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo
secondo vedrete meglio poterle possedere , e comprendere; Avvertite però non
caricarvenc troppo, nè di tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice,
ò funesto , quale noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi
in casi consimili, nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo
è coerente al consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec
longi temporis induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti
gravidata felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat.
Lo studio, che dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri
pratici de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal
Direttore vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò,
ch'avete osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa
consista il di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro
Direttore nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto
Archiospedale, che sono già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in
molte occorrenze, potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi
esercitate, Mà perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano
insieme li progressi, per cagione dell’utile emulazione, e di sentire da?
Compagni qualche cosa di più, che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno
una volta la settimana vi dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò,
che ogn'uno avrà acquistato di più nel suo esercizio pratico, & à questa
conferenza potria avere qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di
guardia, che deve necessaria. mente [ocr errors] mente essere nello
Spedale permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete
da affaticarvi in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima,
perche voi, che di presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante
l'animo generofo , e magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi,
cho con tanti suoi incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà
stabilito sì grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove
vi esercitate, potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi
l'utilissime conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon,
dantislima scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in
particolare, assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe
l'aveflimu avuto noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù,
quanto mai ci faria stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava
andare in luoghi privati à dare incommodo, e pure si face vano vano
con fervore conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove
ogni Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due
problemi Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie,
concernenti la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni
, e con profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa
fària se voi ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò
attribuire ad altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che
aveste di approfittarvi. Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze
intorno alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del
Medico Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che
vi troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita, nella
quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per
impoffeffarvi delle differenze di esia C e ciò e ciò farete
con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno
vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che
di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò
meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre
differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra
di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi
sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete
attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del male,
& offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che non
sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran
pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in
Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico
Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere
in un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi
insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e
capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li
suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del
male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli,
che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi
assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più
breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non
solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza
del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per
experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt.
facile. *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che vi
conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle quali
procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà
permesso. Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le
difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro
documenti, essendo questi li semi di quanto di buono in voi germoglierà à
suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum
rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da
esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da'
fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si
approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e
la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti,
dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto
l'atterrano, elanniçhilano. Nelli [ocr errors] [ocr errors] Nelli
tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad
alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla
Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle
oftenfioni, che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- .
blicamente si dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le
preparazioni delle parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire
, & impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già
pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i Non
trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti
à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri
defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro
infermità , perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del
luogo affetto, e di qualche cagione ancora di detto C 3 detto
male, e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in quelle
di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo tempo. Ed
affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio per ordine
alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali, esiti
de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno di non
notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso rileggendo, à
fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste. Quando si
faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate l'altre vostre
applicazioni mediche,perche non richiedono queste quell'attenzione, ch'è
necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta una stagione, onde
basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro bottanico, e con
l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali per meglio
conocerle , le quali per voi possono esse re [ocr errors] re
sufficienti con la notizia delle loro virtù.
Impiegato , ch'avrete il primo ane no, con fervore, in fare tutto ciò,
che fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia in una nota
tutti quei mali più essenziali à saperfi, che ancora non avevate
offer- vati, à fine , che capitandovi possiate in quelli continuare
li vostri studj, imitan. do quei Giardinieri, che vogliono
for mare un vago prato di fiori ; Questi colo tivano tutto quel
terreno, e con buona ordinanza vi dispongono li semi, à fine non vi
resti del sodo incolto, ove non nascono fiori , mà sol'erbe
campestri, e che li fiori, che nascono , non resting trà loro
confusi. Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali
più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte
ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la
Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora
converrà , che [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de?
mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni
descritte dagli Autori in un medeliino male per la diversità di sì
numerosi sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al
parere di Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot,
tantæque variæ hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio
accertato ne potreste formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima
d'essere nella pratica bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci,
per non dire arditi, che li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali
come buona femenza dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo
crefceffero , conforme ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad
plenam nutritionem confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più,
& in vece di quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia
da esfere è pur meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à
farlo, ed all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali,
delli loro sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che
possono avere, perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi
quel raziocinio intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri
al vostro bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate
: (d) Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur
oratio ; Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque
priùs ad ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum
animum adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur
recordatione quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione
concludun- , tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis
demonstrationem habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed
operandosi da voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da
un principio più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno
probabile, dove che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra
cosa delli raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno
notabile preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero
genio , fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi
pareranno certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse
das quelle ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica
vi converrå deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono
ayveduri , per non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia
fi ritrovano costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis
intelligentia apud iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti
exiftant eos ad utilem *xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per
caminare con più chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova,
che il tal male proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne
dedurrà subitamente con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici,
ò con gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per
certo bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera
pratica , perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il
modo da caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà
neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale
potrà talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi
tra{curerà di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di
giovamento per andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi ideato.
Qual verità udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid artėm
artificiosè di&tum ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de
tracept 1 efem(f) In lib.pracept: eft, (8) Hippocr.de
decobabitki [ocr errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis
expertem arguit.. Opinabile fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis
indicium eft ; Opinatio enim cum præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus
crimini vertitur; His verò qui eâ indigent exitium afferty fi namque fuis
verbis perfuafi exiftim mant se opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm
aurum adulterinum igni probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma
ancora nella sua legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il
modo dunque praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già
accertata cura , osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi
darà di più la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse
la più certa, non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la
cura anderà a suo dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche;
oltre di che caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza
dell'opinioni degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli
giudizi di Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone
allorche diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia
confirwsat. Quindi è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li
suoi scolari sinche aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva ,
che cominciassero à parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e
veramente chi presto parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà
premeditato ciò, che dice, parla à caso. Per conferma di quanto vi hò detto,
ed à fine non prevarichiate ora, che avere da me sentito dire qual potesse
esfere il inodo facile sì, mà non già sicuro, da prestamente liberarvi
dall'intraprese fatiche, v'addurrò altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non
potrete discostarvi se vorrete essere tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b
:) parlando in termini difare progresso nella Medicina : At vero in Medicina
iampridem omnia fubfiftunt in eaque principium , via inventa eft, per quam
præclara multa longo temporis fpatio sunt inventa, bu reliqua deinceps
invenientur; Si quis probè comparatus fuerit, ut ex inventorum cognitione ad
ipforum investigationem feratur, Qui verò his omnibus rejectis , ac repudiatis
aliam inventionis viam ; aut modum aggrediatur, to aliquid Je invenise jactitat,
is cùm fallitur , tùm alios fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri poteft.
Ippocrate dunque vuole, che dalle cose accertate si passi all'investigazionc di
esse,per meglio discernere ciò, che in quelle non fosse ancora palese,mà non
già, che dalle incerte si pasli à fare al. cuna investigazione , dicendo
chiaramente, che chi farà diversamente ingannerà se stesso , e gl'altri, e
tutto ciò vie. ne più precisamente individuato redarguendo quelli, che dalle
cagioni incerte ne vogliono dedurre una certa cura, come si legge in appresso:
At verò nunc ad cos , qui novâ quadam ratione artem ex přo."
propofita materiâ investigant nostra revera tatur oratio fiquidem eft calidum,
aut fria gidum, aut ficcum, aut humidum , quod hominem lædit , & eum, qui
rectè mederi volet opporret calido per frigidum, frigido per calidum , ficco
per bumidum, & humido per ficcum opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ
non admodùm robuftâ , fed imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum
edat , quale ex areà fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua
victus ratione non dubium eft quin multa , gravia fit perpeffurus. Nàm
& doloria bus conflict abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus
corrumpetur, nequè vitam diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto
præfidium comparandum Calidum nè , aut frigidum, an ficcum, an humidum?
Siquidem horum quodque fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft
diversum contrario disolvere convenit , velut ipfifatentur - Eft enim
certifima, & evidentiffima medela , sublatis quibus utebatur cibis , pro
tritico panem exhibere , da pro crudis carnibus coctas, dj insupèr
vinum propi narly nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis
convalefcat ; e questa accertata cura come si è ritrovata , se non dal vedere,
che le sudette cose hanno altre volte conferito in simili casi? Seguitate
pure la strada calcata da' noftri maggiori, se non volere errare, per la quale
ebbe origine, e si è avanzata la vera Medicina, e questa è quella
dell'offervazioni, conforine chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque
verò pigeat ex plebeis sciscitari fi quid ad curandi opportunitatem
conferre videatur , fic enim censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe ,
quod fingula ex fine abi fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur adhibere
oportet fortuit,e occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum
utilitate, & lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti
defenfione; e ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle
cure à voi note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in
questa guisa, se non fi) Hipp.praceptiones . [ocr errors][ocr
errors] non dimostrativi , faranno almeno inno- centi, non potendo recare
pregiudizio alcuno, e state fermi in tale proposito, per l'esempio
di più d'uno , conforme, che diceffimo, à cui è convenuto mutare li
raziocinj delle cure dapoi, che hanno osservato in pratica meglio
gl'andamenti de' mali, e non prima d'allora si sono accertati , che
l'opinione era assai diver- sa dalla verità, conforme nel suo sogno
ci fà conoscere Ippocrate, ( a ) non solo perche li comparvero assai
differenti trà di loro, mà perche la verità dimorava appresso
Democrito, che non s'inganna- va, e l'opinione trà l’Abderiti già
pre- giudicati, per la falla loro credenza, che Democrito
delirasse. Appreso, che voi avrete le cagioni ancora de'mali, all'ora
sarete arrivati à qualche perfezione maggiore , poten- do, rotto
già il silenzio Pittagorico, con fondamento parlare, e con
franchezza ancora medicare, resterà solo d'istruirvi in che modo si
dovrà contenere ciasche- duno (a) Hippo in epiß. Pbilope.2.
[ocr errors][merged small] D [ocr errors] duno di voi in ornare, secondo
la propria capacità ciò, ch'avrete acquistato tutti in commune. >
Parlerò prima con voi di mente fu. blime, e generofa, che vi pare un troppo
angusto campo la sola Medicina , onde per far conoscere a tutti la vostra
maggiore abilità, volete stendervi più oltre, ed all'acquisto d'altre
scienze,conforme nelle private conferenze apertamente diceste, ove tal’un di
voi mostrò genio grande d'apprendere le Mattematiche, altri l'Astrologia', e
chi per ornamento le Lingue straniere, & in ispecie la Grecaj e chi per
divertimento ancora l'erudizioni Istoriche i Mi dispiace d'aver sentito
dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per genio grande, perche questo vorrei,
che tutto lo ponefte alla fola Medicina's qual dovrete profeffare, onde viva
pur sempre caurelato , e circospetto chi di voi hà fimit geniono che non
gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà dianzi acquistaso; perch'è solito,
che chi apprende congenio grande una cosa nuova, trascura
necessariamente ciò, che prima se non per genio , almeno per
impegno lo appagaya . Io per me non posso, nè devo op- pormi
à quanto deliderate, si perche è onefto , sì ancora perch'essendo
all'ora voi già divenuti Maestri vorrete fare à vostro modo ;
Vi dò solo questo conse- glio, che facciate regolare la vostra in
clinazione fempre dalla prudenza , e dal giudizio, e che non la lasciare
in tutta sua libertà, e facendo voi in questo mo- do non potrete
errare, perché le sudette virtù mai non permetteranno, che fi din
ftacchi dalla Medicina già appresa , nè che nel fare li nuovi acquisti
gli rubi quel tempo, già destinato per lei, e final mente faranno
in modo , che non l'ap- prendiate à quel segno di poterle pro-
feffare , mà per solo ornamento, e per poterne ancora voi
discorrere in quella parte , che possa servire alla Medicina.
Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme voi altri, che restereste
altrimena 1 [merged small][ocr errors][merged small] [ocr
errors][ocr errors] timesti, non solamente per la separazione, che faranno da
voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione di essa . In primo luogo
parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à ciascheduno di essi il
suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche se sarete affatto
inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto fare à qualcheduno di
simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in darno fino , che
viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche difficoltà ,
tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo Cicerone, (b) che :
Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè vincit ; ò il
vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e vigilanza, date
tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, & altre sono più
tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete pronti,
esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria, discorretela
continuamente con li vostri (b) Cicero pro Cornelio Balbo. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi di voi, fae
tevi animo, & abbiate forma fiducia , che il vostro timore cesserà.
Aspettate ora da me di sapere il modo, che dovre- te tenere per
adornare ancor voi l'ope- ra già fatta , à fine di non iscomparire
trà gl'altri vostri compagni, e con ragione. Già voi non vi curate
d'uscire dal- la Medicina , in questa dunque converrà trovare
l'ornamento, che sia adattato al vostro bisogno, e doppo fatta
matura rifeflione, non trovo miglior conseglio di quello, che fi
ricava da Prospero Marziano Medico di grand’ingenuità , all'ora ,
che ricercando la cagione, per- che li Medici antichi erano tanto
stima- ti, & onorati assai più di quelli, che vivevano à
suo tempo, egli fù di fenti- mento, che procedeffe ciò
per effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi
sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti
fint apud homines, ut non folùm primas in Ci. (c) Prosper Martian.
2.prediff. perf.23. e [ocr errors] D 3 Ciuitatibus, ac Regnis
tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque
folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos ,
& præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non
eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo
quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant ,
quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum
temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse
profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non
percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens
liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu
miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui
centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos
comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi
per fare spicco , & essere molto stimati nella [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de!
pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che
vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte offervazioni
uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento inutile,mà
bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se spoglierere
ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri divini libri
d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che potrete , å fine di
serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que sto
studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri
compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca
il fervore ad apprenderle con emulazione. Ornati, che sarete tutti nella
conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella comparsa ne
consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i miglior
elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno
apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che
non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi. Se il modo,
che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro
migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn'
un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare
prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo
sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se
l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che
studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di
già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio,
eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso. Se il genio
vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto
, che accade à chi [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in un
medesimo tempo getta in un camро semi diversi, e mescolati , e che ne
raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche
la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove
che la confusione le preverte , e le annichila. Inoltre s'avrete studiate
le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il
Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni
evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora
versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à
vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e
semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco
di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche
bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato ,
Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e cofe [ocr
errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in
questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne'
gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e
leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico
per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno
per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose
innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose attività ? Queste dunque
adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri
remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non
possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva
il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere
assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi
assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno
dell'aficurato. Un tal modo di operare lo di poca [ocr
errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina ,
perche già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte
consiste in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e
nell'altro giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo
gl'accennati rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno
del Medico per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di
medicare è assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma,
che per non offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed
in vece di punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò
cottone , qual sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà
all?ora, che l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo
offendere , à almeno difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi
sicure, ci converrà per certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno
superiori riusci. ranno [ocr errors] ranno migliori ; il fimile
appunto succederia quando il male grave alfalisse, se questo lo voleste
espugnare con l'accennati rimedi sicuri, combattereste seco con quell'armi
appunto senza taglio, e fenza punta, poco atte à fare validas difesa. E
non basterà in questi casi Parme sola , mà converrà saperla ben maneg. giare,
per fare que' colpi sicuri riservati a' soli Maestri dell'arte, quali come li
fapreste fare se mai non aveste maneggiate simili armi, volendovene talvolta
prevalere? Sò, che questa voce di medicamento sicuro, che non può
nuocere'è molto plausibile appresso alcuni, che la considerano
superficialmente, mà capita bene, è molto nociva , poiche nel bisogno più
urgente non è tempo di passarlela con cose di poca attività, richiedendo quello
ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e tutto ciò, ch'è sicuro.
à non nuocere non basta per rimuovere ciò,che nuoce, onde se non
ammazzano direttamente possono almeno indirettamente nuocere, per la
cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che puol’ammazzare.
Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al Governatore della
Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa dovrà fare ? Deve
in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che più l'aggrava,
acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde; Voi già mi
capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo considerare da
voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si ritrovano nella
tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e poco efficaci
medicamenti. Io non pretendo già porvi in difcredito li dettirimedj,
perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio ne' veleni
corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono utilissime le
copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti questi
per per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò , perche in molti
mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme ordinò Ippocrate :
(d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta exbibeantur ; &
altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima funt. Anzi, che se si
tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi, che competono per
sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete d'omissione gravemente,
potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini in trascurar ciò, che
li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto equivalente al
bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del danno, come
bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante aliena fit procrastinatio,
tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ periculum affert ; quanto
maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più conliderabile della
dilazione Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in epift.ad Crat. Nè
per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare d'avantaggio di quello ,
che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste in un'altro errore , non
inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare ve l'insegna Ippocrate
nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare oportet opportuna, & quit
decent facientem. Se divenuti Profeffori d'Astrologia farete ancora il
Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete alzargli las figura del
decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni aspetti de' Pianeti, e
fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi l'occasione pronta
d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à riconoscere più da vicino li
suoi malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps, à quella bisogna , che
indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi servirete d'una
scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in essa crederete
fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete esercitare ancora
las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete , & è di vostro
genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con altri, che ivi si
troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero Romano, e con
vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare all'Infermo ,
che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto. Iddio guardi, che
tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse di far ciò,
che ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse porre à fare il
Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare, affidato solo in una
gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe simile à colui, che
custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare, ed in conseguenza
caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai commettere nella
Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più validi, e
pronti ri مرور rimedi si Chimici, che Galenici, che avemo, e
non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto, che fi
fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi serve di
valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire dannoso, lo
lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti ; solo
riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi
soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel
troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis
ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo
fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle . Non riuscendo dunque
tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che
v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter
divenire veri Medici E )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib.
de Arte,pro ftri fore inp Ver ner te, fo fe quantunque
fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole
uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte
intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme
giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta
, doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b)
Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf. Mà
non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura
malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in
acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed
eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua
legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che
facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine pro(c) Hipp.de
decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore . [ocr errors] proseguiare con
maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia,
che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di
voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre favorevole,
non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne innamori.
1 [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA III. Nella
quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare il vero
Medico , e la via più figura per ottenerla, A D un gran
cimento oggi m'espon in volervi mostrare la vostra buona fortuna,
posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende,
qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli
onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel
mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle
grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à
contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri,
che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si
scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus. [ocr errors][ocr errors]
In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che
Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu
firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant ,
privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem
tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam
exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne,
quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero,
punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in
traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei
sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di
strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam
puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque
bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro
intento, ed io uscire dal mio. E 3 cie [merged small][ocr
errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non
isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e
non soggetta á vicende. Che il Medico debba essere foriu. nato non vi
cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi
vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria ,
Paveffe affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che
infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità
gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum
fe forfanatum Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in
cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con
la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare. Due sorti di
fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle quali (c) 110
lib.de loc:in hom. 1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra
independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme
noi vogliaino . Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive
: Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum
fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi
fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei
malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna
dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre
inseparabile da noi medesimi. La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è
quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à
chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella
sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà
discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che
le sue 1 E 4 fue brame fossero di pochi soldi; Ad un?
altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo
toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare
à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret L'altra poi; che
risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà,
se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e
pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol
dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè
facere fciunt, giornalmente vediamo. Certamente, che la prima fortuna non
è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete zappare
la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente , ch'effendo
cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata ancora ,
questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il premio per
giu Aizia, stizia , ed à quel segno, che vi si deve ; Oltre
di che la sua sola istabilità bafte, rebbe per farvela odiare, dovendo
voi defideíare una forte stabile, e permanen- te; per non
provarne le di lei vicende, Esclusa dunque la prima forte,
neceffa- riamente dovrete contentarvi della se conda; e tanto
maggiormente, che la potrete regolare à vostro piacere.
In trè modi dunque potrete fabri- carvi
la vostra fortuna, ò buona , ò va- riabile , ò peffima , se la vorrete
buona , dovrete operar bene, conforme v'inse gnò Ippocrate
nel detto libro in tal gui- la : Fortunatè enim affequi eft rectè
facere, hoc enim, qui fciunt faciunt , ed allora cià
otterrete , quando scaccierete affatto da voi li vizj, e
farete in modo, ch'ella sem pre ammiri le vostre virtù, e si ponga
in soggezione, quando anche non voleffe, di operare
a'vostri vantaggi. Se poi la bramerete variabile, fatela
conversare con le vostre virtù, e con li vostri vizj,
che imparerà dal diverso modo d'opera re, che li pratica trà
esli ad effere variag bile [ocr errors] 2 1
; bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con dire : (f) Ego verò fi
omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per via di virtù, e de vizj
avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem talentorum gratid, fed ad magnum
Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece conofcere ancora l'incostanza di
detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo istabile, sì in quei fervigj, che
dependendo dalla volontà di molti con la sola virtù non s'acquistano, come bene
speiso l'esperimentano i Medici condotti; che nelle Corti, ove trà molti altri
la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi vorrete farla divenite pellima,
consegnatela in potere de' vostri vizj, che apprenderà da questi i loro pessimi
costumi , e perima certamente diverrà, ed udite con quantas chiarezza ve lo
dice egli nel libro sopracitato : Qui enim non reftè quid facis, non
fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que æquum eft facere non faciat.
Talmente, che la vostra buona fortuna, the voi do! (f) In
epif.Abderir. Hippo dovete procurare è quella che proviene dalle vostre
buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia, e ftabile fino, che
vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere, giacchè al parere d'Ippocrate
nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente conseguire, da chi sda e vuole:
Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi quis fciens uti velint, d'onde faa
cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua cey comite fortuna. Non basterà
però d'avervi ciò brem vemente accennato, per potervi cons sicurezza
determinare il modo , che dov vrete tenere in procurare questa buona, e tanto
desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò detto fin'ora , non è sufficiente à
farvi capire in che maniera vi dovrete contenere , allora, che sarete
Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò, che dovrete fare nel progresso di
quello , 6 quanto di felice ne potrete riportare dalla vostra lunga, ò breve
navigazione, onde sarà necessario, che per meglio esaminare li sopr’accennati
punti, che cifiguriamo d'essere già presenti al porta dell'imbarco , e che nel
fare detto viaggio mi serva della seguente ideata maniera per iinitare ancora
in ciò Ippocrate, che dovendo andare a trovare la sua fortuna in Abdera,
conforme udirete in appreffo, ancor egli vi si porcò per mare, ed in una nave
non presa à caso, mà scelta da lui con molta cautela,come si legge nella
lettera prima scritta à Damageto, che comincia : Cum apud te Rbodi ejem
Damagete, navem illam vidi , cui Solis infcriptio inerat , quæ mihi perpulbhra
, puppi probè, idoneâ carinâ inAructa , muliaque transtra habere vifa eft, tu
verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito @c. E tutto ciò, non senza gran
mistero, mentre circospetto, e con il buffolo da navigare avanti gl’occhi deve
viaggiare chi cerca la fortuna, e deve per tale effetto scegliersi un
bastimento sicuro. Questo Porto è appunto il luogo , da dove
s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove dovrete por.
ancora tarvi 1 tarvi, per conseguire la buona forte a. e
queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che voglia fare il
sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne scegliate una di esse,
mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale facilmente potreste ingannarvi,
fentite da me un breve ragguaglio di tali bastimenti, del loro modo di
viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell' esito, che si hà della
navigazione in ciascheduno di efli. Mirate colà à finiftra, quella si
chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane, la Giustizia invigila
al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza sopr'intende al tutto:
ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli loro assegnati
ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e sono i
Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è privo, non
vi fi può imbarcare. L'altro bastimento, che stà alla deftra , li chiama
la nave di Giano, questa hà [ocr errors][ocr errors] hà parimente
buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del Sole, mà vi
è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi è il
proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine,
vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono
con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro
di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in
detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità. Il
terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave
felice : ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno ,
lw vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano
continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj
consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi
approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen do [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si
ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non
s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che
subitamente vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della
felicità. Vado vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di
eleggerli questa nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di
prosperità, senza pensare più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que
navigatura de teme peftate non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate,
poiche non bisogna tosto fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga
comparsa, conviene ancora ri. flettere al fine, che può avere una simile
navigazione, che ora vi spiegherò. Si ftaccherà questa nave dal porto con
allegria, mà nel viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata
dalla Prudenza, e quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto
pollo [merged small][merged small][ocr errors] no, (g) Sexeca de
Traxq.Anims.sapoll. 1 no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno
questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon
tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna
neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia
grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità,
ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus
vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che
più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto
scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con
tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre
simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj,
consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de'
vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che s'imbarcarono in fimile
navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato,
quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa
schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri
occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano
ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva
elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi
trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte?
Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio
mortalium , ut advere fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2
cantur. Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi
conducono, non al porto della felicità, mà bensì à quello ?
dell'ignominia , e delle miserie ; onde bisognerà, che vi scegliare è la
nave del ? Sole, ò quella di Giano per giugnere ti al desiato porto della
felicità, per ri, F tro(a) In Panegir. at Trajan. [ocr
errors] 2 [ocr errors] trovare la vostra buona fortuna Il proprio
genio vi farà inclinare talvolta d'entrare più costo in quella di Giano, con la
quale crederete di poter ritrovare una miglior fortuna, à questo non mi
opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c la Giustizia, sc farete à lor modo ,
con tutto, che vi siano vizi ancora, questi non potranno molto nuocervi; Mà
prima di entrarvi, sarà bene, che sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à
cui vi porta il vostro genio, che quella del Sole, che voi poco gradite, e che
tributo portano sì l’una, che l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio
fiate informati di tutto, prima , che vi determiniate all'imbarco.
S'incaminerà con prospero vento la nave di Giano verso il porto della felicità
, incontrerà nel camino varie tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la
regolano, le opereranno senza il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la
loro buona condotta; capiterannó molte, e varie occasioni assai vantag
giose, [ocr errors][ocr errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più
, ò meno chi farà ivi imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò
con le virtù, fe darà orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse,
gli dirà, che tutto può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve,
ch'è convenevole, e giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si
fermerà per iscaricare ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi
ritrovi nella ricerca generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di
chi ivi s'imbarcò, Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto
viaggio divenuti arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto
fatto,come cosa proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio,
ne seguirà del mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò
nel bastimento felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi
le tradì, chi le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le
tratti. Succedendo poi diversamente, è cie l'in [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] F 2 [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto
tutto quello che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e
lasciati ivi tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto
della felicità, dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta
al Tempio dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della
Giustizia eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel
tributo, che si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose
, & inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato
da' vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo
dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme
con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto
comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio
dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e
rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio [merged
small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare! Il viaggio
poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga
à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza;
non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel
passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la
facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della
fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio
con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti
il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si
trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte
d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui,
che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per
goder’ancor'effa i favori dell'Eternità. AveteAvere già sentito il tutto,
ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete
per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li
requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi,
procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare
offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite dall'Eter
nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim ; sappiare
però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la fantasia, l'ira
non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la superbia non accieca
, e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto nuocere, ftantechè
non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente vi riuscirà
felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria animare å
farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non fi fervi
della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e la
: CO- . [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima d'averla
provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam fanitatem
apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente, che
prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle sole
virtù. Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave di
Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete frenato
il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare , esso
non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare, allora
l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che ivi
ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto
specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie
virtutis, umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria,
che se navigate nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum. F4
[ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere
dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo
d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo
d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate
però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare
vigilantissimi , e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à
far questo hoc opus : bic labor eft. Da queste trè figurate navigazioni,
comprenderete non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere,
mà il modo ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi
l'acquisto della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi
in preda a' viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna
prospera potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose
delizie , non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir
tù; [merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia,
l'inganno , e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine
avendo conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse
ajuter anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle
miserie, nel quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della
vostra mala sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori.
La vostra fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia,
ambiva di favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che
il trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior
negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle
virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde
meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft ,
quomodò fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non
Memorabilem fanè fucceffum babebit ; Qui enim (c) Hippode locis in
bom. 3. A 3 [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non
fortunate affequi poterit , quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd
altrove :(d) Ego verò ut fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità certè
cenfeo malè à morbis curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ; e
nell'epistola à Damagero così dice, parlando di simili sfortunati viziosi:
Eorum res adversas derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis
enim instituta violant. Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e
mantenervi amico delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con
tutto sia meno pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa
farete più ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete
stabile, e di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna
, inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di
qualche bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel
zeloaf(d) De Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto
appresi da Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno
dagl’uomini di stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che
prima avevano di voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra,
dovendo servire à due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle
virtù, & Mammona de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo,
Mammond . Mà dato ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne
ricavereste mai, mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà
l'adulazione, quelle della giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse,
quelle del zelo l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti
, stando sempre vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche
vorreste passare per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni
arbitrio contro il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito
più sicuro farà di vivere lontani da, 1 da'vizj, e starsene
con le fole virtù ; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da
per tutto, nè l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon
nome, quel buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà
mai tolto, durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù,
permanenti sù il vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S.
Ainbrogio negli Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte
stabile, conforme ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla :
Fortunatè enim affequi eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e
d'avantaggio, viverete con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto
quel gran dilettoyche apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per
altra via conseguire, mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet
unica vitæ ; nè per questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1
le). Deloc.in hom. [f] Juvenalis forira 10: me ز meglio
degl'altri, e per due ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti
onoratamente con le fole virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così
spopolato d'uomini, che amano, e seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede,
effendovene di molti, onde voi, che se guitare questa buona via ò sarete pochi,
ò numerosi ; se pochi, viverete bene, perche da molti Tarete stimati, fe
poi į farete numerosi, converrà, che li viziosi ancora , ch'avranno
bisogno dell'opera vostra s'accommodina alli vostri retti costumi.
Caminando dunque voi per la via delle fole virtù , potrete senza fallo
conseguire la vostra buona sorte, e por trete allora dire çon ragione
: Nos te, Nos facimus fortuna Deam, coloque locamus
• Dove che caminando voi diversamente, appena vi sarà permesso il
poter dire : Nos facimus fortuna Deam , mundos que locamus,
Stan [ocr errors] Nos te , Stanteche appena sù l'aura
popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare, nella quale non si
curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più motivi si ricava, c
primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito, manifestandogli, che dal
volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato più tosto riprensione,
che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có compiacergli da
cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse onorato, perche la
sua politica solo consisteva, in operare, conforme si doveva, ed in far ciò,
che solamente era decente al vero Medico, conforme fi spiegò nel primo de' suoi
Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet, quæ decent facientem; e ciò
in termini prù preciâ l'individua affai meglio in altro luogo , (8) dove così
dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines demerearis subtrabo , cum fit
Medici præftantia digna , eorum autem, que per Instrumenta adhibentur, &
de mon (8) Hipp in lib de præcepto monftrationis eorum, quæ
fignificant , reliquarumque ejusmodi memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi
tibi audientiam comparare voles, id non valdè gloriosè insti. tuas , neque
tamen cum ostentatione portia. câ fiat, industrie enim impotentiam arguit,
neque certè probo induftriam multo labore partam in alium ufum transferri ,
quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem enim fucı laborem cum ambitiofà
oftentationes tibi impones. In oltre tal verità si ricava ancora ,
dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo Rè Artaserse, mentre certa
cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare l'aura popolare , non doveva
egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal posto, senza dubbio alcuno tutta
la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno averia potuto più dir male di lui per
tema di non incorrere nell'indignazione del Rè potentissimo Artaferse, onde con
averlo ricusato dà à divedere, che egli non fi curava punto di dett'aura
popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che dacssa provengono, conforme
apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli Abe deritani, dicendo ivi: Ego
verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri Abderia tæ , nè decem quidè m
talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ,
ybi &c. E per far conoscere meglio à tutti, ch'egli non caminava per
la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze, mà bensì per quella della sola
virtù volle portarsi in Abdera , folainente per visitare, e trattare con
Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo confesso, dicendo : (b)
Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum intelligo ; talmente, che
stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava ottenere con trattare con
un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso qualche buon dor cumento, non
solamente de i dieci talenti offertigli dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le
ricchezze, e grandezze insie: me della Persią, & udite con quantan
chiz (h) in etir. Abderit. [ocr errors] chiarezza lo dice : (a) Rex Perfarum
nos ad fe vocavit nefcius mibi potiorem of fapientiæ , quàm auri rationem
. E finalmente , acciocchè meglio comprendiate , che quanto v'hò detto
intorno alle trè strade, che vi sono per cercare la fortuna, o qual di queste
dobbiate scegliere, s'uniformi sempre più con i sentimenti del gran Maestro,
confermiamolo ancora con l'accennate trè vie di cercare la fortuna , contenute
in detta lettera. Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci addita un
bivio, cioè tanto la strada, che conduceva in Persia , à fare acquisto di
cesori, e grandezze considerabili, che quella di Abdera , che allettava
all'acquisto di dieci foli talenti ; La prima di queste egli non la ftimò à
proposito, perche conduceva in paesi barbari, inimici, e dove vi era la peste ;
La seconda nè tampoco , perche dubitava, che quel vizio dell'inte, resse, que'
dicci talenti, avessero possuto rendere servile, e schiava la sua virtù,
G cosa (a) Hippo in epiß. Denetr. cosa fece egli per battere su'l
sicuro, fi fabricò la terza via, espurgata da ogni vizio, e prima d'incaminarti
per essa la descriffe in tal guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos venienti ,
non Natura , neque Deus argentum promiserit . At nequè vos [viri Abderite] per
vim obtrudite, fedlia berè artis liber â elle finite operâ . Qui autem mercede
operam fuam locant, hi fcien. sias, tamquàm ex priore libertate manci. pio
dantes , fervire cogunt . Oh Ippocrate, se questi tuoi documenti fossero
stati mai dati à rivedere à quel Quinto Petilio Pretore Urbano, à cui
pervennero in mano i libri del dia finganno composti da Numa Pompilio ,
certamente che,ò l'averia fatti brugiare, conforme che fece quelli, o pure ti
averia fatto quel favore , che fecero gli Abderiti al suo Democrito, che lo
dichiarorno pazzo, e fi faria servito come Precote delle seguenti cognecture
per dichiararti cale, primieramente avrias dedotto contro di te, che tu per
portarti da Democrito, da cui non potevi sperare bene alcuno, perche appena
aveva un Platano, che lo difendeffe dal Sole, ed un sedile di pietra, dove
potesse sedere, mostrasti smoderato desiderio d'andarvi, conforme costa nella
prima lettera scritta à Damageto , dove così dicit Navem ad nos mittito , fed
fi fieri poteft, Hon remis , fed alarum remigio instruct amo res enim, eu
amicitia urget. In oltre, che per benc andare in Persia , dove,
oltre offerte sì grandiose , eri tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu
fosti prontissimo à rie cusar la chiamata , conforme costa nella lettera da te
scritta ad Hiftano, senza riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva distruggere
la tua Patria per tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con tanta
sollecitudine, ed anfietà una cosa, che non gli può recare profitto alcuno , e
ricusa con altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo giovare, senza
considerare ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente,
ch'egli si può condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta
que [ocr errors] quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi
pronunziata , poiche per condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente
si ricercano più rilevanti prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue
difefe', in cui deducesfe lc sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali
faria stato dedotto, primieramente, che non sussisteva in fatto, che da Democrito
non se ne poteva sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica confeffione ,
quanto mai di bene egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum ego Democrite
præftantisime magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co reportabo, cùm multa
me fapientia tua admonitione compleveris. Prçco enim tuarum laudum rem vertor,
quod natura humana veritatem inveftigasti, a mente complexus es; Acceprâ autem
à te mentis curatione discedo ; La grand'ansietà dunque di andare à fare simili
acquisti, non era indizio di pazzia, ma bensì di somma prudenza , di sommo
giudizio. Che poi per noneffere andato in Persia foffe censurato a torto è
chiaro, mentre non avendo alcun bisogno di quanto gli poteva da ciò risultare,
conforme egli confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo, omnique read vitam
neceffariâ cumulatè frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè mihi æquum eft;
non doveva esporsi di andare à fervire popoli barbari , ed inimici, e quanto
erano maggiori l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo costituivano loro
schia, vo. E quando vi fosse andąco, cosa mai averia riportato? Oro, argento,
onori sommi, e grandezze, e quetti potevano paragonarli all'acquisto, che fece,
con Democrito, di dottrina, e faviezza di mente maggiore? Ed essendo egli
andato per curare uno creduto pazzo, per cagione di quel medesimo ei ritornò
più savio, e più dotto di quello, che era prima ; e da ciò fi può dedurre
quanto mai bisogna stare cautelato à dichiarare pazzi coloro che non sono
potendo queIti tali talvolta illuminare ancora i Savja L'or(c) In epif.
Hylani. [ocr errors] L'ottima dunque di queste trè ftrade fi scelse
Ippocrate , per acquistare la sua fortuna, e Pottenne profpera, stabi. le, ed
eterna i poiche fino, che il mondo durerà, la fua fortuna ancora sarà ri.
fplendente; per questa voi dunque vi dovete indirizzare le volere effere suoi
veri seguaci, e questa ancor meglio la scorgerete, dapoi, ch'avrere nella
Giornata di domani udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il danno grande , che
possono apportare questi al Medico, che caminasse per quella via , giacchè
conto traria juxtà fe pofira magis elucefcunt , GIOR [blocks in
formation] Nella quale si tratta delli vizj , mostrando quanti pregiudizi
poffona apportare al Medico , e le in lui alcuni di esli pana fcufabili ,
almeno quelli, che sembrano Ermafroditi. [ocr errors][merged small] Na
dura , ed ardua Provincia og gi intraprendo per voi, dovendo parlare
contro la corrutela del tempi, ' lati, e contro uno stile già invecerato
, con tutto ciò bramando voi sapere da me il vero per non ingannarvi, dirò con
Seneca ; (f) Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid ufitatissimum, &
quod nos in poffeffione felicitatis eterna conftituat, non quod vulgo veritatis
peffimo interpreti probatum fit. Vorrei potcre scusare ancor io li vizj,
conforme fanno quelli, che li rimirano solamente mascherati con gli abiti delle
virtù à fine di consolarvi, sc cofa G4 [merged small][ocr
errors] [ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico. cosa difficile vi sembrasse
mai il poteryene affatto spogliare. Per esempio ricoprono la bugia con il manto
della prudenza , e dicono, ch'è prudenza di celare all'Infermi la verità,
perche ciò fi fà per loro bene , acciocchè non si contristino maggiormente del
male, che foffrono. Gli adulano ancora talvolta se defiderano qualche cosa , che
non competa loro, con tutto, che possa molto nuocere, sotto pretesto d'aver
carità, ed à fine, che vietandola non s'inquietino maggiormente, e così
vanno ricoprendo molti altri vizi per renderli familiari, e meno deformi . Mà
perche hò promesso di parlarvi con chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo
adularvi. Li vizj li dovrete cenere per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e
le virtù le dovete considerare , come due linee p2rallele, che non possono in
alcuna delle loro particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti,
che non possono tra loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri
spaventofi , che che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi
avvicina , come dunque ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli?
Mà conceduto ancora , che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia,
viaggiorefte voi con una comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in
abito di gatantuomini, caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con
tutto, che fossero sì civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò:
Tali apa punto fono li vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo
non facendoli mutare il loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre
nuoceranno di molto ; E siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi
fac ciano mai deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia
nun, quàm bona fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete,
anzi, che essendo questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non
potendosi conoscere per vizj à prima vista, non li potranno subitamente
scacciare da chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior
campo libero da machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire
li loro tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che
nel Medico fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi
quell'ording solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo
fregolati non meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di
farvi capire la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e
creduti nocivi al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il
saperfi:(8) Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, &
fordidam Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem,
impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine
di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta
del ge nerc (g) De decenti babita. nere umano, come tratta li suoi
fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato
commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce
infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti
publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico
in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di
Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una
bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo
talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia
di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere
l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la
vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo
Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer.
mità non è di gran momento , li segni non [ocr errors] nonsono
mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante
questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell'
anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è
ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da
Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o
sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne
muore, ed ec che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per
ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima ,
che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola
bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò
gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono
le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li
delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò
CO, equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella
bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza
viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due
sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo
Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli,
affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero ,
rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui
disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de'
veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h)
Virtutis apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium
exercent ; e parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate
nudati, omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che
s'infinua dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik, dolcemente, e
con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e
questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica
qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che
povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima
Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ;
le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il
Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne
puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio
dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera
adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per
allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già
da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di
Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male,
mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la
refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex
deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare
l'adulazione omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà
Ippocrate certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione
nella regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia
vitanda per quam unitas deperit. E non solamente è reato gravissimo nel
Medico l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel
prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali
gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che
non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia
di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non
altri menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe. [ocr
errors][ocr errors] per adula menti: Conforme ancora, se venendo
proposto da altri Medici ciò, che non vi parerà essere profitcevole
all'Ammala- to, in tal caso non dovereste zione tacere, e lasciar
correre ciò, che fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut- ta
civiltà addurre li vostri motivi, cra- gioni, che avete in
contrario, à fine venghino esaminati,essendo questo l'ob- bligo de
veri Medici, conforme Ippo- crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-
quid do&trinâ acceperunt in medium profen & facultate
dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit
decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.
Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è
cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa
in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e
feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi,
potriano alle menti (n) De decohabitu. runt , 1 0
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i
alto,recare qualche disturbo, non istimo superAuo di dar loro sopra ciò
qualche luine, à fine stieno più circospette, e cautelare, e
particolarmente nel sentire certe proposizioni dirette à ridurre le
operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta
dalla na tura, con sì mirabile artificio, guarda tevene pure da
queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia
sempre un primo Movente di . ftinto, e separato dalla struttura, perche
de quantunque la detta struttura fia necef. faria alli moti interni, ed
esterni , nulla- dimeno senza il primo Moyente, che è l'anima
rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.
mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto, che rimanga la mirabile struttura
, sepa- rata ch'è l'anima dal corpo iyi ogni
mo- le to regolato finisce. Nè solamente
nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e circospetti, mà
ancora in quello fi sente [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere reputati di
singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano, perche non
capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri occhịrimiravano,
ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino fortemente
inveisce, chiamanı doli uomini di carne. Spero dunque, che per quanto
leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe così
pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che
riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non
s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di
scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra
fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre ,
per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli
innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio ,
che l'uo ) [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo
d'eternità. L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali
conforme diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li
potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi
divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal
vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire
orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo
dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico ,
affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per
concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio
apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo
moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri
propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta
deformità, giacchè: H 2Segnius irritant animos demiffa per
aures [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide "libus,
E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico,
che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico :
Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate
folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam
gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in
altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione
appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle
cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio
discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de
fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del
Medi co (a] Inlib de decora. co il sedare litumulti, ordinandoli ef
pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te
prome ptum adhibeas. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai
foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter
muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi. Mà
vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il
ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin
nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con
dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida ,
bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa
cor c. hinc fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant
, & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque
tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co contrabitur
ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4., [merged small][merged small][merged
small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] H
3 ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram oculi, du vene frontis
intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo tempora pulfent , &
caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si persuadono dunque questi, che
gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì principali, sia più vantaggio
di pazientarli, che di rimuoverli? Onde non dovrete in conto alcuno farvi
dominare dalla collera, e non solamente per quello che riguarda la buona
direzione della cura, mà ancora li vostri proprj avanzamenti, stanteche quel
povero Infermo pur troppo annojato dal suo male , avvedutofi, che ancor voi gli
accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola cagionc,se ne disfarà
facilmente per non potervi più soffrire. La Superbia nella Medicina à che
segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico, che insuperbito forfe per
effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer sentito dire, che Esculapio,
in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato trà Dei, egli volendolo
su pe [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][merged
small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de Spartani ; pose nella soprascritta
: Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli calzò bene però la risposta, che
gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa : Menecrati Medico Agefilaus Rex
mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per reprimnere la sua superbia , mentre
riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo furoris in hoc genere delatus eft , ut
quofcumque liberaffet à morbo jurejurando anté sanitatem rcceptam adıētos ,
Jecum deindè benevalentes adduceretistatis temporibus tamquam fervos;
atquè jatellites, eâ tamen lege, ut alius quidèm Herculis insignibus indutus ;
alius Apollinis babitum gerens ; alius Mercurii perfonam fuftinens , alius
aliumi mutatus in Deum, Menecratem, utpote Jovem Optimum Maäimum Dii minorum
gentium sequerentur. Onde converrà, che la teniate lontana da voi , per non
essere stimati pazzi, e maggiormente quando vi troverete nell' auge delle
vostre prosperità , perche allora la superbia molto vi potria nuocere, fc
[d] In Florid.9.prafat. [merged small][merged small][merged small][merged
small][ocr errors][merged small][merged small][merged small] H 4 se foste
da efla dominati, allora vi sforzeria à distaccarvi dalli vostri più antichi, e
cari amici, solamente perche vi conobbero prima, che le vostre fortune
incomincialfero : E pafferia ancora più oltre allora il suo ardire, fe ella
potesse dominaryi à suo modo, meiltre vi faria prendere tal compiacimento di
tutte le vostre, sì grandi, che picciole opere, come se fossero singolari, e da
niun'altro fattibili à quella perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza
permettervi punto d'indugiare å formarne concetto, con forine far fi deve delle
cose proprie , almeno fino a tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani
dell'Adulazione, e pofte in quelle della libera sincerità, à fines che doppo
averle ben confiderate dia loro il suo giusto valore, secondo il quale , e
forse meno deve stimare le cores proprie, chi si trova in prosperità di fortuna
, per goder egli il favore dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e
maggiormente in quello di prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti
doveteseguitare l'ottimo conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum
urbanitater quamdam fibi adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da
tutti tenuti cortesi, umani , e senza superbia. La defiftimazione, ed il
disprezzo del compagno è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal
vero Me dico abborrire, al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus
videatur ; E tanto più , che deve essere d'animo modesto, e cemperato , di
ottimi coitumi, umano, e giusto, conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se
il Si. gnore diede à voi maggior talento degl' altri vostri compagni, perche
nel coufronto, che ne fate, in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di
biasimarlo, con dire, che difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore
capacità di voi, potendo il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non
ipfi nos; Dunque, che colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene
meco, prendeteveland con Tel Dedec.org. [ocr errors] con chi mi hà
fatto ; sicchè fuggire pure fimil vizio, che può ancora paffare
più oltre,inentre da quel disprezzo,da quel- la
disistimazione nascendone il discredi- to del vostro compagno, chi
sà, che non vi facessero divenire pessimi Medici, fer- vendovi di
caloccasione per procurare qualche servigio di colui, che fù da voi
posto in discredito? Olère di che;chi fos- te mai di simile viziosa
natura disprez- zeria ancora bene spesso quelli piccoli mali, che
in breviffimo tempo possono divenire giganti con non piccolo disca-
pito della sua esistimazione. Qando mai potessero
fcufarsi, che non credo , in alcrui li vizj spettanti alla gola,
che sono la crapula, e l'ubriachez- za , nel Medico sempre faranno
molto condannati, perche dovendo egli gior- nalmente opporsi a'
defideri depravati de' suoi Infermi, con ordinar foro las dieta,
come mai potrà persuadergliela, se non gli darà egli buon'esempio?
Fa- cendo più profitto questo di qualunque ragione, al parere di
Seneca, che vuole, che [ocr errors] 1 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] 20 che (f) Longum iter eft per præcepta,
bre ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne
fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per
fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere
ub bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non
vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme riferisce
Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero
di. laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando
tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola
rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno
rendervela penosa, fino, che viverete. co Non essendovi cosa nel mondo
più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la
vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi
tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune
poche , trà quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag: [ocr errors][ocr
errors] ti [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano
all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à
confusione de' sensuali fi veggono do. minati da detto vizio, se
non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione
della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha
in ciò hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal
suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b)
Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo
perpetuò insano libidinis aftrostimulatur. Qual'estro infano di libidine
faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere
con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con
donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus ,
virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con
tutta fedeltà à quella (h) In epift.Damage (i) De doc.ork
[ocr errors] per ca. quella somma confidenza , à cui gione della
sua profeflione; viene am- meslo, diverria ogni suo trascorso reato
gravillimo, sì proprio, che della pro- fellione isteffa , talınente, che
l'innocen- te Medicina ancora ne faria calunniaca. Onde voi, che
desiderate far molti pro- grelli in essa , dovrete vivere lontani,
e detestare simil vizio ; Altrimenti perde- reste ogni speranza di
fare un minimo progresso in effa ; Converrà dunque,che fedelmente
offerviate il seguente giura- mento d'Ippocrate : Juro &c.fed
castam, bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm ætatem meam
perpetuò præftabo. Ecercamente, che non dovrete fare diversamente,
sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche,
come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de'
vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero
distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra
prudenza, e temperanza [ocr errors][merged small] nonnon sarete per
cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti
commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,
L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora
dalle fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo
benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina
seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria
certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione,
mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era
tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la
mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani
generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla
mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il
fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio
faria facile facile loro riuscissero essi ancora ingrati.
Quindi è, chę Ippocrate per esimere li suoi Şcolarida un fimile
obbrobriofo ar- tentato gli faceva obligare con poliza e promettere
con giuramento le seguenti cose: Juro , & ex fcripto Spondeo
planè obfervaturum, Præceptorem quidem , qui me hanc artem edocuit
, Parentum loco ha- biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm
ad usum neceffaria , grato animo communi- çaturum, & fuppeditaturum,
ejusque poftea ros apud me eodem loco 9.quo germanos
fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ
edoctu [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine
spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è,
che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in
loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete
contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme
ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che
diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si
servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico
à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta
debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto
debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , &
affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto
meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi , 34 0 fono
e € L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che
fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza
condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo
potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà
dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio
tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano [ocr errors][ocr
errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che
desiderate , per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo
vizio non regna se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete
abilità, e spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto
maggiormente, che questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi,
ed ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte
tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in
appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin
enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap probare
volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia
obfter Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii
confirmatio, Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di
simil vizio poffino con tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da
essi è invidiato, senza passar più oltre [ocr errors] ne (a) In
epift.Damaget. in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si
serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare,
che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b)
giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum?
Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur
, trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati. Mà acciocchè
possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che
vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche
vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo
stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà
appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire
suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene
disprone per avanzarvi ancor voi, con imitarlo, se il detto vostro
compagno opererà conforme si deve, ò di remora, fe vedrete ,
ch'egli si avanza per la via del vizio, ed in tal caso, con
riflettere solamente, che à voi non conviene d'in- vidiare ciò,
ch'è disdicevole al vostro onore, detto seme verrà in un tratto di-
Itrutto. In oltre sappiate, che non do- vete rimirare solamente
l'efteriore com- parla, che fà il vostro compagno, mà ancora
dovrete rillettere à quanti disag- gi, che talvolta soffrirà egli per
effajalle fatiche eccellive,all'inquietitudini grane di, alla
scarsezza del tempo, ch'egli hàg che gli toglierà ancora il riposo
necessa- rio, le quali cose se tutte le rifletterete , certamente
in vece d'invidiarlo , più tosto lo compatirete, e direte con Vir-
gilio : Non equidem invideo miror magis. A tempo di
Seneca vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che
necessitava li suoi scguaci andar girando continuamente per las I 2
Città [ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi
senza aver prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à
ventura si presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive
per un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro
profitto,che d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in
quà , ora in là. Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo
merodo , fù da alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri ,
stimolato fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non
tralasciava d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile
di quel tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li
Signori, e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia contratto
le loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis , qui me
unicè diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo veritatis
studia Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec ipfis [ocr
errors] [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged
small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ipfis in totâ
vità fim futurus , nifi, & ab hoc tanto veritatis indagande
studio defi- ftam, da manè salutando circumeam , vefperi apud
potentes cænem. His enim artibus tum amari , tùm amicitias
conci- liari, tùm verò pro artificibus haberi &c.
Ed in tanto non volle egli condescende- re à farlo, perche la
giudicò per cofa impropria di chi era seguace di ottimo
Maestro, soggiugnendo in appresso da- poi averne commendato
alcuni di que- fti : At horum nemo , nèc mane potentium
fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu- rus frequentabat , fed ficut
Hefiodus cer, cinit : Namque alium ditem cernens cui
deeft, quod agatur : Ipfe folum vertit tauris, &
semina ponit. Onde fuggirete ancora voi simile
vizio, se desiderate d'essere veri seguaci d'Ip- pocrate.
La Pertinacia, e lo spirito di con- tradizzione sono
due difetti nel Medico di sommo rimarço, e non si possono per
con [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] I 3 conto alcuno in lui scusare ; se vi contaminasse
mai il primo, vi costituirebbe ignoranti, cogliendovi quella bella proprierà,
che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft mutare confilium ; vi faria anche di
peggio,che vi costituirebbe simili alle bestie, perche farebbe divenire ancor
voi incapaci di ragione , e perciò venendo esclusi dal commercio degl'uomini
savj cosa fareste infectaci di simile vizio? Se poi, che Iddio je me liberi
fofte invali da quel 'cattivo spirito di contradizzione y guai alli vostri
Infermi, perche venendo loro proposto da altri ciò, che si deve, e voi non
volendo, che fi eseguisse , mà più tosto in vece di quello , altra cosa
contraria, come anderebbe l'a cura facendosi à vostro modo, se foste ancora
pertinaci? Ippocrate insegnò à questo propofito ciò che si debba Fare, e che ne
risulti di male facendosi diversamentc , & è:(0) Neque fanè indecorum
fuerit fi Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà agrum verfaturz imperitiæ
etiam tenebris circumfufus , alios quoque accerfiri jubeat, quo communi
confilio , que in rem agri sunt disquirantur, & illi ad præfidiorum
facultatem operas fuas confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno trà di essi
questi vizj? De eo munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio exponere,
Sicchè voi , che sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi converrà tenere
lontani da voi tali vizj, che tanto vi potriano pregiudicare. etiam [C]
Hipp.præcept. L'Avarizia fù talmente odiata da Ippocrate, che se avesse
potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo, poiche scrivendo à Crateva
erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli manifeftò il suo desiderio
: Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis radicem excindere poffis , ut
nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto, quod unâ cum hominum corporibus ,
etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc quidem in votis habenda : Tanto scrisse
Ippocrate, con tuttoche non gli fossero ancora giunti à notizia li documenti di
Demnocrito , cheportandosi poscia alla sua cura in Abdera da lui medesimo sentì
, trà quali vi fù questo contro l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium
in terrum abdidit? Quinàm Taurus , alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium
impetu quodam delarus eft &c. e con ragione così esclamava Democrito
scorgendo l'uomo caduto in tal vizio peggiore de'bruti. Quanto mai cresca
la deformità dell'ayarizia in chi è avanzato negl'anni sentitelo da
Cicerone:(6) Avaritia senilis vituperanda eft maximè : Poteft enim quidquañ
effe abfurdius , quàm quo minus via restat , eò plus viatici quærere? Mà
più d'ogn'altro la saria obbrobriosa nel Medico , perche essendo stato da
Ippocrate dichiarato fimil vizio per male più grave della pazzia, cgli farà
tenuto non solo di crederlo tale, mà ancora di medicarlo, onde se in vece di
far ciò lo procurasse, ecustodisse in femedesimo con diletto , in qual
trascorso egli incorreria? E certamente più grave, e me [d]
inefiß.Damag. [e] In Cat,Maior. [blocks in formation] e meno scusabile
faria, che in ogn'altro, per non aver egli apprezzato li documenti d'un tanto
Maestro, che sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft humana vita , quòd ad
eam totam intolerabilis are genti cupiditas, velut hybernus flatus pervaferit,
ad quem morbum infania graviarem curandum , utinàm Medici umnes potiùs
concurrerent. E lo dimostra in termini precisi altrove , () dove così
saggiamente consiglia : Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci oportet,
nifi ut ad artem edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo inhumanitèr
nimis te geras, fed & opum affluentiam, & facultates refo picias,
interdùm gratis cures , itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis
existimationis rationem habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio
se te offerat his , vel maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum
fe exhibuerit, is artis amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri
viziosi leggendo, tanti ottimi consigli, dati loro da Ippo crate? [f] In
epif. Senar. Abderit. [5] Inlibede prai: [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] crate 2 Mi persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio
Pretore Urbano, riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa
Pompilio, che erano stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum
, perche , dos legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro,
perche egli era Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte
cofe, ch'egli faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano,
che di rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente
pregiudiziale al popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis
religionibus. Questo vizio certamente non farà scusato da chi è di mente
sana , nè da chi ben riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari
senza potersi sapere ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio
certamente che nò, poiche non altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che
fanno ; A prò degli Eredi 2 nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che
gli Eredi volessero go [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged
small][ocr errors][merged small] godere con ispendere liberamente, priveriano
fubitamente dell'eredità, fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà
l'avarizia , inentre per sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di
tanti avanzi ? facilmente non sapenda servirsene li consegnerà al lusso,
affinche disipandoli in un tratto ne impingui altri Avari. Ippocrate
odiava il lusso grandemente, à segno , che compose un libro contro di effo,
ch'è appunto quello De Decenti ornatu , nel quale non solamente incarica à
Medici di fuggirlo , mà dà ancora per cagione del lusso il modo di distinguere
li veri Medici da Parabolani, de quali ultimi parlando, così dice: Si enim
conventu facto ambitiofa, e quem fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium
circulis verfantur, Quos ex veftitu , cum cæteris ornamentis, quis cognofcere
poterit, quin etiam quò fumptuofiùs ornati fuerint , cà majori odio adversandi
, ab eis, qui eos confpexerint , fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi
ne parla : Quia bus [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors] bus non ineft exquisitus, nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus
venuftate, cu frugalitate, non tam ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam
existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt , ad inceflum verò
eo femper sunt habitu ; Sicchè dal Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il
lusso per quanto gli preme la propria riputazione ; certe mode straniere, e
galanti non gli competono , come si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus
calumniam tibi com. parabit . Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in
Senato di proibire il gran luffo di quei tempi, essendo egli di sentimento
contrario, persuadendoli, che in lasciarlo correre à briglia sciolta, da se
medefimo si faria stancato, e perciò disse : Nos pudor , divites satietas,
pauperes egestas in meliùs mutet; qual vergogna ne' suoi {moderati succeffori
punto non si mirò mentre in Nerone si vidde à che segno s'inoltrasse il lufto.
Mi persuado però,ch'egli si volesse ingannare per altro fine
politico, mentreche girandosi dal lusso continuamente la ruota
della fortuna , gli compliva più di vedere tante muta. zioni di
stato ne' suoi sudditi, che disau. torato chi li cagionava, e tanto
mag- giormente che avendo questo vizio un dominio tirannico
s'uniformava al suo governo . Tiraneggia per verità il luffo li
suoi seguaci , mentre l'impoverisce e vuole eliggere da tutti gradimento
di quanto male fà loro. Ordina , che dalla Persia , e dall'Indie
sia trasportato un drappo non più veduto , forza li suoi sem guaci
à prenderlo ad ogni maggior co- ito, e fà, che oltre il gran
dispendio ringrazjno quel Perfiano, quell'Indiano ancora, che lo portò,
perche appagò il loro desiderio , li quali ne resteranno fa-
cilmente ammirati, non meno di quello ne rimanesse Tacito , allorche li
Romani per abbassare gl’animi dell’Inglesi, li fe- cero assuefare à
molti costumi loro, e da essi non più praticati, e l'appresero per
foimo favore , mà ben se ne ayvide Ta- [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] cito del fine, che in ciò si aveva dicendo: (i) Que humanitas
cenfebatur, cùm efet Species fervitutis. L'Infedeltà, e Fellonia sono
vizi confederati, e detestabili in ogni qualità di Persone, mà più d'ogn'altro
nel Medico, posciache ogn'uno ciò, che ha di più prezioso, che sono la vita, e
l'onore glielo fida; Onde se csso mancaffe, à cui gli prestò tanta fede, che
gastigo mai li potrebbe trovare de' maggiori, che lo potesse punire à bastanza
, avendo commesso un reato di fimil forta, un mancamento di buona fede ? Sicchè
odiateli pure simili vizj esecrandi, conforme l'abborriya Ippocrate, non
volendo insegnare la Medicina à chi non aveva giurato prima sù tutte le Deità
ciò,che segue, cioè: (1) Nequè cujusquam precibus adducturus , alicui
medicamentum letale propinabo , neque hujus rei author cro , nequè simili
ratione mulieri pellum subdititium ad fætum corrumpendum exhi bebo,
(i) In Vita Agricola. 11) In lurejuri Hippocr. [ocr errors][merged
small][ocr errors][merged small] bebo, fed caftam, ab omni fcelere puram, tùm
vitam , tùm diatem meam perpetuò præftabo . Sicchè con ragione, e con giusti
motivi verrà escluso chi mai in fimili vizj cadesse dall'effer vero Media co, e
degno seguace d'Ippocrate, Non è piccolo difetto nel Medico l'essere
troppo curioso di quelle cose , che non fanno al suo mestiere, conforme tra
l'altre sono li fatti domestici de' suoi Infermi; onde da tal vizio ye ne
dovre. te aftenere,perche tal curiosità vi potria tenere distratti da quel
negozio, à cui dovete principalmente applicare, ch'è il ben dirigere le cure de
vostri Infermi, come y'astringe il giurainéro d'Ippocrate,ch'è questo:In
quafcumque domos ingrediar , ob utilitatem Ægrotuntium intrabo. Mà di più
di questa ancora può efa fere viziosa la troppa curiosità delle cose moderne, e
peregrine, e particolarmente ne' Medici giovani, che non pofsedono ancora la
Mcdicina à quellas perfezzione , che fi richiede ; onde da questo vizio
v'asterrete , sì perche vi fa [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] ria divagare inutilmente in cose, che ancora dal tempo non sono state
ben digerite , come ancora vi terria lontani da ciò, che farà necessario di
fare, cioè d'impossessarvi bene di quanto è stato da molti secoli confermato, à
segno, che diverreste periti nelle novità incerte, rimanendo inesperti
nell'accertate da lungo tempo , quali poscia sentendole vi giugneranno nuove ,.
sopra di che mi riporto à ciò, che disli nella secondas Giornata , nella quale
mostrai, come vi dovrete regolare per divenire Medici. Solo ora vi foggiugno
quello, che à questo proposito ne dice Ippocrate, ed affinche meglio
discerniate tutto il vizioso, per tenerlo lontano da voi: (m) Multæ namque ad
ambitiofam quamdam operam comparat& videntur , ea videlicet , qua de nulla
re utili quaftiones agitant ; E quali siano le cose utili nella Medicina, lo
spiega in appresso soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum ingrediaris , fac
cognitum habeas quid agendum fet ;. ple(m) De dec.org. che
pleraque enim non ratiocinatione , fed au» dia xilio indigent : E se ciò
non fosse chiaro ida à sufficienza passiamo al libro De Fractua
cioè ris, dove parlando de' Medici , qui sao da pientiam fibi falsò
arrogant , così chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa hoc stil modo hac
in arte æftimari folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc dùm conftat an en
utile fit, confueto, quod jam norunt utile elle anteponunt , quodque ab
ufu communi day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi vi sia discaro
di sentire quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate coloro, ei che vanno
cercando le belle idee : (a) ei Hujufmodi igitur , ubi præellem non tàm
de vi curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut auxilium ferrent
audactèr peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia apud eito istos
Sparfa eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti existant, eos ad utilem
exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione .: deftituuntur.
L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete lontano da voi, vi potria
farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai acquistato; Egli è capace di
farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo della vostra carriera,
d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in quella mostruosa
figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne parla Ippocrate
di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque agit ad
improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per divenire voi
yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro bene; c per ciò
farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli ridotti de'
Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si puol'acquistare
altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio genio , e ciò con
ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto alcuno da essi non se
ne ricava. Gran infortunio sarebbe della Me. dicina, quando v'entraffe la
Malizia à corteggiarla, avendo questa già impa rato (h) Dedecenti
babits, [ocr errors] rato adimitare tutte le bạone virtù con finzioni
soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più diffusamente in appresso;
Solamente ora vi avvertirò, che se tal? uno di yoi reftasse mai inferrato
da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1 quei Medici descritti da Ippocrace
:(9) Qui quidem Perfonarum, quæ in Tragediis producyntur maximè fimiles
esse videntur ; mentrechę farebbe tante comparse difi ferenti, quante
gliene dettasse la sua madi lizia nelle congiunture à lei opportune , ci mà
come termineria la tragedia lo moAd stra Ippocrate chiaramente doppo aver N
avvertito, che Orium , ignavia mali tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi
enim - Sunt, qui fora frequentant , ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes,
& circulis Civita tum verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi
posti nel numero di Parabolani necessariamente vi converrà fuggire , afe
e detestare fimil vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2
sem- (c) In Hippocratis lege. (d) Hippoer.de dec. habitu.
[ocr errors][ocr errors] 2. [ocr errors] sembrino trà di loro
contrarj, nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico,
dichiarandoli in lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò
imperitia malus eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm
opinione ipfi, tùm revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers,
timiditatis, & audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia
verò artis ignorationem arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè
scusare, nè anco sotto lpecie nel primo di circospezzione, e nel secondo di
spirito, perche diversi sono trà loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire,
e lo spirito . Il timore vi farà perdere l'occasione pronta , che vi si
presenterà di operare per non faperla voi conoscere, ma non già la circospezzione,
che nasce dal poffe dere molto bene ogni danno , ed ogni profitto, che ne
poffino risultare da ciò, che voi farete, onde questa vi renderà folamente per
breve tempo irresoluti, e fino (e) Hipp Text. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] e fino a tanto, che averete bilanciato il bene, & il
male, e conosciuto, ch'avrete quale delli due prevalga , sarete prontissimi
esecutori di quanto avrete deliberato. L'ardire poi per essere temerario vi
porterà con violenza ad operare , onde non vi farà diftinguere quando ve ne
dobbiate servire , dove, che lo spirito , che vi rende perspicaci, &
accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo. opportuno di farlo,
conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria namquè proclivitas, do
promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft , at confiderandum quando
bis uti liceat. L'Odio è un vizio, che trà li maggiori può divenire il
primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della sua iniquità, cioè alli
benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando reato , che solamente trà
gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere esenti, conforme da tanti esempj
registrari nello Istorie si può comprendere, & in ispecie di (f) In
lib.de Medica [merged small][ocr errors][merged small] K 3 [ocr
errors] [ocr errors] di quel fiero Leone , che nell'Anfiteatro Romano il' véce
di divorare il suo Beriefattore condannato ivi ad bestias, lo difese dalla
violenza delle altfc, mà quellos che si rende più considerabile, si è, che alle
volte' , quanto č maggiore il benefizio, tanto più viene perseguitato
dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g) Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm
videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur;
Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio sì obbrobrioso, e ripugnante'
ad ogni in il pretesto del naturale di chi lo segue , inclinato a farlo,
per non potersi moderare. Senticenc però prima d'impegnarvi à ciò, cosa ne
diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della giustizia Democrito:(b) Plerique'
verò quæ natur& hoc adSéribentes Benefactorem odio' habent, co parům abeft
ut indignè ferant fi debitores effe puténtur , fed eu pleriquè artis
ignorantiam in se ipfis habeotes, a imperiti (g) Annal. lib.4. [h]. Epiß.
ad Damageexiftentes, id quod meliùs eft purgant intero stupidus
enim fiant suffragia. Talche il solo sospetto d'essere infetti da
un fimile vizio, vi renderia incapaci per sempre di
quanto voi bramate conseguire. Quanto mai sia difficile d'esprimere
tutte le trame dell'ingarinoz ed impostu- ra, sentitelo riferire da
Ippocrate in tal guisa : (i) Difficile eft multorum malorum
machinatricem folertiam verbis exprime- re, cum eorum fit infinitas
quædami din bis cum dolofis conimentis prava mente in- ter le
conversentur; apud eos autèm virtu- tis modus habetur , quod eft
deteriùs; men- dacia enim amant, do in bis fe exercent,
voluptatis ftudium extollunt; legibus mini- me parentes a
Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate esprimere l'inganno
vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da questi li modi più
improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè fi seguita da efi
altro studio, che della menzogna, nè fi atten de (i) In
epist.Domaget. [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] K 4 1. avendo de ad altro, che à piaceri,
e diversi- menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le tristizie di
costoro non si pofsono mai à bastanza esprimere, stanteche,
fingen- dosi questi Mcdicis con modi improprj. accreditano li loro
medicamenti , non punto di rossore ne di servirsi di testimoni
corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne
ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere
ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,
, quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano
graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche
rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati
mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti
d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno
diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che
deve infallantemente mie [ocr errors] rllanare, per avere pronto si
nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in
sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro
grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti
spediti da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno.
muoja, perche ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li
loro Infermi, non potendoli più lusingare con le solite false speranze di
salute, de' quali prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per
inantenersi poi in creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono
d'incontrarsi con Medici dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi
ben sa discoprire la loro ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di
queste verità, mentre egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia
profundo fubmerfi funt , ij prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè
percipiunt , cum Medici nomine iz digni [] Intib.præcepat [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm
repente evetti fint , fortune tamén egentes per die vites quofdam
ex anguftiis emergunt viri- que es éventu nominis celebritatem
adepti &c. ed in appreffo : Qui certè ad curatio- nem non
accedunt ; ubi vident miserabilcm effe affectionem, c ejulatibus
plenam, alio- rum-Medicorum congreffum fugiunt; e in altro luogo:
(m) Qui igitur eos reprébena dunt qui viltis à morbo manus non
admo- vent , non minùs adhortantur ad ea fufci- pienda , quæ
attingere fas non eft ; quàm que fas eft , in eoque apud eos qui
nomine tenus Medici sunt admirationem fibi conci- liant , ab artis
verò peritis ridentur. Mà crescerebbe più oltre ancora l'iniquità
di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj conforme
che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso un'abito
di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj procurava di
maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era clandestinamente in qualche
cura (m) in lib.de Arte, čura, doppo di aver fatte molie insolite,
ed affetrate offervazioni intorno all'Ammalato, cosi incominciava à parlare :
Io coinpatisco infinitamente li Signori Medici, che lo curano s perche questo è
un male'assai oscuro , e difficile à ben curarsi, non essendo ciò da cutti, fin
qui scorgo , che hanno fatto tutto quello , che sapevano", nè io drdisco
di biasimare ciò, che fino ad ora harino fatto, perche quest'abito ; che porto
in doffo non mi permette di dir male del mio prosimo, nè di togliere la
riputazione à Profeffori cotanto accreditatie tanto maggiormente, che quando
anche non foffe ftato fatto a fuo' dovere ciò, che si è fatto sin’ora', non
siamo più in tempo d'impedirlo, dico bene , che io peccherei mortalmente, se non'
dicelli libera.. mente ciò, che debbasi fatie in avvenire, questo male à conto
mio và curato in tal guisa : Primieramente gli si devono dare i tali, e tali'
rimedi , e dipoi develi fare in questo modo, e ac fi opererà diversamente, io
mi protesto che questo poveroInfermo se ne morirà quanto prima ; e lo.
vedrete con vostro cordoglio. É fe tal uno degli astanti più
prudente lo prega- va d'abboccarsi con li Medici della cura, à fine
di comunicar loro questi suoi sen- timenti, ei ricusava tal congresso,
con pretesto , ch'essendo odiato da tutti li Medici per la sua
ingenuità, e dottrina non fariano mai condescesi à quanto di buono
egli avesse proposto, onde , che reputava non solamente superduo
tale abboccamento , må ancora non pratica- bile da un suo pari, che
deve,per l'umil- tà, che profetava, effere injinico delle
difcordie; onde avessero pure fatto ciò, che ad esli pareva , e piaceva ,
bastando- gli d'aver accennato il gran pericolo, ed il modo
insieme più sicuro da sfuggirlo per mera carità di giovare à quel
povero Infermo così aggravato , non già per in- teresse alcuno, da
cui egli n'era lonta- nisiino. Infinite confusioni cagionarono
simili parole pietose in più cure , stante- che tal’uno de' più creduli,
che vi si tro- vorno presenti, diffe : Sentiste , con che
[merged small][ocr errors] modestia parlava quel sant'Uomo, se non fosse
così scrupolofo, oh quanti errorici averia discoperti, commesli da' noftri
Medici ignoranti in questa cura ! Si vede però, ch'egli intende, perche hà fatto
certe osservazioni particolari intorno all'Ammalato, che non le abbiamo vedute
fare da' noftri Medici. Ed altri di più consigliavano à licenziare tutti li
Medici per farlo curare da esso folo, per-. fuadendofi, ch'egli l'averia
certamente guarito . Quali danni ne riportino li poveri Infermi da costoro, che
Medicorum congreffum fugiunt,gli espresse assai bene, e con pochissime parole
Ippocrate nel sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti verò dolore conflictati
in utrâque improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza, e dell'inganno
di simili viziosi Impostori. Quello però, che reca non ordinaria
meraviglia si è, che il popolo più volte caduto à dar fede à fimili viziosi
Impostori con danno notabile, & evidente della propria falute ritorna di
bel nuo nuovo a creder loro , & à restarne insieme nuovamente
deluso, conforme ancora che con tutto abbiano questi nociuto à molti, niuno
contro di essi dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di ciò / non
puol'essere altra, che godono questi quel vantaggio, che hanno le donne di mala
vita, da cui ne s'allontanano molti, che da esse furono danneggiati, nè alcuno
contro di esse ne fà rilentimento proporzionato al male ricevuto', e ciò cre.
do, che segua sì nell'uņo, che nell'altro caso,per la vergogna,che ogn’uno di
essi hà di manifestarsi con atto publico per imprudéte, onde perciò pazienta,e
ţaçe. E finalmente se per disaventura un fimile yizio contaminafle mai il
Media co dotto, ma politico, oh quanti danni ancor peggiori di questi
apporteria à molti, posciacchè inestandosi al ben radicato sapere l'inganno , e
l'impostura , che frutti velenosi mai produrrią unas fimile pianta ? e nocenda
questi senza effere creduti nocivi, non solamente trà l'idioti , mà ancora trå
li più cautelati, e cir. ) ) e circospetti troveriano
lo smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò solamente che il Medico
dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore, avendo egli perduto la
sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno de' suoi Infermi, facendo
loro arţificiosamente credere , che da esso depende lą loro falute, anziche la
vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento di più yiyere, quando si
allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora di tutti gli altri
Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per prevalersi egli
delle frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non potendo contraporre
le proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non sapersene schermire,
giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite di mantenervi ingenui,
e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta d'invigilare alla
publica salute. Non tantum tollerate nefas hanc tole lite peftem.
Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Del miserabile
vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì perche vi è già nota la sua
deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à gran passi per la strada della
sapienza,solamente vi riferirò per vostra consälazione, affinche prestamente ne
diveniate veri possessori di questa, ciò, che Ippocrace à questo proposito
insegnò, con una bella somi glianza , & è: (n) Non alitèr enim ac
Miniftri , & Miniftræ in domibus tumultuantes, ac ceriantes , fi quando de
repente eis hera adfuerit, attoniti conquiefcunt , fimilitèr etiàm reliqua
animi cupiditates malorum, hominibus funt administre, at ubi fapientia in
conspectum fe dederit, tanquàm mancipia reliqui affe&tus difcedunt. Insegna
parimente Ippocrate nell'iscoprire li seguaci di tal vizio il modo da conoscere
li Medici ignoranti, mà di ciò non devo parlarne, perche il mio fine è diretto
à detestare li vizj , fenza andar cercando li viziosi. Non però tacere devo il
gran danno, che questi apportanoalla povera Medicina riferito da Ippocrate irel
principio della sua legge in tal guisa : Omnium profectò artium Medicina
nobilisfima, verùm propter eorum , qui eam exercent ignorantiam c. omnibus
artibus iàm longè inferior habetur . Finalmente con la Maledicenza
terminerò io ancora di dir male de vizji questa è un vizio assai incivile,
perche opera sempre contro li buoni costumi, e contro la civiltà , questa
certamente non si dovrà seguitare da voi, venendovi da Ippocrate tanto proibita
nel libro : De Medico, che in tal guisa incomincia: Hoc fcripto Medico
imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose, che coinanda vi sono le seguenti:
Ut animi temperantiam excolat , non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ
totius vitæ moderatione , bom nis, ac honeftis fit moribus, & æquus in omni
vitæ confuetudine fe præftare debeat ; Le quali cose come le potrete osservare,
essendo maledici ? Ed affinchè meglio comprendiate quanto il ben moriggerato
Ippocrate odiasse questo vizio, passia L mo [ocr errors] mo à
rillettere ciò, ch'egli dice nel libro De Arte , il quale comincia così :
Non nulli turpitèr in sectandis artibus artifi. cium suum collocant
, neque id, quod facere Se credunt meo quidem judicio obrinent ,
sed Jue scientia oftentationem faciunt aci E poi soggiugne :
Qui verò ea, quæ ab aliis sunt inventä inhoneftorum verborum arti-
ficia contaminare contendit , nequè quida quàm corrigit, fed
à peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem
tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè
prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem
contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut
aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur
, qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura
eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate
li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere
tra uomini di ono. re [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che
quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa
bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che
quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi ,
ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete Țacerò ancor Ia per non
nausearvi di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj,
sperando , che ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi
prendere odio a tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno
facilmente alle virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero
į viziosi , se spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero
insieme con effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid opravi
inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius fuit ,
quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex odio
res L 2 dii (a) De Vita beata cap.2. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui
dc. Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se avessero la forte
dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo, approfittatevene
dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di mente capaci di
conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste per cosa molto
difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con le vostre virtù
vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto communemente si tollera
nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad avvilirlo, nè à fargli
perdere il suo vago Splendore. Passerò ora alla seconda parte per
esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare nel Medico.
Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e dall'inganno viene
talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà discernere, se prima
non si scoprono le sue parti vergognose, che و [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno sapuco,
ne potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-
ganno vogliono , sono capaci di trasfi- gurare così bene la
superbia in umiltà, l'iniquità in zelo di giustizia , che
diffi, cilmente senza l'ajuto del disinganno , che
scopre le loro vergogne , li potranno distinguere. Nel prino caso
si serviran- no facilmente de' seguenti artificj. Da-
rete à suo tempo voi un'opera alla luce, ò vi riuscirà felice
la cura di un male grave, è cosa facile, che ne abbiate del
compiacimento interno, e questo avvan- zandosi più del dovere, è facile
ancora, che palli à farvene qualche poco insu- perbire, di
quell'opera, di quella bella cura, cosa faranno la malizia, e
l'ingan- no per farvene affatto insuperbire ? Ri. copriranno la
piccola vostra superbian con il manto dell'umiltà , & in
congiun- tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno in tal guisa à
rispondere : Questo non so- no cose degne di lode, sono bagattelle,
non meritano d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di
un debbole ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná
tanta umiltà, ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli
meriti della causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi
maggiormente insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla
in ascherata superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò
fimulata; bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi
facilmente la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto
quello, che la finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par,
ticolarità di più, che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì
ancora perche i chi è capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può
in qualche cosa trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo
lacererà in un tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le
fue vergogne rispondendo : Come ! non fono [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] ز sono cose degne di lode? sono parti di un
debbole ingegno sono bagáttelle? sono tutte cose d'eterna memoria ;
voi non le capice, perche liete un'ignorantë. Che ne dite ? questa
è quell'umiltà, che una volta parlava così bene; è forse scu-
sabbile nel Medico avendo questa un naturale si fraudolento? Mi persuado
, che ora, che la conoscere ; non la scuse- rete, anzi la
biasimerete più costo. Nel secondo caso se venisse in pen-
siero à tal’uno, che Iddio non voglia, di promovere al
servigio d'un'Ipocondria- co da lui curato qualche suo
amorevole, mà dovendosi rimovere chi attualmente lo serve, e
competencemente bene, sen- za l'ajuto della malizia, e
dell'inganno.». non si poiria ciò effettuare. Questi cacci- vi
vizi per servirlo, che cosa faranno ? procureranno di vestire
l'iniquità con abito di zelo di giustizia, e che diča à
quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che viene servito bene da
quel suo Ministro, mà che premendogli tanto la sua salute, il
suo zelo, & il suo obligo richiedono [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] gli procuri sempre li
suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di propria salute, e di salute, che
gli premetanto, per 12 conservazione della quale il Signor Tale foggetto nel
suo mestiere unico, che non hà pari, saria veramente à propofito , mà non per
questo è dovere di far perdere il pane à chi lo ferve, si dice solamente, che
lo sappia , che vi è chi lo servirebbe assai meglio, caso che capitasse mai
congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi projetti ad un'Ippocondriaco, che
non brama altro, che vivere, con tutto quel di più di male, che sentirà
dire per altre vie di quel povero galantuomo, che lo
serve,procurate da chi vuole lubentrare; Credete voi, che non si
effettuerà fimile tentativo dall'iniquità? Forse prima di otto giorni
farà espugnata la Piazza, perche tanto si batterà, che si farà
brec- cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella impresa ne trionferà
la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il Ato ne sia capace,
má vediamo un poco se il fine è stato retto, e se il zelo digiu-
stizia 1 che il propo [ocr errors] [ocr errors][merged
small] stizia ne fù egli il primo motore? Chi avrà procurato simile ingiustizia
, certainente, che non sarà molto eccellente nel suo mestiere, perche chi è
tale, è ancora giusto , e prudente, dunque ve ne saranno de' più esperti di
lui. Ciò supposto procuriamo, che il disinganno ne faccia le sue diligenze, e
questo facil. mente farà infinuare al sudetto Ippocondriaco, che giacchè hà
megliorato nella mutazione di quel suo Ministro, procuri ancora di mutare il
Medico , e ne trovi un'altro megliore di quello, che ha presentemente, e
piacendogli tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa dirà colui, quando si
vedrà fuori del servigio? fi lamenterà forsi del torto, che gli ha fatto, avendolo
tanto tempo ben servito ? mà di chi si lamenterà? dovrà dolersi di se medesimo,
perche gli è stata fatta quell' ifteffa giustizia , ch'esso hà procurato foffe
fatta altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in questo modo, che non ebbe per
fine il zelo di giustizia , perche questo non gli è piacciuto, mà forse
ne [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ebbe [ocr
errors][ocr errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che low no chiamati
secondi fini, cosa ne dite voi di questo vizio ermafrodito & vi pare di
poterlo scusare nel Medico; e se ve ne fofreche non credo ; tal’uno trá efi to
scusereste forse ? Io per me lo scuserei nella forma appunto , che diffe di
fimili viziofi Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot indigenas; e miferas
ánimas videamus quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja deditam ludibrio.
non bao beamus 2 Molte altre frodi,tramåte dalla malizia, e dall'inganno
potrei orá riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che fosseros che tal’uno ( di
voi non dico , che siete di ottima inclinazione ) sentendole riferire se ne
potesse abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più tosto Artem oblivionis ,
quàm memoria. Avete già udito la gran deformità de' vizj, il danno, che
apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ; nè fcufare in conto
alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per tenerli lontani da
vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori, nel qual caso faria
necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per isvellere affatto li vizj,
ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che sono appunto i
vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi fufcitant, ex
quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque per la Giornata
di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno rimàrrete
certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili infezioni, in
avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche sarà Giornata di
molto profitto quella , in cui si parla delle virtù. [ocr errors][merged
small] [blocks in formation] Nella quale. fi discorre dell'acquisto delle
virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se alcuna di effe fi
poffa in lui cenfurare non Vanto mai sia infelice, e miferabile
la condizione umana,lo dimostra. 110 non solamente li vizj,mà anca. ra le
virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono, spontaneamente in noi
germogliano, e le seconde, che sono così utili, senza reiterare fatiche,
& una lun. ga , & industriosa coltura si acquistano. Appena nasce
l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si manifesta, e quel primo vagito ,
che dà n'è il primo contrafegno , mentre non ne sà ancora il perche egli lo
faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e la gola si manifestano ;
S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e di mano in mano , che
gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un dop [ocr errors][ocr errors]
doppo l'altro fi veggono germogliare; Con ragione dunque disse Democrito
: (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft ; e ne assegna la cagione
: Talis enim ex materno cruore Sanie permixto promicuit Infelice ,
e miserabile dunque condizio ne umana, che per fare acquisto di
ciò, che l'è nocivo, punto non hà d'affaticar- si, perche
spontaneamente li vizj li fan- no possessori di noi, essendo
concepiti, e nascendo con noi medesimi, e questa è la cagione,
perche erunt vitia donec homines, dove, che per ottenere ciò , ch'è
di nostro sommo bene dupplicate fatiche si ricercano; La prima delle
quali consiste nello svellere da noi le tanto im- poffeffate radici
de vizj, e l'altra d'an- dare à poco à poco introducendo in sua
vece li semi delle virtù, e ciò non basta, perche conviene ancora di
cuftodirli fino à tanto, che siano assicurate bene le loro radici,
per non essere dove sono se, mentari suolo nativo. E perche ò lante
virtù spontaneamente ancor voi, ccon quel(d) In
epi.2.Damaget. [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged
small][merged small] quella medesima
facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici? Conosco, che voi fiere
un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto sdegnare di unirvi con
noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di Dio, conosco ancora, che
per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni iminondezza, pura, e
proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state lontane da noi, la colpa
non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che siamo quelli, che vi
impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe conquiste, che ci possono
rendere beati, con trascurare ciò, che voi richiedete Oggi sì, che voglio
far prova di voi per conoscere à che segno liano gli animi vostri generosi, e
se avere ancora acquistato l'uso di ragione , potendo, se vorrete, ciò che si
trova d'infelice in voi commutarlo in prosperità, e ciò, ch'è disgrazia in
fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete sprovisti, all'acquisto delle belle
virtù, se ambite divenire Semidei, dicendo apertamente Ippocrate, (e)
ches Medicus Philofophus Deo &qualis habetur ; e cosa voglia intendere per
Medici Filosofi lo spiega divinamente in appresso, cioè quelli, che habent ,
quç faciunt ad demonstrandam incontinentiam, quatuoSam, ac sordidam
profefionem, inexplebilem habendi fitim , cupiditatem , detraa &tionem,
impudentiam ; che sono per l'appunto quelli, che seguirano le virtù , ed hanno
in abbominazione li vizj. Sbandito dunque , che avrete da voi ogni
vizioso inquinamento, e perciò renduti più capaci dell'acquisto delle eroiche
virtù, proporrò in primo luogo ciò, che concerne alla Religione, come quella,
ch'è la suprema di tutte le virtù, & ancora la loro base fondamentale, in
cui sono appoggiate tutte le altre. La Religione quanto debba essere
àc cuore al Medico, sentitelo da Ippocrate: (f) Hactenus igitur cum
sapientia, communionem , eorumque etiàm plurima habet Medicus, nam & Deorum
cognition [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] дет
(C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe potiffimùm animo complectitur , cumque
aliis in affe&tibus , & casibus Medicina multum Deos colere comperitur
duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di avere insegnato, che nella Medicina vi
era ancora: Superftitiofi metus aversatio preAantia Divina . E non solamente à
benefizio vostro ciò converrà , che facciate , mà ancora à prò de' vostri
Infermi, perche venendo ogni bene dal Cielo , nelle vostre più gravi, e
pericolose cure converrà , che non vi fidiate della vostra fola perizia, mà
ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con la sua santa grazia à bene
indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora descritto in Ippocrate, e
dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi raffidavano solamente ne'
loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente; (8) Quos contrafacerc
decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad Templa deducere, Diis
fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima peccata Deus expiat ,
dapu rificat (g) De morbo facro.. rificat tuteláque noftrâ existit
; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro come potrete essere
annoverati trà suoi seguaci ? A questa viene in seguela la Prudenza , la
quale è una virtù al parere di Democrito riferito da Ippocrate, che non
solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà ancora fà prevedere
il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia eminùs splendescens.
Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è quella, che toglie ogni
confufione, e libera da qualunque pericolo chi la poisede : Qui enim hæc ipsa
prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè liberantur , meum risum
fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima rimovere da noi tutti quei
vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li principali sono l'ira , la
superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li quali sono tutti capaci di
farla prevaricare, e renduta che sarà per la mancanza di M que(a)
Epist. ad Damag. [ocr errors] questi quieta, e tranquilla , la Prudenza
con maggior facilità si potrà acquistare. Senza questa bella virtù,
regolatrice di tutte le buone operazioni, non pensate di potere esercitare la
Medicina, perche come vi potrete regolare senza effa , allorche v'incontrerete
in Maláci indiscreti, e disobbedienti, in mali simulati, in controversie con
altri Profeffori, ed in tanti altri emergenti, che vi possono giornalmente
accadere, in quali laberinti vi trovereste? in quante confufioni, se non aveste
la scorta della Prudenza, quali inquietudini provereste se foste privi di sì
bella virtù ? (6) Non poteft effe vita jucunda, à qui abfit Prudentia , come
disle Cicerone; Cni possiede detta virtù hà quanto di buono poffa mai desiderare,
ftanteche (c) Nullum Numen abest fi fit Prudentia. Quindi è, che
Ippocrate fino, che visse non solamente fi fece regolare in tutte le fue
operazioni da questa virtù, come nelle sue memorie si scorge, mà consiglia li
suoi seguaci , e comanda loro insieme à non discostarsi punto dal suo
patrocinio, insegnando ancora il modo per acquistarla, conforme da moltislimi
suoi documenti potrete comprendere , de' quali ve ne riferirò quei soli, che
sono registrati nel libro De decenii habitu , dove doppo aver descritto il
vestire positivo del Medico accreditato, soggiugne : Qui se fe, ex cultus
venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam curiofitatem , quàm ad optimam
existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt; e passando à ciò,
che deve provedersi di necessario con(b) 5.Tufculon. (c)
Juven.fat.10 per il suo mestiere , lo avvertisce, che sia prudente
in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at detrimentum affert ;
Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò, che può avere di
bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi le confusioni, e
li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca , mà insieme con
prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor [ocr errors][ocr
errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non li prevalere di
Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso debbitore, e
quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam tùm apud
majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il modo di
conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non multarum
rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam affequuntur
. Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per conseguirla ,
caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo anco in
questa. La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte, al
parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ
iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa
non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti
li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano
tutto il contrario di ciò, che alla Giustizia piace. Il bene, che
apporta detta virtù è dupplicato, perche non fo- lamente benefica
chi la riceve , mà an- cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene
tutto quello , che deve desiderare, e conseguire, e chi l'esercita non
puoles- sere censurato à ragione, perche le sue operazioni saranno
sempre regolare con giustizia, e tutta quella giustizia, che si fà
, si riceve ancora da altrui, in ciò , che riguarda gli proprj
avanzamenti ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe mendationis,
famæ eft juftitia, fine qua nihil effe poteft laudabile.
Meritamente dunque compete al giusto di fiorire co- me la Palma :
Juftus ut palma florebit, perche conforme la Palma quanto è più
caricata di grave peso, tanto maggiore mente sormonta , così ancora il
giusto, quanto più fi procura deprimerlo, tanto maggiormente viene
inalzato. Questa eroica virtù non solamente
viene incaricata da Ippocrate al Medico [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] M 3 con (e) Cicero
i.de Offic. con precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ
confuetudine se preo ftare debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum
omnibus in rebus multum fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo
seguitata, conforme in tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per
non dilungarmi, riferirò solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui
scritta al Senato di Abdera, nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi
omnibus modis ditefcere voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum
gratiâ ad vos venirem , fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote
opibus humanis refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei
non lo fece foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam
Patria inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor
exifterem ; Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi
il publico bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come tale (t)
De Medico. [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la
giustizia, non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far
costare, che con quelle dell'essere di. finteressato. Custodire dunque la
Giustizia co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi
può rendere feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente
sia giusta, come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta
Romana di Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna,
che sono: Hic tibi tuta quies, do que cupit odia virtus. Defisietquè
nihil, fo mens non deficit equa , Infeparabile dalla Giustizia deve
effere la Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la
prima dispone senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme
fi avevano da regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo
Esecutore, che M 4 che in caso di trasgressione de' suoi
Malati fi armasse di fortezza per farla eseguire : (8) Eumque à fuis
cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum amaru- , lentiâ vehementèr
increpet . E questas virtù come s’acquista ? con togliere da noi ogni timore,
ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e rendere l'animo pronto, &
obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla discrera Giustizia
ordinato'. Doppio bene parimente ne nasce mediante la sudetta virtù ; Il
primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto di non essere
adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro compéte, e non di
vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima , erispetto,ponendo
in sogezzione coloro, con quali si tratta . Örnatevi dunque voi ancora di
quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze resistere alli'defiderj
dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità ز [ocr errors] à
cra (5) Hippode decenti ornatu , [merged small][merged small][ocr
errors] * crapulare giornaliente , e dovendo opporvi à ciò, che fuor di
proposito ver- rà motivato dagli aftanti, come potreste resistere,
se non foste armati di fortezza, e costanza , neceffariamente
caderefte nell'adulazione con danno sì della loro Calute', che
della vostra riputazione ; oltre di che con pochi contradittori vi
abbatterete , perche conoscendovi di quell'animo descritco da Orazio
; Juftum ; tenacem propofito virum. Non Civium ardor prava
jubentium, Nec vultus instantis T yramni: Mente quatit. Per loro
quiete più di uno vi lascierà stare senza recarvi moleftia .
La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri (moderati desiderj, e
li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende finalmente padroni di
comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito, fiinproverando coloro, che
hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis dominare velint , fibi
ipfos imperare ne queunt : (3) Hipp. epif.Damag,queunt ; Senza questa
bella virtù nelle maggiori prosperità non si puol godere di quelle e Alessandro
il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano più mondi, che subitamente si
concristòs e perdette tutto quel contento, che forli aveva ris cavato dalle
coniquifte di più Regni , perche gli crebbe subitamente il delide, rio
ambizioso di fare maggiori progrefli. Come s’acquisti questa virtù
linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu modica concupifcemur, fi
unusquisque se numeret , metiatur fimul corpus , fciatquè hec multùm
capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad temperantiam omnium
rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti, quidquid facies
refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di quel gran Morale
per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti ancora si
ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia , quæ
facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni cafu (h) Epif.94. (i)
Inepif. Damago cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam
ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non
extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè
suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum
periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft. Elsendo
dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la
dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene,
ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli
vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che
à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati,
e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio,
doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente ,
onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da [merged
small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete
superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si
prevalerà dell'opera vostra. E tanto maggiormente, che l'offervanža di si
bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci,
comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam
excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione
Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m)
Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ
existimationis rationem habeat ; Itaques longè satiùs eft à morbo
fervatis exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci
esempio la volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato
dal Rè Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet,
reliquaquè quibus indiget effuse ei (1") De Medico. (m)
De precept. (n) Ix epift... Hellefp.Præfee. 6110 ei exhibeto, di ad
nos mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la
promessa confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne
ayeise potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime
refcribe, nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè
frui; Pere sarum autèm opibus uri neque mibi fquum eft; E scrivendo
à Demetrio manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex
Persarum nos ad fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri
rationem; Chi altro farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture,
che ad una chiamata di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse
potuto contenere con quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate,
che Ippocrate non considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in
congiuntura, che ricusando, per non rendere schiava - la scienza Medica delle
venalità, li dieci talenti offer [ocr errors] tigli (0) In epift.2.
Hystania (p) In epift.Demetr. . tigli dalli Abderitani per la cura
di Democrito , così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere
voluiffem viri Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos
venirem, sed ad magnum Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus
humanis refertiffimæ occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè
comparat&; Magna enim sunt virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur ,
Jedin apertum fe proferuntur. Ex morbis quajtum non facio. Sono tutti
questi esempi, che provano un'eroica moderazione di animo, una somma
temperanza, e se è vero ciò, che riferisce Seneca, (r) che Platonc, ed
Aristotele ricavassero più profitto dalli costumi di Socrate, che dalle sue
parole. Questi del nostro Ippocrate sono tali, che possono bastare à togliervi
dalIa mente ogni (moderato desiderio per farvi divenire seguaci di sì eroica virtù
, come è la Temperanza, ed allora potrete con essa ridervi di quelle
vagheapparenze di felicità da alcuni tanto apa prezzate, consistendo tutte in
fottilidima superficie, mentre dentro di se, non altro contengono, che
incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro di se, non altro
nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro à sentire ciò,
che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud , quàm
mendacio gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco omnium
istorum, quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e disces
fub iftâ tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera
felicità non consiste nell'esterna apparenza , non nella superficie vaga, må
bensì nel godere internamente una tranquilla calma, che dalla bella apparenza
esterna più costo viene turbata, che dotta. Hò cercato, come si fuol dire
, per mare, e per terra un ritratto al naturale della verità pro
per farvelo vedere, mà non l'hd 17
Epiß.115. 1 1 l'hò potuto ritrovare à proposito,
perche, chi l'hà dipinta con il viso coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi
l'hà profondata anco più bassa, onde non sapevo come fare per farvela vedere ,
non troyandola delineata in formas ostensibile . Mi venne in pensiero
diricercare in Ippocrate , fe in occasione, che fù per curare Democrito
l'avessi à forte potuto vedere nel suo emi abbattei per l'appunto nel
sogno, che egli fece prima di andare in Abdera , nel quale al vivo descrive la
Verità , ed in quella guisa appunto, che gli comparve in sogno, (t) ve la
descriverò ancora io. Gli parve di vedere, nel primo spuntare dell'Aurora una
bella Dea alta, e risplendente, ornata positivamente, e senza pompa , li suoi
occhi risplendevano come dui scintillanti stelle, ed avendolo preso per la mano
lo conduceva per la Città di Abdera à passo lento, e finalmente nel disparire,
che fece ella gli disse , ch'era la Verità , e che nel giorno
pozzo, se(1) Is Epift.P hilop. 3 [ocr errors][ocr errors]
seguente lo aspettava da Democrito do. ve dimorava. Meritano veramente
molte circo. stanze di questo misterioso logno d'efservi interpretare; La prima
delle quali è la sua maestosa bellezza, e questa denota, che la verità è degna
di essere da tutti amata; La seconda il suo ornamento positiuo, e senza pompa
significa, che non hà bisogno di francie, nè di altri abbellimenti superfui ;
La terza, li suoi occhi risplendenti mostrano , che ella abbia necessità di
buona vista, dovendo vedere , e ben discernere li vizj, che la perseguitano; La
quarta, con il prendere per la mano Ippocrate fà comprendere, che non vuole
contraere amicizia con gente di cattivo costume, perche bene li avvedeva,
che appreffo ad Ippocrate non si accostavano nè la bugia, nè l'adulazione ; La
quinta il condurlo à palli lenti inferisce, che chi vuole andare accompagnato
con la verità non deve caminare in fretta, mà adagio , come faceva Ippocrate.
La festa il dire, che lo N aYC [ocr errors] averebbe
aspettato da Democrito, dove ella dimorava, significa, che non ama le grandezze
del mondo, ne vuole fare la fua comparsa, se non in quei luoghi , dove alla è
conosciuta , e rispettata con fchiettezza, e sincerità. Obella Dea, se
questi sono li voftri fentimenti, date à divedere , che voi fiete troppo folitaria
, modesta, e circospetta; E perche non frequentate luoghi più magnifici, e non
vi fate vagheggiare publicamente ? Forse, che temete di faziare chi vi rimira
con il vostro afpetto, conforme fù detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de'
suoi tempi, per non farsi vedere in publico , che col viso coperto ? E
finalmente , perche non conversate con persone di sfera inaggiore de poveri
Filosofi, con quali domesticamente voi trattate? Sapete come risponderà
facilmente la Verità: lo son contenta di ftarmene così solitaria, perche fono
troppo odiata , sentendomi dire da per tutto : Veritas odium parit ; ed io, che
abborrisco di soggiacere à quest' [ocr errors] odio, per vivere quiera ,
e tranquilla , son forzata nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel
Cielo godo ogni libertà , ivi sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di
eterna pace, e fapete per. che ? Perche ivi l'Invidia non mi perseguita ,
l'Adulazione non mi tradisce, l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto
nuocere, come dunque posso io in Terra liberamente conversare , senza pormi à
rischio di perdere quanto ho di buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che
dico. Se io comparisle da per tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi
bene spesso con miei iniqui, e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno
tante prede mi guadagnassero con lodare la inia bellezza, e mi
facesseroprevaricare , non farei più virtù, onde per mantenermi tale, quale
devo essere sono forzata vivere in folitudine con il mio bene accostumato
Democrito. Avrete da quanto vi hò descritto sin'ora compreso non
solamente la bele N 2 lezzalezza della Verità , mà ancora li suoi
divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à sposarla , perche cosa
più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e tanto maggiormente,
ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura, bastandole , che
finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però, ch'ella è
gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la menzogna, l'adulazionc,
l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in un'istante la sua
grazia. Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche Ippocrate , ch'ebbe
la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome in sogno, ne restò
così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò fedelmente, à segno di
esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo acquistato concetto;
Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à suo capriccio, e
perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di averlo curato
male, dicendo , ivi : Hoc me latuit [ocr errors] latuit sectione
opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a) Biasimerà taluno di quelli
che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua confeffione publica
ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c tanto maggiormente,
che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi pure prevedere, che la
maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per iscreditarti, à cui
egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà faftidio, che si mormori di
me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto lasciare
quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e segua
pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà riportato
Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à renderlo
glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti: Cornelio Celso così
ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum effc (a) L16.5.Epid
<grot.-7. (b) Lib.8.cap.4. N 3 effe Hyppocrates memoriæ prodidit
, more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum rerum habentium; Năm
tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt; magno ingenio, multaque
nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò: ris confeffio; præcipuèque
in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris traditur, ne qui decipiantur
eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft. Quintiliano ancora lo
commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte Medicâ videtur
honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft , boc fine , nè
posteri peccarent. Certamente, che non avrebbe riportáte tante lodi
Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse confessati li
propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che dice. Dunque
animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e non remete dalla
Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio, anzi
te (c) Lib.z. cap.8. [ocr errors][ocr errors] tenete per
infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali. Il
difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che
discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , &
efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori,
in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque
Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe
capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la
Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e
farvelo vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente
confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella
vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di
farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori
vostri bifogni. Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa
eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e
d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è,
che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe
fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di
quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft
rectè fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed
quantùm reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che
non fù fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia manifeftato:(e)
Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus fuiffet ; E perche
non si fece ? Mortuus eft. Conforme ancora nel caso di quell' Uomo quafi
leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal male,che aveva,
mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di Scamandro, (8) à
cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe possuto dire :
Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim pharmaci; E nel figlio
di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à magnâ pharmaci
vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ; Nella moglie di
Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius , quàm opportebat,
pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i) il quale:Cùm
bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ; E nel caso
di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E finalmente
in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad nervum fanè
parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus eft.
Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le dovemo al
Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche ancora non
consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero ancor esli con
questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à pofteri; Quanto
bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è vero, molo te
mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto cantato li loro
trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li secoli venturi
godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò Giovani ingenui
questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete conforme egli fece
alli consigli del vostro disinganno: yemo (g)
Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1)
Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74 7 La
Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno
il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza,
volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci
ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la vi
[ocr errors] ) [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella
Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à
prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di
perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio
dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo;
che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum
effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da
prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via ,
che per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà
à proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il
Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già
dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in
verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e
vigilanti, non (0) Hipp.Præceptiox. (9) De veteri
Medio. (p) Di Prenot. non essendo sufficiente la fola vostra
pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis
fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi
noftri tal neceffità per cagione della separazione, che ha fatto la Medicina
dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di vigilanza ,
dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet opportuna
facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo invigilare
il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve, ora maggior
obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta. Nè vi
riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se
stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso,
mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma
avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici,
ne'quali fi puol (r) Epid. lib.6.dift, &: puol dire con
ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con
rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di
efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete,
(che : Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud
alium fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam
comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex
nuncupatur. Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica ,
la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare
madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza
essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare , A voi
dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara facica.
La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon dada per
impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare degną
memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal vostro
ingegno. Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata, nella
quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica ; mi
resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per
farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia sufficiente
per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi annoverati
trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli vi converrà
infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi acquisti,
restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle volte in mali
non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero etiàm nova
incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì va#a, che
niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè Ippocrate, nd
tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli confessa
ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm fenex
fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius. Quale appunto debba essere la
seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum invife
diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes
accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs
expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è
così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da
voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo
voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto
tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori
incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene fo(t) In Epif.Democt
(0) De decenti babiru. [ocr errors] folamente abbracciata da quelli
fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza,
e questi per il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono
in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno
abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e
consigliata insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo
studio prudentes incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim
verò etiàm nunc per nos inventa ad te fcripfimus. Nè delista taluno di
voi, che sia abile à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito
di volto, emaciato di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò
fimile fatica; posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di
volto, e dal comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti
che sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza. Mà (x) In Epif ad
Reg.Demetr. [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne
risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò
pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi
non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi,
mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è
prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò,
che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò
degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove,
che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia. Non mi stenderò di
vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia
più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già
descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel frutto
, che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di proposito
oggi parlarne , stante che che questo da Ippocrate viene stretta.
mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno egli lo
profeffava . Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita civile,
acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù', trà
quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà, la
Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo abito
deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione, &
altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume passa
fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino, mentre hà
un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in capitale ; Per
csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non riceve alcun
discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora lodato. Devesi
nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione ne'
buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e con
affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male, e
tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel qual
caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ; Peffimum
inimicorum genus laudantium. A che segno sia necessario al Medi, co il
buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo dimostrò
Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di
consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè
am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera
non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che :
Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo. Nè solamente
il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt O 2
per [a] De Præcept, و 'per causa sua ancora nell'innocente Medicina
la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro
acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò
nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia
praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni
inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può
rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice,
onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al che
l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la
colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne
passa alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me,
ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja
il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in
morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda
perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt',
ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum
exiftiments morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut. tro,
verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli ,
nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem
eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da
simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam
quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe
exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices
, ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter
exiftimet. Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli d'insegnarvi
il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che per ļa Dio
grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed incapaci di ragione ,
per non esservi approfittati di ciò, che vi disli, detestando quei vizj, che
costituiscono il mal cos ftume. Continuare di buon'animo á fuggire li vizj, e
seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e non dubitate , perche Hi vostri
buoni costumi in breve diverranno ottimi, & acciò possiate conseguire con
più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni costumi eroici d'Ippocrate, li
quali vi potranno fervire di norma in moltissime vostre occorrenze , che vi si
presenteranno facilmente à suo tempo. Egli fù così esemplare
nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà Medici ( alla riserva
di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve ne sia di presente ,
chi lo possa uguagliare La Pietra del paragone per cono. fcere se il
costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant mores , onde quando
l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione dell? onore
ricevuto's tenete pure per certo, che ) che il suo costume
sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna l'umiltà in
grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa. pendo per
esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la superbia è
quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi ci
meriti, ) Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non trovo fi
controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse, con
promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo
Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio,
che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente,
che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini
effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet
Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro
meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit Poo 0 4Populus ut is
magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O
coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis
in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat
non fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria
ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in
Pritaneo toto vita tempore donetur. E questi commi onori qual mücazione produsero
ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo insuperbire,
come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece chio à
Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi
confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad
punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico
picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva ,
per quanto li può congetturare dalla mede fima lettera, la cagione delli
ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era
potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con
questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la
cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche
gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate
resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali
onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado
dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li
costumi. Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi
abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata
cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di
mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo
dunque voi onori, faprece [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con
l'esempio di un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le
prosperità, che ne risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto
fecero prevaricare li antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della
Repúblicas esemplari in bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano
declinando , e finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni
divennes ro cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur.
Mi di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi,
perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non
solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi Mi rimane per
totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò,
che hò proväto con le ragioni ancora. Il primo de'quali sarà di farvi
vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che
effi 11011 [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che
furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere :
(c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui
antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non
potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi
fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué
abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos
fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut
reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant
redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in
appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum
nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo
; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione
quid quàm [c] Dx viftus ratione lib.i. [d] De ratione vitus
in grutis. [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis
tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum
fingua lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm.
Avete of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne
parla un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non
pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero;
Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li
Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè
mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso
dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato,
rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi
riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno
fatto di bene .; Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose,
che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune predizioni
(e) credute da Prospero Mar. ziano suo Espositore accurato, Astro-
loggiche, che appresso gli Egizj si prati- cavano in quei tempi, che
erano alli Greci ancora ignote, le quali non li pia- cevano,
mentre disse : Egnautèm hujuf- modi vates effe nolo ; e con
ragione, per- che gli pervertevano ciò, ch'egli con
tanta diligenza aveva ricavato dalle proprie offervazioni intorno
alli prono- stici de' mali, e che aveva appreso dagl'
altri, e pure con questa modestia si con- tonne :
Prædictiones Medicorum referun- tur permultæ tùm præclar& , tùm
admira- tione dignæ, quales neque equidèm prædixi,
neque quemquàm, qui prædiceret, audivi; e cosi destramente se
ne liberò senza contradirle . Questa maniera sì dolce
non è stata già praticata nel giugnere à notizia tante belle
invenzioni Anatomi- che ; contro la circolazione del sangue
cosa non fù detto mai? Senza possedere un'ottimo costume non
fi può lodar ciò, che (e) Lab.2.Prædi&ionum [ocr errors]
che perverte un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga
serie di anni. Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era
necessitato à palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza
individuarne l'Autore, ece cettuatone li proprj, li quali publicamente
confessava , come già fentiste, parlando del disinganno, e questo, da chi vien
praticato Solainente d'Ippocrate fi racconta fimile ingenuità, & in caso
ancora, che abbią apportato laws morte, Per quarto finalmente per far
trionfare la sua gran bontà riferirò il giuramento, ch'egli fece, che nella
Medicina à suo tempo non vi era alcun Medico razionale, (f) che non fosse di
buoni costumi, e questo giuramento, chi lo farebbe à tempi nostri ? Onde
bisogna neç ffariamente confeffare, che unico fia stato Ippocrate non solamente
nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de' co stumi; [f] In lib.de præcept,
[ocr errors][ocr errors] ftumi ; Sicchè con ogni giustizia li com. pere il
principato nella Medicina, che egli da tanti secoli pofliede. Dovrete yoi
dunque per essere tee nuti degni, e veri suoi seguaci non folaa mente
abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli scrisfe in Medicina , mà ancora
ftrettamente osservare quanto nella morale si debba fare, ftimando forG il
buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al vero Medico, delli suoi
Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà di ciascheduno di
seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad offer. varli
esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita incolpabili,
onorati, casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma segrerezza , e
sentite sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi religiosè
obfervavero, ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud omnes
existimatione perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum fruEtum
percipere , quod fi illud violavero, pejeravero , contraria mihi
contingant ; E quan [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel
Medl att [ocr errors] mente si può comprendere da ciò,
dice nel libro Di lege : Quifquis enim Medicine scientiam
fibi vere comparare volet eum his ducibus voti fui compotem
fieri oportet natura, dottrina , moribus generofiss è chiunque di
questi ne farà privo, come uomo profano, diverrà im-
meritevole gli sia dimostrata una scien- za sì facra ,
conforme e la Medicina, soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra
fint , facris hominibus demonftrantur , pro- phanis verò nefas,
Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le
virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in
conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al
vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza,
conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate
nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre و (
9 ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova
legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando
affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè
calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui
forensem quastum seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali
dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono
quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co ,
quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli
nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici
existimationem tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima
parte. Se poi alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico,
che è la seconda parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì,
conforme con un'esempio riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere.
P TutteTutte le virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à
tutto loro potere s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece
di ricavarné profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo,
tra le altre , fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che
arriva la loro autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in
sconcerto, e perciò diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è
necessario unirlo alla civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto
potrebboro giornalmente accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire
della sola Giu. ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità
à fare à fuo modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso
con tutta giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se
ne ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non
che, ò l'Infermo facesse peggio in; (1) Ecclef.cap.79 1 [ocr
errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo
riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non
si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio
d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente
{gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo
consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco
di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che
faràche la Giustizia usata divenga profittevole , Il ţimile pariinentě ne
seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia
ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio
farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno ,
& il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la
morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius [ocr
errors] (a) In lib.præcept. [ocr errors] dizio, lo potranno più
facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano
impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in
oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non
s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà
credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità
; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e
non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le
donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne
più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico
senza taccia. Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj
d'Ippocrate, che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a
farvi incaminare per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal
guisa , fe à caluno di voi paresse tut tavia [ocr errors]
tavia disastroso, non occorrerà s'affati chi di vantaggio, perche per lui
non fa. ranno à proposito le virtù, e per tanto se ne viva pure à
suo bell'agio con li suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do-
mani quivi si presenti, perche voglio in avvenire parlare solamente a
quelli, che hanno generosamente determinato d'ab- bandonare affatto
li vizj, e seguitare le sole virtù. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged
small][ocr errors] G. I Ô R N Å TA V I. Nella quale s'accenda il modo di
prévalerfi del consiglio delle virtù contra l'infidie. de
vizj, affinchè il vero Medico poffan godere una vita iranquilla , e
lasciare di se doppio morte una gloriufi memoria : [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio contento non ordinario
vi vedo oggi, prima del solito , quì tutti preferiti; posciacchè
averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi nơn s'era già
determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi forfè venuto;
temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli altri, foffero
mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti del consue. to, è
chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano nelle Giornate
passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi, abbiano già
déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato in
appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo
interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti
padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la
medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole
virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non
temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto
nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi .
to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà
curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici
teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente
d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro
insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque
cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria
facilmente quando apriste qual [ocr errors] che segreta porta , per dove
poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino pure
fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno
danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale
nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli
gran danni , che poteva loro apportare, mà appena partito, sollevorno lo
spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero
più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che
perdelfero la loro libertà. Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre
voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù,
potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno di
Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso di
prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio quel
bene , che à suo tempo, ed [ocr errors] [ocr errors] in tutti i vostri
maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire per
confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione. E cominciando
prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche Non fi
comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi fervirà
di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare fempre
uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj, e li
gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve ftare
unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur ,
quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student
omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che
vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche
fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che
non veggono, v'in [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono
à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non
più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali ,
dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi
quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che fuggiare
ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è seguace delle
virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare fede à ciò,che
leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte alienarvi dal suo vero
sertimento Non ritrovandovi ora in istato di potere profeffare la
Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi converrà cercare
ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la Pradenza ,
v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive Cicerone in tal
guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque deligere
optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque au auctoritate
vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da regenda prudentiâ
eft. V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi dovrete contenere per
acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato ossequio, di esser
loro fede li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è tutali, obbedienti,
e diligenti in tutti li affari, che v'insporranno, perche operando või in
questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto l'amore, må vi loderanno da
per tutto, dalla quale preventiva commendazione germoglieranno à suo tempo li
principi delle vostre fortune', e troveretegià spianata la ftria da de voftri
progreni s állorché principierete à medicáre. Intraprendendo con questi
felici principj l'attual'esercizio della Medicinás allorche' già farete
divenuti esperti , non pafferă lungo tempo, che molti di prevaleranno
dell'opera vostras & allora appunto li vizj vi comincieranno à muoa vere
guerras e Vinvidia farà la prima ämoà molestarvi. Questa già da bel
principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni sguardi , mà non prima di
vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li suoi seguaci, e le
comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo giovani , che non avete
ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo : Oh poveri Malati, che
si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono seguirà per miracolo, non
per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti per arrestaryi ne' vostri
progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà disseminare dalli
medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati vi capitano, tanti
ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi coloro, che vi
chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa dovrete fare? Non
altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia, che vi favoriranno
assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene alcun fastidio,
perche è affai migliore la vostra forte و sorte , per essere
invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che non hanno chi
l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno poscia à non
prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia , perche
operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in loro
libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi
consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di
contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi
alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà,
resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di
ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa
farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per
necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à
qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi
mo per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete
subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di
tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio,
e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono
ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non
sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà
il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già
con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che
ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi
å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi
temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con
aniino generoso vi riferirà li seguenti casi. A Diogene Filosofo Stoico,
mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo
giovane fpu Sputato in faccia , sopportò egli il tutto
piacevolmente , e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà
non lasciò però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo.
Catone mentre staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso
ua folenne sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , &
armato di una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che
fi gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque
all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al
modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile
ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio,
e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti,
desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza
delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan. [ocr errors] zati già
ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà
facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno
considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte;
procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate
faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in
quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, &
Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State
faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel
meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire
l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e
questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio
generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di
accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che
cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à
prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri
genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della
propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non
abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme
ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola
difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la
Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si
pratica in alcuni luoghi, dove il folico di cercare chị abbią dotę groffa
, chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in
primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi
costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore
impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se
per comprare un [merged small][merged small][merged small][ocr
errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può
subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e
se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile
non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le
condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con
quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo
negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata ,
e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la
buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, &
avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate,
che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete
fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo
vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito
un'assegnamento suffi ciente 1 [ocr errors] ciente per
il inantenimento della vostra fameglia, e non prima , pèrche si
ricerca fenno, e cominodica per effere, buon Pa- dre di fameglia.
Non troppo giovani, per non distogliervi da vostri studj, ed
avanzamenti, ne' quali non sarete anco- ra bene stabiliti , nè troppo
vecchi, per non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo immacuri, e
senza avyiamento, e per non foccombere ancor yoi fotto il peso del
matrimonio prima di quello , che fareste vivendone disciolti ,
conforme à tanti è accaduto , Şe poi voi adurrete alla Prudenza
, e Giustizia li seguenti motivi, che avete esimervida simile
legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à
sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione
de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro
inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo,
vilascięrano in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e
Tempe Q: per [ocr errors] ranza, } ranza ,
acciocchè vi consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe
qualche violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente,
che siate circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio,
che yi tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che
siate fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca,
l'interpreciate sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che
ricevendo qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per
isperimentare la vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete
subitamente, acciò la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che
vi moftriate sempre sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di
confidenze, dalle quali con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi
luoghi sospetti,se ne potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi,
procuriate efservi in ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca :
Magna pars peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi Aat(a); ed
ivi non vitrattenjate più del bisogno necessarios e sempre con
discorsi serj, ed uniformandovi alli consigli della Fortezza,
e Temperanza non diffidate punto della loro allistenza nelli maggio
si vostri bisogni, che dureranno lino à tanto. che sarà in auge il fervore
della vostra gioventù . Il vizio della gola vorrà aticor'egli
fare tutti li suoi sforzi contro di voi in decto tempo più profpero di
vostra vita, per vedere se vi potesse adescare; e cofa
farà a comanderà facilmente à qualche- dano de' suoi ricchi feguaci
, che facen- do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o
cena; conviti ancor voi; considero , che vi troverete in quel
punto preso incri- garislimi, perche rifletterete allora ,
che le ricuserete tale invito , sarete' tenuti per uomini
incivili, che non gradite li favori, e cortefie, che vi fi fanno;
fed l'accetterete,metterere ad un gran risico Ja
vostra temperanza , onde vi converrà (*) Episi 11.di questo ancora
chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano imedio per quando
vi capitaffe il bio fognb. si Consigliandovi preventivamente con la
Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete contentere, sarà facilesi
chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove sia solito, e che
frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino in fimili
bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite',
nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che
yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla
vostra consueta fobrietás perche nuocerestu e è più li denti nel
masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola
avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà
solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al fai civile,
che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra
complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole,
che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque
taccia d'inciýiltà . 03.15 Sò che vi appagherete di tal distinzione
saviazfatta dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea
dici ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i
loro difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto
segue dove di detta stima si penuria. E certamente l'esperienza hà fatto
vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili
cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita ,
ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto
biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro
portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio. R 4 [ocr
errors] ne, he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli
nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se
hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů
z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà
peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia
restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme
fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non
poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero,
in un Catone fimile vizio faria passato in virtù . Mà non si sono già
pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci
coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci
per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed
in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne ро
[ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a mà, per non
dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per vincere la gola ,
il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di crapolare con
un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia : Stabilito che
avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per decentemente
vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la vostra
economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia lità di
cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più
formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi
Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre
fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi
ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing,
che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica,
con una 1 250 Dell'Idea del vero Medico. una continua
inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo
pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna Cosa dovrete dunque fare
per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi
converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia
nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti
con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che
quando ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe
maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo
quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi
bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono
più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere:
Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che
basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ? E quale
di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate
confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro:
Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi,
che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che
lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e
rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e
che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở
di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c
finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco
di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre.
Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque
altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non si può
G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per
la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò
da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5
dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi
molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in
tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e
mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro
defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che
potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura
appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor
edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino
à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra
cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per
res go: [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;
per non incorrere nella caccia d'insa- ziabili. Voi sarete
facilmente rimasti per ora appagati di quanto vi avrà detto
la Prudenza, à segno, che non vi curerete sentire altro
conseglio, con tutto ciò per convenienza almeno sarete
tenuti,aven- dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-
ne il parere della Giustizia , intorno al vostro regolamento, e con
tale occasio- ne vi potrete consigliare ancora sopra un certo
ripiego, che facilmente il vo- ftro desiderio visuggerirà, cioè di
all.com gerirvi de’ servigi antichi per proveder- vi
de' nuovi di maggior vostro profitto, e minor briga, il quale non
lo dovrete porre in esecuzione senza l'approvazio- ne
della Giustizia. Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che
bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al
vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , &
il tempo, che vi resta libero, [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si
presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo
pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che
stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non
reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo
configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze
canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa;
con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi
ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le
misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye
che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete
ve le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose
di molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e
scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio
ni, [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che
fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente,
perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita ,
divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono
riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per
fimilisbagli essere curati. In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere
in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua
veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo,
mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро de' vostri
bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con altro
motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna vostra
colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan fit
injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së esercitaste
la Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi lontani,
dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono incominciare
à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere un altro :
İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe l'occasione di
poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere grati, e costanti,
fische sarete capaci di medicare, Con tutto che resterere per qualche
tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la Prudenza, e la Giustizia
perche il vostro desiderio yerrà conținuamente bersagliato daļli sudettį ab.
bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate l'affiftenza della Fortezza , e
Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili nell'offervanza di detto
consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi potranno apportare, sarà
d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere Itati insaziabili, nel
colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche infelice memoria di esia
ne fią rimasta trà noi [ocr errors] و [ocr errors] noi,
mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata , senza indirizzo, a
senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver avuto tempo in vita di
ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una lunghissina, e
dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi , appena hà
lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia stato detto
di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti, perche
erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di quello,
che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e senza
timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti, Impresli,
che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la riferfione, che il
simile seguirebbe in voi, fc cadefte in tali errori, non temeţe più , che
il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj , perche questi gļi
serviranno di un gran freno , R Nelle Nelle vostre maggiori
prosperită l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima confifterà in
ispargere di voi più lodi di quelle , che meriterete, per risvegliarvi contro
l'Invidia , quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi già premuniti de'
buoni avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto nuocere in questo
primo asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e fincera umiltà,
supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo, Màvedendofi da voi la
maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue frodi per violentarvi ad
essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza Adulatori, come farà mai ?
Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura grave, nella quale
intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi farà da
queiti porre in angustie di diventare Adulatore per forza, per li
seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava, perche non
gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza questo
[ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo rimedio, e la colpa
farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace. Un'altro vi dirà:
perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo volete lasciar morire
senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si dirà di voi, à me basta
di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi ayyertirà, che se gli
cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene; e d'avantaggio vi
dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per appunto
un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene proposto , e
gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie , in che
laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ? Imitercste
senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da un'amico
dell'Infermo , in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo proponeva
, perche cra esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli rispose:
& io son tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce [ocr
errors][ocr errors][merged small] fi: 28 公 1 da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si
dia , non si deve dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un
fimile intrigo», doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè
loro Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via,
mà ciò non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi
dovrere regolare. Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza
disapproverà molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di
proporre, ed escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da
pensare alli medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati,
con modi si violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi
consiglierà: Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e
questi, ò fi appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti,
rimarrà già terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro
modo, se poi persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora
suggerite, che tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie,
desiderate nella cura di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re
ciò, che si debba fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y
acciòcchè la lunga dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti
siano presenti coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con
quante circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa
di più la poffano dedurre à tutti. Facendo voi à modo della Prudens za,
non dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c
consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi
certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li
senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo
la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da
Medico, mà bensi [ocr errors] 9 [ocr errors] da Adulatore, e che
quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti
indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con
tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza
con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non
vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno,
nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano
ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di
fayòrirli, eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi,
evilipeli, e se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè
pure úgo ne sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse
prevaricato per quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che
presterete fede à quanto vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto
fuccedeva in quei cempi leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del
suo [ocr errors] me. [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo:
Eoque jure fit cum ægrotare cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į
utpotè quos per Sanitatem noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime
familiares habent ; quique ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si
banc popofcerint, lavabunt cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò
quidquid jubebitur mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten
callet ; fed qui adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic
omnia plana's perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur
dives, plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche
hanno imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano
degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran
guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era
à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa
per essere io la Fortezza, che affifto à quei ز e. lig a fe ne be
he ni dy 112 to 5, 10 generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione ,
& abbandono quei vili, che se le danno in preda Se poi non bastasse
all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse
ancora farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in
questo caso, fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che
mediante quelle egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à
continuare il servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in
questo caso, con tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di
consegnare ad altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che
questi sono casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato
Infermo, che di voler'essere adulato, con tut per farvivedere, che ve ne
sia stato qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte,
viriferirò la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni
sono, dovendosi pro to ciò [ocr errors] [ocr errors]
provedere di Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato
al suo amico di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse,
dicendogli apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti
più esperti del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto
pren derne uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche
io non poffo Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo
modo, gli rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft
benes: conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo
lodare la sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di
Medico, à cui si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera
comparsa ; che poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti
anni, che detto Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che
terminò finalmente, per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno,
espurgava della marcia per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non
farà marcii , må bensì il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò
al suo Medico, che gli rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore,
e con quel pangrattato se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua
vita. L'Iniquità, e l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire,
che voi godiare quella bella tranquillità interna per cagione delle vostre
virtù, vorranno ancora effi con le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile
per turbarla ; ed in fare ciò vi toccheranno facilmente nel più vivo,
inolestandovi in qualche cosa di vostra somma premura , e doppo di aver consultato
trå fe più danni,risolve, ranno alla fine di farvi perdere il servigio di
quelli, che vi sono più á cuore, € tanto si adopereranno,e con tanti mezi
s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà ciò, che bramavano i onde voi,
senza faperne il perche , e senza averne data و [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] data alcuna occafione , essendosi
con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi troverete esclusi da quel
servigio da voi tanto prediletto. E che farete allora? vi dolerete forse con la
Giustizia ; che siete stati licenziati à torto ? Avvertite , che facendo in tal
guisa imitereste Santippa, che si doleva della morte di suo marito , perche si
faceva morire å torto, à cui il sapience Socrate rispose : E che desideravi
forse, che io foli fatto morire à ragione ? questa appunto è la mia gloria, che
sono fatto inorire à torto. Sicchè alla Giustizia non vi cooviene ricorrere, må
berisi dapoi che fi sarà alquanto calmato quel senso, che neceffariamente vi
avrà apportato una nuova ingrata, ed improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza
per riceverne il suo configlio à fine di poter più spedicamente restituire
all'animo vostro quella bella calma, che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era
stata rubata : La Prudenza senrendo da voi tal novità vi consolerà
certamente, ftate al [ocr errors][merged small][ocr errors]
allegri, dicendovi , che questa è una's grazia, che vi fà la Divina Providenza,
facendovi capire , che vi dovete alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi
è più caro , per confidare solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi
fedelmente la serve. E di che vi dolete? forse perche perduto avete un servigio
à voi caro ve ne restano pure tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro
affetto, che così non avrete fatta perdita alcuna potendone del vostro amore
ricevere da molti maggior ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo
vostro amore non gradito dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto
maggior profitto di quello , che vi rendeva prima. E se veramente amate di
cuore quella casa, che avete perduta g non vi dovete contristare della perdita
vostra , mà bensi della sua , avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da
tanto tempo nelle complessioni, e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno
affatto novizio , che prima , che ne qa divenuto 1 capace à quel
segno, che voi siete, vi vuole del tempo affai, & in tanto come anderà? e
poi se questo nuovo eletto fù complice ancor'egli nelli segreti trattati
dell’Iniquità, e dell'Inganno , che bell. acquisto , che averà fatto, prendendo
uno di simili costumi in vostra vece , che fiete uomini di onore, talche non
voi, mà chi vi lasciò hà occasione d'afAliggersi, perche danno à se stesso
feçe, non à voi, che per essere esenti da questa briga ne ricevere sollievo ;
chi è pari. mente entrato in luogo vostro , se pur? egli è complice, come disfi
, ayrà molta occasione da contristarsi per la finderesi, che gli resta di non
avere operato come dovea, e per il timore, che un giorno il fimile possa
succedere à lui ancora.Quietatevi dunque , giacchè rammarico alcuno non vi
resta d'averli mal serviti, con questa ferma fiducia, che in quel sito ( come
tante volte è accaduto ) da dove la malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva
forza un virgulto , la Giustizia vi pianterà un vago, e glorioso lauro
con [ocr errors] con questo motţo ;Ųno avulo splendidior non deficit
alter; molto di più vi potrei dire, se non lo riputaffe superfluo, poiche
gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi si sodisfano, e li calma. no,
allorche vengono da accidenti im. provisi turbati, Udifte come vi consolo
bene la Prudenza, e con che fortį motivi , li quali fe li cerrețę impressi
nelļe vostre menti, quantunque vi giungano simili accidenti in avvenire, punto
non vịcontristeranno, avendo questi forza di disporre gl'animi vostri à
foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di fare, che li sudetti vizj delle
loro iniquità non trionfino. L'Ambizione yorrà ancor'effa nell' auge
delle vostre fortune tentare, fe potesse fare con yoi quaļche acquisto;
s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe , viftimolerà à molte imprese,
con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per esempio , fe y'insinuerà di
comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche nuoyo metodo di medicare , à
qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora da altri, e voi ricorrere
subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete come v'indirizzerà bene ;
intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà questo dilemma: O ve ne
sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono, perche non li seguitate?
che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se poi non vi è cosa ancora
accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli frayagliato una infinità
d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di vantaggio ? non vi avvedete ,
che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza alcuna di gloria, e se pure
la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema, ed il metodo corrispondono
al tutco, e quando questo non regge , e non suflifte, è se. gno evidente, che
le fuc parci costitutive fono difertose; Impiegate dunque ogni voftra fatica in
accertare , e rendere palese qualche parte di esli, che vi avvedrere, che sia
oscura, ò che manchi, la quale benchc minima , nulladimeno una gran gloria vi
apporterà, allorche l'averete accertata, e rinvenuta , e lascierete tali
imprese grandi a' pofteri , che fi renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè
acquistate, saranno maggiori notizie delle loro parti costitutive,di quel, le
ve ne fieno al presente; E per non effere creduți imprudenti scegliere di
queste le necessarie , come avvertì Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium,
quòd quidàm nimis magnum gran ) ftudium , multamque operam in
res abfcuras , atque diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle
ancora, che sieno proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b)
Sumite materiam vestrisqui firibitis aquam. Viribus , &
verfate diù quid ferrere cufent Quid valeant
humeri. E perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra
gioventù intorno į a' ritrovamenti Anatomici , Chimici, of[a] Primo de
Officiis. (b] De Arte Poetica. osservazioni Mediche e d'altre
cose utili, che richiedono ayvedutezza di mente, buona vista
, afsiduità , pazien- za, e sanità, e questi accertati, che sono
incontrovertibili, rimangono per fem- pre, e vi dissuaderà in detta età
di dare alla luce trattati di nuovi modi di inedi. carc,essendo
allora appunto come i frut- ti fuori di stagione, che non hanno
tutta la loro sostanza, dovendosi ciò maturare nell'età avvanzata,
e colma d'esperienze pratiche , dal che si può dedurre la ca--
gione, perche talvolta ne’libri,che trat- tano di pratica , alcune cose,
che vi fi ritrovano non si verificano punto, e ciò proviene ,
perche furono descritte da Medici , che non avevano ancora tutta
l'esperienza necessaria per meglio accer- tarle. Vedendo
questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun
guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro
figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che
avendo S voi [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni
Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile ,
qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e
dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella
persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto
sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e
consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc,
che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore
judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti
titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo
conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò
conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa ,
l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi
usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero [ocr errors]
me [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro
ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si
legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente,
senza dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi
concetto di esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e
perciò resta in un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri,
L'Avarizia con duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se
non avrete figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che
potrete, à fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò
de' posteri; fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi,
ed in questo frete bene circospecti, poichè Fallit enim vitium fpecie
virtutis , du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli,
certi stimoli infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2
PruePrudenza, e con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete
fare , c vi diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di
lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza
alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel
di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi
recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e
nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con
Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi
siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi
nelle virtù, stante che : Haud facilè emergunt quorum vir
tutibus obftat Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che
Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare,
dicen dovi [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque
verò exigende mercedis cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem
edifcendam tuos instruas; E che quando gli averete duplicato, ò
triplicato ciò, che fù lasciato à voi, e vi bastò per di- venire
virtuosi, sarete giudicari da tutti per buoni Padri di fameglia, e che
av- vertiate bene, che certe ricchezze, che superano la propria
condizione, e per altro non bastano à mantenersi in altra sfera
superiore , sono pericolosissime, perche à cui fi lasciano , volendosi
trat- tare quefti d'avantaggio di quello, che compete loro,
preftamente le dißiperan- no, conforme l'esperienza quotidiana lo
dimostra ben? fpeffo , per non volere questi tali ad altro
impiego applicare , che à quello dello dispendioso diverti-
mento, non servendo ftrertiffimi Fide- commiffi , nè altri
legami inventati per impedirlo; ftanteche nella medesimais
conformità, che da'viventi si passeggia sopra li sepolcri
de’defonti, cosi ancora per l'appunto si passa sopra le loro
vo- [ocr errors][ocr errors] lon(a) De pracept. S 3.
278 Dell'Idea del vero Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare
più d'ogn'altra cosa farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni
avviamenti, che allora , quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se
medesimi potranno divenire ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle
ricchezze, che da se medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 ,
conforme bene speffo in quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene
questi consigli, e servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia. Incominciando
voi à porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne
avvedrete facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima
reggere le voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro
certamente che di consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual
via dovrete caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per
la lunga esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle.
La [ocr errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di
tutte le altre virtù vi dirà, che non è convenevole d'abbandonare tutti
quei fervigj di coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del
profitto nella loro salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia ,
che hanno in voi, efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco
parte di elli , perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale
risoluzione ; onde voi non potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei
vostri clienti, vi converrà perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi
poffa alleggerire almeno la fati ed acciò abbiate facilità in eleggerlo,
vi apporterà le trè malime sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo
secolo della commune falurcs cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in
persona di Tiberio ; La seconda da Galba in quella di Pilona ; e la terza da
Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed in tal guisa facilmente v'istruirà ,
dicendovi : Nella prima Augusto ebbe una $4 pelli [ocr
errors] pessima intenzione,inentre scelse un soggetto di reprobi costumi; un
Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al sostituente più di ogn'altro,
stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi gloriam quafavisse . Nella seconda
vi fù ottimo fine, perche fù eletto un meritevole, solamente si mancò ne i mezi
, e di questo ne fù cagione l'avarizia di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe
conciliare animos, quantulacunque parci jenis liberalitate, c perciò ebbe
l'esito infelices Nella terza finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non
vi fù punto di vizioso sì nel principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù
gloriofiflima. Queste , benche fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no
possono servire di norina ancora nelle picciole, mentre dalla prima ne
ricaverete, che vi sarà che vi sarà poco bene accostumato; chi farà
vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ; Dalla seconda ne dedurrete, che
chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e non esser punto
do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit. Hia.Jib.1. redominato da questo vizio,
se brama, che tutto vada felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte
le buone condizioni farà quella , che si dovrà imitare da voi per fare una
degna elezione,mentre non fù già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di
parentela , nè di {moderato amore, che gli portasse , mà bensì per il suo
merito, e per la bontà de' suoi costumi, e non ebbe già per fine principale di
gratificare l'eletto, mà solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e
perciò riuscì un'ottimo Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli
del suo Impero. Non intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li
parenti, gl'amici, e quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria
ragionevole, anzi vi dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale,
ed anco qualche poco superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia
isteffa , vi avverto solamente, che non vi serviate della parentela,
dell'amicizia, e dell'amore per inicroscopio, acciò ز [ocr errors]
vingrandischino di molto il soggetto, che prendete di mira per sostituirlo,
altrimenti v'ingannerete , e chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne
avvederà molto benes conforine capirete anco voi istelli rimirandoli
fpassionatamente ins fimile forma : E' ud verso affai trito; mà però che cade
molto al proposito quello, che dice: Quifquis amat ranam, ranam
putat effe Dianam; E la cagione fiè, perche l'amore non solamente så
ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li difetti degl'oggetti amati. Se
farere dunque voi la vostra elezione con rimirare li soggetti calig quali
realmente sono 1109 alterati, per quali vi pofsono parere, non solamente sarà
questa gradita , e profitcevole, mi eziandio riuscirà per voi gloriosa ,
conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior gloria , che gli fia rimasta
trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere un Trajano per fuo
successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno [ocr errors] ora
comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo giudizio, e la sua
integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per appunco coerenti à
ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis nunquam quidquàm
procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft vituperium in te
recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi. Palliamo ora
all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale essendo da
voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do la vostra
direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete proposto,
perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro prático
configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più leggieri, per
poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo ne'.gravi, con
questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con visitare ancor voi
di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con li vostri più
accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente non avranno
fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato , restando
loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del giovine
sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo potevano
esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo benefizio
sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da voi, e da voi
non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore, dove che se
fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra dependenza ,
non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal da voi
independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo far'egli à suo
modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso di qualche
controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi rimbambiti, e
che quan; [d] De dec.orn. non [ocr errors] non fiete più
capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò qual
vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione, una
inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi dovesse
prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al vecchio,
benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce contro
costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè evecti
fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt utrique
exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu diffluunt
, quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac. In questo
proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro
pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella
professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie,
edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra allora
meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa virtuofa ,
utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua, e viziosa,
nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi dirà: la
disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa per
meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi termina
prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio megliore, in
un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi prevalgono, se
gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente si appigliano ;
Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal costume, che per lo
più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole occasioni, non
solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai viene affatto
terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio cedere
nullus eriti [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è, perche
tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel qual
caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non si
vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in
vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi
improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere ,
come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à
prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada,
che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla
Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se
bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche,
nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi
obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo
piacere , (6) Lib. de Praçept. [ocr errors] Inoltrati, che poi
sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete
lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello ,
ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro
perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il
discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono,
rincontrandoli ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi
converrà fare? Non altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che
per non perdere quel glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato,
allorche si avvedono, che i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla
tremolante mano li sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e
terminano in questa guisa gloriosamente il loro mestiere. Seneca
assomigliò faggiamente la vecchiaja alla nave, che comincia per la sua
antichità à scomporsi, dicendo: Quem 12 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam trabit
uni rime , aut alteri obfiftitur : Ubi plurimis locis laxari cæperit , q
cedere, fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità in
fenili corpore aliquatenùs imbecillitas fuftineri , c fulciri poteft, ubi
tamquàm in putri ædificio omnis junctura dilabitur , Odùm alia
excipitur , alia difcinditur cir- cumspiciendum eft quomodò exeas . E
po- tendo egualmente la detta nave, che il vecchio, pericolare nel
suo consueto viaggio, converrà dunque ad ambedue prendere il sicuro
porto per prolungare più, che sia poflibile il suo essere. Mà
questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra
cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza
insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete
avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili
per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come
ancora, perche non godendo più T quel е quella bella
perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così
bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della
Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal
risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla
, farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima,
che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per
non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè
d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per
eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto
queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più
gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile
distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à
farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico
Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo
servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che
continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa
memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica,
proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua
età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato ,
l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con
ragione di lui, perche li abbandonò è vero, mà
per servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo
faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei
ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi
con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni. Nè devo
in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio
Piacenti di felice memoria, mio di T 2 let [ocr errors][ocr
errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per
compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal
mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua
inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa
, che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni
, che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di
fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li
compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di
tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora
acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano
alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi. Sicchè per isfuggire
simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando ancora
sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro, c fino [ocr
errors] la e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad
alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù
tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare
sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che
fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per
passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono
ayyifati per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di
bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi
danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo
custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente
economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e
prudenza . Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari
domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per
poterlo emendare, [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche
cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso ,
fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo
penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo
paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun
che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto,
l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è
inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non
meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole
stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere? Queste
divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il quando
lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ;
Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che
cosa fuggire. Primo, ز Primo ; circa al quando, vi dirà la
Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che
proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente
mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed
averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più
indugiare à farlo. Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi
consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi
da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à
tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per
servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi
resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate
insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi ,
potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne
seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta
virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano
in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò
imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola. Terzo, nè vi
consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il
vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale
vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai
qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti
motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè
godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede,
la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò
almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose,
s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,
e civiltà, che ivi li suol praticare , & in ispecie con quelli,
che la dottrina, & il valore l’inalzò, essendo perciò molto
dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione il Grande nel suo, non tutto
volontario ritiro in Linterno; (perche lo fece per accomodarsi alla
necelli:à di quei calun- niosi tempi) avesse la sorte di essere
stato venerato da molti uomini facinorofi,che ivi accorsero per
ainmirarlo, è stato egli quasi singolare in questo, mentre altri
furono assai diverLamente trattati, trà quali basterà riferirne uno
solo,mirabbi- le per l'accidente, che vi
s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di
guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua
picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà
appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei
rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso
vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.
[merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di
guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano
cercando quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel
meritevole prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece
spandere quell' oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi
ebbero occasione di ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva
, il merito ivi non già risplendeva. Mà perche avanzandovi nella
vecchiaja non potrete sapere à che segno la vostra salute si di corpo, che di
mente vi potranno reggere ; Quindi è, che per compire faggiamente il
corso di vostra vita, le virtù vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à
proposito per voi, allorche vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in
caso di felice, che di penosa vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza,
e la Giustizia : fceglietevi å tal'effetto un Direttore spiricuale de' più
dottia e discreti, che vi COR [ocr errors] conservi vivi li yoftri
abiti virtuofi. Una amico fido, e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete
operare, caso che, ve ne dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri
interessi,acciocchè non fieno trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un
parente amoroso, e disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco
soggezione à chi vi serve, ed un servidore abile, che vi allista con carità ,
amore, e discretezza, e questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete
ancora mane tenerveli ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi
troverete intrigati a, e sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria
effere ; l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe
continue per voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare
da voi;mà per rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della
potentissima efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà
d'uopo, cambierà in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja
in ز piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole
divertimento ; caso poi, che non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi
con esli grati , essi ancora verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed
affezionati : Munera , crede, mihi placant, bomines que, Deosque ; E
renete pure per certo , che favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi
raccontano, che tutto elli facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore
degl’altri era da questi lo più ricercato; Mà però con il servidore abile, che
dovrà stare affiduo con voi, per tenerlo contento, vi converrà praticare due
modi, uno privativo, che consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con
parole, dovendo voi, che avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e
facendo voi diversamente, in vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte,
quando che ve qe portasse : E vero, che difettando egli, lo dovrete correggere,
mà pero con maniera umana, con farglicapire'il suo fallo, non già con
ingiuriara To, e caricarlo di strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal
guisa , cosa ne seguirà ? O che vi abbandonerà nel meglio, e voi come
rimarrefte? O continuerà a fare peggio di prima, e voi cam fa avreste
acquistato ? E l'altro positivo, che consisterà in fargli capire, che voilo
amate di cuore, e non per solo vostro vantaggio , mà come fosse un vostro
figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora appunto quando si vedrà trattato
bene da voi, comandato con discretezza, c meglio di ogn'altro glielo farà
capire , quando si vedrà regalato da voi con giudizio , e questo regalo non
consisteria in altro, che di usargli un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione
del vostro potere, ogni anno nel vostro giorno natalizio,con promettergli
negl'anni venturi sempre di raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran
cosa in apparenza, voi, che sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con
più generosità de' padroni giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, &
al servidore gli sarà grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à
farvi vivere più luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non
vi disgustiare , che non patiate , & allora appunto lo avrete già
interessato nella vostra vita, e nericaverete un'ottimo servigio.
pare Quinto, oltre li preparamenti neceffarj già da voi fatti
per sostentamento, e sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente,
& in ispecie la Fortezza , à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno
necessarj de primi, e questi saranno di proyedervi di molta sofferen ed
ilarità, che facilmente ve ne bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra
bella tranquillità di animo, che goderere, santeche trà mali familiari
dell'inoltrata vecchiaja yi fi annovera quello ancora della fastidiosaggine, e
questa non con altro rimedio si puo curare che con l'abbituara sofferenza
; E perche danneggiano ancora di molto pell’età avanzata la malinconia, &
il di za , [merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che
per tenerli lone tani, vi è d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente
diverrete ad essi superiori. Sesto , parerà forse cosa impropria à chi
udirà , che voi come Medici provetti possiate avere di bisogno allora del
parere altrui intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben
rifletterà , che non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della
Prudenza, e della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto
maggiormente, che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più
precisamente in quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora
languisce; Le virtù luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate
già,che il vostro ritiro abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c
acciocchè se ne stia affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal
caso, da un'estremo vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo
egualmente nocivo dell' dell'anrecedente, perche, come ben sapete,
consistendo la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro
corpo si aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni
musculari , sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza
li muscoli, in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che
detti duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti
de' spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del
danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario
prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di
doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e
legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si
possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare
, conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche
loro [ocr errors] indisposizione per lungo tempo forzata-
mente giacciono in letro, li quali, ben- che abbiano superato quel male,
che li teneva al riposo, nel volere camminare si accorgono di
non poterlo più libera- mente fare come prima. Il sudetto ritiro
dovrà servire bensì per riposo, e calma della vostra mente, già stanca
per li so- verchi pensieri, la quale non dovrete', nè potrete
quietare con renderla affaito oziosa , mà bensì con contracambiare
quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con
altri, che non la stanchino di vantaggio, mà più tosto la ricreino,
conforme in appresso diremo. Mà ritornando al moco
, che vi competerà di fare , questo sarà appunto quello, (vi
dirà la Giustizia ) che altrui di età avanzata voi avrete
consigliato, cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri. scaldata
dal Sole, non già irrigidita del- la notte, & allora appunto, che il
vostro stomaco ayerà digerito il cibo, con que- fta avvertenza di
più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di
prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi
poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à
quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre
indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non
potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa.
Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato
dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato
di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza,
all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà
con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da
Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso
che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li
esercitaya, mà fù nel fea secolo passato già dismesso
tal'esercizio, con molti altri neceffarj alla salute,e non se ne sà
comprendere altra cagione, se non perche, non erano commodi, stan-
teche strapazzavano il corpo', il che fi congettura dal vedere , che da
allora in qua non si è aèreso ad altro, che à cerça- re questo
commodo, fe pure commodo si potrà chiamare ; (soggiugnerà la
Pru- denza) ciò, che incommoda la salute ; Commodo si potrà dire
una carozza,che posi shule Molle con cignioni lunghi, che non
isbarta punto, allorche le sue ruote urtano ne' faili, per chi foffre il
inale di pietra nella vellica, per chi parisce bru- ciori di orina
, per una giovane gravida, folita di abbortire, perche ò non posso-
no soffrire lo sbattimento, ò è loro no- civo; onde :
conviene , che facciano conformc è loro permesso; Mà per un giovane
sano, à cui lo sbattere gli conferisce alla salute, af-
sodandogli la sua buona complessione commodo non si deve chiamare,mà
ben- si incommodo, perche presto glicla in- [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] ز [ocr errors] 0 el [ocr errors]
.com commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un
Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito,
se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto
mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco,
mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede
nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere
li [ocr errors][ocr errors] poteva dire, Dall'esercizio corporale
ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete
stancare di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e
procurato il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa,
acciocchè non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi
fare. Nel principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala
terrete occupata in diverse cose, con il suo rin par [ocr
errors][ocr errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune
agl'esercizj fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del
vostro Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le
rimanenti alla quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere ,
cioè, con leggere , ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj
per tal'effetto, già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro
, e si può supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de'
Santi, e cose confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo
facilmente non tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del
modo conforme si possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi
finalmente nella penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e
sollievo, che di uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente
farete qualche meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio ,
perche divenendo perciò superiori [ocr errors] ad effa, non vi potrà
punto contristare, allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente
se meditandola rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e
collocarvi in un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni
delle virtù, non già con le lufinghe fallaci de vizj. Settimo,
finalinente, diranno le vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è
convenevole, che ora facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose
vi avvertiremo, nelle quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali
sarà , ( se vorrete caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo
voi una volta per giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai
più dovrete pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel
caso impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte
ritolo,ò d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò
.cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per
isdegno concepito per non vedervi stimati à quel segno, che
bramavate di essere. La seconda, se vi venisse mai volon- tà di
mutare, senza giusta, & urgentili- ma occafione , il vostro già
fatto tefta- mento, mà solamente per motivo di me-
gliorarlo, che non lo facciate, vi coman- deranno la
Prudenza, e la Giustizia in conto alcuno, mentre questo saria
uno delli maggiori infortunj , che vi poteffe allora
accadere, perche se quello , che avrete fatto in tempo , ch'eravate
con sentimenti più vegeti, ora non è di vo- stra
sodisfazione , come potrà fodisfarvi l'altro fatto da voi ,
dapoiche vi siete ritirati, à cagione di debolezza , non nie- 110
di corpo,che di mente la quale entre- rà prestamente, per essere in
quella età sospettosa nella casa della dubietà, mà
ritrovandofi ancora languida , e piena di timore tosto le sembrerà
un laberinto, non sapendone rinvenire la strada das
uscirne, e perciò la sera penserà ad una cosa, e depofta quella,
la mattina ad un' altra, [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] V 4 altra, oggi farà di un
genio, e domani facilmente di un'altro, e durando per qualche tempo così
incostante, non folamente si confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel
tempo, che avevate dato alla calma del vostro animo , in questo modo glielo
rubbereste per darlo alla vostra inquietudine , fenza ricavarne un minimo
profitto, perche se pure giugnefte à fine di stabilire la vostra ultima
disposizione, sarà questa assai peggiore della prima, e se non arriverete à
compirla , l'inquietudini riccute, che giovamento viaveranno apportato ? E
quanto dette virtù vi hanno ordinato, l'esperienza pur troppo l'hà fatto
vedere, mentre chi nel suo ritiro hà avuto simile tentazione, non solamente è
vissuto inquietissimo tutto quel tempo, che aveva destinato alla sua quietc, mà
hà fatto una nuova disposizione del suo avere così intrigata, così confusa, che
hà dato di fe molto da dire . In niun tempo si deve andare in traccia
dell'ottimo, essendo questa distruttivo del bene, mà [ocr errors]
1 mà in questo stato meno d'ogni altro nel quale è molto espediente
di dare orecchie à ciò, che si legge in Tacito, ed è : Confilium ,
cui impar erat fatu per- mifit ; E certamente, che quando siete
meno capaci di risolvere, è pur meglio, che lasciate correre ciò, che
faceste di vostro genio quando eravate più atti, che di mutarlo
divenuti meno sufficienti ancora ad emendarlo.
Vi pregiudicherà per terzo ancora di molto la troppa curiosità,
& in ispecie de fatti domestici , come ben vi avverri
tirà la Prudenza, perche più d'una vol- ta sentirete cose tali, che
vi turberanno notabilmente la vostra quiete,& affinche
dal non ricercarli fi scanzi ogni pregiu- dizio, fate., che quel vostro
amico, quel vostro parente, de' quali da principio parlammo,
gli diano il suo rimedio, ci pensino essi, che meglio di voi lo
faran- (no , e senza inquietudine vostra. E caso poi, che la
necessità portaffe di farvenc consapevoli sfuggano per quanto si
può di dirvelo di sera , per non togliervi 0 [ocr errors]
il riposo della notte. La quarta intorno à ciò, che dovrete fuggire in
caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi anni procedere , la
Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che una volta in altri non
l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non facciate, che la molestia ,
che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire carnefici di voi medesimi , con
pretendere di farvelo curare, conforme à più di un Medico avanzato negl’anni è
accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio della pietra , quantunque ad
altri così avanzati in età non l'averiano consigliato.Questa penfione , che
Iddio hà posto sù il gran benefizio della lunga età che vi ha conceduta ,
vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il fudetto benefizio mancherà
prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li bruciori d'orina , le vigilie
frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono , fapete pure, che non vanno
curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben fi de [ocr errors]
1 [ocr errors][ocr errors] devono con cose anodine, trå quali il
latte , amico de vecchi asciutti hà il primato , e per essere ancora egli
il pris mo querimento, che si prende, non è disdicevole , che non
venendo à cagionc del soverchio sonno ritardato, sia ancora
Pultimo, conforme praticò con profitto Fabio Mafsimo nella sua età decrepiti.
Per quinto avvertimento vi con- verrà stare
molto circospetti per non cadere in certi errori, che li vecchi
li stimano sussidi dell'età cadente, ftante- che provando
languidezza di forze fi, portano con desiderio (moderato à
pre- valerli de’yini più generosi, e di altri più
fpiritosi liquori , intorno a' quali vi ricorderà la Temperanza, che
sapete pure quanto di male apportino alla in- languidita tefta ,
all’inaridite viscere, e quanto di solfo communicano alli ni- trofi
fluvidi, ed in conseguenza di che danno essi siano , che voi ben lo
sapete, onde in vece di questi vi servircte più ļosto
del perfetto cioccolato , de' buoni brodi, de' vini gentili, e
delicati, c di altri liquori consimili, presi con moderazione, e con questa
distinzione , che effendo taluno di voi grasso, & avendo disposizione al
soverchio sonno prenderà spesso il cioccolato la mattina, nel doppo pranzo , ò
di sera il caffè , ò il the, è la bollitura di salvia , sc poi sarà dimagrito ,
e sottoposto à vigilie, las mattina frequenterà più tosto un brodo con la fetta
del pane ivi bollita, e del cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo
immediatamente, conforme ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso
della bollitura dell'orzo abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore,
all'emulsioni fatte in brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà
molestato da pertinaci vigilie. Per fefto , fuggite ogni sorta di be
vanda gelata, vi diranno la Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta
fete, che alle volte suole travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe,
perche sapete pure quanto danno vi po triano [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] triano recare, & in vece di
queste servis teyi delle bevande attualmente calde , che vi
smorzeranno con più facilità la sete per quella cagione à voi nota,
che sciogliono li liquori caldi più facilmente quei fali, che
titillando le papille del gusto non solamente le costringono, mà
recano ancora aridità à tutta la mem- brana interna del palato , &
esofago in- crespandola à guisa di carta pecora, e questi con il
liquore caldo vengono più facilmente sciolti, & ancora le parti
ina- ridite con più prontezza fi distendono, doveche dalle gelate
ne segue l'opposto, e per questa cagione tali acque sono consimili
à quelle , che Quò plus sunt potæ , plus fitiuntur aqud;
E perciò non si sà capire per qual cagio- ne in particolare ne' vecchi
sia stato dif- messo il bevere caldo tanto praticato dagli antichi
Romani , e tanto maggior- mente, che dall'abuso di dette acque
gelate ogn'anno ne seguono delli casi funesti, coine ben sapete ; Dal
soverchio bere, 7 bere, con tutto che non sia gelato,
ve no asterrete ancora, effendoyi noto quanto di male possa apportare
alli stomachi debilitati dagl’anni, potendo non sólamente inlanguidire li
fermenti digestivi, mà opprimere insieme preventivamente quel calore, che stà
per finire. L'esperienza dimostra chiaramente , che le piante annose inaffiate
à suo dovere si conservano, mà soverchiamente più preftamente mancano,
Per settimo, v'avvertiranno la Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una
regola rigorosa di vivere, con il motivo della moderazione del vostro esercizio
consueto , perche la natura già affuefatta da tanto tempo à quella quantità di
nutrimento, vedendolo tutto in un tratto notabilmente scemare ne riceveria
incommodo considerabile, costando pur troppo per esperienza , che alcuni
vecchi,li quali l'hãno voluta tanto ristrignere preltamente sono mancati.
Quello, che dovrete praticare sarà di guardarvi da certi cibi di dura cozzione,
di cattiva qua qualità atti à poter nuocere , per altro nella
quátirà l'anderete moderando con occasione, & avyedendovi di non poterla
ben diggerire, allora l'anderete scemando, mà però lentamente, accioca chè non
riesca molto fenfibile derta mutazione, perche è cosa evidente, che allora
appunto, che i vecchi allentano di mangiare , poco resta loro di vita.
Peggiore di questo ancor saria, se cadefte in quella opinione tanto dangosa ,
che per vivere fano sia neceffario di prender cose, che non facciano
escrementi, mà che con l'odore delle vivande, con qualche brodo di sostanza, si
possa meglio , e con più salute campares di quello si faccia con tante altre
cose piene di parti escrementose, perche la Datara vuole fi camini per le sue
strade ordinarie, vuole da tutti egualmente efiggere ciò, che brama .
Quell'incommodo, che vi reca nel restituire le feccie ella sà per quali fini lo
faccia , non è à caso. Non n'elimè già Alessandro Magno dal suo fetore,
conforme che li suoi Cor teg teggiani adulandolo dicevano , perche
ella non sà cosa sia signoria, e grandezza fà che la morte (a) Æquo pulsat pede
pauperum tabernas, Regumque Turres. Per tre gran benefici la natura
volle , che vi fossero li tanto odiati escrementi: Primo, perche dentro di noi
si facilitassero mediante queste tante digeftioni, che vi si fanno , conforme
l'esperienze chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante digestioni fatte con
il Fimo, e da quì rifletcete quanto s'ingannino coloro, che procurano
anziosamente à forza di tanti reiterati purganci star-, ne senza; Per secondo,
che nell'uscire che fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à che segno
debbasi insuperbire chi dentro di se conserva fimili fetidillime materie; E il
terzo per convincere chi non credesse il primo, con farlivedere quanta
fecondità questi rechino alli terreni sterili, che colsuo beneficio divengonono
fertiliffimi , talche erroneaè à priori quell'opinione di potersi nudrire con
cose, che non abbiano escrementi, conforme ancora tale à pofteriori si dimostra
per essersi veduto chi l'hà voluto praticare divenire un marafino, che in breve
fini i suoi giorni. Per ottavo , & ultimo finalmente, ch'è forse il
più forte di tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli trè gran
persecutori de' vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il corpo
soverchiamente lubrico ; La caduta , voi sapere molto bene, che per due gran
motivi è nella vecchiaja più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li
vecchi di mi. nor vigore, e li più facili à terminare la lor vita ,
ritrovandosi arrivati allo scorto di effa , sì ancora, perche cadendo come un
tronco ciò, che viene loro percoffo riceve colpo pieno, non venendo riparato
dall'agilità delle mani, nè dallo scanzo della vita , come segue ne' giovani di
maggior agilità di loro, onde per evitare una simile fventura dovrete andare
sempre con il vostro bastone, ne fa [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] farere come alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura ,
quando braura più tosto sembreria l'ayere in mano il bastone di comando";
onde non senza mia stero fù chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja
Scipio, & il prendere Sufcipio. L’occasioni di prendere li catarri à
che segno le dobbiate fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi
suggerirà la Temperanza) mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida,
chi ftiede in luogo soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come
sono il formaggio, legumi , & alrre cose consimili furono da essi
moleftati, converrà dunque à voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea
massima, che ebbe quel Medico, che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna
cosa gli potesse nuocere, dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle leggi,
mà gli convenne soffrire la morte immatura per questa sua falsa credenza; e
finalmenre quanto dobbiate stare cautelati, per non incor rere
1 rere nella foverchia lubricità di ventre, non occorrerà vi sia
suggerito, sapendo i da voi medesimi, che l'abuso de' dolciu mi,
cde'frutti producono fimile indifposizione. L'irascibile ancora spesso in,
citata con l'abuso de' cibi caldi per accrescere pungoli alla bile , quanto la
poffino rendere frequente nell'età avanzata lo sapete assai bene, con tante
altre cagioni, che farà superfluo viliano ram, mentate. i Essendo
voi dunque nel corso della vostra vita camminati sempre con le dii rezioni
delle virtù, avete da sperare fer mamente di potere incontrare una
gloriosa morte, perche esse in quel vostro estremo bisogno, più che non
fecero in é altri,vi assisteranno; La Prudenza vi farà soffrire ciò, ch'è
inevitabile, con animo generoso ; La Giustizia sperare quel pre7 , mio,
che sarà dovuto alle vostre gloriose opere ; La Fortezza vi darà cuore da
refiftere intrepidi ad ogni patimento più duro ; e finalmente la Temperanza vi
consolerà, con farvi vedere, che trà X 2 quel [ocr
errors][ocr errors] ز quelli molti , che vissero, pochi ne giunsero
all'età voftra ; onde voi, che avrete sempre dato saggio di tanca moderazione,
come potrete non contentarvi di essere già vissuti à bastanza, potendo con
intrepidezza dire : Vixi, quem dederat curfum for tuna peregi;
Sicchè felice sarà la vostra morte , & invidiabile da tutti , nè crediate
che fiano per abbandonaryi queste doppo morte , perche allora più che mai
saranno inseparabili da voi,posciacchè quando ancora eravate viventi si poteva
dubitare, che potefte essere, ò nò, prudenti, giusti, forti, e temperari,
perche in realtà potevate dare occasione à dette virtù d'alienarsi da voi, mà
doppo morte, che tal cagione finì, non si potrà più dire di voi, che prudenti,
giusti , forti, e temperati non foste, ficchè resteranno allora da voi
eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi mai rimarrà doppo morte più
glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche le sue ricchezze già
al [ocr errors] Ja morte, allora passarono in altri, non sono
più fue; Forse il potente ? nè anco, perche la sua grandezza è
rinchiusa allora den- tro la sua urna , & il suo potere è diven-
tato un niente; Forse chi ottenne fingo- lari prerogative di natura ,
come sono la somma bellezza, salute , e robustezza di corpo? questi
nè tampoco, perche quelle già furono, e non sono più doppo restando
un nulla , giacchè : Quod fuit, non eft pro nihilo reputatur
. Solamente dunque chi vive seguace del- le virtù può sperare di
ritenere ancora per se doppo morte quanto gadè in vi- ta, e fù suo
proprio , con tutta quella gloria imınortale, che acquistò chi
visse virtuosamente, de' quali parlando Ip- pocrate (*) così diffe
: Quique hac viâ incedunt gloriam tùm apud majores , tùm apud
pofteros fibi comparabunt, ch'è quan- to dovevo mostrarvi.
Ed eccoci giunti al fine della festa Giornata, e convenevole
sarà di ripo- sarci,farci, in venerazione di chi creò l'Universo,
giacchè egli ancora requievit die Septimo ab universo opere , quod patrarat ,
do benedixit diei feptimo , & fanétificavit illum [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] X 3 (-) De decenti babita , è à priori
(2) Horat.Carnr. odc 4 fa. dicom (e) Hipp.de
Pracepticx. fo quan (1) De
pracept: fione [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio. [e] Epid.lib
5. ægrot.7. (f) Epidilib.5.>.g. ap(4) In epift. Abderit. (r)
Epift.6. rano (d) In Comment Hipfoer. de Fraft. fers (b) 18
epiß. Damogit, alla (a) In epif Philop. K per(a) In
lib.præcepto ch' Th. In lib.de pracept: fprone [b) De preception.
Set era (b) In 2.epiji. ad Domeg. 1 F 3
i [ocr errors] fare 1 (h) Hippocr. de veteri
Medico C2 pra(c) De decerti babits. In. Morale,
DE'FIGLIUOLI e Medica DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI Divisa in due
Parti. PARTE PRIM A Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI
N.S. INNOCENZO XIII, Neglectis urenda filix innascitur agris Hor.
Sat. 3. lib. I. In ROMA, MDCC XXII. Nella Stamparia di Pietro Ferri
alla Minerva. Con licenza de'Superiori . [blocks in
formation] [ocr errors] sien L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it
quale viene fo lamente attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità
, mi rende più a 3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra
l'educazione de'figliuoli Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc
zelantissimo amatore del buon costume non solamente la riceverà sotto il
potentissimo fuo patrocinio; ma le farà di vantaggio godere gl'effetti della
sua somma clemenza ; mercecche non permetterà già qucsta, che rimanga
infruttuoso ogni qualunque suo documento profittevole allo stradamento
de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc virtù, cd aperti nemici de' vizj,
essendo tal desiderio appunto il maggiore che possa avere un'ottimo Pan
dre; mente dal principio del suo Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S.
V. colle operazioni più gloriofe conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il
suo Paterno Zelo, quanto la sua somma beneficenza indiri, zati folamente al
giusto, ed all' onesto, gastigando i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme
appunto costumarono tanti Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima
memoria. Talmente che l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si
trovano profondamente radicate,e queste di fimin le natura debbono
neceffaria, men, a 4 zarsi, seppure l'ottimo potranno
sormontare. i Nè lì veggono nell' Antichissima , c Nobilissima Famiglia de
Conti ereditarie l'eroiche virtù dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;.
mentre risplendono questo ancora , in tutti gli altri, c. con applausi
universali; cssendosi veduti do. po la dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono
Pontificio, nc' più a Lei congiunti di Sangue la medesima nioderazione di
animo, ed affabilità princicra ; assegno chc,non senza ammirazione,fan ben
conoscere a tutti, che le presenti felicità non han na a gli animi
generosi, e forti, in cui regnano abituate l'Eroiche Virtù. In tempi
dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità svelata pud comparire avanti al
Principe , godo la forte di presentarle prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e
consagrarle inficmc qucfte mie fatiche, diret. te non ad altro, che al publico
bene; mostrando queste a Padri di faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma
cziandio il modo più facile d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non
divengano elli viziosi per. turbatori della publica quie te.
ritevole dell'efficace Patrocinio del Principe, essendon'egli di essa
vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc alla felicità del Principato la
buona cducazione de'figliuoli , como cagione della publica quicte; affinchè là
S. V. possa godere tutta quella lunga serie di anni felici , che ardentemente
le bramo con ogni maggiore offequio la supplico à volerlo rendere degno del suo
Supremo Patrocinio, potendo questo accrescere alle sue prove, e ragioni momento
di forza bastevole a renderle più convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano,
e baciandole i Santillimi Piedi con profonda venerazione mi umilio. Di
Voftra Beatitudine Omilifs,e fedeliss. Suddito Domenico
Gagliardi. AL C On rilevanti motivi ho intrapre so lo
scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli : primieramente, perchè leggendola
Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto l'obbligo grande col quale da essa
viene aftretto ciascun Padre ad educar bene i propri figliuoli; ordinando
l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in juventute, fu tunde latera ejus,
dum infans eft, ne forte induret, Ego non credat tibi, Er erit tibi dolor anime
. Doce filium tuum , E'operare in illo , ne in turpitudinem illius offendas; e
trovandomi molti figliuoli era anch'io compreso nel numero di questi .
Incominciando dunque a cercare qual modo foffe il migliore , per sodisfare
a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era d'uopo conosce per
congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li aveffero portati . In
feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe affaticato ogni qualunque
ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella esatta regola del vivere,
quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima indole ; mercecche il
nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe cagionargli
internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di togliere
alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la buona
educazione . Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri,
cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli
educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c
con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de Aere Aere ,
Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in
tale occasione. Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione de'
figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad ello
più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i naturali, la
regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti inordinati de’fluidi,
mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da critici, che io abbia
contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua Arte poetica a chi
brama di scrivere con profitto, cioè: Sumite materiam veftris qui
fcri bitis æquam Viribus , & versate diu quid fer re
recufent, Quid valeant humeri. E per corrispondere con attenzione,
grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la seguente partizione
di effo. Divisi primieramente la presente Opera in due parti, cioè in
Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti riuscisse di apprendere
quanto scris vo trovandolo non confuso. Nella prima Decade troverai
descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi voglia accasarsi; possa
provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del nostro proposito ; perchè
se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta , duc gran mali riceverà
l'educazione de' suoi figliuoli; il primo de'quali sarà ereditario dicendol’
ArioIto: Di vacca nascer cerva non vede sti, Ne mai colomba
d'aquila, nè figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti ad educarli
bene , fe non sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla mai in se
medesima sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base fondamentale
della buona educazione consista in iscegliersi una ottima consorte; ed avendola
trovata, fi danno parimente molti documenti utili per mantenerla costante nel
suo buon costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si doverd fervire avendo
sbagliato alla prima nel provedersi di effa , affinche molto minori divengano i
suoi infortunj. Nella seconda Decade principia. 1'Educazione Morale de
figliuoli; ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia quanto siano tenuti
d'invigilarci, e quali inconvenienti nascono dalle loro era, [ocr
errors] zio la similitudine de campi, nc'quali fa vedere di che pregiudizio sia
questa, dis cendo: Neglectis urenda filix innascitur agris E che le
Madri non debbansi abu, fare dell'amore verso i figliuoli, essendo questo
trascorso molto nocivo allawi buona educazione, a segno che, se molti non
avessero avuto l'asilo materno per esimersi da gastighi, averebbero depofti
quei vizj,percui poscia divennero infelici . Troverai parimente documenti
facili, e profittevoli, de quali potrà ogniuno feryirsi sccodo le diverse loro
inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento della buona educazione
l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è, che si tratta ancora
del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli secondo gl'impieghi,
de que quali si conosceranno meritevoli ; e dandosi il caso per
lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di tenera età, si
propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose cótingenze:e'
per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere tutti quegli
ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene Itanti, fiè pensato
anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro vizj,essendo tal
semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima per la
Republica. Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera :
Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e
Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose
appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la sperienza
grande, chc che si trova colui, il quale per molti an ni è vivuto
in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di
più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi
si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.
Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati,
farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il
modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da
quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di
darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio
opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la
natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai
vizj, che sono mali dell'animo b 2 caca [ocr errors] è necessario
sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre
di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in
generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se
medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito
disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego
neminem nomino : conscientia fua unumquemque conveniat. Averei potuto
ancor darui la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in
essa ci è d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più
convincenti; ti baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da
questo comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più
generale . Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono
già cipali, che si tratteranno nella Decali de terza, in ordine
alla buona educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di
essa, prima di concepire figliuoli: Il secondo, cioc [ocr errors]
in ito lif [merged small][merged small][ocr errors][merged
small][merged small] per cola [ocr errors] concetti, e dimorano
nell'utero materno; il terzo che far si debba, dati che sono alla luce, e
finattanto, che dura la loro pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga
allorchè sono in età, nella quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione ,
indugiando questo. Nel primo si farà vedere assai difficile il potersi
avere figliuoli di buona indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno
continue discordie; se faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza,
ed alla crapula; con dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le
sperienze dimostrative di ciò. b 3 Nc [blocks in formation]
[ocr errors] Nel secondo, che non debba una deviata madre tenere la medesima
vita, che faceva , prima di concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che
può ricevere ella medesima, ed il feto, che porta riell'utero, per tal cagione,
e quanto possa venire danneggiata la buona educazione da questo. Nel
terzo si farà conoscere , dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e
qual regola in cffi debba tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re
quel principio , che si scorgesse avvanzato in loro a danni della buona
educazione; e qual cuftodia abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di
cattiva complessione, la quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona
educazione, E finalmente nel quarto , vedendosi questi ne' buoni
documenti morali non fare progressi, fi esamina sela sero avere pofsanza
tale da deprimere, o innalzare alcuni principj in esli, o foverchiamente
assottigliati, o più del dovere sopiti; mediante i quali ne nascesse ostacolo
alla mente nell'apprendere, e ritenere i documenti necessari, e questo sedebba
farli con ajuti più efficaci mostrandoci anche Orazio, che Incultæ pacantur
vomere sylve. Nella quarta Decade poi troverai dieci ragionamenti sopra i
vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora ifrutti di ambidue ; e servendo questa
come di una appendice all'opera, goderà il vantaggio di efsere trattata con
ragioni, e documenti filosofici, medici , morali, e naturali, secondocheayerà
d'voро di essi ; & intanto si sono queste materie poste nel fine ,
per non dilungare troppo i ragionamenti, potendo ciò renderli tediosi; ed
essendo per altro neceffario il farc: ben comprendere a tutti quanto di
buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva educazione; doveva questo non
trattarsi solamente di passaggio, conforme si era già fatto nelle antecedenti
conferenze; ma farfene bensì particolari ragionamenti a parte per dimostrarlo
con più di chiarezza, potendone da ciò risultare un infinito bene; conciosiacosache
fàconoscere chiaramente il nostro Ippocrate nella risposta, che diede agli
Adderiti, essere feliciquei Popolizi quali ben sapeano, che la loro sicurezza
non consisteva nelle alte torri,cd in altre materiali fortificazioni;mà bensì
nella bontà de Citradini,e ne'loro prudenti consigli:spiegandosi ivi : Beati
profectò funt populi , qui sciunt bonos viros suaesse munimenta,
nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum sapientia confilia ; É venendo
interrogato Socrate nel convivio de'sette fa fapienti di Platone,
qual fosse la più ben munita Città, egli rispose : Que bonos viros habet .
Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate conjunguntur: E finalmente
qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua plurima virtuti premia
proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci l'oracolo della Divina
Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis. Spero finalmente, che
saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da quei, che sono amanti
delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto l'abito di āteporre i
vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado onorate; riputandole
di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a pofporsi; mi basterà, che
fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili a chi brama di
acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo erunt vitia conec
homines; con questa diferenza solamente del più, o del meno,nè io pretendo di
vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare ad essere felice, e
far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità di animo meglio le
loro mi serie. Si videbitur Reverendissimo Patri Sacri Palacii
Apoftolici Magiftro. N. Barcbarius Episc. Bojanen. Vicefg:
APPROVAZIONI. Etta, è considerata del si gnor Dottore Domenico
Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ; per
commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro
Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla
Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo
attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce,
perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può
essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con
dotta; e giudiziola chiarcze [ocr errors] za la maniera di ben educare la
prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco
l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi
persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza
del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben
commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che
per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche
applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi
più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente
accreditati i più celebri per fama di erudizione. Io Fra Tomaffo Maria
Minorelli de'Pre dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario
Cafanastense Per P Er commissione del P.RñoGregorio
Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata
l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata
L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima
mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè
discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la
considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.
Michelangelo Paoli IMPRIMATUR. Fr. Gregorius Selleri Ordinis
Prædica corum Sac.Palat. Apoft. Magift. Delle Conferenze,
PSopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali. Sopra l’età più propria, epro.
porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del
tempo convenevole, 9 nella vecchiezza : Dove la mostra,in che cose
faa esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano
dalle disuguaglianze in queAte. Sopra gli antichi costumi, pras
ticati appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo
scoprire scambievolmente i propri , corporali difetti , prima di
sposarsi, o l'occultarli. Nella quale si mostra , in che modo si maritino
le belle , le ricche , ę le deformi quantingue povere. Nella quale si esaminano piut
distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza l'intervento
della Pruden74.Sopra i difetti , e le virtu delle donne. Come si debba regolare l'uomo colla moglie
scelta di ottime qualità. Come si debbano regolare i saggi mariti
con le mogli imprudenti , e viziose .
Sopra i ripiegbi prudenziali , che debbonsi prendere in diverse
occorrenze dalle mogli saggie , incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi
mariti, Sopra l'educazione Morale
de'figliuoli, Nella quale si mokra, che co Ta sia edncazione , cui
appartengo piid di ogni altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba
farsi . Intorno a quello , che
debbas farsi da Genitori per educar bene i figliuoli . Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e
dei Maestri . Sopra l'educazione
delle Pin gliuole, Sopra l'etd
opportuna d' apa prendersi le scienze, ed il modo più facile per
accer tarsi delle particolari inclinazioni de'figliuoli . Sopra gl' impieghi , che do vranno
darsi da saggi Padri a figliuoli ben’educati, e dotti. Come debbano i
Padri rego larsi nel provedere i figliuoli ingnoranti , e
viziosi. Sopra il modo di ben
collacare le figliuole. Sopra
l'educazione de Pupil li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi
Genitorį defonti, Sopra
l'educazione de'figliuoli poveri, e donde venga questo danneggiata .
539 [ocr errors] Sempronio , (
Mecenate . [ocr errors] Sem. Engo talmente af frettato da
mici cogiunti a prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti molandomi
giornalmente di farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in
necessità di compiacer loro : solamente due core mi ritardano; e fono
l'educazione de figliuoli, che possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere
di esli, efsendo in ciò inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli
: istruitemi, Mecenate, in queste, potendo voi fare due beneficj in un
tempo;cioè, d'istruire me, econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze.
: А Mer. Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito
per voi ? Sem. Ci sono tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche,
che essendo anche io giovane,e commodo di beni di fortuna la posso scegliere a
mio genio, e fodisfazione in brevissiino tempo. Mec. Però non sò se tutte
queste belle , galanti, e ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo
che: demens eft , qui oculis uxorem accipit : come fece appunto Monimo il
quale , avendo sposata una Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi,
divenne infelicillimo marito; c dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre
di Alessandro, lo riprese della sua trascuragginc, usata nello
sceglierla. Sem. E che ! la dovrò prendere forse deforme , scoriese, e
povera ? Mec. Neanco questa farebbe al caso voftro. Sem. E chi
dunquc doverò prendere? Mec. Una's clic lia donna di propo,
fito, Sem, [ocr errors][ocr errors] Sem. E quelle, che sono
belle , egalanti, sono donne ancora di propofito. Mec. Mà non tutte buone
per voi. Sem. Quali saranno quelle, che voi Itimate buone per me?
Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con senno, e con prudenza la metà
del peso della casa, e dell'educazione de figliuoli; onde quando voi la tropaste
di queste qualità avercre risparmiato la metà del penfiere dell'educazione, e
cura de figliuoli; e queste sono appunto quelle Itimate appropolito da Plauto,
in Stiche, ove dice: UI per orbem cum ambulent Omnibus , os obturens , ne
quis meritò maledicat fibi. Essendo queste ornate di tutte quello
desiderabili prerogative, descritte daw Seneca in O&avia. Probitus ,
fidesque conjugis , mores, pue dor placeant inarito. Sem. Io credea ,
foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far figliuoli, c chou ogr’una di
queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo ancheio, ma non già per
educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera madre di famiglia; essendo
che per far questo liricerca, che sia dotata di senno e di prudenza' : vi
avvedete voi ora del vostro errore, e che come si suol dire, ponevate il carro
avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de' figliuoli , senza sapere ciò,
che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e se v'incontrasto in una
imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe il sapere educar bene i
figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella sarebbe capace distruggere
colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che fareste caduto in quella
fyentura descritta dal Poeta Saririco : Semper habet lites, alternaque
jure gia lectus In quo nupta jacet, minime dormia tur in illo .
O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella natura superba, descritta dal
me. desimo, la quale dicesfc; Нос [ocr errors] voluntas ; Imperat
ergo viro. In questi casi educate bene i figliuoli se potere . Sem. La
bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che foffe anche gentile, e galante ;
perche le donne di fattezze grossolane non mi sono mai andate a genio.
Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò cosa incontrario, ma se poi
colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse unira qualche
indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte accadere, non vi
consiglierei a farlo. Sem. E perche ? Mec. Vi porreste in tal caso a
pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non meno il bene ,
che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle Madri, che da i
Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove mesi, che li
portano nel ventre nè fi può fperare, che [ocr errors] A 3
che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non sarebbe
poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello produrre :
e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per isperienza,
che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e perciò dovete anche
riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come lo descrisse
Orazio. Fortes creant ur fortibus , du bonis : Et in juvencis, eft
in equis patrum Virtus : nec imbellem feroces Progenerant
aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi trovo, sentendo da
voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e prudente per
moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre orme, e viverò
libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i miei parenti.
Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito, Sem. [ocr
errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ? Mec. Non aveva
allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere sincero; e
sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente avanzaadomi
negl’anni, di averlo fatto. Sem. E per quali motivi? Mec. Perche
non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede (briga
dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli. Sem. Essendo voi
tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli. Mec. E che vi dispiace
forse la mina robustezza, che me la vorreste far perdere? non sono più in
tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del
passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di
me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao : Vincilao, che sì grave , e
faggio innante Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni,
Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi figliuoli
bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che
dice Plauto: Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem, Si eam fenex
prægnantē fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū
nomen puero . Poftumus? Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi,
che si accasano,e con giovanette anche belle? Mec. Io non debbo entrare
nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di
raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro
proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire
poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in
quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione. Sem. E da chi?
Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e
tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il
mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id
fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di scoprendo
le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si divulgoffero fra
molci. Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in Citcà si vasta la
secretezza re. gnasse in me solamente, Sem. Mà non potreste voi solo
istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle cose del
mondo. Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in cose
pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil legune,
no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda. Sem. Oh quanto
mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di quello
facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue anche
meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u per: perciò non lascierei
cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che meglio
potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato
felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ;
potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono
giungere le mie teoriche. Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo
: ma chi sarà ral'consigliere? Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo
spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo
trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora
sceglietovi, chi volere di questi. Sem. Oh bene avete trovati i parenti
più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare
questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a
tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi
fervirebbono i loro ancichi consigli , non pra. praticabili a tempi
nostri? Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio
vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno
risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi
feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti,
ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della
capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio, Jura fenes norint , dow
quid liceata que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.
mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio:
Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim
viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio ,
authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri
senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba
ta peritia : Sem Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro
genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio. Mec.
Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose
presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel
ricordarsi delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene
accostuinata , saprà anche istruiryı nella educazione di essa. Sem.
Attenderò dunque con anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio,
che riguarda la cura, che si dec avere per conservare la prole con buona
falute Mec. L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo
averà facilmente renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo ancora;
ma non già con tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di
Medicina. Sem. Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c
difcegliere tra periti il migliore Merg. Mec. Il vostro Dottore è
pratichiffimo, avendo avuti molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama
di cuore, onde migliore di ello non saprei sccglierlo. Sem. Così è: or
ditemi, come doverò contenermi nelle nostre conferenze? Mec. Domanderete
quando si presenterà l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi
vergognate di fare anche quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli,
rimarrete con perplessità in molte cose. Sem. Come si farà per informare
Publio,che al Dott. parlerò io modelimo' Mec. Sara inia cura d'informarlo
di tutto, e già che siamo di primavera potremo portarci al mio giardinetto,
contiguo alle mura della Citrà, ove come disse il Petrarca: Non palazzi ,
non teatro , e loggia , Ma in lor vece un abete , un faggio, un
pino, Fra l'erba verde , el bel monte vicino , Levan
di terra al ci el nostro intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le
nostre conferenze. Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi
prestamente , il farle tre volte ? Mec. Vicompiacerò anche in questo,
purche le occupazioni degl’aleri lo permettano ; ma voi, Seinpronio, averete
già dato luogo nel vostro cuore a qualche oggetto, perche bramate sapere con
sollecitudine se quefto ci abbia da rimanere,viconsiglierei però quádo ciò
fosse, a spogliarvene prima, per applicare tutto il pensiero a quella, che
converra à yoi, & alla vostra casa , che vientri per meglio
stabilircela , Sem. Non sono determinato ancora, quantunque abbia posto
l'occhio in più parti, onde posso facilmente spogliarmene affatto, e starò con
anfietà attendendo l'avviso del giorno, in cui si darà principio alle nostre
conferenze. DECADE PRIMA CONFERENZA PRIMA Sopra l'elezione
della Moglie, e fue condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio,
Sempronio , e Medico. Mec. O notificato à Publio ciocchè voi
bramate da esso, il quale vi copatisce a maggior segno; posciache egli
ancora si trovò in un fimile laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc
jeri appunto mi disse, e da lui medesimo sentirere ora con vostra
confolazione. Pub. Quantunque anch'io venifli Atimolato da mici Genitori
ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado d'effettuarlo;perche apprendeva
fosse schia vitudine grande la vita cognugale, ma la ritrovai, per
verità, assai diversa das quello, che io mi avea figurato ; & efsendo stato
sempre mio costume, anche da giovane di regolarmi col consiglio d'uomini favii
, c provetti, mi portai da un di questi mio amico, che non aveva alcun
interesse in cal affare, per consigliarmi seco , fe dovessi risola vermi a
prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale proposta, cortesemente mi disse:
figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate di farlo ; perche avendo voi già
l’età di venticinque anni poiere esser capace d'indrizare una donna per la
buona strada , quantunque aveste sbagliato in isceglierla nelle cose meno
essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene spesso fa divenire la moglie non
dissimigliante da lui , siccome l'imprudente donna precipita l'uomo poco
avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare per un vasto oceano dover
essere voi il nocchiere, che guida la nave : sappiatevi ben regolare
nelle [ocr errors] e di [merged small][merged small][ocr
errors][merged small][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] nelle tempeste, per non sommergervi ; prendetela sana, ben accostumata,
e di buon parentado, non vi lasciate abbagliare dalla bellezza, dote, e
nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più differirete, altrettanto inaggiore
sarà il morivo di pentirvi della tardanza: raccommandatevi al Signor Iddio,
essendo che: A Domino autem propriè uxor bona , come disie Salomone;
procuratela giovane, nè tardate di vantaggio. Sem. Quanto mi consolo ,
che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son sicuro, che perciò
compatirete le mie debolezze. Pub. Vi comparisco a maggior segno figliuol
mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita conjugale alla prima
di un gravissimo peso, quando però questo viene portato concordemento
d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna l'hò sperimenta.
--ta io medelimo. Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona compagnia, o pur
faceste preventivos [merged small][ocr errors][ocr errors] diligenze per
isceglierla 2 Pub. Le feci certamente esatciflimus per non operare da
balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi di vili giumenti si
fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona rizzi; quattro
maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie, come
puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos querimus
, • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex bona progenie
Sibi parare ; uxorem aurcm ducere malam Ex mala progenie non curat 1. Vir
bonus ; modo fibi pecunias multas 1offerat. * Sem. E qual modo teneste in
farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga modesta,non diriguale
alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai di cuorc al Medico ,
che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben Dell'Elezione della
Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute , avvertito à non ingannarsi,
per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del suo fallo; posciache se
fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore gli averebbe apportata;
senza speranza di premio straordinario ; per esserne egli Itaro la cagione, che
fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per ischerzo. m Sem. E detto
Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse avuta ini cura ? Pub.
Penetrò tanto, che mi bastò , Sum. Com'egli fece ; Pub.
Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò nel di lui libro maltro,
se vi era descritto alcune medicamento, servito per effe lei, e non trovandovi
cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute, perche none, si è mai
purgata . Sem. E leu fosse fervita di qualches altro Speziale? Pub.
Questo non si costumava di fare in quei tempi tanto allo Speziale, quanto
al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino alla morte
continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto amore effi
s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da quanto soggiungerò.
Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola diligenza usata', mà
volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che medicava in quella
casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che godevano alcune
giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al poco esercizio,
ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali rimedij egli si
prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto essere la mia
futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana dell'altre; cui
replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva d'uopo
dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella sofferto
appena cgli vi fu chiamato nel oel fine', tanto la natura le fu
propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e con
questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella godeva.
Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo... Med. Non mi
ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si avveduto, non
vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi desse il caso,
che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di mezo ,
discoprendovi la verità delle cose con, fidateini. Sem. Della vostra
avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non fia
medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ; perche
altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi fidare
meglio di alcun altro in questo, se non di voi. Med. Per servirvi la
vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia; B 3 mà
mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di firle;
perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano allora. Sem.
L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro con voi, non per
ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se non sarà fana ,
toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa , succedendomi per colpa
vostra tale sventura'. Mega Vorrci, Sempronio, che mi mostraste qual
privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze buone; essendo ch'è
pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il Medico, il che voi volete
disinertere', obbligandolo di più ad osservare quello, che fa per voi.
Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo facesse con più fervore: non già
tutte le cose, che si dicono si fanno. Mec. Questo però non è già premio
, che animi, mà bensì minaccia , che avvilisce più costo ; olore di che non è
già ben ܪ ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si
vuole praticare, Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ;
questo in che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere
necessario, che la moglie lia garbata, e galante? Mec. Cerra cofa è, che
il buon costume della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver
cura delle casa, in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne?
;suoi Proverbij Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem
otiofa non comedia Ed il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini,
così dice Neque domibus cxternis olideas , neque menfis. Ed altrove
contro le donne più del doc yere ornate, così parla . Mos eft mulieribus
[res pretiofa] domi manere [ocr errors] Plurimum, & divinis
alloqui sermonibus Telaque , fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis
opera distribuereservos vitare , Labiis vincula ferre,
oculis,atq;genis: Neq; pedē exirà vestibula Sepè babere; E Menandro
comico greco così dice , Intus manere mulierem oportet oportet :: Bonam,
egredientes autem foras nullius pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio
, che fosse di questo costume la vostra Conforte? Pub. Avevo in quel
tempo un servitore molto affezionato, & insieme accorto, diedi ad effo
segretamente l'incombenza, che lo aveffe scoperio ; e fi pora tò egli così
bene, che in brieve fui informHo ditutio. Sem.' E come fece? Pub.
Conduffe, ove questi sogliono ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da
molto tempo serviva in quella casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente
appresso di lui,introdusse discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze
de padroni, & interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva
dal fuo suo, passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene,
con individuargli alcune particolarità, le quali denotavano forfe savia, c
prudente . Sem. Questi come poteva essere apa pieno informato delle
qualità della gior vane, non trattando in quei tempi lei padrone con
servitori? Pub. I servitori in ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire
i fatti de'padroni, & anco i più segreti', come ava vertì Giovenalc.
Scire volunt fecreta domis, atque inda timeri. E siccome sempre vi è stata
qualche affezionata corrispondenza tra essi, e le donne di servigio, onde per
questa via, ciocche effi nonodono, ne offervano, lo penetrano : nè è stato mai
possibile, che le donne di servigio ili fiano astenute dal'non palesare i
difetti del: le padrone , almeno a questi loro favo riti, per mostrare con elli
confidenza. Sem. Vi bastò quefta sola notizia ? Pub. Procurai in
oltre rincontrarl24 da più parti prima di crederla ; pofçiag che
che udito efferii da quella casa partita disguitata una donna ,
fecidiella prenderne inf rmazione, la quale contesto le medelime cose,che
dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à questo notizie il publico
conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi appagai del suo buon costuine
ie non feci altre dili. genze intorno à questo. ni Sem Manon sarebbe
stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das bene? Pub. Non lo
stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il medesimo: e poi per
dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare gli altrui difecii;
ed anco sapendoli si guarda molto bene dal publicarli..." Sem. Il
vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe approposito per iscoprire gli altrui difetti
in Mec.. Ma non in questo affare, perche egli cicala troppo: si ricerca
in tale affare chi sia destro, e serio , che compri, c non venda.
Sem. Sem. Palesatemi ora , Publio, qual modo usaste nell'informarvi della
prosapia della vostra Conforte ? Pub. Vi era in quel tempo un certo
sfaccendato investigatore de' fatti altrui, il quale andava curiosamente
cercando le memorie delle antiche famiglie negli Archivi ; cui feci parlare dau
un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle notizie della mia famiglia,
quanto dell'alcra, con fargli promertere un convencvole riconoscimento per le
sue fatiche'; e per verità in brieve tempo d'ambidue pose in chiaro quanto
circa ad un secolo a poteva tro. vare, e seorgendo verificarsi ciocchés aveva
detto della mia, prestai fedes à quanto aveva ritrovato dellal, tra; e vedendo,
che fiftava quasi del pari tanto nel bene, quanto nel male's non ini curai fare
diligenze di vantag. gio'intorno a questo ancora potendomi bastare. Sem.
Dunque quantunque sapeste, che in quella viera qualche eccezione,
non [ocr errors] [merged small][ocr errors] non ne faceste caso?
Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora, come potevo farne caso, do. vendoci
ne' Matrimonj servare uguaglianza. Mec. Credete forse, Sempronio, che
tutti noi descendiamo da Cerari, e che per non interrotta serie di molti secoli
le nostre famiglie siano state sempre illuftri? Se li potesse ora ritrovare la
de. scendenza vera degli Arsaci; e Tolomei, oh quanti di questi si troverebbero
esercitare arti vili, e forse core peggiori ancora . lo per tal motivo no mi
fon punto curato di far ricercare dell'albero della mia casa , se non l' ulcimo
secolo ; e tanto maggiormente, che un mio amico, il quale si mostrò più curioso
di me, bramandolo di due , dopo di avere speso di molto in ricercare i fatti
de'suoi antenati; vi trovò alcune cose, che forse nulla li piacquero, o fece
tralasciare l'opera:solamente queIto guadagno vi fece, che non milançava più la
sua nobiltà , come prima.Som. Di avere però l'albero della sua casa lo stimo
neceffario, affinche i posteri seguirino i loro illustri maggiori.
Mec. Lo credo anch'io , mà però non conviene farne publica mostra , se uon cui
averà trà suoi ascendenti chi abbia goduta la Sovranità, mediances la quale
degnamenre merita la preminenza sopra tutte le altre una sì illustre famiglia.
Potrei riferirvi à questo proposito ciò, che fece un saggio Prencipe, cui fu
presentato l'albero de'suoi antenati; lo rinirò egli ben bene , & essendoli
avveduto , che l'adulazione vi avca innestare alcune cose ideali, lo fè
piantare profundamente in una fund Villa, atfinche da quello germogliaffed
l'albero de'suoi descendenci più glorioso, essendoche lo fc piantare ivi ad
onta dell'adulazione. Med. Licredo anche utili detti albe. ri per prova
della salute goduta dagli asccadenti ; posciache se il Padre mori ottuagenario
, il nonno parimente in età decrepita , conforme anco l'atavo , ed il
tritayo, sarebbe questa una provas grande della perfetta falure in quella
famiglia; e tanto più se questa si proyaffe ancora per parto delle donne; dove
che se fossero morti giovani , e vi foffero regnati tra eli mali creditarj,
farebbe far un cattivo negozio, d'incftare a piante si cattive la
propria. Sem. Riuscirà ora cosa difficile à potersi sapere i difetti del
casato, col quale dov.erò apparentare, per non esserci più quegli avveduti
indagatori dei difetti altrui. Mec. Non dubitate, perche non ci è questa
penuria ; sono stati, e saranno sempre nel Mondo niolti, a quali premono più i
farti altrui , che i proprj, ricavandune da ciò notabile guadagno ; basterà
essere loro grati, perche di quc sto vivono , per altro ne troverete molti: e
poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri anche stampati, i quali trattano
delle nostre famiglie, che vi si renderà più facile di quello, che credete, à
Caperlo giusto ; Sc però non averanno, tore scritto con passione,
clivare; il che si difeerne facilmente, non potendosi mai celare questi canto ,
che non si scuoprano. Sem. In questo supplicherò voia favoriemi, avendone
già pratica di molte ; Ini mette solamente pensiere il mor do di scoprire ciò,
che accennò il Dor concernente all'età , che fieno viyuti, & alla
loro falute, ed in questo ancora vi prego , Dottore , che mi ajutiate. Med.
Questa non è incombenza di Medico, dovendo egli cercare i vivi per 'risanarli ,
se sono infermi ; ma ai morti qual bene potrà apportare, ricercandoli ?
Sem. Apporterete à me il bene, le non lo farcte a defonti, con trovarmi moglic
, che descenda da famiglia sana, ed in conseguenza ancora a miei
descendenti. Mec. Il Dottore ha da fare, non gli date questa briga ; vi
voglio inícgnare io il modo per uscoprirlo; posciache, fc [ocr
errors][ocr errors] se la famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà
illustre, e di antica pro fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son
descritti i fatti degli ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che
questi vissero ; se poi saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di
quello, che bramerete sapere di cfle , ritrovandosi ricche. Sem. Passiamo
ora all'età più propria d'accasarsi. Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere
in un sol congresso istruito di tutto; riferrete di grazia,che Publio è
vecchio, ed il Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro
sofferenza.; e poi non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche
meno a apprendono li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per
volta ; differiamolo dunque alla seguente Conferenza. CONFERENZ A 11.
Sopra l’età più propria, e proporzionata di accasarsı ; e quale
fia svantaggio maggiore , farlo prima del tempo conyenevole,
ò nella vec- chiezza. [ocr errors][ocr errors] Sempronio ,
Publio , Mecenate, e Medico. [ocr errors][ocr errors] Sem.
01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi di grazia:
in qual'età cravate,quádo prédeste moglie? Pub. Appena io avca
terminato l'anno. vigelimo quinto. Sem. E la vostra sposa qual’età
avea? Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la
prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel
conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando
scritto questo Sacramento per ultimo , ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età stabilita
da conferirsi il Sacerdozio, per non errare. Sem. Ma prendono pur tanti
moglie prima di questa età ? Pub. Da ciò forse deriva , che molti fi
lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non sapersi in
quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino più
disastri, che consolazioni, Sem. Dunque avendo i vecchi più fperienza,
senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino all' età
fenile. Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non si dee
aspettar tanto, dicendo egli: Et nunc juvenes adhortor omnes, Ne in
senecture nuptias celebrantes [ocr errors] Vix liberos
procreént;nec enim voluptas eft, Sedres inimica
mulieri fenex vir, Ed altrove, Amarus juveni uxori fenex maritus
. Sem. Sono però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi
sposati con le giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj
bisogna , che riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di
Omero racconta Erodoto į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con tro
alcune donne,che sacrificavano à Co. rcre in un trivio, imprecase loro
questo o gran male. Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi ce
votum: Hanc numquam juveni matronam junge I marito, Sed tremulo fit
nupta feni , cui vertice cani Fundantur crines, E non avendo saputo
augurare loro infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi
godere? Potrà [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di
oggidi fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando
alcune di esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere ,
senza contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi
riferito , il quale non è sufficiente à formare Aato. Sem. Bramerei in
primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella
della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza? Pub.
Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue
di consimile erà , perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla
durazione della fccondità , non dagli anni , dicendo egli. Malum eft juvenem
uxorem adolescenti conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor ,
Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur . Sem. [ocr
errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere , e
quanti anni doverà avere più l'uomo della donna? Pub. Sopra questo
particolare ini persuado , che non si possa dare certa, c determinata
regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta. Med.
Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della
donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate , e
perciò non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio
in ciò regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il
quale appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno ; & alla donna
intorno al 40. talmente che nello spazio di 20. anni, confifterebbe detta
fecondità di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito, ogni qual
volta nou trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo sempre
farà in uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non C
3 VCI yenga variata da qualche indisposizione morbofa. Sem.
Sicche dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza , prendendo una
giovane, che ne avesse venti? Med. Così è: uscirebbe bensì da calc
proporzione , se la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età
di anni 34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime
di effa. Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del
marito , che ne potrebbe seguire da ciò ? Pub. Le riuscirebbe certamente
pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione
del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo
piacere;ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito
le potess’essere figliuolo,allorsi,che lo vor. rebbe tenere, e regolare da
subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che
difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata dal senso, à
congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso
soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente
la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere
di chc, comc vuole Leonide , sarebbe sen- za prole, e senza moglie,
posciacche egli dice: Conjuge nec frueris,nec
frueris fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più
giovane di mie; mà diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per
cffer moglic? Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca
à concepire , effédo divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte nell'età
di 12. anni, altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço tempo
porrebbe divenire sposa. Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0 13.anni
spose immature; e non só quanto potessero riuscire buone mogli; poi
che [ocr errors][ocr errors] C 4 che lasciando la conliderazione di
do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene perseverare fino alla
morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più maturo senno per fare detto
passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno incontrare nei primi
parri; doinando, come si sapranno bene regolare col marito, e nell'educare i
figliuoli? Med. Hò considerato anch'io queste difficoltà; mà dall'altro
canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così giovanette ; si possono ind
rizare, come li vuole ; ed abbiano l'esempio nelle piante, le quali allorche
sono tenere , con facilità grande le poisiamo piegare a nostro compiacimento ;
mà non già questo accade allorche sono indurate Virgilio parlando di domar la
gioventù, dice, che nell'età più tenera con più facilità succeda. viamque
infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum mo bilis ætas. Mec. Io mi
maraviglio, che. voi co [ocr errors] me [ocr errors] meMedico non
vi opponiate 'a maritag: gi di età si tenera, potendo meglio di chi non è
vecfato in medicina conoscere il danno, che possa apportare alle cenere giovani
similc mutazione di stato Med. Non vi maravigliare di questo, perche noi
circgoliamo nel modo di vivcre colle consuetudini de? paefi', insegnandoci il
nostro Ippocrate, che: dandum fit aliquid regioni, & confuetudini; e non
per questo , che qualche.caso liano seguito funesto, debbong esse variure,
essendoche cziandio consimili cali fe, guono nelle più adulce, pericolando
queste ancora ne parti. Mec: Lasciamo le consuetudini dan parte, e dicemi
di grazia, se inariterelte una vostra figliuola in età si tenera ? Med.
Ci penserei alquanto , & anderei procrastinando il trattato , fin tanto che
li assodasse un poco più negli anni; c tanto maggiormente, se non fosse ben
complessa ; poiche non vorrei, che nel cominciare si prestamente à far figliuo.
li , quello, che dovesse andare in suo [ocr errors] crc [ocr
errors] crescimento , G.deviasle altrove..' Sem. Si differiranno
facilmente quefti maritaggi, per non ispropriarsi della dote, e voi alori
Medici, che fiete renuti alquanto interessati, forse per ciò differirete di
effettuarli. -:" Med. Non fiamo però sì ftolidi, che non riflettiamo, che
la dilazione non paga debito, e che questo fodisfacendosi fpedicamente ci
libera da cravagli di doverlo pagare.. Sem. Qual'età voi realmente
credere più propria da prendersi marito? Med. Se la giovane goderà
prospera falute , mi persuado , che intorno al vigelimo anno lia la più
convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in. dugiare qualche anno
di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il vigefimo quinto;
ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere prole
sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di figliuolanza,
che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio di 20. anni di
fecons [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può commodamente
ottenere. Semi Talmente che, chi bramasse di avere più numerola
figliuolanza,gli coverrebbe prendere una giovane di 15. anni? Med. Per
istabilire bene la sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero
defigliuoli, mà ancora la robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me
vuole Aristocile nel 7. della sua politica, nascendo da Padri giovanetri, sono
di poco vigors, almeno i primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi.
Quindi è, che Tacito, ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras cffi le
vergini fi maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la ro,
bustezza dei genitori. Sem. E l'età dell'Uomo più congrua di accasarsi,
quale sarà ? Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25.,
30.anni;quando ciò da altro impedimento non venga ri. tardato. Mes, Lo
credo anch'io, che da molte cagioni potrà essere ritardato : im. percioche, se
averà egli impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà
sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia ; fe
non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in
particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a
farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo
convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti
svantaggiosi alla quiere conjugale. Semi Vorrei sapere, quali danni
risulterebbono,s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35. Mec. Se
voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi:
primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd
abbattendovi in qualche donna scaltrita , saprà ben'ella distorvi da tal penfie
ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna
impu dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ;
ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj !
victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in
occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum
meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra , a aloe
br. E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù
l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora
la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse
affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio
modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi
seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza
successione. E sapere , che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli
anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora,
volendola prendere, ассо accommodarvi a chi troverete , con le
condizioni che da ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo
quella , che vorrete prendere. Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio
grande per me; laonde non bisognerà perderci teinpo. Pub. E tanto più
sollecitamente vi risolverete,sentendo li pregiudizj grandi , ricevuti da cui
tarda moltó a pren. dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che
possono accadere à chi lo fà prima del tempo. Sem. Quali sono, Dottore,
questi Matrimonj fatti prima, ò più tardi del dovuto tempo? Med. Li
preventivi sono; se un giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li
tardivison quelli, che si fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça
chio, Sem. Quali danni apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15.
anni? Med. Questi accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non
saprebbe [ocr errors] regolare le sue operazioni; c s'egli in quello
primo fervore fregolato pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi
ne riporterebbe? E qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli,
avendo egli bisogno di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto,
defraudandofi questo per il diyiamento della miglior parte del suo sanguc
iinpiegata nella troppo sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in
suo beneficio ? Oltre di che noll possono fperarsi frutti perferti da simili
piante, le quali non sono arrivate an. cora alla loro perfezione, Pub. Aristotile
nel 7. della sua Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ; cioè, che
fimili figliuoli, che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto portano
loro, querclandofi sovente sopra il governo della casa contro di efli.
Med. Ci sono però alcuni cafi, che debbonsi eccettuare dall'accénata regola , e
tra questi sono quelli unichi , cd [ocr errors] ed antichi rampolli
di qualche illustre, e ricca famiglia, che per non vederlas estinta , fi
procura in età tenera di accafarli. Siccome ancora, se si vedesse un giovanetto
ben complesso, che comincialle a deviarhi, non avendo chi lo tenesse a
freno;onde per non vederlo precipitare , converrebbe accasarlo , senza
indugiare di vantaggio ; ed in questi casi li doverà prendere un'altra inisura
, competendo loro piu tosto una saggias giovane, che avesse qualche anno di più
di loro, affinch'essa regolaffe alcune operazioni concernenti alla salute ,
potendo la moglie saggia molto adoperarfi in fimili affari. Sem. I poveri
vecchi allorche foffero robufti, perche non potrebbero divenire fposi
anch'elli? Med. Perche, conforme dice Euripide. Sed, aut feneétus
Veneri valere jubet; Aut Venus senibus molefta eft . Onde per tal cagione
si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi inabili a
questo , si contri- sterebbero per molte cagioni:primiera-
mente per essersi accinti ad un'impresa, nella quale non riescono abili
perlochę verrebbero anche derisi,e beffeggiati da giovani, e per non
vedersi corrisposti dalle loro conforti con quelle maniere cortofi,
ch'elli vorrebbero, e final mente per essere privi della bramatas.
prole, come descrisse Virgilio ;: Nec dulces natos, Veneris nec
prçmian noris. E vi parc,che questi poffano vivere con- tenti?
Con ragione dunque Blepirone appresso Aristota ne diceva:
-Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens duxi uxorem. E
Menandro esprimendo le fvcnturc de?. vecchi amanti, così fayella:
Nurde miferius poteft daramante Seine, Hifi alius fenex
amans; Nam , qui frui cupis rebus , à quibus Propten tempus,
quomedò ille non mi Jerefte), 06.01.10 D
Mere [ocr errors][ocr errors] arasiit Mec. Ia questo li credo
infelici anch? io, leggendo in Catullo : Er fenis amplexus culta puella
fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è appunto. Sero Viro
juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora , effractisq;
Tudensibus. Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum capire cano
amas fenex nequif fime? Si unquàm vidiftis pictum amantem, bem
illic eft. Ed Ovidio, ch'era informatiffimo de' genj delle donne di quei tempi,
così ebbe a dire : Que bello eft habilis , Veneri quoque convenir , stas
; Turpe fenex miles', turpe fenilis amor. Quos petiere Duces annos in
milise aforit Hos petir in focio bella puella viro. Laonde, qnando a
vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a configlino con 2
con Orazio , il qualc dice : Intermiff - Venus diu Rursùs bella
moves:parce precor precor, : Non fum qualis eram. Sem. Riceveranno questi
certamente, prendendo moglie , svantaggi affaimag. giori di quelli, che
incontrano i giovanerti? Med. Senza fallo; posciacche questi, crescendo
loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno incontro al tempo
migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più miserabile : or re
dere voi, Sempronio , che danni apporta il diffrire tanto lo accasamento
Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo caduto nelle reti di
Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo io confolare,
persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi rispose : oh che
fallo hò commiffo io a non prendere moglic, quando era giovane! poiche fe
valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un vecchiezza , quanto più
farei stato nel , [ocr errors] 2 la verde giovenile? Gli replicai
però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così dedico à fimilc piacere;
posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del ecinpo; dicendoli dell’ainor
lafcivo. Ef juvenis juvenes, qui facit ille fenes. E per meglio
illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di Menelao, ch'è questas Inter
opus medium lafcivå mørte for lutus; Hic fitus eft , dom init jam
Menelaus bumum ; Qui blande. Veneri visa facraverat Haud aliter vitam
ponere juffus eraf. Sem. Or ditemi : questa uguaglianza come dec essere
nelle altre cose? Pub. L'esamineremo in appresso. [ocr errors] [ocr
errors][merged small] CONFERENZA III. :2 [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Dove si mostra,in che cose sia esenziale l'uguaglianza
nei Matrimonj; quali svantaggi nascano dalledisuguaglianze in
queste. Sempronio ; Publio , Mecenate's Medico. M
[ocr errors] Sem. I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi,
clas voftra conforte, al. tercazioni,e discors die, averece goduta la
sorte di una perfectisfima uguaglianza in tutte le cose. Pub. In tutte è
impossibile poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia
nelle più esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di
verificato in me il Proverbio diSalomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis
bonum : du auriet jucunditatem à Domino Sem. E queste quali sono?
Pub. La prima è il genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete
credere, quanto mai trà noi foffe reciproco ; poicche, quanto io volea,senza
repugnanza alcuna cra grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini,
che fosse stato di sua sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che
delle nostre volontà, sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si
poteva dire, ciò ch'è registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed
à gli uomini : Vir, & mulier benè fibi confentientes . Sem.
Sicche dunque se vi potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito,
ò una nobile Stufiglia allas inoda,voi l'avereste compiaciuta prontamente
Pub. Non desideravano le mogli queAte cose in quei tempi, ne'quali non
costu. [ocr errors] costumavano ; bramavano bensì di avej re provisioni
abbondanti di lini, cana pc, e cottoni per farne lavorare copio se
biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo debito , di quanto
biso gnava per servizio di casa cutto l'anno ; di avere otrimi maestri
per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc accoltumata. Sem.
O tempi felici: non poteva io essere nato allora ! Pub. Ed io vorrei trovarmi
giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza , che godo : Sem. E
la seconda quale sarà ? Pub. Che questo genio uniforme fi ftabilisca
sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in tutto le altre
cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata veramente
seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare all'.
obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora facea
le sue parti con mia somma consolazio D4 ne ; ne; e nel
rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto
poteva, di sollevarmi in molte cose ; talmentecche hò sperimentato in me ciò,
che diffe. Appollonide : Certè inter homines Non aurum , non regnum , non
divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent , Quam buni marici , &
uxoris pia Volunt as jufta , & legitimè affecta. Sem. Lo credo
anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità. Pub.
E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo. Sem. I tempi
calamitofi , ne'quali siamo , non lo permettono. Pub. Se dipenderà da
tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi
da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi
calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c
queste non effens 20 [ocr errors] effendoci ora crà noi,come
possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da
noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non
cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare ,
direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri
mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet. ta,
quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico. Sem. Si pratica oggidi
fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più : bisogna averci
pazienza . Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche
voi conoscere, che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo
fareste felice ; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non
farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che
faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole
pazićza,perche vi lagnate? Som. [ocr errors][ocr errors] Sem.
Operavano allora cutti in questa forma? Pub. Io non andava cercando, se
vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere
l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.
Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi
convincerà di vantaggio ; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono
storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente
in vecchiaja ringiovenisce. Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da
fervarli uguaglianza ? Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale
uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il
marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni
ancora ; laonde à questo proposito parlò Ovidio : Quàm malè inæquales veniunt
ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas minor. : Sem.
Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una
giusta pariglia. Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche
coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora
avertirvi , che li rim cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche
se vi apparentaste con gence mi lerabile, alla vostra casa coccherebbe il
mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà
soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente. Sem. E la Nobiltà
dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli ? Pub.
Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale , secondo il sentimcnto i di
Platone, registrato nel tive del suo Regno; ovcper teffere la tela della
buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più
effenzia, le [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi,
che d’innestare le virtù ; per esempio, al temperamento forte unire il
moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione
ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal
mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere ; come appunto lo fà
contesfare à Socrates ; perche egli considerava talc affare in ordine al bene
univerfale , non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in
tale forma , fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma
di questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno
della plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da Livio; e
dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i
maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi
persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non
plebca. Mec. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Voi
dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse unito il mal costume scegliere te
forte piuttosto una Meffalina, che una ben'educara, c prudente plebea per
vostra consorte? Pub. Questo poi nò ; perche in tale caso mi perfuado
minor caccia, porerne ricevere, sposando una plebea , la quale col suo buon
costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe conoscere non dissomigliante à
quelle nate nobili; doveche la nobile mal’educata , e viziola, degenerarebbe in
plebea fenza fallo. Mer. Vedete dunque, che la sola nobiltà non dee
attendersi, mentre voi medesimo la posponere al buon coftu. Sem. Vi sono
esempj di nobili savj, che abbiano sposate giovani ignobili? Pub,
Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore , il quale antepose la figliuola di un
povero Filofofo à cutte le più nobili, riconoscendola meritevole di tale
grandezza , per la fua buona educazioac. Ed Abramo che desiderò, volen
do [ocr errors] 1 70 me. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] do prendere moglie? Uditelo das. Ambrogio : Difce quid in uxore
queratur : "Non aurum , non argentam quafivis Abraham, non poffiones ,
fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. cap.9. Sem. Nella bellezza, ò
deformità fi dovrà cercare proporzione? Pub. Qualche forta sarà bene di
procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella la moglie, dirà ogni
rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa datur , quid non
fperemus amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento di gelosia fi
ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto maggiormente , dicendo
Giovenale : Rara eft concordia forma, • Atque pudicitia. 21 che viene
anche confermato dal Petrarca in tal guifa : Due gran nemiche erano
insieme ago gionte: Bellezza, ed'oneftade Oltre di che poi [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur
superbiaus formam . Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od
uguaglianza? Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà , cioè, che
sem pre fiano ad una certa proporzione inferiori quelle della cala, con
cui volete apparentarvi,perche, come disse ben Marziale : Inferior
Matrona fuo fit, Prifce marito, 4 Non aliter fiunt femina,virque
pares.. Sem. Sc uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di
diversi linguaggi, indurrebbe questo disuguaglianza alcuna ? Pub. Forse
che si, quando non s'incontrasse donna di gran fenno ; perche il costume , e
modo di vivere differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno ,
possono fare nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come
ne dubitano Emilio Probo : Non cadem omnibus funt honefta atque turpia , fed
omnia majorum inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod
patriæ moribus convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum
dulcedine cun stos Ducit , immemores non finit effe fui. Beo'è vero però,
che in quei luoghi, fe Veducazione delle giovani fosse mi gliore di
quella del vostro paese, forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a
voi. Sem. Se il marito farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la
moglie ignorante Pub. Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe
fosse dotta, ed erudi-$perche come vuole Giovenale ; Non habeat matrona , tibi
qua junctae recumbit Dicendi genus , aut curtum fermones rotatum.
Torqueat enthimema, nec biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli.
Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di ques [merged small][ocr
errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin ratas ejecit, o privavit illas
laboribus fuis ; Qui respicit illam non babebis rea quiem , nec habebit amicum
in quo requieJoar. Mec: Posso a questo proposito riferire ciò, che è
accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto Jurisconsulto, che aveva una sua
figliuola, e volle addottrinarla nelle materie legali,cd avendo acquistato
detta giovane molta perizia in esso le convennc,morto il padre, prédere,inarito,
e si trovò la povera giovane talniente confusa nelle faccende domestiche, che
si pentiva grādemente di avere applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora
di sapere le leggi, non avendo įmparato quello, che mi conviene fapele per governare
la casa? Sem. Già fu parlato della uguaglian. za, o proporzione ,
ch'essere dee tra l'uomo , e la donna intorno all'età ; ina se portasse la
necessità , che un attempato unico della sua famiglia dovesse prédere moglic,
pornon lasciarla cftinguc: E [ocr errors] re re, ditemi,
Dottore , quale sarà l'età, se non proporzionata , almeno più fe. conda della
donna, con cui dovesse con. giungersi Med. Quella, nella quale più
facilmente li concepisce, ch'è tra i venti, e li venticinque anni. Sem.
Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a prendere moglie, potendo ogn' uno di noi
provedersela della medesima ctà, e non permettere , che la vostra famiglia si
illustre fi cftingua in voi. Mec. Credeva essermi già bastantemente
spiegato nella prima conferenza, ma voi non avete capito le mic raggioni,
tornando la seconda volta a configliarmi 'l medesimo, con mostrare premura
maggiore per la mia descendenza, che per me; onde vi torno a dire, che nella
mia età non è più convencvole lo aceafarli; dicendo Euripide : Verùm
fonecta jubet valere Cypridem, Et ipfa rursus senibus infensa est venus.
Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già vecchio s'egli
esercitava [ocr errors] a più gli atti venerei : Iddio me ne guardi
diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da una impetuofa, e
violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce. Sem. Io ne domando
scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fi ne , Delidero ora
faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed in
primo luogo ; fe faranno di genio differenti tra loro. Pub. Dice
Salomone: Melius eft habitars in terra deferia , quam cum mulieu rerixoja,
litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con
fufione, ove regnano genj differenti; * pofciache ciocche vorrà il marito,
ve nendo ad essere disapprovato dalla mo glie, onon fi effettuerà,
o per la meno I in qualche parte verrà variato, e que Ito medelimo darà
occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di
Giove , cui Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero,Dum
moliuntur,dum comitur annus est. Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le
farebbe? Pub. Lo diremo a suo tempo. . Sem. Ho conosciuto marici alti
due palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa
disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno. Med. Ed io ; che fon più
vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per
partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro
figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del Chirurgo, e di
queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto felice
che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà
poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran
to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è
neces sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste
proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu [ocr errors] ne di
queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni
popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle
prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia. sem. Sc un
bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò
apportare? Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna
fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà
quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da
Salomone ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia , e vana eft pulcritudo : mulier
timens dominum ipfa laudabitur. Sem. E se il motivo di prenderla foffe
Itata la dote Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani , i
quali penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la
dote foffe in picdi: mà appena consumata questa , allo. ra 1
[ocr errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito
sarebbero, diri. trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non
vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro. Sem. Dandosi però
vincolata , ciò non potrebbe seguire . Mec-Non si può ottenere questo in
limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per vincolarsi
cili colla deformità della moglie, finche dura la doce. Sem. Non so
capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche questo
apporterà. svantaggio nella dote. Pub. Ma però quiere maggiore, ove
entrerà limile sposa; perche quella giovane , la qual’esce da una casa, ove con
gran laurezza viveva, difficilmente po trà acomodarli alla vostra, ove
1101 i potrete con quel fasto trattarla ; onde da ciò ne nasceranno
amarezze continuc ; o pure (arece forzato , volendola consolare, ad impoverirvi
prestamente. E4 Sen. of [ocr errors] Sem. Il prendere
una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche
non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo
disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande. Pub. E voi credete, che 'l
Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia
d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli
difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così
insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo
urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed
efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di
straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi
dimorate. Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse
svantaggio lo sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e
mi ha mosso que in questo pensiero Giovenale, con dire Malo
Venofinam , quam te Cornelia [ocr errors][merged small] Grascorum , fi
cum magnis virtutibus be affers Grande supercilium, & numeras in dos
be te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve nendo
in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita
tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo , Pub. Vi sono le
sue difficultà in queste i . ancora . Imperciocche Carone, con e tutto
che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I
Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2
lenta , e debole di mente. Laonde a tal propofito S. Girolamo lib. 1. in
Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy xerit fatis fe concordie
providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il piede da
per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle E
2 Fu [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque irafcor,
Semper enim mihi consueta eft impedire quidquid intelligo, Sem. Ma quale
rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie? Pub.
Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come
espresse Terenzio, Novi ingenium mulierum Nolunt ubi velis, ubi
nolis Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di
ciò, che bramare, per esser ubbidi to. : Sem. E se avesse poco
fervore nellas pictà, e trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo
quancunque suo marito attcntiffimo a tutto? Pub. Sarebbe segno, che
avesse altre cole, credute da essa di premuras maggiore di queste , che le
andasse. ro per la mente; perche non si trascurano affari si rilevanti, se non
da quel. le, di cui disse Terenzio ;ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c
prudenti. Sem. Mi piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse
con qualche storietta ; perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat
omnes? Pub. Perche, con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile
il poterG abusare di qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe ; e
sappiate che ci sono libri molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno,
che da esse si leggano, confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse
impudico, con dire : Eloquar invitus, teneros no tange poetas , Summoveo
dores impius ipfe meas . Callimacum fugito non eft inimicus e mori, Er
cum Callimaco tu quoque Coe noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ?
Veltua, cujus Opus , Cintia fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere
Gallo? Er mea, nefcio quid, carmina tale fo E [ocr errors] [ocr
errors] E poi due cose non si possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere
la casas; e dovendo a voi premere la secondands ( conviene ch'essa
abbandoni la prima ; ¢ sappiate, che Giovenale dice a questo
proposito Quis ferat uxorem,cui conftent omania? Mer. Plutarco però
dice, che sarebbe di profitto al marito d'istruire la mo* glie nella geometria,
ed in alire cores o dottrinali, ed onoratissime ; perches ď allora si
spoglierebbe affatto delle leg. gierezze, e vanirà de pensieri , e si
aAterrebbe dal danzarc, Pub. Che la moglie s'istruisca nei buoni documenti
morali, e di pietà da mariti è cosa ucile, e lodevole; maw, che
s'impieghi ad apprendere la geomei tria , quando fi trovare inadre di più
fi: gliuoli, non so come le potesse riuscire avendoli d'intorno ,
per lo strepito ch' delli fanno ; se poi fi allontanaffe da elli , ecco
che l'educazione loro anderebbe a male. Sarebbe ciò solamente tollera. bile in
una donna itcrile, avendo servis tà tù sì buona, della quale si
potesse ad chiusi occhi fidare, per divertirsi con tale scienza, c passare la
noja che le recherebbe il trovarsi senza figliuoli; per altro se abbiamo
d'aspettare , che las geometria tolga la yanità donnesca, regnerà questo
difetto per sempre nelle donne : e poi la mia moglie, che nulla sa di
geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque possono fuggire detti vizi quelle
ancora, che non sono geome tre. Sem. Vorrei sapere distintamente,
che cosa fia questo matrimonio ; perche dovendomi accasare bramo di esserne
informato, per non operare alla cieca in così rilevante materia ? Mec.
L'udirete da me nella venturas conferenza. CON [merged small][ocr
errors][ocr errors] Sopra gli antichi costumi , praticati apprello
alcuni Popoli per la generazione; e se sia più vantaggioso lo scoprire
scambievolmente i proprj corporali difetti , prima di sposarsi,
o l'occultarli.. Mecenate, Sempronio ; Publio e Medico.
i Mec. On mi ftéderò molto nel riferirvilan. tichissima libertà de?
Greci, nè tampoco l'incestuoli modi de' Persiani, praticati ne gli atti
conjugali, per non contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a guisa di
bestie moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen te te le loro
madri, comme scrisse Tzetzes Iftorico Gracorum priùs mulieres per
Greciam, Non quemadmodum nunc , conjungebantur legitimis viris, Sed
inftar jumentorum mifcebantur omnibus volentibus ; Erant igitur unius
naturæ tunc filii , Sobas agnofcentes matres , non patres, Ed i
secondi non avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce
Catullo, Nafcatur magus ex Gelli, matrique nefando Conjugio , con discat
Persicum aruspi cium , Nam Magus ex matre, donato gigne tur
oportet i Si vera eft Perfarum impia religio. Sem. Ma il
Cielo lasciava impunici fi effecrandi delitti Mec. Non già; perche, come si
ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in
appreffo.a Poft illud , quod in Ogygis tempore inci. dit
diluvium , Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia, Has Ashenas cū
vocaffet ex Soi Ægypti, Cum multis aliis rebus commoda vis
Gracia; Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5 legitimas, 1M Ex
quibus filii cognoverunt duos pa rentes. Anzi per farvi conolcere ,
che la natura stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci
csempj de bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de'
quali ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena
avvedutofene , coine riferiscono Aristocile , ed Eliano ; ma Plinio ancora
racconta, che nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu tasi di questo,
immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca vallo per
la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che
l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me deliof desimo avvenimento
Nicolò Lirense. Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da'
Padri,avendoli cosi confufamente generaci . ; Pub. Appreffo alcuni Popoli,
allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li
assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi per loro
figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42. Sem. Quanto è stato peggiore il
mondo in quei tempi di quello fia oggidi ! Mec. Se voi sapeste il
rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio. Sem. Eche, vi sono state altre
scelleratezze ancora? Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e
lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a'
tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni
popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci;
Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi
COS [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ·
conjugali si racconta, e Sofocle intro- o duce le donne, che cosi
favellano fo- pra dició: Ubi verò
ad pubertatem hilares perve- nimus Pellimur
foras, atque divendimur Procul à Diis patriis, a parentibus,
Alia quidem peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela
riferisce, che: proba , formof&que in pretio erant . Sem. In quei
tempi saranno stati con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già
mesti, conforme ora sono, che debbono dotarle, mercecch'essi al-, Jora ne
ricevevano utile grande; oltre I di che saranno state anche molto più cu
stodire queste mogli a caro prezzo com* prate di quello si faccia ora, ch'effe
b con grosse doti comprano noi; poiche offervo, che se un cavallo ci
costa molK to, abbiamo somma premura di esso. Mec. L'interessati padri
può effere, di che lo faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò
riflettevano, F [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le
loro figliuole, non acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele
mogli fi ftimano c rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per
questa modelima cagione ; e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli
portare rispetto anche da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs
nibil eft, quam fæmina dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si
babebis uxorem ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In oltre
si costumava da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti; conforme
fi ricava da Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus undis. E
Boetio, nel lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così parla.
Tribus modis uxor habebatur,usu,farre, & coemptione ; fed confarreatio
folis Ponsificibas conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem conveperat ,
hæc [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]
mater familias vocabatur &c.; Sem. Si è costumato in alcun tempo, che
non fa corsa tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi? Mec. Nelle leggi
di Solone, Licur. go, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero però, che
la sperienza has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i matrimonj , per
non effervi il suo fuflidio dotale ; essendocche pochi vi erano', che
volessero soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo della dote;
onde vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica , la prudenza
Romana ftabilì con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per sostentare
non solamente li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente ancora,
mediante effe, gl uomini a prender moglie, come disse il Satirico, Veniunt à
dote sagitsa . Pub. Erano certamente troppo pregiudiziali fimili leggi,
dalle quali lcfcludevano le dori; c perciò Aristotilo discordò dall'opinione
del suo Macftro Platonc provando ne' suoi Problemi , che fia cosa obbrobriosa
prendere moglie indotata ; e che sia anche gran pazzia di colui , che lo
facefle , dovendo egli riflettere al peso, che se gli accresce: onde sopra di
ciò interrogato Anafsandro, cgli 'rispose ; che sarebbe divenuto servo
certamente colui il quale bisognoso prendeva moglie indotata; perche in vece di
se solo, dovea alimentare più persone. Quindi è, che con somma prudenza fu
risoluto nel Concilio Arelatcose; che non si dovesse fare matrimonio alcuno
senza dotc , como riferisce il Fontanella. Sem. E' stato costumato da
nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel medesimo tempo ? Mec.
Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però, che tra eli le mogli
sono trattate , come schiave , tenendosi racchiuse , e guai a voi, Sempronio,
se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in che travagli
maggiori vi porrebbero le donne , che go [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il provedimento ,
che unica fia la conforte. Sem. E da chi ebbe origine, questo matrimonio
in fimile forma? Pub. Dal grande Iddio ; posciacche, crcato Adamo, formò
Eva, e glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione di questo
gran matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e di
rispettarla ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la
ricevette per sua sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de
carne mea , hæc vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem
relinquer homo patrem fuum, a matrem, adbarebit uxori suæ, derunt duo in
carne una; e da ciò comprendere, quale ftima li debba fare della propria moglie.
Sem. Ma tornando alle doti, queste da principio in che quantità furono
ftabilire ? Mer, Non fu allora ciò determinaco, ben [merged
small][merged small][ocr errors] F 3 ben è vero però, che in appresso,
essendo divenute ecceffive, furono stabilite in una certa quantità, secondo le
condizioni delle persone ;. e particolarmçate nei domini, ben regolati.
Sem. E questo viene offervato? Mec. Qualche volta, ma non sempre;
fentendosi assegnate a caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque
fiano della medesima condizione Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo
, secondo lo fato delle persone, ma da che proviene questa inosservanza?
Mec. Dal lusso accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese
necessarie per il sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale
da chi dee accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio , per pocer fare
quello, che si costuma dagl'altri. Pub. Qnando io preli moglie, e per
qualche cempo in appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente dore;
perche questo lusso di oggidi non non vi era. More [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione, le doti
parimente erano molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la più
pingue, quale ebbe Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila
affi, come riferisce Valerio Maffimo. Sem. Non erano dunque si tenui les
doti ascendendo a tanta somma. Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non
erano già scudi; ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di
quattro de' noftri quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli
formavano la somma di circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più
frequenti erano di dieci mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il
quale non era ignobile, e cal somma appena ascendeva a scudi ottanta,
Sem. Ma da che proveniva, che corressero doti si tenui in quei tempi ?
Mec. Non da altro, che dal non efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal
Prin cipe [ocr errors][merged small] F4 cipe sopra di ciò la
prammatica ? Pub. Perche aon ci è bisogno in queIto della sua
autorità. Sem. Come non ci è bisogno? Pub. Ditemi, Sempronio, se
voi poteste senza l'autorica del Principe far cosa, che fosse anche di sua
fodisfazione, vi sarebbe bisogno della sua autorità per farla? Sem. Non
ci sarebbe certamente di uopo di essa. Pub. Or ditemi, s'è in voftra
libertà, nel farvi un'abito , spenderci 50. ò pur 100. scudi , ed in una
carrozzas 500.Ò 1000. in questo vi astringerà forfc il Principe alla spesa
maggiore? Sem. Certamente, che no; Pub. Perche dunque non lo fate
confiftendo in qưesto la prammatica ? Sem. Perche gl'altri non costumano
di farlo. Pub. Or dunque domandate a questi, che pongano efl'la
prammatica, non al Principe, il quale non comanda, che fi ecceda gel lufto,Mec.
A questo proposito essendo ftato supplicato Tiberio , a porre moderazione
all'eccellivo lusso, che correvad in quel tempo, egli negò apertamente di
farlo, dicendo come riferisce Tacito: Pauperes neceffitas, divites fatietas,
Nos pudor in melius muter; onde da ciò comprendete , che noi siamo i padroni di
prendere quelle misure, che più ci aggradano nei nostri trattamenti ; &
udite da Tacito medesimo, come mai lo espresse al vivo nel secondo de' suoi
Annali: Cur ergò olim parfimonia pollebat? Quia sibi quisque moderabatur : non
ritrovandoli Gneo Fabrizio, e Quinto Emilio, che un tondino, ed una saliera di
argento, per servirsene nei sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni
luflo , conforme fecero ancora i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri
valoroG uomini, i di cui pensieri non si aggi. rayano già intorno alle
ricchezze, ma bensi agli onorevoli Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed
ai Trionfi , per çimagcre immortali nella pofterità: cos me [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] me riferisce Valerio Malimo :
Sem. Hò capito a bastanza, e conofco, che il mancamento viene da noi.
Notificatemi ora, Dottore , quali sono questi difetti corporali delle donne, i
quali voi meglio degli altri conoscerere: Med. Non posso servirvi in ciò,
ele sendo che quanto sò di occulco, non, debbo palesarlo. Mec. Il Dottore
è compatibile in questo, perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne,
potrebbe dire di aver finito di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero
queste a dire, che tutti di suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo
nel medicare, e di vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si
abbia la testa; e sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza
più di Demostene; onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non
facendoli scrupulo alcuno di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a
professori, il dicui merito effe non sanno conoscere, per vedersi [ocr
errors] [ocr errors][ocr errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi.
Med. Non è questo il motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io
qualche segreto di cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non
vorrei , che mi credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per
altro, non mi ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato;
perche, se dicessero mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non me .
dicando , non mi potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe
la mia mente tranquillità maggio [ocr errors][ocr errors] re. Mec.
Queste sono belle rifleffioni, ma - però ad ogn'uno piace l'effere
adopera to, e questo senza protezione difficile mente si
conseguisce. Med. Piacerebbe a me ancora quan. do ciò non distruggeffe il
mio indivi. duo ; e cercherei ancor io queste pro- tezioni, quando
accrescessero dotčrina ; ma non potendo le stelle cramandare i quci
benigai inguda, ch'effe non hanno onde onde per tal cagione mi
persuado, che queste ancora non potranno addottrinare. Voi conoscere il mio
naturale ; di grazia non diciamo altro. Sem. Se non diremo altro, non
termineremo la nostra conferenza, ed io rimarrò senza essere istruito.
Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già vecchio, niū fastidio mi prédo delle
doglianze feminili, non curandofi esse più trattare meco. Vi persuaderete
forse, Sepronio, che tali difetti personali occulti sieno cose grandi ,
essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi non sono altro, per quanto
mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale viene ben uguagliata da
buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche palmo di giunta
ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche piaghetta,ò
fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro impedimento,
mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che tutte le donge
abbiano fimili imperfezioni , effen, do [ocr errors] do solamente
alcune poche queste così imperfette. Pub. E'
certamente curioso quel caso riferito a tal proposito da San
Vincenzo Ferrerio nei suoi fermoni. Aveva un giovane sposato una
donna , la quale gli parea di giusta ftatura , rimase poi cgli
quando la vide porsi a letto manca- ta in un momento per metà. Dubito
da principio, che gli fosse stata cambiata, mà miratala bene in
viso, si avvide effe. re la medesima , onde stimò bene dirle, cosa
avesse fatto dell'altra metà della sua persona ; l'accorta non fece altro
, che mostrargli le sue pianelle, ò tram- pani per la loro
grandezza, che appun- to allora si era cavati, i quali non erano
inferiori all'altezza della base di una co- longa. Sem. Fra
tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del fecore
del nalo, ò della bocca ; perche io, che sono dilicato, non potrete credere ,
che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla, voglio
ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo. Pub. E
che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di
quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della
bocca de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini
odorassero in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare
per isco. prire quefti difetti corporali occulti? Mec. Doverebbero
palesarsi reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un
contratto, vi farebbe inganno, ciò non facendosi : E fe nei contratti delle
compre de' schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono
riscindere, così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose
essenziali alla fecon- N dità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere ,
quante occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.
Sem, [ocr errors][ocr errors] 3 Sem. Şi è dato mai il caso, che
siang palesati questi prima delle nozze? Mec. Molti esempj ci sono, e tra
gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore
Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col Filosofo , che colla sua
doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso,
cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e
tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la
mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare per
non. avervene a pentire . La saggia donnarei plicogli, che aveva già
sufficientemen te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra
cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al
mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva , come sua moglie . Ed il
simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a
Livia Occellina Daman mol per mo molto ricca, è bella, per
non ingannarla. Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità
svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di
cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di
donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti. Pub. Vi fu una
giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta
chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa
s'accese di desiderio maggiore , per averlas; mà che fece la savia giovane,
vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli
averebbe palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue
brame, e c011"certato il luogo , ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo
petto , e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore,
questa carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato [ocr
errors][ocr errors] ta [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase
egli confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte
quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più
importunare. Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire
i loro difetti, sarauno però rari questi esempi : Mec. Il simile credo
anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli ,
d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i
loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue
consapevoli, non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi.
Sem. Perche non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio
per meglio accertarsene? M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque
lo aveffe proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che
l'oneltà lo debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle.
G [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr
errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo,
proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri
feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes
con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe
appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà,
vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche
dopo morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande
ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali ,
divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate
dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi
trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de'
genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè
rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si
sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di
ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to
sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli age'unas
in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore perfere veduta
ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata . Med. Due altri fatti
poffo riferire anch'io di donne savie : Polisena fu unas di queste, di cui così
ne parla Euripi de, At illa jam moriens tamen Multum providit
, ut honeftè caderet . Celaretque', que celare oculos virorum
oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamor, foli, così dice della
medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare, pudendas Cum caderet ,
castique decus fervare; pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di
Alessan dro il Grande , che trovandoli proffiina alla morte, con i propri
capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle
scoperto . Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e
povere ancora , come troveranno queste marito? Mes, L'udirete in
appreso. [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged
small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo si maritino le
belle, le ricche, e le deformi quantunque povere.
Mecenast , Sempronio , Publio , & Medico. Mec. A lunga
sperienzando che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno
a_matrimonjoli qua, li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto
in effi ancora i suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei
fatti a doves re de quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza,
la le non già di approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come sogliono
qua, praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj. Sem. Quali sono
questi altri? Meci Amore , l' Ambizione, e las Bugia. Sem. Che
fofle Amore sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo anch? io; ma questi
alori mi giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià trattare i
matrimoni? Mec. Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e povera , c
perciò Amore l'averà abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello, che si
potrebbe avanzare nelle armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li metterà
a trattare il di lei matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere ,
che da quel mari. taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel giovane,
cui la propong, che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto
considerabili in breves tempo - Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de
forme Mero Mec. In questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non
fargliela comparire tanto brocca con mostrarli, che ci sono tante più deformi
di effe, le quali pure hanno trovato marito; e di poi gli caricherà tanto le
specie dell'apparence bene futuro, che arriverà ancora , quantunque. fyfle
brutiifiina a fargliela comparire vaga a segno, che lo farà divenire diella
amante. Sem. Ma questi sarà impazzito, se non diftinguerà ciocche a leoli
esteriori si fa palese. Mec. Credere forse voi,che solamen. ce Amore
faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione ancora è capace di farlo; e questa
appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè di vedere fuori de'suoi sen. rimenti
anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli ancora , che si stimavano capaci di
dare ottimi consigli ad altri. Sem, Ed Ainore, che fensaria ritraer da?
suoi maritaggi? Mes. Non altra ; che di vederli in brieve tra di loro
disgustati, essenda,che come si luol dire per proverbio; chi per amore si
prende, per rabbia li lascia. Sem. Ela Prudenza , che ne ritrae di sensaria?
Mec. Di vederli con perfecta pace tra elli, di sentirli dire con Aufonio trai
di loro : Uxor vivamus , quod viximus', dove teneamus, Nomina, qua primo
fumpfimus in than)lamo : Nec ferat ulla dies, ut commutemur in
Ævo, Quin juvenis tibi fim, tuque puellas mibi.
Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che volentieri si può pagare da
curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora all’Avarizia ; com’enera questa nei
matrimoni, vedendosi introdottas oggidi tanta pompa , e splendidezza in elli ,
che pajono più costo trattari', u regolati dalla prodigalirà sua nemica.
Mec. Cosi non ci cotraffe: : vedrete una giovane non solamenté bructa, ma
[ocr errors][merged small] anche mal sana , ricca però affai: e chi mai
[poserebbe questa , con cucce le sue ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il
suo parenrado ? Sem. E come mai ella opera ? Mer. Si porrà
d'intorno ad un bel giovane, ma povero , e gl'infinuerà, che quel partito
potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli riempirà la testad fcema, che si
ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi; dicendogli , che potrà allora
godere, e stare allegramente; e susurrandogli qualche altra cosecca di più alle
orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto a suo modo; fenza che gli amici lo
possano più rimuovere con tutta la rectorica di Cicerone, e l'energia di
Demostene. Sem. Questi ancora mi sembra un paz-s zo. Ben è vero però,
ch'è caso raro , effendoci fatto divenire dall'Avarizia i posciache i suoi
seguaci non buttando il loro non sono tenuti pazzi; conformea potrà contestare
il Dottore', che conos sce, che cosa fja pazzia, Mede [ocr errors]
Med. Cilono però diverse specie di questo male; laonde se non sono di quefta
fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-, ranno di qualche altra; mentre alcuni
di essi, per non ispropriarli del danaro , divengono tiranni di se medefimi i
ed inoltre, quanti Avari vi sono stati, che per leggiere cagioni hanno dato la
morce a se incdelimi , e quetti di riputere: voi forse savj? e tornando al caso
proposto, à me pare, che per avarizia coftui spreghi il meglio, che si
ritrovas, ch'è appunto il fiore delli suoi anni, spofando una donna mal fana, e
brutta . ..Sem, Che sensaria mai può guadagnare l'Avarizia in far questo? » Mer
Ella spera di potere acquistare tanti seguaci di più, quanti poveri arricchisce
per questa via, essendoche quando erano poveri, non potevano : cflere Avari,
perche non avevano mo-> do da cumulare i dove che arricchiti poffono averlo
.. Sem. Mà come potrà avanzare? dicendogli, che faute, che avesse il pa.
ren rentado, averebbe goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non
si può tare da quelli , che vogliono cumula Meo. Voi non capice il parlar
equivoco dell'Avarizia ; ella non già intende il godere , e stare allegramente
dispendiofo , ma bensì quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci
piacere , e contento maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in
questi cali rimane ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in
tali occalioni, che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi
ingerita. Semi Com'entra la Bugia ne'matri. monj? Mec. In quanti se
ne fanno, senza le direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un
verso; d per Palero ci vuole avere in questi la sua parte. 7 Sem. Si dice
però communemente, che la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non
potrà perciò fare breccia. diri Mele 1 Mec. Non è così perche
non opera già sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta
vi accorre, e si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si
tratta , savia, prudente, e di abilirà : ò quel giovane di costumi angelici, e
di abilità sommas; quando per verità farà tutto l'opposto. Sem. Mà quelto
in brieve si può scoprire. Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e
quando vedrà che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit,
allora, ciocche ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per
iscoprirlo, quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia
si affatica tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-,
mescolaffe à questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco
notabilinente Sem. E come ? e perche ? Mec. Popolandoli il mondo,
median-> te i matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di
meno ne le guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente
ch'essad lo mantiene cosi popolato . Sem. Non credo però; che abbia tanta
parte in essi, quanta voi dite. ) Mec. Ed io credo di vantaggio ancora;
imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i
carrivi? Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da
pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. · Men E credete voi,
Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro
vizja: Sem. Io credo di nò; Mec. Dunque non facendosi tutti questi,
che danno considerabile apporterebbero alla popolazione del mond? Sem.
Ditemi, che fensaria ella riceve ? Mec. Non altra, che di trionfare
allorche li scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere
del lc de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in
arirari. Sem. Oh che razza di gusti deprava Mic. Quéli appunto sono
i piaceri, che li prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere
precipitato chiunque dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli,
Sempronio, della opera loro in conto alcuno. -- Semi Mirpersuado , che la
Prudenza non tratterà fimili mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali
effa s'in. trometterà : per efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà
trattare il suo pa. rentado ad Ainore, ed effa fi discolto. rà.
Mec. Non è così ; perche la Prudenza non è già tanto indiscreta, che odj la
bellezza, c fe vedrà, che colla beh - lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il
buon costume, li tratterà , e concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse,
che colla bellezza, questi non ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad
A mo more , che le marici a suo piacere : Sem. Mà ci sono
elempj di queste belle accasate dalla Prudenza? Pub. Tanti appunto,
quante donne helle hanno mantenuta la fede illibata) ai loro mariti; e di
queste Plutarco ne riferisce molte, parlando delle donne illuftri į confessando
ancora l'Ariosto nel canto 37. non esservene stata mai pea nuria di esse, con
dire: E di fedeli , e caste , e faggie , e forti Stare ne fon, ne
pur in Grecia, e ithead [ocr errors] Roms, Ma in ogni parte,
ove fra gl'Indi, gl’Orti Dell'Esperidi il Sol spiega la
chioma; Delle quai sono i pregi, e glonor mortis Sì ch'appena di
mille una finoma, E questo perche avuto hanno a'lor tempi I
Scrittori bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti
s'ingerisce mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ? Mes. In
questi ancora , quando ritrova, che amili ricchezze fono venu te te
per vic oneste;descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli
detractas, nec alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine
fordidis quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo
ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li
conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza
disdicevole las fola disparita di condizione. Sem. Quale farebbe questa
disugua. glianza disdicevole? Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per
cagione della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un
vile, e sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a
molti, ma ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali,
chi prendesse una fimile Spofa, Sem. Vi fuschi di Te in fimile
congiuntura, che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà
chc che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di
genio si vile. Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má
replico bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora
riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli
osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro
condizionc, con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co->
itume', 'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più
dannoia , e pregiudiziale , di quello sieno le mediocri picchezze nelle
famiglie ile luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi
disle,....... 9. Scilicet expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom
Aut alios mores, quam quos babet? E quell'altro anche canto Infequitur
leviter filia matris iter... Olere diche certi matrimonj fatti con tanta
disparità di condizione, se non, averà prudenza la moglie , riescono ang che
infaufti a mariti; come provò Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu
dalla medeliina tradico, denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i
proscritti in tempo del Triumvirato ..., Sem. Vorrei anche sapere, fela
Pru-, denza tratti marrimonj didonne brurce, e ditettofe... * Mec. Questi
ancora maneggia , quando ci trova il suo conto; cioè a dire che quella da voi
creduta deformità non pregiudichi a fare figliuoli, nè alla pace
doinestica. Sem. Io mi perfuado, che la brut. tezza poffa ritardare
'ambidue ; perciocche, come si potrà amare una donna deforme e non amandoti
questa, come li potranno avere figliuoli, ed esserci la pace domestica di
Mec. Dovete sapere , Sempronio ; che due bellezze sono nelle donnc ; una delle
quali è di fola apparenza, e perciò viene detta eftcriore, e l'altra inter, Da,
la quale risicde nell'animo: la pri. [ocr errors] ma si rende inanifesta
ad og i uno, che Ja rimira; la seconda poi, quanto più si nasconde tanto
maggiormente risplende'; quale di queste due voi bramerefte, Sempronio, che
avesse il primo luogol nella vostra sposa ? Sem. Quella , che porelli
vedere, we godere insieme. Meci Questa sarebbe lefterna , che per breve
tempo la potreste vedere, er godere ; essendocche prettamente fier nisce,
venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas Collige virgo rofas dum fos novus,
o nova pube's, Er memor efto , ruum fic properare tuum. Ed altri:
Rofa viget breve tempus, fi autem pra
terierit Quærens invenies.non rofas, fed fpinas. E
Seneca dinle Anceps.forma bonum mortalibus , Exigui donum
breve temporis , U velox celeri peide laberis : H 2 8.
Ed [ocr errors][ocr errors] Ed il Petrarca ancora così ne parla
Questo noftro caducong fragil bene, Cb'è vento ed ombra , ed ha
nome beliade. L'altra bensì, effendo radicata nell'ani. ino, non
languisce in alcun tempo; anzi che in certe contingenze fa vedere quanto opera
in conservare la pace domeftica. Vi potrei a questo proposito addurre molti
csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della moglie di un celebre Medico
Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto deforme , nulladimeno, per le
fue rare viciù, l'amaya suo marito svisceratamente, chiamandola la sua buona
Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò nascere lo spiega Lucrezio, dicendo : Nee
divinitùs interdum , Venerisque sagittis , Deteriore , fit ut a
forma muliercula ametur ; Nam facis ipfa fuis interdum fæminar factis
Morigerisque modis , cu mundo corpore cultu Ur fucile insuefcat
fecum vir degere vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore , per- · che non
potrebbero ancor' acquistare 1.1 bellezza interna coll'industria de’lo"ro
mariti? Moc. Onanto siete buono, Sempronio, che vi volete affaricare in
merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non sapite, che fin'ora non è
bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare Iddio, che non vi
abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è tuito tempo
perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia. Pub.
Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza
esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi
degl'Egizj, ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che
apprendere questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor,
quod omnes amant, O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto
maggiormen te , [ocr errors] H 3 .te, che il Nazianzeno la
chiama : temporis, & morbi ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico
dice: Ne respicias in muliere speciem, nec concupiscas mulierem in
fpecie. Scm. Coinc fa la Prudenza a conosce. re, che questo giudizio vi
lia, ove law bellezza non regna? Mec. Lo comprende ben ella allorche
rimira una giovane modesta , circospetra nel parlare, non curiosa, ftabile,
attenta , ed applicata a fare ciocche dee; onde la reputa perciò giudiziosa; mà
le poi la scorge incostante, disapplicata, curiosa', garrula , c vana , que.
Ito le basta per crederla imprudente, c non fi prende penfiere alcuno di
essa. Sem. Ho udico raccontare più volte, che alcune giovani pri na di
maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e prudenti, ma che poi fattefi
(pose sieno diveoute l'opposto di quello, che dianzi erano reputate , per avere
sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con
esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò provénuto , se di effe, o de i
loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero in ciò peccato i mariti,
sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come subordinate regolarli secondo
quello, che a medelimi vedranno operare; potendo ancor esse scusarfi, come
fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese, perche fagrificavano
nell'Egitto, le quali dillero : Numquid fine noftris viris fecimus? fer: 44.
Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili matrimoni? Mec.
Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama di accasar fi,
quale sia il fine principale del matri,-monio , cioè per ottenere figliuoli, o
che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì per la sanirà del
corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome ancora cons fare
confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore apportare [ocr
errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria per la bellezza di
Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa facelle, avendo Sara
per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in E. gitto, e fu ,
Gen.12. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint te Ægyptii
di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt : dic ergò
obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili infortunj, non
accadersero per cale cagione , potrebbero per altro succedere dicendo
Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore velocità
di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più temere
questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme fa la
bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi
perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che
gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo ,
ma cziandio clinto che sarà , c CON [ocr errors] con qaciti motivi
lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la
bella. Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu
defanto? Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da
Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata
da tutti di fomma pudicizia ; ed essendole morto il inarito, non solamente
dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere
ivi termic nare la sua vita con esso ; nè fu porabile, che i parenci , anzi il
Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea
cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva
alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro,
si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed
udiva insieme ivi piangerl ; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu
dove si piangeva, ap [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. 5.
Dec. prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro
a prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con
offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata ,
la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi
esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi
i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo
per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente , offerendole
cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa;
posciache'riftoroffi con quello,e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad
efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine
la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo,
passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per
moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu
concluso frete [ocr errors][ocr errors] frettolosainente .
Dimorarono tre gior- ni in decto sepolcro i sposi, uscendo ap- pena
di noite tempo il soldato a prove- dere ciocche faceva d'uopo per
alimca- tarsi tutti. In questo montre da' paren- ti degli appiccati
fu portato via uno di quei cadaveri , ed avvedutofene il sole dato
lo palesò alla sua fpofa tutto con- tristato ; dicend le, che non era
coave- niente di aspettare la sentenza del giu- dice , essendo egli
incorso nella pena di vita , per la sua trascurata custodia ;
on. de che gli avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme
coll'altro suo inarito, essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico,
la compaffionevole donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de'
mici carifli. mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo
appiccare il inorto, che di perinettcre, che il vivo perisca: deh
prediamo questo cadavero,e collo? chiamolo, ove manca quello del ladro.
Ubbidi prontamente il soldaco ; e nel di seguente cucco il popolo f
maravi. Conf. s. Doc. prim. gliò, coine inai quel njorto, così teneramente
pianio, fosse stato posto sopra un paribolo: Sem. Talmente che saranno
tutte finzioni quei gran pianti, e schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti
i mariti? Mec. Per lo più cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste
la prudenzas virile, con faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono
già così gli uo. mini. Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in
Sofijt.: il quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua
moglie, ch'è questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta dirottilmamente,
stando anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il rimanente di sua
vita : e come se le inura della sua casa pocessero essere as parte del suo
dolore, le fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto al barlo così
bene dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre volle, che
tutti quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per natura, o per arte:
cgli stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per portare ancora in fronte
la di. visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche i piatii, e bacili', ne'
quali li lavava crano neri . Passò del tempo in questa bizaria, senza volere
udire alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a cambiare risoluzione. Lucio,
che gliera amico, gli aveva più volte parlato di questa materia, mà senza
frutto; allas tine una sola parola di scherzo lo guada. gnò. Le sue serventi
lavavano un giorno alla fontana certe rape; le vide Lucio , e domandò , fe
quelle doveano servire per la tavola del loro padrone, il che affermarono; se
ciò è cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte, ch'egli fa un gran torto
alla sua moglie, e che non dee mangiare rape bianche in casas vestita tutta di
nero ; onde che si era infinitamente maravigliato , com' egli non riparasse a
cosi grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo mangia. [merged
small][ocr errors][ocr errors][merged small] TC re essere vestiti come
lui di gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli occhi, per vedere,
e riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo non già donni
! Sem. Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti senza
l'intervento della Prudenza, per non cadervi. Mec. Nella: ventura
conferenza vi consoleremo. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] 100, avendola me CONFERENZA VI. 6'1
Nella quale si esaminano più distintamente i pregiudizj', che risultano dai
matrimonj farci fenza in l'intervento della Prudenza. Sempronio,
Publio , Mecenate © Medico 6,156 OL Uanto mai mi ha contriftato
la storia riferita della cru. dele donna di Efe. fo glio considerata .
Pub. Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi lieve cagione ; perche.
primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che in esta si racconta
parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd amici l'avessero del
cute [ocr errors] to cata, avendo, oltre i natali, Giulio s
1981 Conf. 6. Dec. prima qualche concerto maggiore, per lo
sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai
credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza,
poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi,
quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj
dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i
loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero , e costante
amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere
di Protesilao fuo marito , ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le
ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle , stemprate tolle sue lagrimc, dar
loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non
diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre : Peponilla moglie dime
riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo
marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne
lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò. ?
Sem. Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo
marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc
facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante
lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si
crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna? Mec.
Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che
la povera padrona, dopo cinque giorni di dolorofa inedia sofferta, non
trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e
vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco
diria ftoro', offertole non già da pareoti , che I l'ave [ocr
errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la
ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.
Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia , ed allas
prcfenza del marito defonto! Mec. Diceva il Re Filippo, che non era
inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro;
e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo
remoto ? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato,
giovane bello , ed avvenente , ristorandola col cibo , adulandola, e
lusingandola insieme con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il
proverbio di Salomone. Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente,
quando il marito giace estinto, e per. ciò nè può correggerla, nè punirla. :
Sem. Queste ragioni non mi appaga. no punto, onde per non avere a cadere in
fimili infortunj , bramerei che voi con [ocr errors][ocr errors]
con la vostra solita ingenuità mi scopriIte molti altri pregiudizj, che
potrebbero nafcere , non avendo la Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete
voi conversato molto in yostra gioventù , vi sarere incontrato facilmente in,
più contrasti nati tra i mariti , e mogli. Mer. Gli hò uditi certamente
fpefso riferire , e letti ancora ; e quantunque non li abbia provati, per
essere vivuto libero, con tutto ciò sono appicno informato di molciffimi
avvenimenti in fimili materie. 1 Sem. Or dunque, in quelli fatti per
opera d'Amore, senza intervento della Prudenza , che vi avere offervato di
inale ? Meo. Ne hò veduci tanti di questi principiare bene, ma poi cambiare
in un tratto la bella apparenza, ed allas fine rerminare infelicemente ancora
. Sem. Come cominciali bene, e poi mutarfi? fe: Chi ben comincia ,
bà la metà dell'opra? Mec. E pur così è seguito ; impera
cioc [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors]
I 2 ciocche alla prima, in quel fervor di afferro, la sposa era tenuta in
pianta di mano; ma appena intiepidito questo de qualche lieve cagione mutava
faccia il tutto, e quel grand'amore in breve pafsava in noja, ed alla fine
questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap. piense disse: 174 Ef modus
, dulci, nimis immodera ta voluptas Tædia finitimo limite semper babet :
Cerne nouas fabulos rident florente colore Piet a, velut primo vere
coruso at bumus, Cerne diu tamen bas, hebetataque lumina fleetas,
Et tibi conspectus nausea mollis erit. Pub. Voi, Sempronio, avete
lascia. to il meglio, cioè, Non si comincia ben se non dal Cielo. E
credete, che facendosi il matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della
Prudenza, sia esso cominciato dal Cielo ? Sem. E perche no, avendol per
fine la la conservazione della propria specie ? Pub. Il fine
è fanto, ma il da voi proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi
ricorrere ad Amore per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio,
conforme c'insegna Salomone : Uxor prudens à Domino · Sem. Per quali
motivi si avanzano di poi al dispregio? Mec. Per molti ; lasciando in
disparte l'interesse della dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle)
promessa, e per lo più non pagata; che suole frea quentemente turbare la pace
domeftica: Il primo de' quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella
sopra il marito; imperciocche come vuole Mcnandro : Superba res eft
pulchra mulier: E pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il
favore , che gli hà fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti
altri, che la bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà
tra loro una continua guerra.... Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi
per amore? Mer. Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli
diletto, s'ingegnerà di suscitarla ; e per promoverla, ba. sta, che faccia
concepire ad un di effi un minimo sospetto di essere passato in altri
quell'affetto , ch'egli godeva intiero; non essendo altro la gelosia al parer
di Cicerone , che : Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse
concupicris, e come questa operi uditelo dal Taffo N'arde il marito, e
dell'amore al fuoco Ben della gelosia s'agguaglia il gelo, E va in
guifo avanzando a poco , a poco Nel tormentato petro il folle zelo
, Che da ogni uomo l'afronde in chiuso loco; Vorria celarlo a tutti
occhi del Cielo. Sem. Mà questa Publio potrebbe anche nalcere,
quantunque la Prudenzas avesse avuto parte in detto matrimonio, Pub.
Difficilmente, essendo che aves reb [ocr errors] rebbe ella saputo
scegliere una donna saggia , che avesse colte fiınili ombre, quando fossero
nate nella mente del marito, senz'occasione alcuna , e che non fosse ella stata
capace di suscitarvele. Sem. E come potrebbe far questo una donna?
Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità; insegnando S. Crisostomo nell’onilia
21. al popolo : Ornatus Zelotypia fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso,
che ; modeftia ornatus omnem improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo
formius conjugium conciliat. Sem. Vi sono casi seguiti di donne,
ch'abbiano usata tanta prudenza? Pub. Certamenre , che ve ne sono molti
antichi, e moderni ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione , di Trajano
, & Alpolia moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di
Chantal, come scrive il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa , fu unan di
quefte; posciache ella non G vede.rs giammai meglio vestita , che quando
[ocr errors] doveva trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare
qualche viaggio, non ornava mai il suo corpo, che quando cia di
ritorno : le fu detto un giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone
suo marito: Madamas ogn'un crederà , ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i
vostri ornamenti, voi non li fate più comparire, come se dubitafte, che da
alcuno dovessero esservi rubati: non mi parlare di questo rispose ella ,
pofciache gli occhi , a' quali devono piacerc,sono cento leghelungi di quà.
Riferisce anche il medesimo, che la Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna
avesse una somma modederazione nel yeftiré, non curandosi di portare abiti di
fera , nè con oro. Una delle sue confidenti prese parimente un giorno ardire di
così favellarle: Madama di altro non discorre per tuttas questa città , che
della riforina de' vostri abiti, pare', che sempre voi diveniate di minor
condizione di quella, fiecc Aata ; più vi fi accrescono beni di for
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr
errors][merged small] fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il
cuore di portare nè seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di
un'aspro cilizio , ed in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio
del marito, per frenare la vanità donnesca. Sem. E quelli, che tratta
l'Ambizione senza l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono? Mec.
Pellimo, stante che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li
riinane con moglie deforme, ed indotata ; e di vantaggio ancora, è con molti
figliuoli sulle spalle ; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di
poterli ottenere, per la poca falua te di fimile consorte . Sem. Se vi
avesse avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie ?
Pub. Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando
atcentamente, che fondamento potevano avere le milácate speranze; ç
rinvenute le [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso
più costo, di effettuarlo ; ò per la meno nella dubietà di cffe averebbe
assicurato meglio le buone qualità dellas donna, affinche'andando le speranze a
male, fosse piinasto questo di certo : di aver una donna prudente in casa,la
quale quantunquc povera , come vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum
fuam. Ne averebbe già permesso a Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale
oltre il disprezzarlo, come non uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo
piacere; conforme riferisce Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio
averebbe sposaro Meffalina, vivente Claudio, se la Prudenza vi forse
intervenuta:nè già di Claudio Mellalina sarebbe stata conforte. Sem. E li
matrimonj fatti dalla solas Avarizia, che danni possono apportarc? Mec.
Maggiori di quello, che vi potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non
li sposa già la giovane, mà bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di
fagitta ; onde considerare voi, come ella ella sarà trattata dal marito, e che
amoal re le porterà; quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie,
ma bensì tutto alinero interesse ; ed avvedutali effa di E essere
posposta ad una cosa inanimatas, che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt
ca ? Sem. Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del
marito .. 1 Mec. Voi fempronio non avere letto Anafsandro , e perciò
parlare in cal # guisa , il qual dice, Si quis pauper pecuniofam uxorem 1
Duxerit, non uxorem , fed dominam habeti [ocr errors]
Cujus eft famulus , de feruus ; E credete forse , che quancunque
paja- no fortunati coloro, che prendono grof. u se dori, realinente
siano sempre? Oh quanto sono infelici ! come conobbs o anche Menandro con
dire : Quisquis uxorem unicam heredem cupit adfcifcere Divitem ,is
vel irasis pænamluit Diis, Vel inf. lix effe vult s-sub nomine for
tunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono favole; lo vedo, che
le grosse doti arricchiscono le cafe. Meca Li poesi son chiamati Vates
da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in questo ho osservato ,
che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli vi sono stati Filosofi
celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe doti Gi sia potuto
arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà quanti li fono
finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi abbattuti in mogli
imprudenti? Sem. E come ciò può accadere, prendendofi quantità grande di
danaro in fimili matrimoni? Mec. Per questo medelimo segue;po. fciache
addolorato diceva Demenao. Argentum accepi ; dote imperium ven didi.
Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con difsiparlo in
bre ale fon ve tempo.; ed eccovi appunto il guadagno, che si ricava
da effe. Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno mariti, che
non sapranno farG ubbidire. Mec. Porrà accadere agl'altri ancora dicendo
Giovenale; Intolerabilius nihil eft , quam fæmina EI dives, i Ed
andare a cozzar con queste ? andate le a riprendere; ed affinche Gate meglio
informato ; udite ciocche dice a questo & propofito Artemone, fazio,
ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri convi cium dicere. Si potranno
con facilità maggiore reg. gere bensì quelle, che non averanno portata dote,
come si ricava da un detto greco: Sponfa indotata non habet libertatem,
fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre lo potranno avere forse le
belle. Mec. Lo hanno le brutte ancora re [ocr errors][ocr errors]
fa [ocr errors] saranno ricche , e superbe , come vien riferito da Gellio
, Me miferum, qui Corbulam duxi , & talenta decem Nanam ,
mulierculam, cubitalem, cujus Superbia adeò intolerabilis eft! Sem. Ed in
che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere soggetta al
marito? Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare soggetta ad
esso; onde vorrà spendere a luo modo : se vedrà, che una sua uguale condurrà
tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei, bramerà
anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e vorrà
effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre; e se
il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua dore ,
per fupplire a quanto bisogna ; e durando molto que, fta vita , anderà in
malora la dore , con tutto il capitale del inarito . Or vedete , che fortuna
s'incontra nel prendersi grof. [ocr errors][ocr errors] is grosse
doti, e che svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli.
Sem. In questo io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo. Pub.
Vi voglio riferire un caso a quefto proposito assai curioso ; Una certas
giovane, che si trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito ,
non volle gustare cosa alcuna , e ftando in tavola molto contristata, le fù
domandato ; da che ciò provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,'
ella rispose; come volete, che io man. gi, se non vi è l'uomo nero, che
ini ser1 va in tavola ; e non hò piatti d'argen , proporzionati alla
dote, che hò portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe
fatto trovare più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come
desiderava : fec'egli comparire nel tempo del delinare due mori ben neri ,
acciocche la servislero, s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si
levò di tavola , e nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete
voi, Sempronio, che vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili
contingenze: bisogna pregar Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di
senno, aliriinenti la casa andrà in malora , quantunque avesse portato il
doppio di dote. Sem. Hò udito sempre dire, che las metà della dore non si
possa alienare, e che li fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque
potranno seguire l'accennati dilapidamenti? Mec. Il lusso però oggidì hà
usurpato il privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare
ancora ogni più stretto fidecoaimiffo . Sem. Mà in che modo?.. Mec.
Si fingono pericoli di case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di
toglie ogni più stretto vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro,
perche questa è materia molto lagrimevole. Sem. Talmente che a derro
vostro re alla moglie ricadesse quaich'eredità; con [ocr
errors][ocr errors] converrebbe rinunziarla, per non incorIf rere in fimili
fventure ? Mec. Muta faccia il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta
qualche anno col marito, trovandosi molti figliuoli, ed a vendo già passato
quei primi fervori del. le nozze , ne' quali si spende molto, non averà genio
più a dissipare, ed effen• dosi assodata nel governo della casa, se pur
farà qualche sfarso di più , sarà con i moderazionc , e proporzionato al suo
Itato, Sem. Or io ho capito, come si abbia da scegliere la moglie, che
sia di tutto proposito ; cioè nè povera , nè riccas, e che abbia più cervello,
che bellezza, acciocche non si abbia da dire di essaie : quello mi fu
raccontato una volta, che dicefle la scimmia , effendo entrata nella
bottega di un arteficet, che lavorava modelli di cera, ove prendendo nelle
inani una bella cesta, dopo di averla ac carezzata, e baciata, mettendo
den| tro di essa la mano, c trovatala vota gridò: Oh che bella gefta, mà
de manca il cervello ! K Pube [ocr errors] Pub. Or sì, che
voi la capite per il suo verso; e scegliendola di questa forta allora sì, che
farere forçunato, e potrete dire di avere presa una grandislima dote , conforme
è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini seguì nel tempo , che io
era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote io avca ricevuto, e
trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia compagna , gli rispofi ;
che credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase egli ammirato , sapendo
, che io non eras folito di milantare le mie cole, nè fimile dote fi costumava
allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete ricevuti? cui soggiunfi, in
contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ; egli di pose a ridere; cd io
non ho avuta sin ora occasione alcuna di contristarmi di ciò. Sem.
Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa apportare la Bugia , concludendo
etsa il matrimonio? Mec. Se lo-traria di passaggio , non suolo apportare
danni molto conlidera 1 i bili; mà se poi s'interna nelle cose
cffen ziali, guai a chi si fida di essa ; pofciache se ricoprirà i
mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo, che la vuole
sposare, la creda una casta Penelope ; effettuandolo diverrà infelice; e se
vorrà fare com parire le ricchezze dello sposo affai e maggiori,
s'ingegnerà ben ella di pro: curarlo, e con infolite maniere : che non ha
fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere le note
dell'avere, nelle quali vi erano regiftra ti molti crediti fruttiferi ,
senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si celavano questi ,
perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere nominati; e
nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi in faccia
di Tizio', i quali erano mere imei prestanze, che nel dì susseguente tor
navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore? Sem. Bisognerà dunque
vivere molto caurclaro'nci trattati de matrimonj,per K 2 non
[ocr errors] non essere dalla Bugia tradito sin Mer. Udite di più : se
una poverad giovane sarà ingannata da esla's facendole apparire il suo futuro
sporo ricco; che tenga carrozza; si trovi las cafa ben fornita di preziose
suppellettili, a segno che le faccia credere che quel partito sia una gran
fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in un tratto si avvede. rà, che il cutto
fù mera apparenza; pois che appena consumato il matrimonio, sparisce il palazzo
incantato di Armida, e li cavalli, o carrozza tornano al fuo padrone ; : e per
vivere conviene dar di mano alla sua dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi
voglio raccontare una storiella, nella quale scoprirete l'astuzia usata da uno
di questi miserabili,che con inganni giunse a sposare una ricca giovane. Se ne
stava egli nel giorno fta. bilito per le nozze penlierofo , e mesto, a segno
che la Suocera si mofle a domandargli cosa egli aveva; cui replicò, che
certamente non aveva cosa alcuna ; fco. perte, che furono di poi le fue
miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas da esso ingannata ; replicò il
ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo, che's io le diffi nel tal
giorno, domandando i mi cosa io aveva, che niente le replicai? che
occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le palesai la verità, con
dirle', che nulla avea. Sem. Accadono questi cali? Mer. Cosi non
accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori ancora. Sem. E quali sono
? Mec. Volendo la Bugia accasare un giovane deviato, che farà? comincie.
rà a lodare il suo buon costume, la sua modeftia, a fegno, che lo farà
compa0 rire in iftato d'innocenza cadendo las povera fpofa a
credere questo, tuttaa allegra acconsentirà, non solamente al
matrimonio, mà sicuramente ancoras converserà seco; non dico altro,
che in breve diverrà un cadavero, median- tc i quel malo
;-col-quale l'averà mal concia. Şom. Sono vesiquefi
cali, Dottore? Med K 3 Med. Accadono, e non di
rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il suo rimedio ; ma
allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di stroppiare con quei
secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i quali applicati in
una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali, potranno in vece di
giovamento apportarle danno notabile. Pub. Questi pregiudizj tempo fà non
seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in fimili mali, îi faceva
prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva moglie. Sem.
Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto confiderabili,
ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio
accalamento. Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc
comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona
un bell'umorcänon cres derò 1121 N derò allora
all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo
manto. Mec. Alla verità conviene prestarlo d fede in ogni tempo, mà
però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata. Sem.
E come? Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello ,
che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due
terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se
vedrete poi in alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di
quello, che convenga, per farvele credere, e voi togliete tre terze parti
a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così
l'indovinerere. Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo
dei difetti de gli uomini , vorrei bensì sapere quei i delle donne,
da' quali doverò guardarini. K 4 Mer. [ocr errors] Mec. Nella
ventura Conferenza farete istruito in questi. Pub. Bisognerà fargli
conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le
buono. [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA
VII. Sopra i difetti, e le Virtù delle donne. Sempronio ,
Medico , Mecenate e Publio , M Sem. I persuado Dottore,
che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle donne , effendo
voi meglio di ogni altro informato de' naturali, e tempera menci
loro. Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere donne soffrono ,
per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ; come si legge
nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum mulieri
auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì quelli
dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che possono
altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj. Med. Di questi ogni
uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente
informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che
una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò
la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra
parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di
quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di
esso ; cioè a dire più astuta Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa,
c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in
Andria i Aftutum fallere difficile eft. [ocr errors] [ocr errors]
201 [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,
Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us agnoscit fapientiam.
Mec. Nelle donne però farà sempre detestabile, non essendo
quefte fcarse di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1 neca
in Hippolyto : 1 Sed dux malorum foemina , d fcelerum artifex,
E di Plauto in milite : Quid pejus muliere ; atque audacius?
Quid? Nibil. E l'Ariosto così ebbe a dire di effe Non siate
però tumide, efastofe + Donne per dir,che l'uom fia vostro
figlio," Che dalle spine nascono le roje, E d'una
ferid'erba nafce il giglio. Importune', Superbe , e dispettose
Prive di amor; di fede , e di consiglio; Temerarie , crudeli, inique,
ingrate , Per peftilenza eterna al mondo nate. Pub. Piano di
grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa', correcc
pericolo di essere lacerato dalle donne come fucceffe ad Orfeo, di cui
parlaw Pla 1 Platone ne' suoi simposj. Per tal unas,
che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare cosi
generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria, anzi
che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,le opere di
Cristina Pisana, è di Lucrezia Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui,
escellerari uomini vi sono stati, che donne ; onde ci comple stare cheri; e
tanto maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le
quali, sc non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già ,
nè avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al
lupo quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi
; perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete
voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i.paffaggieri per terra , ò per
mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'Ariosto con
[ocr errors] 1 [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite
ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza
quinta, ch'è appunto : E di fedeli , e caste, Saggie, e forti State
ne fon ne pur in Grecia,e in Roma; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi ,
6 "gl’orti Dell'Esperide il fol spiega la chioma, Delle
quai sono i pregi, e gi’onor morti, Si ch’appena di mille una fi noma
, E questo, perche avulo hanno a lor sempi Iscrittori
bugiardi , invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono
Socrate, e Platone di esse per frenare la lingua di chi ne dice male,
1 cioè, che sono capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora
. Mec. Bisognerà dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per
non pregiudicare a qualcuna , che tra esse fia ed Itata buona? Pub.
Io non pretendo difendere les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del
numero di queste, nè voglio fcu 1 scusare i vizj, chc
insidiano le donne ; ma se le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe,
come posso tenerle çelate in pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di
cui l'Ecclesiastico al 26. ne fa gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna
splendens ; columna aurea super bafes argenteas ; fundamenta æterna: Laonde ,
Mecenate, non dobbiamo in conto alcuno dir male delle donne; poffiamo bensì
censurare quei difetti, che le perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi
potranno dolere di noi le buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no
tampoco, se taluna cadeffe a darglielo, farà contro di noi risentimen. 10
alcuno, per non dichiararsi da se medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita
norma faremo conoscere, che non odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da
loro medefimc debbonli odiaren come loro capitali nemici. Sem. Iftruitemi
dunque, Mecenate, sopra questi vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di
alcuni ne fono informato; ma cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che
siano tanti appunto, quanti so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire
li più principali , che doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben
regolares scorgendoli nelle mogli. Il primo di questi è la Vanità, la
quale ha un gran i seguito di altri vizj, a se fubordinati, mà cominciamo
ora da questa, che die ď poi parleremo degli altri. Sem. Che cosa è
precisamente, ed in che consiste questa vanità? :) Mec. Credo, che fia un
vižio, tanto in esse, quanto negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima
maggiore, che competa loro in genere di bellezza.in c. 10,4:19.fi Sem.
Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere meglio quanto avete
detto. Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro', con tutto ciò mi spiego più
diffusamente , e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco deformi
procureranno pre all prevalersi di superfui abbellimenti a
fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima maggiore nel
concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi saranno vani.
Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di fienili abbellimenti.
Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ; quando paresse loro di non
essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di tutti, e perciò effe
credessero colla vanità di potere diveairvi a quel segno. Sem. Come fono
numerose le donne di questo genio? Mer. Poche sono quelle, che non lo
abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano la vanità. Sem. E
che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le altre , quando era
giovane ?: Pub. Si ornava in quella forma, che io desiderava, a fine di
compiacermi,non già per fare pompa di fa con altri. Sem. [ocr
errors][ocr errors] 1 1 Sem. Come vi contenevate per firla di
perseverare in cotal guisa? posciache a alcune per breve tempo
incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che fi adornano,
b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle Pub. Avevå ella fomma
venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc,
l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S.
Cipriano, che dice : Non eft pudica, qua affeet at animum "altorius movere
, etiam Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con
pompa, dovendo uscire di cafa, Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la
maggior parte assai positivamente vestira ; imperciocche li mariti per
non u ispendere, non direbbero già loro, che fi ornassero, e
studierebbero giorno ,' notte fentenze contro la vanità. Mes. Che male
ciò apporterebbe loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef fe oggidì
poca ftima; essendo che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto
contiderata , Mec. E te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe
di queste due più considerata , la yana, ò la modefta? . Sem. Certamente
quella, che più di ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si
faccia , effepdo molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo,
Sedopor. tet babere. Mec. Si cercano, come anche voi di. ceste, più i
fatti altrui oggidi, che i proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che
sarebbe più considerata la ya-na , che la modefta; e poi quando quefti non si
cercassero, non credo già, che i mercanti vogliano donare il loro; onde
dipoi,che averanno aspettato un pezzo, forzati a domandare giudicialmente il
loro nelle publiche udienze vi pare, che possa stare celato? ell'essere conf.
derata in questo modo, vi pare, che posla apportare decoro , ò vituperio?
Pub, [ocr errors][ocr errors] d Pub. Senza queste vostre
rifellioni, di forma cattivo concetto delle vane solamente a rimirarle, şi era
ornata Thamar c deposti avea gli abiti yedoyili più modefti, e Giuda
quando la vide i in quella forma, che concerto ne fè di effa? Suspicatus
eft efe meretricem: Genef. 38. vedere dunque yoi, Sempronio, come sono
considerare le vane da parenti anche più congiunri? Sem. Dicemi, che
altro pregiudizio apporti questa yanicà ? Mec. Quando esce fuori de' suoi
limi. ti, hà due altri vizj, che per l'ordinario noll'abbandonano, e sono la
prodi. galità, e l'impudicizia Sem. Sono queste certamente due peflime
compagne, le quali possono apportare gran male, infidiando alla ro. ba, ed
all'onore; mà è seguitata da alţri vizj? Mer. E più correggiata la yanità
das cu efli, di quello sia un Generale di esser cito da 'suoi Officiali,
posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio, l'ineganno, con molti altri
di questa perversa natura, a vicende la servono, onde chi è vana, è anche
superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta, tramando sempre inganni,
e frodi. Pub. In conferina di questo, diffe S. Crisostomo. In Gen.fim
Homilia 41. A corporis cultu innumera frunt mala , arrogantia, que intus
nafcitur, defpectus proximi , faftus spirisus, animą corruptio, voluptatum
illicitarum fomes &c. Sem. Questa vanità fino a che segno potrebbe
tollerarsi nelle donne? Mec. Sarebbe certamente indifcreto quel marito,
che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità, quantunquc da
questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee bensi per tema di
ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i suoi limiti, li quali
le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare ancora, affinche
s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub. Sant'Agostino
riprese rigorofa men [ocr errors] [ocr errors] mente Eudicia per
voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che averebbe
dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi di panno
vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo : quid
absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte fuperbire ? Sem. Come li
conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a
Mer. Allorche una donna vorrà rico- prirsi di gioje, e di oro, e quello è
peg. gio, senza riflettere se le sue entrate lia- no sufficienti a
poter fare tante spele, venendone di ciò ripresa da Ovidio poe- ta
lascivo, dicendo: Quis pudor eft cenfus corpore ferre Juos? Ed
altrove. Gemmisque auroque teguntur Omnia , pars minima eft
ipfa puellae fui. E Properzio dice anche di più.
Matrona incedit cenfus induta nepatum Pub. [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] L 3 Pub. Seneca al 7. de Benef. dice ancora : Video
uniones non fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri
ferendo funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non
faris muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia
auribus fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut.
Ifrael. cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro
ligentur non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in
iis shefauri corufcant : delectant de vulnera , ut aurum auribus inferatur, do
margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio , dum
indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte ; Averre faciem tuam
à muliere compta. Sem. Må se sarà nobile , non potrà fare di meno,
quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente,
vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella. Mece [ocr errors]
Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå
fodisfare il costo di tante pompe? Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una
certa cosa, il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si
può accomodare. Mec. Anzi queste , per fár comparire maggiormente la loro
nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme,
ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a
tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di
lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre
donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta
essa ancor adornata come le altre, cui rispose : che le bastava per ornamento
la virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana
delle altre. Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon
ornamento nelle don ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì
nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia
praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per
mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe
ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am mirazione
a tutto l'universo. Elodando Plinio la moglie di Trajano, non seppe apportare
fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli, come donna mantenuta
sempre lontana dallas vanità superflua. Sem. E se l'entrare fossero
sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i sudet i limiti?
Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità, forse che in questa, se
non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il vizio della prodigalità non
le permetterà moderazione alcuna; posciache: Prodiga non sentit pereuntem
fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per cui fi orna a quel segno,
fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco , quel gran Legislatore de'
Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad altre donne di
ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare, e fare anche di
peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la vanità; posciache
divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor gliandosi le donne
delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre operò Lisandro, come
riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le preziose vefti, che
aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli altri ornamenti; con
fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti viruperato le sue
figliuole, in vece di or. narle. Sem. E le ricchissime, che non
soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto quello
sfara fo, che bramano? 1 [ocr errors] tutte Mec. Non tutto
quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte di
Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a
visitarla con abiti sontuofiffimi , dicendo loro. Credeas effere in questa
città io solamente la Reging, mà ne trovo mille. Pub Chi brama servirsi
bene delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per fodisfare le sue
voglie, ed in cose superflue ; dee ancora pensare and quelle, che sono
maggiormente necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo
: locupletem te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te
fentiant pauperes &c. Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli
più dell'onesto per comparëre bella e Mec. Faccia pure quanto può la
deforme , che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a
quelles, povere damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo
fpero [ocr errors] chio, deteriorare più costo con quelli
abbellimenti, che li pongono, si per- suadono, che per difetto di
effe ciò deo tivi', non sapendo bere addattarli, ed a questo
proposito cosi parla Giove- nale, Quid Pfecas admifit
, quænam eft culpa puella Si tibi difplicuit nasus tuus?
Sem. Consideriamo i sarti quanti rimproveri riceveranno di
vantaggio Mer. Vi fù uno di questi gli anni scorfi, che avendo portari
alcuni abiti ad una ricca, e deforme, ed allorche se li provava , diffe, che
non erano ben fata ti; perche non le stavano bene al viso ; quel povero uoino
vi ebbe un pezzo fof. ferenza, må alla fine le disse : Signora io gli ho fatti
a misura della sua vita , alla quale vanno benissimo , non già del suo viso;
onde questa non è colpa mia , mà deila natura, se non stanno bene ad
effo. Sem. E le brutte, è belle, che siano adoperando i bellectiglo fanno
per vanitá a Moc. Mec. Questo certamente è molto dubioso;
posciache, se lo fanno per essere stimate più belle, s'ingannano, mentre ogni
uno, che le rimira, le tienes per copie mal dipinto, non già per ori . ginali,
e voi sapete ; quanto lieno più timati gli originali delle copie, quantunque
pajano ben colorite; e poi quel mal odore, che tramandano quegli unguenti posti
sul viso, come le possono rendere amabili? ed udite Plauto, come ne parla, Vei
fefe sudor cum unguentis fociavit illico, Ibidem olent, quafi cum una
multa jura confundit coquus, Quid oleas , nefcias ; nifi id unum
male olere intelligas. E Giovenale così dice: Interea fæda aspectu ,
ridendaque's multo Pane tumet facies, aut pinguia popeana Spirat, hinc
miferi vifcantur Labra marici. Ed in appresso; Tal Tot
medicaminibus , coctaque filiginis Offas
Accipit , & madido, facies dicetur anni ulcus ? E guai a queste
se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6.
Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in
conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate
, introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe
comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno di
acqua', e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non
poterono le altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò
tal metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per
quelle , ch'erano prima. Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio :
Examer. 6. cap. 8. per illuminarsi, ove dice : Deles picturam' mulier , f
vultum tuum materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la
pi&tur a via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis
eft ; illance pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa
pi&tura fallit, de ripit, ut neque illi place as , cui placere de
laderas , qui:nielligit non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo
displiceas auctori , qui vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre,
lib.i. de Virginibus, un dilema affai calzante a questo propofito, dicendo,
fepulchra es, quid abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç
tud conscientia , nec alieni gratiam erroris habitura? Şem. Lo faranno
çalvolta le bruite per ricoprire ļa ļoro deformità. Mes. Quanto s'
ingannano queste; posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la
rendono palese a tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si
conosca ciocche di più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime
si discuoprono per defore mi, çon pregiudizio anche delle bells, Şe
[ocr errors] [ocr errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora
credute di ayere difetti tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi
la deformità proveniffe dall'improporzione delle parti, che non è male da
biącca, come la potranno rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare
il modo da profilare mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la fronte,
ed a questo non potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli, perche
dunque li pongono a garreggiare col Divino Artefice, che così le formò per fini
a lui ben ooti? Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in fimile
errore, sia impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e queste in
che modo le coayincereste Publio? Pub. Sono certamente infelici quelle
donne, che non piacciono a se medefime , come disse S. Cipriano , de Bon. Pud.
femper eft mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste difficilmense
potranno convincerli; con tutto ciò, quan: Tollens ergo
quando' mai godessero un momento di mente tranquilla , domanderci loro, se
amano più la bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi, come è più
verifimile , ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro ciocche dicc S.
An:brogio : in Examer 6. cap. 8. ergo membra Ch ifti faciam membra
meretricis? Abfit, quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen admittit ,
grave eft enim crimen , ut pures, ut melius te bomo , quam Deus pingat . Grave
eft , ut dicat de te Deus, non cognofco 16lores meos , non agnofco imaginem
meam, non agnofco vultum, quem ipse" formavi, Rejicio ergò quod meum non
eft , illum quare, qui te pinxit , cum illo habeto confortium , ab illo fume
gratiam, cui mercodem dedifti. Quid refpondebis ? ed udite ancora quanto lo
detefta S. Cipriano de Habit wirg. Manus Deo inferunt quando illud, quod ille
formavit, reformare, transfigurare contendunt , nefcientes quod opus Dei
eft omne quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac, tu te exi, Jimas
impunè Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei artificis offenfama Ut enim
impudica circa bomines, du inn cefta fucis lenocinantibus non fis ,' corruptis,
violatisque, qua Dei funt péjor adultera derineris dc. Sem. Quelle, che
fi bellettano, mi persuado certamente, che non averanno uditi gliaccennati
sentimenti di queisti Santi; perche in verità, sc riflettes sero attentamente a
ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal farlo; mà vor: rei sapere in
oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure, che si pongor Ho le donne sul
viso, essere di nocumento alla loro salute? Med. Sono senza dubio molto
dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei capelli ha apportato a molte la
mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic. fec. locos , cap.3. de tinet.capil.
oye dice: Non folum enim in periculo verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas
ex perfrigeratione capitis per hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate
afferisce , libr. 6. M CAP 1 cap: 57. di averne vedute
morire alcune per tale cagione apoplettiche, e tabide; quanto più facilmente
potranno es. fere danneggiate da cosmetici , ne' quali entra il solimato? E
posso io asserirvi di avere veduta più di una di queste divenute , ò asmatiche,
ò apopletriche, à paralitiche, ò idropiche in érà proverra; senza poi quel
danno, che suode recare in gioventù a tutte , ne' loro denti ; e gignive; nè
preftino fede a coforo, che fabricano belletti, quantun. que dicano di averli
fatti fenza folimato, poiche le gabbano. Sem. Si che dunque aon
gioveranno ne per l'anima, ne per il corpo? Mas come si doveranno regolare i
poveri mariti , fe queste fi oftinaffero in voleres tutte le cose alla moda
2 Mer. Io non farei altro, che spiegare loro i seguenti vèrsi di
Properzio ar. vocato di effe : * Quid juvat arnato procedere vitta ca
pillo Et tenues Cos vete movere finns ?Aut quid orontea crines
perfunderes mirra? Teque peregrinis vendere muneribus
? Naturęque decus mercato perdere cultu? Nec finere in propriis
membra nitere bonis estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens
imitance Britannos Ludis, o caterno gincta colore caput, E soggiunge
: Ut natura dedit, fic omnis recta figura, Turpis Romano Belgicus
ore colar E Plauto ancora, che pone in derisione queste tante variazioni
di mode : dicendo in Epidico Quid ifta ? Quo quotannis nomina in
In veniuntur noua * Tunicam rallama tunicam spilam
Linteulum, Cæcisium, Indosiatam, Palegiatam. Calšbulan, aut
Crocotulam. er. Pub. Allai meglio facente, Mecenate, a fare intendere loro ciò
che dice San Cipriano dihi de babitu Kirginum ; ovewi . Ceterùm fi
tu te fumptuofiùs cumas, per publicum notabiliter incedas , oculos in se
juventutis illícias', fufpiria adolefcentum poft te trabas , concupifcendi
libidinem nuFrias, peccandi fomitem yuccendas, ut fi ipfa non pereas, alios
tamen perdas, velut gladium te, du venenum videntibus se prabeas * excufari non
potes , quafi mente cafta fis, do pudica s redarguit te cultus improbus id
impudicus ornatus , conforme lo fa conoscere Aufonio in Delia, od ei Delia, nos
miramur ,'eft mirabile , quod tam Diffimiles eftis ruque , fororque túa ;
?> Hæc habitu casta , cum non fit caffats videtur, Tu preter cubium
nil meretricis habes. Cum caffi nores sibi fint , buic cultus honeftus,
Te tamen, cultus damnat, caftus cam. Sem. Parfando ora all'ira ,
queltas noir mi pare, che abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli
uomini, aven do [ocr errors] do veduto adirati più questi, che
quelle alcune volte, che mi sono abbattuto seco in Gimili contingenze. x
Mec. Non doverebbero certamente le donne adirarfi ; pofciache divengono allora
talmente deformi , che più non si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano;
onde avendo effe in orrore la deformità, doverebbero anche odia. re la cagione
di essa ; Ma yoi , Sempro, nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non
già in tempo di furore ; e perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici
di esse; fe però vi foste abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel
povero, Grammatico riferito lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ;
mentre di essa cosi dice: Anma', virumque docens, atque arma virumque
peritus':' Non duxi uxorem , fed magis arma do 1 ܢ ܀
Namque dies fotos y Botafque ex ordine ! noctes :: Liribus oppugnat a,
meques meumque Ata [ocr errors] M 3 giam ! Atque , ut
perpetuis dotata à Marre duellis risin Arma in me follit , nec datur
ulla quies: Jamque repugnanti dedam me, wide nique victum Jurget ob
hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non 'mentisce, dice ancora:
non eft ira fuprà iram mulieris . Sem. Non saranno però ofinate les
donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e non tanto buoni, come
era il sudetto Grammatico? 0:0, Mec. L'oftinazione alle volte liavanza
tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come comprendercte ancora dal
feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una di queste» che dopo ave.
rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non potendola far ritrattare
dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo pidocchiofo,la calò anche nel poz .
30, fin tanto che poteva parlare sem.. pre [ocr errors] pre fu
percinace nel medesimo disprego gio ; finalınente, avendo anche la te. ita
fommersa nell'acqua, colle unghie de deti grosli soprappoftę gli faceva cenno di
quello , che averebbe colla voce pronunziato , se avesse potuto Oltre di che il
vizio della vendetta facilmente di collega con esse, dicendo :
Giovenale:Vindicta Nemo magis gaudet , quam femina. Sem. Le
finzioni, e le menzogne and che segno s'internano acll'animo dona, nesco
? Mec. Nelle donne scaltrite più affai, che nelle milense:Ben è vero
però,che se s'incontreranno in mariti accorti, apporteranno loro gran danno le
proprio finzioni, e menzogne; come appunto seguì alla moglie di Teodofio à
allas quale avendo egli donato un pomo di eccessiva grandezza , volle ella
gratifi care con esso uno de principali Signori della corte, il quale due
giorni dopo mandollo in dono all'Imperatore ;quantunque mostrasse
apparentemente di gradirlo n'ebbe per ò egli intern rammarico;perloche essendo
cornato dipoi dall’Imperatrice, domandandole, se riteneva più quel bel pomo;
gli rispose, che lo aveva mangiato, ed avendola pregata, che avesse fatta
matura riflessione a quanto diceva, ella ostina. tamente confermava il suo
derto; allo. ra l'Imperatore per convincerla lo fè portare in sua presenza, ele
disse: Voi Giete una finta donna ; ne mostrò in av. venire feco più confidenza
. Sem. Hò uditi con molto mio rammarico i difetri donnefchi; consolatemi
ora voi, Publio, con riferirmi le Virtù delle donne, ed in ispecie qvelle, che
ponno apportare profitto alli mariti. & Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince.
ro sono le principali virtù, che debbono risplendere nelle mogli. Sem. Ma
di queste Virtù sono capaci Je donne? Pub. Non può dubitarf di
ciòyinenero le le ftorie non solamente profane, ma faa cre ancora
lo confermano, e presentemente vediamo anche risplenderé mole cisime di effe
con fimili virtù. Sem. Perche duaque fi dice tanto ma le delle
donne Pub. La cagione di ciò la trovo in Euripide, il quale dice:
Miferrimum eft muliebre genus , femel Nam , quæ peccant etiam
immeritis Dedecorifque funt mulieribus, com municant
vituperium, Mala non malis , Ma questo, e un abuso grande, ed in. giusto
posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a' buon il
vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi contro di
effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con dire:
Parcite paucarum diffundere crimen ist Spectesur meritis quaque paella fuis.
Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi siano ffate ayendo udita
rasa omnes: raccontare molci saggi farci delle Porzie, Cornelie ,
Paoline, e Paoline, e di altre ; Mà di queste , che con amore sincero
abbianoamato i loro mariti vorrei udirne riferire qualche altro csempio per
meglio accertarmene. Pub. Vi posso fodistare in questo picnamente, e
principiando dal grande, e fincero amore', che mostrarono a loro mariti
carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando a visitarli li ferono vestirc
de iloro abici, ed effc rimasero carcerate: pafferò poi a riferirvi, ciocche fè
Cabadis Reina di Persia, la quale parimente liberò suo marito carcerato con
vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva della sua libertà , c vita
ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto molto riguardevole a tales
proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di uscire solamente le donne
dalla città di Vespergia cariche di quello, che più loro piaceva, abbandonando
queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono sulle
spal. le [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed udite
finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina,
riferito dal Padre Cordier · Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito
con una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla
succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del
Re ; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in
conto alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè
l'amorosa moglic ! aspetto, che fosse addormentato , ed allora appunto, sciolta
la ferita , succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano
il Re, senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte... Sem.
Persevereranno queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima
forma ? Pub. Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo
fåranto, come udirete nella seguente ConfeTenzi. CONFERENZA VIII.
Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime
qualità. Sempronio , Publio, Mecenase , e Medico
M Som. perfuado, chief sendo la giovane di ottimi costumi,non
civoglia grandparte nel regolarla, po sciacche da se mca delima sapra ben
governarsi. Pub. Non è già così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci
vuole anche attenzione in reggerla , affinche non divenga cattiva , perche
conforme fi dice, che prendendo marito, muci sta10, può anche cambiare costume;
im, [ocr errors] L2perciocche il corso è di molti anni, é fi
dee navigare in un mare, nel quale s'in. contrano de' scogli, e continuando la
metafora , descrittami da quel vecchio, che la donna sia la nave; questa quan.
tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la indirizzi, a fola
di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può giugnere al
defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da nocchiere, e
non dor ma; quantunque fia bonaccia.. Sem. Infegnatemi, dunque come do.
vrò regolarmi, per non errare? Pub. Potrò riferirvila direzione del la
quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. ' Sem.
Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io
profitto. Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi seco
in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io l'amava
, c perciò la rispettava , ferviva, ed oporava s mà mà çon tenere
sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non
iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in
quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto
mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo
qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro,
comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna , eccomi
pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi . Mi senti
a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con
faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate,
u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro
-corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata
nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum,
copaiba ljus impinguabit . Sem. 6 [ocr errors][ocr errors]
Sem. E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata? Pub.
Questo non poteva crederlo perche, come diffi , la rispettava, cd onorava con
particolare artenzione ; cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della
sua persona era sodisfattiffimo; sospettava bensì, come mi riferi dipoi,
il che da altre cagioni ciò veniffc ; u con bel modo tanto fè, che alla
fine un i giorno, dapoi avere presa meco confia denza maggiore ,
interrogandomi sopra ciò, seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori ;
cioè : che questi dcrivavano dal timore, che io aveva di non cffere ancor
baltantemente capace di cducare bene i figliuoli, e di non sapere mantenere
fino alla morte il reciproco affetto coniugale a quel segno, che fi dovea
. ! Sem. Che rispofe ella? Pub. Con volto ilare mi replicò, che a
questo dovea anch'effa contribuire la sua parte , ic perciò ca ayefli pur
deposto la metà di detti pensieri , ch'erano tuoi. Sem. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe risposto ; penfiamo ora a
darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando quefti nasceranno Gi farà,
come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello, che non è presente.
Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il divertimento non erao
anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale, che richiede sfe
giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere quanto faceva
d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. ... Sem. Vi manrenne la
parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno Pub. Fè anche di
vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno così le
parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in reggere la
casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci nel nostro
stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed uno per mc
, una ser [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere la noftra
carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza: voi pen+ ferere
alla tavola, alle biancherie, ed io al rimanente ; dell'esazioni
voglio ne fiare anche voi consapevole per vom ftro governo ;
ficcome ancora dell'esi- to, per caminare di buon concerto tra noi
nello spendere: debiti non voglio ne facciamo, nè avanzi
considerabili fino a tanto, che abbiamo l'assegnamen. to fiffo , c
non amministriamo tutte le rendite; e basterà , che solamente po-
niamo da parte ogni anno qualche cosa, per fupplire alle stagioni
fterili, alle ritardate rescoffioni, ed alle spese straor- dinarie, per
non ritrovarci allora bilo- gnosi di danaro : All'educazione de'
fi- gliuoli penseremo concordemente, al- lorche Iddio li manderà.
Sem. Ed essa accettò queste brighe ? Pub. Anziche mi
ringraziò ; mo- strandofi contentissima, per averla po- fta a parte
del governo. Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi
in questo affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio
prendermi questo tedio? Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta
in quei tempi, ne quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti ,
contentandoli vivere subordinate ad effi , e non succedca già come dice
l'Ecclefiaftico al 26. Mulier si primatum babeat , contruria eft viro fuo;
perche qucfta maggioranza non la godevano. Sem. Mà come riusciva in
quelle cose , che le toccavano di fare? Pub. A maraviglia bene; posciache
aveva la matrona , ch'era donna savia, e consigliandosi con essa lei, divenne
in breve tempo espertisfima in tutte quelle cose, che le appartenevano.
Sem. Chi potrà trovare oggidi quefta matrona non costumandosi più tal servigio
? e poi quando anche si trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire
mia moglie, la matrona . Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa
mal fatta? Som. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
Sem. Non dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi
l'introduceffe. Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti? Sem.
Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te.
nerla. Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi
dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni ;
imperciocche possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non
conversare con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta
questo provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed
onesta, che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero
meritevoli della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se
non fosse stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la
mia consorte , non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche
questa matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando
alla mia conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è
stata occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se
fi fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente
pellimi consigli averebbe ricavati. Sem. Questa matrona itava al fervia
gio attuale? Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta
dall'altra donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di
quelle, che le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava
terminare i suoi giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per
cagioni assai gravi, le quali raro volte accadevano ; e quando la Signora
partoriva , essendo pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le
prestava in tutto quello, lc occorreva ; ed in tempo di malattie cra
singola re; 2 re; oltre di che nell'educare bene i figliuoli,
e le femine in ispecie, cra mol. to eccellente, sapendosi far amare, a
rispettare insieme: or vedere voi quali danni ha apportato privarsi di
effe. Sem. Mà perche è stato dismesso si buon fervigio ? Pub. Io
precisamente non lo sò, può essere, che sia noto a Mecenate. Moc. Io ho
udito riferire più voltes che queste volessero fare troppo lezelaati, e perciò
fi fia verificato in esse la favola di Efopo, ove parla del trattata di accordo
fatto tra il lupo, e la pecor ra,contro la soverchia custodia de' cani; e per
verità, vi erano alcune, di esse, che facevano la guardia alle figliuolo più di
quello , che facciano i cani alle pecore; -mà questo non era motivo fufficiente
per dismettere un servigio cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa,
conosciuto ciò, anche da Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli
consigliò: At tu cafto precor maneas, fanétique pue Aft [ocr
errors] dorisa N3 Affideat cuftos fedula femper anus . Sem.
Come regalavate, Publio, fperso la vostra sposa? :- Pub. Oltre le mancie
solite del Natale, e del giorno mio natalizio, che consistevano in dodici
piastre per.volta, e quando si riscotevano grosse somme, fempre qualche moneta
di oro le davas, perche mi è piaciuto , ch'ella 'manegiafle danari. Sem.
E che ne faceva 279 Pub. Quando arrivava a cumulare la somma di cinquanta
scudi , creava un cenfo, e la metà del frutcabo di effo dispensava a poveri, c
fi verificava in lei ciò, che dice Salomone delle donne savie: Manum fuam
aperuit sinopi , & palmias suas extendit ad pauperem , dell'altra si
serviva per vestirdi:. ;1 Sem. E le fpilte non se l'era riservate ne'
capicoli matrimoniali? LifPubi Questo non costumava allora... non facendofi
tanto consumo di effe,come 'oggidì, che liveste alla moda . Sem. Eche a
non fi vertiva alla moda in quel temposPub. Si vestiva all'usanza propria det [
paese, quale era di non cangiare sì di sovente, quella , che
correva. Sem. Non è questa la vera moda, mà bensì quella, che oggi si
porta da paeli stranieri, ed indi a pochi meli, venen, done un'altra, la prima
non si usa più , perche le ultiine sono quelle , che dilectano, ed appagano gli
occhi . Pub.E degli abiti di vecchia moda anche in buono essere che fe ne
fa? Sem. Si esitano a quel prezzo, che fi trova, e con discapito
grandissimo, Pub. Come costa questo vestire all? ultima moda , perche io,
che vivo all antica, non ne sono in formato ? Sem. Costa assai per
verità, essendo che bisogna pagare sempre di più del suo valore quel drappo di
nuova moda; mà ad alcuni ciò non da fastidio, perche i mercanti sono cosi
cortesi', che lo danno in credenza. ti ''p Pub. Questa , per parlarvi con
tutta fincerità, mi pare la vera moda diandare in malora; perche estendo sì
cari, Conf. 8. Dec. prima ed il mercante volendo alla fine essere pagato,
che si farà allora , non essendovi danaro per sodisfarlo? Mec. Si mucerà
paese, e per verità quando questa nuova moda non era tanto in uso non si
vedevano già i galant' uomini , divenuti per essa miserabili, nè mutare paese,
essendo per loro poco sicuro quello, ove vestirono a tutta moda. Sem. Con
chi coversava la vostra fposa ? ? ? Pub. Con i suoi parenti più proflimi
, li quali in giorni festivi, in occasione di male , ò di altri bisogni
venivano as visitarci, ed altresì noi con effi loro facevamo. Sem. Ma non
recavano noja fimili conversazioni Pub. Anzi erano di sollievo
grandislimo; essendoche i capi di casa fi ritiravano in disparte a difcorrere
fopra gť iatereffi domestici; consigliandosi tras loro, per meglio regolarti,
nel far colcivare la campagna, ne irinvestimenti da da farsi, e nel
governo economico della casa : le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi
tra loro. Sem. Ed in che? Pub. Nel domandare , che profitto
facevano i figliuoli,che belli premj avevano avuti da loro maestri, e come fi
portavano le figliuole ne' loro lavori, i quali bene spesso portavano seco
queste, per farli vedere ; e ciò serviva per eccitar emulazione tra elli
a portarli meglio in avvenire, lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato
benc. Sem. In detto tempo a costumavad giocare? Pub. Questo non fi
faceva , eccettuato, che in tempo di carnevalc. Sem. Si giocava alle
ombre in detto tempo? Pub. Questo si costumava ; posciache ove si
giocava, non vi era Sole . Sem. Voglio intendere colle carte di fpade ,
bastoni , coppe, e danari. Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel
tempo da esse, e se l'avessero co no [ocr errors] nosciute', non
averebbero giocato con carre tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le
spade, i bastoni, e le coppe , malamente adoperate consumano tutto il danaro
, .. Sim. Ele conedie li udivano allora? Pub. Queste erano
frequentare', ò'da curiofi forestieri, è da paesani ožiofi per alcro le
donne se n'altenevano ; e se non era più, che qualche rappresentazione facra,
fatta di giorno, avevano rossore di comparirvi. Sem. Eli passeggi si
costumavano ins quel tempo? Pub. Passeggiavano ancora, mà per essercitare
iutto il corpo a beneficio della salute , non già come si fa oggidi, per
'indolirli folamente la schiena , a cagione di tanti inchini, che Gi fanno,
fenza muovere un paffo. Sem. Lecafe, come erano bene a dobbate Pub.
Asai meglio', che non sono adesso, rimirandovisi appcfi nelle pareti di effe
akuni quadri di carte', ches er [ocr errors][ocr errors] ga
in erano le piante delle tenute, che si possedevano,dalle quali &
ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi era tanto luffo; poiche loro,
ch'oggidì s'impie in apparenze superflue d'indorature, e nelle vanità
alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio in compre diterreni, e di
alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti di piatti, fottocoppe ,
bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche questi allora. erano.
assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli aveano, e perciò di rado
ancora venivano adoperati. -Sem. Sapete Mecenate, che mi crovo confuso a
cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a ciò, che sarebbe più
utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume introdotto oggidi ; e
dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie; dall' altro canto a seguitare
il modo, che si tiene, sono arrivato a comprendere , che è molto dannoso per
cutti i verfi. Dunque che dovrò fare?Mec. Di non isbigottirvi punto per qucsto.
Scegliete voi il modo, che credece migliore, e dichiaratevi pure apertamence ,
che questo volete seguitare e troverete ciò non oftante moglie, u forse senza
d'uopo di ricercare tanto al minuto il costume; posciache quelles giovane,che
si contenterà di essere tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e
bene accostumata . Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non
seguitare ciocche effe fanno, come si troverà ? Mec. Che pregiudizio
risulterà a voi & ad effa da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi
voi medelimo lo do. vreste procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi
doveri. Sem. Or io così farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò
uditi molti mariti sospirare frequentemente; da che provenisse questo, non lo
só precisamente, sò bene, che senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che
altro doverò fare per mantenerla costante nel fuo [ocr errors] suo
buon costume ? Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di
tenerla continuamente occupata in devozioni ; affari do. mestici; e
nell'educazione de' figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda
l'Ecclefiaftico: Mitte illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam
docuit otiofitas . Sem. Come mi dovrò contenere intorno alla
devozione? Pub. Le darete in questo voi huono esempio ,' conforme
richiede l'obligo voltro ; imperciocche tanto io , quanto la mia conforte
cravamo favoriti dal medesimo direttore spirituale , c trequentavamo sovvente
le nostre devozioni ; la sera poi colli figliuoli, e servitù fi recitavano
alcune preci, e li leggevano anco libri fruttuosi per l'anima, ed in oltre da noi
si sovvenivano bene spelso i poveri, e da ciò ne hò ricavato quel bene, che si
trova registrato nell'Ecclefiaftico : Mulieris bona beatus Vir, numerus enim
annorum illius duplex . Sen. . Sem. In che altri affari
domestici la tenevate occupata ? Pub. Effendomi avveduto , ch'aveya
desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che fossero proveduti nelle fiere
canape, lini , e cottone, é veden. dole si rallegrava molto, e li faceva
filare, e reffere a suo modo; e ciò per verità la teneva impiegata qualche ora
del giorno , ingegnandosi ancor essa di filare , ò d'inaspare; e facendosi le
bucate in casa, rinnacciava a maraviglia , quanto ne aveva bisogno, affieme
colla matrona ; ed io rimirandola cosi diligente ne godevo fommamente, vedendo
verificarsi in essa quella condizione ancora di donna saggia, descritta da
Salomone: Quafivir lanam, d linum, operara eft confilio manuum suarum.
Sem. La conducevate in Villa? Pub. In certe belle giornate lo praticavo;
anzi che le faceva vedere le nostre tenute, e tutti quegli stabili, che la casa
godeva in campagna, con istuirla ancora, sopra quello che si poteva
fars [ocr errors] fare di van aggio, per renderli più frutriferi; sopra
di che ne ricercavo ancora il suo parere, da poi che la vidi ben, informata di
tutto Sem. E qual bisogno avevate di configlio donnescovoi, che fiece sì
esperto in tali affari? Pub. Il prendere consiglio giova agli inesperti,
e non pregiudica mai a i pratici; e poi sapere voi il mio fine qual’ era:che,
se Iddio mi avesse chiamato a se prima di essa fosse riinasta informata. di
tutte le cose: e sappiate, che le povere vedove sono gabbate da loro miniftri,
quando non si trovano informace degl'interessi domestici; il che non legue già
allorche fanno ciò, che debbas farsi. Ne crediate già , che sia cosa im,
propria alle donne d'essere informate della campagna, ponendo tra le condizioni
di saggia donna Salomone anche questa : Consideravit agrum, a emis eum: De
fructu manuum fuarum planiavit vineam. Sem. Nell'educazione de'
figliuoli, che [ocr errors] che diligenze usavate Pub.
Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro operazioni, per
poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo che le piante
velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla terra,mà allorche
sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E riflettendo che tanto si fà,
e quanta industria si pones per ridurre docile un cavallo da maneggio, mi pare
che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro de' figliuoli, da quali
vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da cavalli . Sem. Come
viriusciva facile il correggerli? Pub. Per verità facilisimo, perche
erano docili ; e questo beneficio l'hò riconosciuto dal buon naturale della
madre, il qual passò anche ne' figliuoli; scorgendoli bene spesso all'opposto i
vizj de genitori paffare ne' figliuoli ancora. Sem. Quale induftria
usavate nel di. riggerli ?un canto viera l'altarino con tutti li suoi
Pub. La prima fu d'istruirli nella pie-*** Tu tà cristiana, e d'insinuarla bene
ne'lo. si ro cuori ; primieramente col buono esempio, e poi colle parole;
ed era vely ramente di consolazione grande il vede re quei figliuolini
attenti, e divoti nel fare orazioni ; e di poi, per meglio afficurarmi delle
loro naturali inclinazioni, aveva fatto preparare per divertirli varie cose in
una stanza spartata , ove in [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] arneli; sin altro l'armariuccio con certe armi di legno
tinte, che sembravano di ferro ; vi erano ancora in altra parte din versi
giocarelli puerili, ed altrove qual che libretto in una picciola scanzia ; c
nelle ore di recreazione li conducevo ivi, affinche si divertisfero. Quei
ch'erano portati dal genio all'Ecclefiaftico, correvano alla prima
all'altarino, el ornavano in quella forma į che l'ayeano veduto in chiesa; e
ciò serviva per renderli maggiormente attenti alla devozione: altri poi secondo
le loro incli O [ocr errors][ocr errors][ocr errors] na.
nazioni si divertiyano, coi libri, è colle armi,e di rado alcuni di
efli li spas, favano co i giocarelli; e stava attentifli-
mo osservando quelli, che persevera- vano nel medesimo genio
; perche con- forme averete ancora voi osservato, non è
fempre uniforme l'inclinazione de’ra- gazzi, e mi sono finalmente
accertato , che quelli, ove il genio li portava , sono stabiliti in
esso divenuti adulti,col- tivava però sempre le loro inclinazioni,
vedendole disposte al buono. 1 Mec. Gli Archieli foleano condurre
i loro figliuoli ad una fiera, per com- prendere i loro genj,
e quei, che ve- deano desiderosi di provederli de' libri, li
mandavano all'Accademia, quei poi , che aveano compiacimento a
rimirare le armi, li deftinavano per
la guerra Sem. E le figliuole, che facevano ?
Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre,ò dalla Matrona,ove
erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare calzette,
piccio. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dell'Elezione
della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse pupazzine vestite,
ò da spose , ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva loro', fcorgeva
Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’ quali di queste cose le portava
il genio ; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva in altro, che
in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca, e l'altra, che
prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira da sposa
. Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile
compagnia. Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già
estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico al caj. 26.
Mulier fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit.
Sem. Sì bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una , che non fosse così
buona; che doverò fare in sal caso ? Meca, L'esaminereino nella venturas
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella
quale meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare
perseverare la buona, co(tante nel suo lodevole costume avendola scelta per
vostra conforte, CON, the te CONFERENZ A IX. [ocr
errors] Come si debbano regolare i faggi mariti con le mogli
imprudenti, e viziofe. Publio , Mecenate , Sempronio ,
& Medico Pub. O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto
Oceano degli ammogliati, posso servire di fida scorta a voi,che doyete
entrarvi. Le maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente
di operare più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone,
ed Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a
Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi
ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far
divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo
anch'effo : onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit
Artrides una contentus , illa, Caffà fuit , vitio eft improba
fuftaus viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie
Santippe nulla giovava, Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna
talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita
con esempi, e parole : mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il
mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle
cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per
trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che mo [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide.
Sed nunquam nunquam [ neque enim, femel dicam Oportet
prudentes, quibus eft uxor, Ad uxorem in domibus accedere finere
Mulieres, ipfæ enim præceptores funt malorum.
E che più ! Levina donna da principio caftiffima per la
libertà, che le diede suo marito di andare vagando per il mondo , quanto ,
quanto si mutaffe mutasse , sentitelo da questo Épigramma. Cafta , nec
antiquis cedens Levina Sabinis, Et quamvis tetrico triftior ipsa
viro, Dum modo Lucrino , modò fe permitrit
Averno, Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis, Incidit in
flammam, juvenemque fequuta , relicto Conjuge, Penelopes
venit, abiit Helena. E d'onde ciò avvenne, se non dalla li. bertà, che
le diede il marito ? Nè Mef- salina averebbe già commessa quella sì
enorme scelleragine di sposarli con Silio [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio
Imperatore l'avesse condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone
Tacito arrivò a dire : laborabit annalium fides; c credete forse , che se
Ottone non avesse lodata a quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie
alla presenza di Ncrone, glie l' averebbe tolta ? non già ; ma il pazzo
arrivando a dire, nel levarsi dalla menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto
a trovare sua moglic stupore di bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da
tanti, e volete chc Nerone, udendolo non s'invaghisse di essa ? Sem.
Averanno forse da tenerli chiu. se le mogli per far verificare, ciocche disse
il Satirico ? Pone feram choibe , fed quis custodiet ipfos Custodesē
cauta eft, & ab ipfis inci pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo,
mà folamente di trattarle, come diffe Tacito del popolo Romano , che: nec
tam, tam [ocr errors][ocr errors] fam feruitutem pati poteft, nec
totam libertatem , cioè colla misura di mezo, discreta, e giudiziola e
finalmente conviene compatire molte leggiere debolezze di effe con non farne
calo, di quelle particolarmente, ove non si scorge malizia, e cattivo fine ; ¢
quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non dee questo darsele in publico, nè
con istrepito contenzioso, e riflettere a ciò, che dice Plutarco; che Venere fù
collocata dagli antichi vicino a Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza ,
e non con violenza in tali faccende li procedesse ; e lasciando il profano da
parte, vediamo che rispetto avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino :
dipoi di avere detto, ch'era una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne
mea; soggiunse « quamobrem relinquer bomo patrem fuum , & matrem,
&adbarebit ukuri sud, do crunt duo in carne una Gen. cap. 2. Sem.
Questo però mi reca gran tercore, perche se Adamo trattò così bere
sua : sua mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre ; ne- ella
poteva essere stata crea . ta da mano più perfetta , contuttociò ingannò suo
marito a segno , che tutti noi ce ne risentiamo, che farà dunque una figliuola
di essa in questo mondo? Pub. Fu fedotta però dal serpente, allorche
Adamo dormiva, onde apprendetene dà ciò questo documento: di non dormire,
quando vi sia il serpente, che tenti sedurre voftra moglie. Sem. Mà qual
serpente ci sarebbe, se io sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe dato
sempre saggio di somma mo. deftia ; ed appena entrata in casa mias, cominciasse
a dire ; voglio un'altro abito alla nuova moda: queste gioje non; sono legate
all'usanza; voglio lo scarabattolo, come hanno le altre mie pari; qual
ferpente la tenterebbe in questo caso, per farla parlare in tal guisa ?
Pub. Sarebbero due non che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva vanità, e
l'ambizione proprie ò insinuate,e quefti converrebbe scacciarli,er. [ocr
errors] Sem. Ed in che modo? Pub. Voi averece già scelta la giova.
CH ne nata da? savj, e discreti parenti, and mutt quali avrete
facilmente manifeftato l'animo voftro , in che forma la vorretes trattare;
accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi impossibile, che una giovane
ben'educara possa alla prima avanzarsi Q a domandare imperiosamente
ciocche be brama ; se pure non sarà stata mal con figliata; da qualch’una
poco prudente, i onde per ovviare questo, converrà , che alla prima
stiate attento di non farlas trattare , se non con quelle, che voiconoscerere
savie, e prudenti, delle quali potrete essere sicuro, che non sarà configliata
a questo; ò pure se voi medelimo nolle darete mal'esempio ; conforme a questo
proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi precetti matrimoniali, oye dice'; vir
corporis ftudiofus, uxorem reddit la sciviori cultui deditam ;
voluptuofus amas, toriam, & libidinofam ; boni , honestique amator ,
modeftam , & honeftam: E sog. giugae di vantaggio; nè putes à super,
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] mo, fuis , profusifque
fumptibus uxorem temperaturam ; fi te ad hæc omnia minimè contemnentem
confpiciat', quin potiùs auratis poculis , pietifqae cubiculis, mulorum, &
equorum phaleris gaudentem videat ; non enim fieri poteft, ut à mulieribus
luxus removeatur, quo viri circumfluunt . Sem. Mà come farà praticabile il
pri se terrà visite publichce ove ogn' una farà a gara di comparire con mag
. gior pompa dell'alere? Pub. Se conoscerete, ch'ella abbias la prudenza
della moglie di Focione, di cui già parlammo, permetteteglielo pure
liberamente; perche farà della natura di quella , di cui parla l’Ecclefiaftico
al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio eruditæ animæ : mà per al.
fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente cimento di essere forzato
a tractarla meglio delle altre , e con pompa maggiore, per esfere sposa
novella. Sem. Ma queste non si potranno fuggire; imperciocche lo
potrebbero incon fra: [ocr errors] trare inimicizie, ricusa adofi ;
ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la città. Pub. Se non
si potranno fugire, e voi permettetele. [ocr errors] Sem. Mà
facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le altre. Pub.
Non è da porsi in dubio. Sem. Consigliacemi dụnque, che dovrò fare.
Pub. Non mi dà l'animo. Sem. E perche ? Pub. Perche scorgo
più volonterolo voi di queste visite, di quello che sarà la voftra sposa,
compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e sono molti del vostro
genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal cosa, che internamente
con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di Ti. berio : Specie
recufantis vebementiffime cupiebat. Sem. Mà è possibile, che non ci siad
mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza che rimanga alcuno
disgutaco? Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small]
Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non abbiate voi compia.
çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe? Pub. Di condurre la
vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non rioscisse facile alle
altre di venirla a visitare. Sem. E chi sà, se la sposa fi contentasse di
questo? Pub. Non vi contenterete voi ; perciocche una giovane bene
accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle mani, che i mariti
sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere mogli. Sem. Mà
andando fuori, e poi tornando , faremo nei medefimi termini di prima, rispetto
à queste visite : Pub. Così credo anch'io ; pofciache vorrete fodisfare
allora al desiderio,che avere di riceverle; mà udite di grazias, ciò che ne
potrebbe nascere di buono da questa vostra lontananza dalla città : Che intanto
voi col vostro giudizio po tre [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] trefte istradarla in modo , che non sarà
poi facile, che diça , qucsto voglio, po: sciache le potrete far ben
conoscere i precipizi , che nascono dall'ecceffivo lusso, ed i
danni, che apporta l'ambi, zione;ed averefte inoltre in quelto men.
tre, che dimorerete in villa , tempo op: portuno d'istruirla ancora nella
buona economia, la quale è l'unico antidoto contro la prodiga
vanità. Sem. Insegnatemi dunque, che dovrò fare fin
tanto che staremo in villa? Pub. Contratto, che averete trà voi
quel santo amore conjugale, le farete comprendere, che guadagno abbia recato
alla vostra casa l'efferyi portaticolà, e che per farle conoscere , che voi non
l'avete fatto già per avarizia , ma per esimervi bensì dalle confuloni, u
disturbi, che nascono da tante visite, e rivisite, che si costumano, donare ad
effa la metà di detta somma avanzatas; affinche ne faccia una soccita di
animali, ò la rinvesta a suo piacere, c commodo, e procurerete , che facendosi
detta foccita, non abbia questa disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere
voi as quei discapiti, che l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e
vedrete in atto pratico y qual amore effa. porrà all'economia. Le prime
impresfioni sono quelle , le quali radicateli negli animi foftri tanto del
bene', quanto del male, difficilmente fi cancellano più, mentre che, Quo
fuerit imbut a recens feruabir odo rem Tefta diu. Sem. Questo
mi piace affaislimo; perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare
discapito alcuno ; mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro
bensì, quando andaffe in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo
desiderasse qualche abito , come mi dovrò regolare? Pub. Dovrete
invigilare di provederla preventivamente di ciocche è necefsario al decente
ornato, secondo il voItro grado ; affinche non sia forzatas [ocr errors]
chiedervi cosa alcuna . Sem. Mà se ciò non ostante lo facesse, hò da
negarglielo? Pub. Se voi la scorgerete attaccatas, al danaro non glielo
negate , questo si, che in vece di spendere voi, date la moneta ad ella,
acciocche la spenda a suo modo, Mec. A questo proposito posso riferire un
caso accaduto. Venne voglia ad una donna civile di farsi una certa scuffia alla
moda; il di lei marito, ch' era accorto , non glie la negò; ben è vero,
che le diede il danaro nuovo di zecca per farsela ; ella cominciò à con, tare,
e ricontare dette monete, li le parvero assai belle, e perciò non
s’induceva à spenderle ; le domandò į egli pallato qualche tempo, se fi
cras ancora fatça la scuffia; cui rispose, che non aveva potuto trovare
cosa appropo. fito; le replicò : fatela quando vi piaci ce, perche il
danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in altro, fate voi; mà ella non lo
spese già per goderselo. P Sem : [ocr errors] le qua
[ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse liberale ; che non fa. ceffe conto del
danaro ? Meo. In questo caso pariinente non mostrare renitenza in
sodisfarla ; dite bensì, che commetterete fuori, e farété venire merletti più
belli, e più alla moda di quei, che sono in città; perche intanto, ò le passerà
la voglia di farsela, ò si murerà la moda , come si vede giornalmente accadere,
e potrebbe anche darli il caso, che un giorno fi rendeffe capace di ciocche disse
Crate, Filosofo : che ornamentum eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem
boneftiorem reddit. Quindi è, che secondo quel detto greco : Mulieri
ornamentum mores, e non [ocr errors] durum Sem. E se le venisse
tentazione di porfi qualche manteca nel viso, per comparire più vaga?
Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto alcuno riso.it Sem. Che averò da
fare? sgridarlas .forse, e mortificarla inleme Pub. [ocr errors]
fa Pub. Questo poi nd; pofciache me. no verrece seco alle brutte, meglio
semnot pre farà per voi, ed affinche possiate di in ciò regolarvi con prudenza,
vi rifeac rirò per convincerle dolcemente, cioc che dice Zenofonte
nell'economico, ch' è questo: Die mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium
inivimus, ut quod effet utrique faculsatum, invicem communica. remus ? annuit
illa . Jam ait , fi poftquam tu tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro
veris gammis fiétitias , prò auro puro, adulterinum darem , prò torquibus
aureis vitrum auri bracteis oblitum prò monilibus folidis , ligna 'auro, argen
to, incruftamentis obducta, num boni confuleres, aut judicares , me plus tibi
contuliffe ; fi talibus technis tibi imponerem, quam fi quod baberem', uti eft
in medium conferrem? quod illa excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis ,
neque enim te ex animo amare pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos
in hoc potisimum convenimus, ut alter alteri corporum Noftrorum copiam
faceremas, quod P. 2 [ocr errors][ocr errors] h cum
Pub. Nira maltrattato ? cum uxor annuiset. Sum ne, inquit , tj bi
gratior, aut carior futurus, fi corpins boc, uti eft, nullo medicamento
vitiatum Communicem, an fi os,oculofque minio infestos tibi ofculandum
preberem? At ego in. quit uxor; minimum nunquam attigerim, neque fucatos oculos
gratius, quam tuos afpexerim . Et mihi , ait ille , puta mentem eamdem effe:
nec tam mentito (quem tu cerufit, fib:oque inducis) colore delectari, quam tuo
nativa. Quo tam commado fermone caftigata mulier abjecit omnia tectoria,
formaque medicamenta . Onde di questo convincentissimo ragionamento vi potrete
anche voi prevalere per ridurla a suoi doveri, senza contendere seco,
Sem. E se diveniffe fastidiosa, iraconda, e garrula, che dovrò fare? Pub.
Tutto l'opposto di quello , che farà lei, imperciocche altrimenti sarà la. casa
vostra un continuo inferno. Sem. Come si potrà praticare questo
Pub. Non vi potrà fare mai peggio di uxor. unda , quello, che
faceva Santippe a Socrate, e pure la sopportava , come viene dea
scritto da Bigo poeta : Ferendum eft Socratis exemplo quodcumque
peregerit Xantippen, fiquidem convitia multas
moventem , Cum blando argueret, fædatus defuper Nil nifi
deterso, poft tanta tonitrua, dixit Vertice, se pluviam non
ignorante se quutang Sem. Bisognerebb’essere però Socrate per sopportare
tanta ingiuria . Pub. Cominciando ad operare da Socrate potreste anche
voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per qual cagion'cgli
sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente moglie, rifpofe : Cum
illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut ceterorum quoque foras
patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con sopportare l'in
giu [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] P 3 [ocr
errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate anche voi. Sem. Mà
se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non volesse fare ciocche dal
marito le veniffe ordinato Pub. Socrate sopportava questo ancora ..
Sem. Mà voi, Mecenate, che non fieţe Socrare, che fareste? Mec. Vi posso
riferire ciocche fecero alcuni in fimili casi, e con profitto . Vi fu una certa
vedova, cui erano morti trè mariti, a cagione dei gran disgusti dati loro da
essa ; non trovava questas più alcuno, che la volesse prendere per moglie, un
giovane alla fine, sapendo ch'era divenuta inolto ricca la volle sposare ; mà
cosa fè questi ? ordinò, che fosse trovato il cavallo più indomito, che fosse
nella città, con ordinare al fuo cocchiero, che nella mattina feguente alle sue
nozze lo avesse fatto andare furiosamente per il cortile del suo palazzo, e che
avesse di poi eseguito puntualmente ciocche da esso gli fareb, be
1 be stato comandato; in quella macci na il cavallo fè furie grandi
; venne cuole riosità alla sposa di vedere da che pro cedesse quel gran
rumore, che udivano in si affacciò alla feneftra, e nel medesimo tempo
ancora vi accorse lo sposo, il quale domandò al cocchiero , la cagione di ciò,
cui rispose : Signore, è unas beftia, che non si può domare, e perciò ogni
giorno farà il medesimo; allora egli comandò, che fosse trucidato, conforme
crudelmente seguì; la povera sposa rimase attonita da sì risoluto comando, c
voltatosi lo sposo verso di effa , le disse : Signora mia, quando le bestie non
G poffono domare è necessario di venire à queste risoluzioni : das dovero, che
mutò ella modo di vivere, e di leone divenne agnella. Vi fù parimente una
moglie assai disobediente,alla quale avendo ordinato il marito, che non fosse
uscita di casa ogni giorno, e tornata di notte, mà vedendo , che
colle buone non ricavava profitto alcupo; udite un giorno quello le fece
nel [ocr errors] P 4 tor tornare a casa : teneva'pronte le
forfici, e le recise i capelli, dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa
quando volete, che farete una bella comparsa : sapete voi, che se ne aftenne,
ed in avvenire fu più obediente a suo marito. Sem. Vedete voi, Publio',
che con mostrarsi risentito, si possono anco togliere i difetti
donneschi? Pub. Questi sono casi rariffimi, che felicemente riescano : I
più frequenti però fanno vedere il contrario. Nacque una volta competenza tra
il Sole e l'Aquilone, a chi di loro fosse riuscito più agevole, a togliere da
dosso il mantello ad un viandante : si adoperò con tuttas la sua violenza il
secondo, mà, ftringendoselo alla vita chi lo portava , non fu mai possibile farglielo
lasciare : cominciò dipoi il Sole, senza usare violenza, a percuoterlo coi suoi
continuati raggi ; refiftè egli per qualche spazio di tempo ; mà alla fine
& spogliò non solamente del mantello, ma del giuppone ancora; e da questa
ápologo.com, pren: [ocr errors] i prenderete se riesca più utile la
violenob za , ò la piacevolezza continuata per ri muovere i difetti
donneschi : ed Ovidio che le conosceva bene,così canto:
Define, crede mibi, visin irritare vetado Obfequio vinces aprius
ipfe tuo. Sem. E se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai ,
allorsì , crederei , che fosse d'uopo prevalera di quel rime dio
contenuto in questi due versi : .. Rendon più frutta donne , afini , e
noci A cbi ver loro ha le mani più atroci . Pub. E da cui
apprendeste, Sempronio, modo sì ingiusto, e villano das trattar le mogli? forse
che dall'indiscreto Ercolano Sanese ? il quale, conforme racconta il Dolce nel
secondo del. le istituzioni delle donne, avendo comprati certi tordi , mentre
li stava mangiando con sua moglie, le diffe ; se aveva mai veduti tordi più
grassi di quelli ; vi replicò la moglie ; ch'erano merli, mà , volendole far
capire il marito, ch'erano tordi, non fu mai possibile, crsendofi oftinata
nella sua falsa credenza;alla fine, dopo le contese, l'Ercolano fi avanzò a
percuoterla col bastone, il quale non tolse già la sua pertinacias; posciache
in capo all'anno disse al marito, che in quella medesima sera era Itata così
malamente trattata per quei maledetti merli, ch'egli diceva essere tordi ; e
convennegli fare l'anniversario ancora , con batterla nuovamente, come accadè
in molti anni seguenti. Or vedere, che profitto apportano le battiture alle
donne pertinaci? Poteva l' Ercolano crederli anche per storni; perche ciò non
diminuiva loro già il sapore: mà, se fosse egli stato sotto la censura di
Catone, non averebbe certamente commesso fimili attentati; imperciocch'egli
voleva, che i mariti, che percuotevano le mogli, foffero puniti col medesimo
gastigo, che si dava a coloro,che rubavano nei tempi dei loro Dei, come
riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia 26. epift. prima D. Pau. li
ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem dico , abfit: ultima
nam [ocr errors] 201 [ocr errors][ocr errors] namque ignominia eft
non ejus qui verbe- ratur , fed qui verberat &c. e dipoi , vos
viros illud admoneo , nullum fit tam magnum peccatum, quod ad
verberan- dum uxorem vos compellat , per lo che meritamente cantò
il Guazzo: Offende il Cielose il santo amor discioglie Quel
che con empia man baste la moglie. Sem. E se si credesse impudica,
li ha da fare da Socrate in permetterglielo ? Pub. Questo poi nò : fi dee
bene fare da Socrate in non ingannarsi nel crederla cale, quando non fosse ;
perche alle volte la gelosia fà travedere le ombre per corpi; e fa credere,
anche le menzogne rapportate da uomini sceleraci per cose vere; ed udite a tale
proposito questo prodigioso fatto. Si trovava al servigio di S.Elisabetta
Regina di Portogallo un paggio di ottimi costumi, u perciò da effa amato, di
cui si prevale va per suo elemofiniero ; fu questi ca* lunniosamente
imputato appreffo al Re di soverchia confidenza verso la sua pa.
drona, ed anche reciproca di essa verso . di [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] di lui ; fu data credenza alla calunnia ; onde il Re
adirato fè ordinare ad un fornaciaro, che avesse gettato dentro l'ardente
fornace il primo paggio, che nel di seguente gli mandava; comandò dunque
all’innocente , che si portafíe colà; mà perche udà sonare la campana di una
chiesa, mentre era in viaggio, la sua devozione lo spinse ad andare verso
quella parte ove si trattenne in ascoltare più messe qualche spazio di tempo;
mà, perche il Reviveva impaziente di udire il successo, ftimò bene inviarvi
l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo arrivato il primo , conseguì il
meritato gastigo, ch'era preparato per l'innocente : ed arrivato poi il secondo
portò al Re l'avvifo, di essere ftato ubbidito; e risaputali poscia las
cagionedal Re, perche fosse egli indugiato tanto, ben si avvide della sua innocenza,
e della giustizia di Dio. Viene riferito dal P. Crodier. Sem. Mà corne
potrò conoscere d'a. vere occafione di dubitarne con fondamento?
Pub [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non
ufafte a ad Jei tutta quella fedeltà dovuta , ò pure se per cafî
faceste conversare gioventù in più vistosa di voi, e con tutta libertà;
allorsì forse forse, che, se non fosse più, che la carta Penelope, ne potreste
alquanto dubbitare. Sem. Ed in questo caso, che dovrei fare per
correggerla , e gaftigarla ancora bisognando?, Pub. Bisogna ,
ch'esaminiamo prima chi foffe il reo principale in questo caso, se voi, ò
essa? Sem. Sarà essa lei , perche io voglio, che sia pudica. Pub.
Voi volere, chefia, e fate ogni possibile, che non lia. Sem. E
come? Pub. Con darle primieramente mali esmpio col vostro cattivo modo di
operare; e poi con darle commodo di fare ciocche ella vuole. Credetemi,
Semipronio , che le donne, se non hanno il cattivo esempio dato loro di
mariti, ad ditficilmente s'inducono a far male, Scn 3 d
Sentite ciocche dice a tale proposito Euripide, Stulla
quidem fumus mulieres, non nego, Cum autem
infit hoc animis , peccat ma- ritus Faftidiens connubia , imitari
vult Mulier viruń, co aliui parare ama fium. Ed operandosi in questa
guisa , tutto questo procede per colpa de' mariti, e sentitene ora il parere
de' Santi Padri, | S. Agostino così dice , lib. 2. de adult. conjug. Periniquum
effe videsur , ut pudicitiam vir ab uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed
inoltre dice , ui quales volumus uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant ,
du fi intactam quærimus, intatti fimus ; c Lactanzio, de vero cul. cap. 2 3.
Exemplo continentiæ docenda uxor, ut fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id
exigas, quod ipse præftare non poffis; e poco in appresso, uxorem ejus qui
circa corrumpendas alienas uxores occupatur , exemplo ivcitatam, aut imitari se
putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio Giob così parla , fi deceptum eft
cor meum fue 2 per per muliere, a fi ad oftium amici mei infi
diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea, od fuper illam incurventur alii , e
notare quella parola alii, che denota, che non sarà un solo. Sem.
Ma se per colpa mia non venisse, ed ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini,
che dovrò fare? 1 Pub. Questo sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta
di famiglia ono rata; non facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole
veruna occalione di tradirvi, sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo
faceffe ; in questo caso dunt. que da principio dovere stare vigilantes alla di
lei custodia con fare molte caure diligenze. Sem. E da che me ne potrò
avvedere? Pub. In primo luogo dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà
verso di voi, ef sendo che questo non può portarlo a dụe gel medesimo
tempo Sam. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse
finta, come potrò di. stinguere il vero dal fimulato affetto ? Mec. Con
un poco di tempo ve ne av. vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un
lungo viaggio con essa lei, e cominciando a porre all'ordine ciocche fa di
bisogno, per farvi conoscere risoluto ; può essere, che da principio diffimuli,
onde se vedrete, che in progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza
vostra , credere pure, che qualche cattivo pensiere le va per las mente,
essendo quaGi impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi
allorche dee allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in
altri tempi repugnanza alcuna di viaggiare . Sem. Io che dovranno
confiftere l'accennate diligenze ? Pub. Principalmente in vedere, che
fidata servicù voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio
qualcuno bizarro, che faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto,
che non ten [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo?
no l'entrate da spendere tanto, non ba stando la sola paga per far queste
? licenziatelo dunque alla prima, e se il ma le da ciò procedeffe , tal
volta potrebbe in questo solamente bastare.In oltre sareb-'. be anche ben
fatto, sospettando voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio
ad onefto titolo di devozio ne; con andare a visitare qualche Santi
tuario ; ed in tale occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per
riscaldare quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela
girare un gran pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato
a perdere; e voi sapete, Dottore , quanto bene può apportare il viaggiare in
questi casi. Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba
l'animo postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche
Proper: zio dicendo : Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris
Quan 1 [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm
oculis, animo tàm procul ibis. Amor. Ma per addurvi autoricà più propria
vi apporterò ciò , che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi
mens redis , annua peregrinatione effe jaDandos. Sem. Hò da farne alla
prima risenti. mento, cominciando a sospeccarne con fondamento Pub.
Questa è materia molto gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e
con molta circospezione. Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che
dice Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma wire. Sem. Mà se il caso
si avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto? Pub. Due
rimedi ci sarebbero, un o legalc, cl'altro suggerito dalla somma
prudenza , o fancità, Sem. Lasciamo il legale ; l' altro qualid? Pub,
Marc'Antonio Filosofo Impera [ocr errors] bi tore prudentissimo
diffimulò, come rac conta Giulio Capitolino ; il gran torto 1 fattogli da
Faustina sua moglie, dicenddo di esso : tantùmque abfuiffe , ut de cas
ejufque adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran
virtù in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, &
magistratus promoveret s du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem
aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in
fripart. historia lib. 1. cap. 2. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che
fec' egli. Nil aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe
nunquam cum ca concubiturum , ad adulterum au tem; tibi, inquit , tam
babeto, & cuma 1 difto adberemum abiit . Mec. Rimali sorpreso da
maraviglia, Dottore, quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis , come mai
il vostro Carda no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi * abbia posto
gli utili , che ne' possa ri portare il marito dalla moglie adultera ;
pour essendoche quanto da fimile misfattorisulta , è tutto danno, e'
vituperio. Med. Non parla ivi il detto autore dell'utile onesto, e
decorofo , mà bensi di quello, che si ricava (per servirmi della frase di
Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli intrapreso l'affunto di
ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno dare, da questo non si
poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e detestabile chiamandolo egli
medesimo:surpe auxilium. Sem. E se li moftcafie gelola di me? Pub.
Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual caso, facendole cono. fcere, che
sono vani quei sospetti, che concepisce di voi, che vivete, comes debbono i
buoni mariti, farebbe colas facile, che deponeffe tal gelosia. - Sem. Ma
se non vivefli offervantiflimo, ed andafli in qualche luogo un poco fospetto,
solamente per divertirmi , mà fenza fare inale alcuno 1 Pub. Evoi
tralasciate di andarvi,che così cesserà ancora.la gelosia; altrimensi quel
vostro divercimento xi.cofterà са [ocr errors][ocr errors] caro ,
togliendovi la pace domesticas; e rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso
seguito nell'isola di Lenno; ove, le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro
marici fi foffero invaghiti di alcune belle schiave, congiurarono contro di
essi talmente, che divennero ftudiofamente tutte vedove in una notte : oltre di
che, udite ciò, che dice l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus
mulier zelotipa : : Sem. Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al
debito matrimoniale di vantaggio , che fosse convenevole, cho dovcrò
fare? Pub. Avendola voi scelta di buoni coo stumi, non avere da temere
questo ; se pures non ile darete occasione di farlo! Sem. E quale sarebbe
questa ? 15,368 Pub. Potrebb’essere il gran confumo di cioccolata , e
pistachiara , di rosolà, e vini generosi, e di altre cose, che
accendeffero il sangue , che si faceffe in * casa vostra ; orde basterebbe ,
che lo toglie te via ; imperciocche, [ocr errors] Sine Cerere ,
Bacco friget Venus . Sem. E se questo rimedio non baItasse? Pub.
Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello
sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova ; e che per non farle
provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci
brame... Mer. Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili
angustie , gligiovò molto il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di
opporli a quanto deside, rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo
trovare prima nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo
sano ; ed alle volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi zoppo,
onde in questo modo operava tanco, che li bastava per indurre a fare a suo modo
la credula moglie . Sem. E se non volesse applicare a farai domestici,
come mi doycrò conteacre ? Pub. 7 [ocr errors][ocr errors] #1
Pub. Bisognerà , che voi claminiace boy bene d'onde ciò provengà ;
pofciache, se nascesse per cagione di qualche indis1 posizione di
testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe, che voila
comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a quanto ad
ella spettava, 18 Sem. Si che dunque non potrò fare di meno di non
provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di essa?
Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la direzione della
vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da donna', Sem. E
se non provcnifle dall'accennata cagiones Pub. Doverete anche informarvi,
se ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito le volefle fare da
sopraftante, il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo to doverefte ammonire
a defi. ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora vedretc, cho e Ha
sarà appli ciui 1 [ocr errors] cata, ò pure , se si
divertisse ia altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non
potrebbe applicare alli facci domestici : per esempio, se vi veniffe voglia,
che imparasse, a sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio
straniero , certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante
cose ; onde mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle
cose domeftiche, Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni ,
mà che per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza,
che doverò fare? Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia
26. epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello,
appunto, che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale,
fe lo conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire
fecondo ; e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi
dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con
sofferenza grande le carpisce a po co a poco , senza danneggiare
punto quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si
ha dad praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole
del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello
del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid
molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem
augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere
benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis
dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda
funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei
infultare ; fed efto modeftior . Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i
cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e
poi soggiunge. Quod fi vorberaveris [ocr errors][ocr errors] exafperabit
morbum ; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui
Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c
di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare Pub.
Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ?
E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li
potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo
curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora
persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche
amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta . Mer. Questo lo credo
anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la
sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche
feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo , leroy [ocr
errors] o galava in quei tempi frequencemente, dando loro l'equivalente a
quello , che averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e
quantunque ad effe dispia cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno
vedendo quelle insolite cortelier, si consolavano, e terminato poi
ch'eras # quel tempo, diceva la madre alle fi gliuole : nulla averemmo
guadagnato di buono , se fossimo state alle comedie, dove che da non averle
vedute, ne ab. biamo ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice
alle donne certe feste notturne, come da Tito Livio, lib.g.Dec.4. fi ricava,che
in compendio, e questo: Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter
miscebantur . Qua nc comperts , fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum
fuit. E Svetonio lo conferma nella vita ancora di Octaviano Augusto Sem.
Ditemi finalmente, se uno avefin se pensiere di sposare una vedova , come du fi
doverebbe regolare in diriggerla ? Pim. Se questa averà avuto un
mari [ocr errors] Ate condizioni unite è cosa difficilissima ,co
saggio, sarà facile parimente, che un altro faggio marito la poffa regolare, mà
elsendo stata assuefatta di fare a sno - inodo, non si potrà mai piegare a far
diversamente : posciache una pianta assodata con cattiva piega, non si può più
addirizare. Io non consiglierei a prendere queste per moglie,se non chi(quando
fosse tuttavia in età di farlo) si trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo
d'invigilare attorno ad effi; e che fosse pienamente accertato, che la detta
vedova avesse dato faggio di somma prudenza in casa del defonco marito; e che
in oltre non avesse figliuoli proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li
trovaffe prospera falute; mà chi abbia tutte que di trovarla dall'altro
canto non essendoci queste, si prepari-pure a soffrire molti travagli, chi
vorrà applicare a fimili matrimonj , poiche queste fogliono effere troppo
scaltrite . Sem. Vado riflettendo, che molti di Q uesti buoni consigli
non saranno prati [ocr errors] [ocr errors] [merged small][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cabili nei nostri tempi, onde se
I ddio non ci provede , non sò come potremo più softenerci in avvenire .
Pub. Perche non sono praticabili forse che non dipende ciò da voi? Sem.
Dipende da me , mà è dura cosa di essere il primo riformatore degli
abusi. Pub. Non si fanno già queste riforme colla corda al collo, come
disponevano le leggi di Ligurgo; c poi non sareste già il primo voi , essendoci
i Curj oggidi ancora, ma questi non si rimirano già per non averli da in
mirare; onde questo sarebbe appunto quello , che vi doverebbe animare a farlo :
posciachei non volendovi gli altri seguitare, non riferterebbero con attenzione
a quello, che voi operafte. Sem. E nella ventura Conferenza sopra clie fi
tratterà? Pub. Bisognerebbe confolave quelle povere mogli-faggie, che G
abbattono in mariti viziofi, ed insegnare loro coinc debbanfi contenere in
simile sveninca.CONFEREN ZA X. Sopra i ripieghi prudenziali, che debbonsi
prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggic, incontrandosi in viziosi, ed
indiscreti mariti. Sempronio , Publio, Mecenate , € Medico.
Semi mag Iferitemi , Publio , quali sono i vizj,de' mariti cattivi.
Pub. Questi sono molti, e forse non minori di quelli delle mogli
pellime : iinperciocche , fe farà egli trascurato, da tal difetto ne verrà il
precipizio di tutta la casa: se prodigo peggio che peggio : se avaro , farà
mancare ancora quello , che sarà necefsario : fe fcapestrato, guai a quella
povera moglie, che dovrà combattere fe [ocr errors] [ocr errors]
seco : se giocatore , fi porrà a peri. colo in una sola notte di perdere quan,
to egli possiede : se lascivo, non li con. tenterà dell'onesto : fe affatto
impotente, poco amore per lo più suole avere verso la moglie : sc goloso fuori
dimo. do, oltre di soggiacere a continue in. fermità , sarà oppresso anche da
dobbiti. Or vedere in che miserie Gi troveranno le saggie donnc in mano di
costoro ? E se per disgrazia fi abbattessero ancosa in taluno debole di senno,
che avesse appresso di se qualche servitore fcal. trito, il quale lo dominaffe,
c lo facesse fare a suo modo, oh quanti disaggi se converebbe soffrire !
Sem. Come dunque li doverà regolare una donna saggia , ed attenta col 04rito
trascurato ? Pub. Con ama rlo teneramente, quancunque fi avveg ga della
sua trascurag. gine. Sem. E come lo potrà fare? Pub. La prudenza le
infinuerà di far. lo, per vedere , fe per questa via lo po acres
[ocr errors][ocr errors] réffe indurre ad essere applicato,, perciocche, fe per
sua sventura facefle il contrario, e cominciasse a sgridarlo , certamente
ch'egli si mostrerebbe assai più trascurato ; e credete pure per co. fa
certa, che colle buone più profitto ne ricaverà, che irritandolo. Sem. E
se vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse ad cssere trascurato , doyrå
ella perfeverare in questo grand'amore? ... Pub. Senza fallo ; anzi che, invece
di scemarlo; più costo, glie lo dee accrescere; poscia sche, se non sarà più ,
'che'affatto iosensato , fi avvedrà alla fine, che lo ama di puro caore ; ed
accertatoli di questo, come potrà fare di meno di non amarla anch'effo ?
Platone, allorche gli fu riferito, che Zenocrate Two scolare enipiamente
parlaffe di esso, * *ffpofe : non essere credibile : ut quem tantoperè amaret ,
ab eo invicem non di ligeretur; ed intal proposito dice Sene• Ed Lpift.g.
Ego tibi monftrabo amatorium Dane medicamente fine berba , fine ullius
0 [ocr errors][ocr errors][ocr errors] er veneficæ carmine ; fi vis amari
, amau. :l Ed udite anche ciò, che dice S. Ago stino : Nulla est major ad
amorem in vitai tio , quam prævenire amando. Sem. E che le gioverà questo
reciproco amore , quando le cose domestiche andranno di male in peggio?
Pub. Assai più di quello , che voi credete; imperciocche quando sarà ac.
certata di questo reciproco amore, ed informata insieme dei disordini
domestici, in certe congiunture, che le donne fanno prendere, lo saprà con
dolci maniere ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che fosse,
se non sarà capace di operare di vantaggio, a che gli potrà servire
? Pub. A molte cose ; imperciocche prenderà ben' ella un'alera simile
congiuntura, e ne otterrà ciò, che saprà bramare; che farà appunto il maneggio
dispotico della casa : e vi pare, che questo amore abbia operato poco a far. le
spuntare tanto dominio? Sem. E se glie lo negasse ? R Pube
[ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Non è
possibile, che ciò faccia, se pon farà più che inumano . Sem. E se fosse
? Pub. Allora converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare punto
del suo cordiale affetto. Sem. Queste quali sarebbero ? Pub.
Essendo egli trascurato sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna
trovare qualche buon canale fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato,
nel qual li trova quella infelice casa. Sem. Basterà poi questo , per
farlo divenire applicato? Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da
faggia, e pudica moglie ! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al
trascurato marito, e si verificherà in Jui il proverbio di Salomone : Qui
ftultus eft ferviat fapienti ; ò pure quell’al feruus fapiens dominabitur
stultis filiis : e recherà ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia
provenuta tale istanza, non potendosi egli mai persuadere, che l'abbia
procurata la sofferentiffima moglie. Ed ecco rimediato a tutto
senza strepito, e concesa alcuna; non dovendosi a queste esporre le
fag- gie donne; conformc lo dimostra il la- crificio, che costumava
presso i gentili farsi 2 Giunone Dea delle nozze, cui non ardevano
già le vittime, alle quali non era stato prima levato il fiele,
eget- taro via , per denotare, che non deb- bano mai marito, e
moglie adirarsi in- fieme. - Sem. Qualche volta però è
riuscito alla moglie, che ha mostrato perto , di ottenere ciocche
voleva da suo marito. Pub. Sì bene dal marito prudente,mà non già
dall'imprudente , e vizioso . Santipre non averebbe già fatto fare a fuo modo ,
fe invece di Socrate foffe stato marito suo l'Ercolano, di cui parlammo ; e
ragionando noi ora de' mari. ti viziosi, e mogli saggie, nulla gioverebbe a
queste,il mostrare petto;anzi facendolo doverebbero cancellarsi dal
numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come ella si [ocr errors]
dovrà contenere ? Pub. Oltre di amarlo, come si è detto di sopra, dovrà
guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi aspri per non irritarlo
maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità della donna dee, come quella
del vino , renderá giovevole, e grata , non già amara, e dispettosa, conforme
quella del. l'aloe. Sem. S'indurrà facilmente la moglie, per goder ella
ancora de' suoi fcialacqui, a non riprenderlo. Pub. Non è così ;
perciocche la donna faggia patisce fuori di modo, nel vedere dilapidarsi la
casa; anzi che procurerà di non goderli per quanto può, u fi conterrà nel
vestire pulita si, ma senza alcuna vanità; mostrando Plutarco, che l'unico mezo
per acquistarli la grazia del marito, fia la vita esemplare, lontana da cutte
le vanità superflue : cu quando il marito, la volefie forzare a far
diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo pretesto di divozione,
dal [ocr errors][ocr errors] dal quale venga moffa a vestirsi di unj abito
votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze, ed orazioni, per ottenere da
Dio la grazia , che il marito fi ravvegga. Sem. E le ciò non ostante,
egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe pur ineglio, che godesse
ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo marito? Pub. Non lo
farà essendo prudente; perciocche considererà , ch' essendo due a dilapidare,
più prestamente si darebbe fondo a tutto ; mentre due deAtrieri, che
concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi; dove che, quando
uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio. Sem. Sin ora però non
iscorgo riparo alcuno. Pub. E credere voi, che il marito , vedendola così
ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare non s'illumini?
Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia , che finalmente lo farà
rayvedere : ed udite ciò, che dice Euripide a cale proposito: Domiperdam
etiam virum probibet UXOR Bona , ci conjuncta , fervat domum. Mà
meglio ancora apprenderete tal verità da S. Crisostomo in Joan. Homil.60. Nil
potentius muliere bona ad inftruendum, & informandum virum, quodcumque
voluerit : neque tam lenitèr amicos, neque, magistros , neque Principes
patietur, ut conjugem admonentem , atque consulentem . Habet enim voluptatem.
quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm amet, cui consulit. Multos poffums
afferre viros asperos, immises per uxores mites redditos, & manfuetos; ipfa
enim mensa, lector. E conclude:fi prudens erit, & diligens, omnes
vincot. Sem. Tutto questo bene si potrà ottenere, allorche avrà
dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare l'effersi tanto affaticata,
allorche averà ricevu., to il colpo facade? Pub. [ocr errors] Pub.
Non è così, Sempronio ; perche se indugiass’egli molto à ravvedersi, non già
trascureranno i propri parenti ò pure colui, che aveffe con autorità
suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza della saggia
donna. Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che intentasse la donna
il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare dilapidatore? Pub.
Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà molto bene, che dopo un
simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi diciamola giusta, per via
di liti, se facesse il marito comparire, che in vece di effere dilapidatore,
fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare ? sapete pure, che i
raggiri non mancano. Sem. Quale sarebbe dunque il rimedio per ovviare
fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere ? Pub. Di porre
un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece di quella, che
governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare verificare ciò,
che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant . Sem. Io
bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi in breve tempo
arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che simili economati
servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose continuaffero nella
medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente; che quello ,
che si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa dell'Economo;
il che mi perfuado , che possa esser'errore peggiore del primo ; mentre
facendolo il padrone confumerebbe il suo ; mà l'Economo fi apo proprierebbe
quello degli altri. Pub. E di quelli , che hanno amministrato con ucile
considerabile dell' economato, ne avete veduto alcuno? Sem. Di questi
ancora. Pub. E de' prodighi , chi avete osservato, che non abbia
dissipato tutto il fuo? Serg Sem. A lungo andare niuno. meh
Pube Or dunque complirà alla Repu blica, che vi sia detto economato; e 1
particolarmente , se la moglie sarà pruI dente, e non vorrà anch'essa approvece
ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già l'Economo fare dispotica
mente a suo piacere, avendo ch’invigi li attentamente alle sue operazioni
: 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno far lo con altri impieghi
onoratamente , essendo uomini di somma abilità. Sem. Mà non sarebbe
meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse il fuo? Pub. Queste
voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di Platone; e le detesta
Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene, quanto il inale sia
comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca comunanzas fia molco vantaggiosa
per il marito; pera che se la moglie crederà per sue ancora tutte l'entrate
della casa, non ispenderà con tanta facilità queste in cose sus
per: [ocr errors] perAue , essendo le donne di natura tenacissiine nello
spropiarsi del proprio. Sem. E se foffe Avaro a quel segno, che per
ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il bisognevole alla moglie, ed
a' suoi figliuoli ? Pub. Questo non dovrebbe farsi, e da persone civili
maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per non dire a’figliuoli
mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a posteri gloriosa
memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante l'oro viziosamente
radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all' erede, per lo più
prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo ravviverà bensì
l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo ogn'uno allorche lo
vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi : vedere dove và l'oro
dell'Avaro ? onde à che gli sarà servito l'effere stato tiranno di se medesimo
nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato ? Quindi è, che
non 0. non senza inistero fà da un'ombra del suo inferno domandare
il Dante all'Avaro. Dicci , che 'l sai, di che sapor è loro 3 Mec.
Se l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto francamente, ch'era molto
amaro amaro, come dice il Petrarca. E vidi Ciro più di sangue avaro
, Che Crafo d'oro,e l'un, e l'altro n'ebbe Tunto alla fin, che a
ciascun parves amaro. Mec. Fu data una bella risposta à colui, che
trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal figliuolo generoso al
Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto il defonto se fosse
risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel medesimo tempo,
quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più di una lucer, na
di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache tuito s'impic-.
gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi, affinche non li
logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi [ocr errors][ocr errors]
mu mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso erede non
gli sareb. be piaciuto. Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la povera
moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole? Pub. Ciò
non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le maggiori
finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi avanzi,
fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo
modo. Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina
patirà doppiamente, facendolo di contragenio. Pub. Abbia un poco più di
sofferenza; perche guadagnato , che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche
vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle
mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro
convenienze: Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della
quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per
ammassare quantità im mensa di oro, che si produceva dalle di miniere,
scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta
dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per
la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las
iaggia moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di
csferfi ben internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro
tante vivande, quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e
perfezionare segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo
appartamento, e portatovig rimase egli ammirara allas prima, nel
vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuadeva,
che ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in
appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato
, le disse ; Signora ;, e quan do do verranno le vivande da potersi
mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati
alle miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava
accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad
affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per
attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la
conservazione del suo individuo. Sem. Essendo il marito scapestrato , che
cosa dovrà fare l'infelice moglie? Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza
con amarlo più, che sia possibile . Sem. Maltrattando però anch' ellas
con fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e
fopportarlo. Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non
potrà farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre di sotto ; come
accennò Ovidio nel secondo de' Fasti: Quid faciet? pugnet? Vincetur
fæmina pugnans • E parlando altrove d'Ipemnestra , le fe dire : Che
deggio io far del ferro? in che con viene Coll’armi una donzella 2 io più
conformi Ho le braccia , le man, la forza , ib cuore All'ago,
all'apo , alla conocchia, al fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri
. Laonde sempre meglio farà à soffrire', 1 andandolo bensì illuminando a poco
ad poco con dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la
loro crudel. tà; e s'egli non averà un cuore più cru do di quello
delleone , non incrudelirà - certamente contro di essa, raccontando
Plinio di questo animale : ubi sævis, in viros, plus, quam in fæminas
fremeres 1 veluti natura eum docuerit mulieres mi tius, quam viros elle
tractandas. E for tuttavia perseverasse à rampognarla, si serva di
quell'avvertimento, che diero no [ocr errors] no i capitani di Ciro
ai suoi soldati : che venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con
silenzio gli avessero accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli
gridando; dal che ne cavo Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne,
allorche vedono i mariti adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e
dar loro sollievo con affettuose, ed efficaci parole. Sem. Voglio
credere, che la moglie manierosa lo possa addolcire à fine, che seco non
contrasti; mà fuori di casa come lo potrà trattenere, che non prenda impegni di
duelli, ò di riffe ? Pub. Quello , che seguirà fuori di casa, essa non
potrà cercamente impedirlo, essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà
bensì in questo caso qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde
maltrattandolo qualcuno, ò effo altri, in ambidue i modi potrebbe mettere
giudizio; poiche, feri. ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta
qualche disgrazia confi. de. [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] derabile , e se offenderà altri, il gasti. go ancora, che
gli sovrasterà lo potrebu be far ravvederc . Mer. Hò conosciuto molti di
questi , che hanno perseverato qualche tempo nelle loro stravaganze, e poi si
sono domati, e particolarmente quei, che hanno sofferte considerabili
sventure. Pub. Alcuni di questi ancora si ravveggono allor , che
divengono padri di numerosa famiglia, crescendo loro il pensiero di provederla
, e particolarmente avendo molte figliuole ; onde non dee mai la saggia donna
disguItarsi con fimili mariti; dee bensì raccomandarli al Signore , che li
faccia ravvedere , ed abbandonando le vanità mondanc, attendere al governo
dellas sua casa più diligentemente, che sia poflibile. Sem. Essendo
giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui ? converrà che lo seguiti
anch'essa per darli sodisfazione? Pub. Per andare in rovina prestamente,
cosi potrebbe fare.Sem. Forse che nò; perche tal volta perdendo uno, vincerebbe
l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne vincere sempre ; onde potrebbero
andare le cose compensate, e senza veruno discapito. Pub. E se perdessero
ambidue, bella compensazione , che seguirebbe! Le donne possono vincere con
licurezza solamente quando si contentino di fares perdite maggiori,terminato il
giuoco, è prima di principiarlo; per altro sono anch'esse soggette alle
perdite. Mec. E curiofo,ciò che accadette una volta in mia presenza :
giocava un mio amico con una donna alquanto atrempata, ed avendo egli carte
superiori, io gli disli, che non le avesse scoperte, e fi foffe fatto vincere,
giocando con una donna. Questi mi rispose, che non las teneva più per donna
altrimenti, avendo passico li quaranta anni, mà bensì per uomo. Sem. Or
ditemi , che cosa debbas fare? Pub. [ocr errors][ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito,
ed i suoi difetti. Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una
notte potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe giovato
l'amare, ed il sopportare? I. Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare
per darvi più opportuno riparo . Sem. Diricorrere, farqi sentire con
iftrepito, per impedire, che non potefse più giocare. Pub. Oh bene ! É
non sapete voi, che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il
motivo di fargliene venire maggior desiderio di prima ; e se avesse
dismesso per lo passato il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire
sino à giorno, per fare dispetto all'imprudente moglie. Sem. Mà che dovrà
fare questa infei lice donna? Pub. Non altro, che sofferire , ed amare,
più che mai, ed udite ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam
ino. [ocr errors][ocr errors] S 2 S [ocr errors][ocr errors]
inolitum , atque impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in
animum, à quo te amari velis? Sem. Penurierà la casa del necessario, non
si pagherà la servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà
tutto da male in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed
amare. Pub. Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse
à quel fegno descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's
tollunt. potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo,
diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che
diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai
Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu
quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro ? Sem. Però
se io fosfi ne. suoi piedi, [ocr errors] non [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito,
che procura di mandare la casa in malora. Pub. E che fareste dunque di
vantaggio? 50 Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed ro dare
ricetto in casa loro , me ne sta rei in un appartamento separato , e pro.
1 curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire : occhio non
vede, cuor non duole. Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia
conosciuta anche da Eui ripide per tale; mentre egli fa dire ad Giunone;
non esserci altro rimedio più opportuno , di questo, per
riconciliare gli animi, che il conversare insieme , dicendo: Ho
disegnato a lunghi lor contrasti Ho giammai di por fine con un modo
Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio
riporterebbe dallo ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il
letto nuzziale , fe non di eternare le discordie? e se non sapete,
che [ocr errors] S 3 che cosa guadagna la donna , con fare la
disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ;
onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto
tutto il guadagno, che averebbe fatto. Mec. Io, che in mia gioventù sono
fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione,
che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non
domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto
farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa
perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per
impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi
averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata ; e rimaneva ammirato
nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava ; e di
vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata,
quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto allegra
li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo seco dellas
buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in una sì
prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non
riprenderlo in tale occasione con dirgli:c voi siete sì crudo, che non avete
comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli ; perche
se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando
lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto ; allicurandomi
inoltre che di tanti incomodi, che le aveva recati , ne averebbe avuta viva
rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando
di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la
sua sofferen· za , fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori,
che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto? Mec. [ocr
errors] S4 Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le
mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal
guisa mi rispose : il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche
groffa perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per
impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre
cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il
padrone. Pub. Vedere dunque , Sempronio , quanto sia meglio soffrire in
questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir
male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora
. Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per
lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per
le perdite fatte nel giuoco . Sem. Come debbonsi le mogli regolare,
quando scorgogo i mariti diviati a Pub [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] mente, Pub. In niuna altra occasione si conosi
sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa ; imperciocche le tocca sul
più 1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la prudenza poffibile per
divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa;
e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella
replicarle con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma che per questa
cagione non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per
rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui , tanto nell'affetto, quanto
nella stima verso di lei, se debba prestarle fede. Sem. Doverà dunque
lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile,
una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile
torto? Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi , che
sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo
fosse uno di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso
essere il suo ri. medio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni
. Sem. Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo
di non tornare più da suo marito. Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei
peffimi rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò,
che vuole, accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche
degli altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da
pertutto ciò, che non è bene, venga publicato. Sem. Che cosa dunque ella
dovrà fa , per non morire accorata , dimorando in casa del marito ?
Pub. Conyerrebbe , in questo caso principalmente , ch'ella ben apprendesse quel
consiglio dato da Platone as Zenocrate, qual fù : che sacrificate alle grazie ,
per essere più avvenente, che per lo passato ; e così con dolci manie.
re [ocr errors][ocr errors][ocr errors] re [ocr errors][ocr errors]
re potrebbe facilmente conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che:
Mulier gratiofa invenit gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ;
non occorre, che mi diffonda per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre:
diro solamente, che se la palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole
Plinio, à piegarsi, allorche stà vicino alla sua palma femina , volete , che il
marito ancora non si renda alle piacevoli maniere di una saggia moglie? Fu
interogata Livia Drufilla da una Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo
ciò, ch'ella volea ; così rispores : perche fo volentieri quello, che io
conosco essere di Cesare in piacere, e non ricerco i fatti suoi , come racconta
Dio. ne. Sem. E se faceffe praticare per casas una sua qualche
donna Atraniera, come la potrà tollerare ? Pub. Anzi la dee, per non
irritare maggiormente l'animo di suo marito, e farle corresie ancora, mostrando
di non essere consapevole di cosa alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia
moglie del maggiore Affricano, la quale, non solament’egli vivente, diffimulò
di fapere, che suo marito amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di
esso las fè libera, e la diede per moglie ad un suo liberto ; come racconta
Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di vantaggio, che la moglie di Antenore
aveffe egual cura di un figliuolo fpurio di esso, di quello , che avea de
proprj, per non disgustarfi suo marito. Plutarco ancora racconta nel libro
delle donne illuftri, che Stratonica si prendesse il pensiero di educare bene i
figliuoli di Dejotaro suo marito, quantunque forsero nati da Elettra sua
serya : oltre poi quello, che dice la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16.
& 30. Sem. Questo però non lo porrà mai fare una moglie di spirito ;
non potendo questa soffrire un simile torto . Pub. Quefte, che hò
riferite , avevano spirito, cprudenza; ne mi persua [ocr errors][ocr
errors][merged small][merged small][ocr errors] deco, [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] derò, che possiate darvi à credere , che - Olimpia madre di
Alessandro il Grande lie non avesse spirito, e pure questa , venendole
rapportato, che Filippo suo marito era talmente invaghito di una giovine di
Teslaglia, che si credea communemente, foffe ammaliato ; volle conon scerla ,
ed appena veduta, che l'ebbe le disse : Tecum enim philtra babes, quanto mai le
parve bella ! e non fu questa picciola finezza il dire ad una sua rivale, che
rapiva il cuore di tuti. Mec. Io so, che alcuna di queste per aver
ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie mogli, sono fervite di mezane , per
riconciliare l'affetto era effe,e i loro mariti : altre poi, che hanno ricevuto
strapazzi,sono state cagione di odj mag. giori tra essi ; onde seinpre hà
giovato alle mogli saggic, di non inafprire maggiormente la piaga con
irritarla. Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien dato à queste da Plutarco,
ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche facenda altrimenti, la rivale
diverrà af for [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
soluta padrona, non solamente del letto mà ancora della casa tutta, Sem.
Mà durerà sempre questo disordine ? Pub. Non durerà, perche la prudente
moglie saprà vincere col tempo las violenza dell'altra, come ben cspreffe Ofeo
Poeta : Capitur ergo ab infirmis celer, Aquilamque brevi testudo
vincit. E la testuggine appunto, essendo Gimbolo della donna onefta, non
recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il volo dell'aquila, con aspettare
però l'occafione opportuna, la quale potrebbe essere, allorche li fa dimora in
villas, ove l'amica non fosse presente; ed il maggiore argomento che potesse
addurre per allontanarlo dall'amore impudico, sarebbe appunto di fargli
conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne prendono i figliuoli; con
insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una pudica donna, tratta å forza
dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse, per [merged small][ocr
errors][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors] na , Il che
tutte le donne , portata via la lucer sono simili ; mà se poi imitasse *
quella prudenre Gentildonna Sicilianad di cui fa menzione Lodovico Vives,
nel *' lib. 2. de Christiana fæmina , quanto mai u lo renderebbe à se
affezionato? Questas andava osservando ciò , che facevano i servitori,
che fosse al padrone marito suo più grato, e quello ella facea di sua mano
studiosamente; se bene talora con estrema fatica fua, quello poi , ch'era di
meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à servitori. Sem. Mà quando non
fosse deviato altrove il marito, che cosa porrà fare la i donna savia , à fine,
che non ecceda con i essa lei in pregiudizio della propria falute ? Pub.
La saggia donna non dovrà mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo
marito ; ben è vero però, che dee'as 1 poco a poco, andargli dolceinente
infio nuando il danno, che potrebbe appor tare l'immoderata frequenza
degli arti conjugali , potendogli questi abbrevia Per que .
re anco la vita con danni notabili della sua famiglia ; e starà ben ella
circospet- ta nell'ordinare vivande, calorose per la mensa, ed
ancora nel tenerlo lonta- no dallo frequente uso del cioccolato,
erosolì. Crescere res poset nimiùm damnofa
libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di mo. strarmi
sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito matrimoniale senza
discapito della propria salute. Med. Epicuro, Democrito , Averroe, ed
altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto dannoso l'uso venerco :
Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i limiti dell'onesto.
Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per battere al sicuro mi contento
starmene senza prendere moglie ; perche la propria salute mi dee premere molto
più della moglie. Med. Ditemi di grazia , Sempronio, senza andare in
collera : Voi che avete fpiriti generosi, fe venisse un esercitoDell'Elezione
della Mog. 289 per distruggere la vostra patria, per salvare la propria vita,
abbandonereste la difesa di essa é o pure vi porreste ad evidente pericolo di
morte per difenderla ? Sem. Sarei un gran codardo, quando l'abbandonaffi;
dovendo per sua difesa porre à pericolo la vita con tutte le mie sostanze
Meda E per conservare la vostra specie, la quale può difenderla ne' suoi
bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo già ad evidente pericolo, nè
vita , nè roba , contenendovi dentro i limiti della moderazione, esponendovi in
tal caso solamente à pericolo di soffrire qualche moderato, e breve disaggio: e
se voftro Padre fosse stato di questo sentimento come farefte voi
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] naro ? Sem. Converrà dunque farlo ;
mind u questa moderazione nell'uso venereo, in che doverà confiftere?
Med. Primieramente in fuggirlo più, che sarà possibile la state: dicendo Cel.
co 10, aftate in fptum, fi fieri poteft, abftinen. , dum ; e
nell'autunno dice : neque autumno utilis venus eft ; nel rimanente poi
dell'anno non abufandovene sarà sempre meglio per voi, Sem. Mà da che
potrò comprendere tale abuso? Med. Dalla stanchezza, che riceverete dopo
di esso, perseverando questa, per qualche tempo, nella forina , che descriffe
Ovidio di averla osservata in un amante Vidi ego cum foribus laljus
prodiret amator Invalidum referens ; emeritumques latus, Sem. E
cadendo io in questo, che rimedio averò da praticare? Med. Aftenervene
per qualche tempo, dicendo Virgilio nella Georgica; Nulla magis vires industria
firmat Quam Venerem, cæci fimulos aver tere Amoris, E di questo niuno
meglio, che voi ne potrà essere giudice s purche sia la voItra mente libera, e
non preoccupatas dall [ocr errors] [ocr errors] dall' estro
libidinoso . Şem. E per fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno
? Med, Il vitto moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per
indurre moderazione nelli cimenti di venere. Pub. Vedere dunque ,
Sempronio, quanto possa giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à
suo marito ? prendetelo dunque à buon fine, quan do la vostra moglie vi
frenaffe in que1 fto, facendolo per noftro bene. Met. Or io non vorrei
starmene raffi, dato alle donne sopra di ciò; perche affai di rado fi
riceverebbe da effe tale beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai
bruti, i quali , toltone quei tempi prefisli loro dalla natura, non si
ac. costano più alle femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed
udite come lo conobbe bene Democrito riferito , Dottore, dal vostro
Ippocrate nellas u lectera scritta à Damageto; Anniversa riorum temporum
ordo, brutis quidem danimantibus coitus finem adfert , homo T2
verò [ocr errors] [ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter
agitatur. Sem. Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà
contristatas la povera moglie di questo? Pub. Prescindendo dal rammarico,
che averà, trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non
fi prendera di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel
momentaneo diletto è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non
solamente nelle cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di
travaglio maggiore, nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte
riesce scapestrato laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico al 16,
Utile eft mori fine filiis quam impios habere, aidarà pace essendo priva di
elli. Sem. Io conoseo alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che
sospirare; eso che volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed
io conosco più di una di que [ocr errors] 2 fte,
fte, che si trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e
pensano perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente.
E forse credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso
divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni ,
che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò,
mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi mariti.
Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi? Pub. Se la
moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna ; perche vedenÛ dofi il
marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla , se non fürà
del tutto disamorato. Sem. Mi persuado , che poco averà · da dolerâi la
moglie del marito goloso , * quando però faccia anche ad essa gufta10 re
qualche delicata viyanda? Pub. Non è così; perche la donnas prudente di
questo fi rammarica al parodi tutti gli altri difetti, essendo che fis mile
vizio persevera per lo più fino allas morte ; onde con facilità grande può far
impoverire; conforme si legge nell' Ecclesiastico al 21. Qui diligit epulas in
egeftate erit, qui amat vinum, Q pin. guia non ditabitur . Oltre poi imali, che
suole apportare alla salute. Sem. Mà comc ci potrà dare rimedio ?
Pub. Conosco anch'io, che farà cola difficile il poterlo affatto rimuovere, mà
la prudenza, e l'ingegno donnesco potranno darvi bensì qualche riparo , con
guadagnarsi l'affetto del suo marito, il quale acquistato, se le réderà à poco
à poco facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche moderazione ia effo :
avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che parte compensata di
quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici- ; parne, altrimenti
questa per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo sa, e suo marito,
con inventare infinite menzogne, Sem. 11 [ocr errors][ocr
errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con mariti di la mente
debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro grazia certi servis I
tori favoriti, che li dominano ? Pub. La donna, che colla sua pru. denza
può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna, che lo porfedeya
indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare questi,quando
voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre istruirla di
vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle , che faccia
passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza grande,
per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione opportuna in
qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere , ch'ella non opera per
passione, ma bensì per suoi vantaggi. Sem. E se aveffe anche la Suocera
cartiva , la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla , che cosa doverà
fare? Pub. Di sopportarla , amarla , erispettarla , come costuma fare con
fuo [ocr errors] [ocr errors] marito ; perche non nascono già per altra
cagione le discordie tra suocera, u nuora , che dalla gelosia , che hanno le
madri , che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da cui ricevettero
l'efsere Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il medesimo, non
sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo, à fine che
non le desse più credenza ? Pub. Questo non dee fare la donna saggia';
dee bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in Affrica
per meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era costu che
nel giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare alla suocera una
pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine che, non G
sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa. Sem. Converrebbe
ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i marişi çattivi,
cle mogli peffime , [ocr errors][ocr errors] me , [ocr
errors][merged small] Pub, [ocr errors] Pub. Non è certamente neceffario
parlarne ; posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare costoro, che sono
incapaci di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e fogliono per lo'.
più essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare all'altro i difetti,
elsendone ambidue colmi . Il danno è bensì de' poveri figliuoli , che non si
educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno loro, quanto per la direzione,
della quale eli penuriano : ben è vero però, che quando questi li avanzano alle
discordie', non effendoci mezo capace à poterli più riconciliare tra loro,
solamente l'autorità del prencipe può impedire le rovine maggiori che possono
nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à fine și non vedea ce
mendichi i loro discendenti. Sem.Sarebbe però un vantaggio grande, che
tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi ; perche alloran per
i buoni rimarrebbero le buone solamente. Pub. Pub. Succede
frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad amare simili ad
essi, secondo il pro-. verbia : aqualis æqualem delectat, ý semper à fimili
fimile amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno , di. cendo: Pulli
quidem pullis amici , coruique corvis , [ocr errors] Et furnis
sturni , puro autem pretiofus. eft purus : Meglio però di tutti l'insegna
l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem fibi, omnis caro ad
fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur. Onde se accaderà,
che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di sua volontà, mà
verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc nascerà quello
appunto, che, dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulieris ira , o irreverentia , &
confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile infortunio. ; Sem. Mà
che potrebbe fare chi li trovafle in simili miserie?Pub. Di prevalersi di
quest' ottimo consiglio, riferito.da Gel. in Sat.Menip. Vitium uxoris's aut
tollendum , aut ferens dum ; perche : Qui tollit vitium, uxorem commodiorem
præftat , qui ferte se fe meliorem facit. Sem. E cui riuscì il potere far
questo in core rilevanti ? Pub. Tra gli altri à Socrate; come ris ferisce
Plutar.de Choib. ira: il quale avendo seco à defináre Euridemo, quando nel
meglio si alzò in piedi Sancippe , e dopo di avere caricato di villanie socrate
roversciò la tavola in terra; onde Euridemo si alzò in piedi addolorato per
partirli; cui Socrate disse con gran Aemma: non accadè poco innanzi in casa
tua, che una gallina yolando fece l' isteffo ? e pure niuno vi fu , che li
contriftaffe disinile avvenimento; perche dunque voi ora lo fate 2 Sem.
Non si è parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare le povere donne per
iscegliersi un buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli as suo
suo compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più congiunti, e di
questo ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le diligenze, che
doveranno farg da' padri å fine di provederle bene. Sem. Spererei di
sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà sposata che
l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando Iddio me li
concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das regolarmi per bene
diriggerli. Pub. Nella seguente Decade tratteremo di questo. [ocr
errors][merged small] Sopra l'educazione morale de' figliuoli CONFERENZA
PRIMA Nella quale si mostra, che cosa sia educazione, cui appartenga più
di ogni altro; e se sia necessario luogo particolare,ove
debba farsi. Sempronio , Publio , Mecenate e Medico.
[ocr errors] Sem. N che consiste l'edu-. cazione? Pub. Nello
svellere da gli animi de' tcneri figliuoli tutti quei vizi, che
spontaneamente germogliano in elli, e nell inestarvi in loro vece i preziosi
gerini delle virtù ; effepdoche, come ben'er preffe Virgilio nella
Georgica parlando degl'innesti ; Pomaque degenerant , fuccos oblita
priores, sem. Come! in noi spontaneamente nascono i vizj! Pub. Non
è da dubitarnę mentre nascono molti vizj con noi medesimi insę. gnandoci il
Profeta : Ecce enim in iniqui, tatibus conceptus fum ; du in peccatis concepit
me mater mea; verità conosciutas, anche da' gentili ; posciacche Orazio così
scriffe: Nam vitiis nemo finè nafcitur. Optimus Qui minimis ur
getur . E Democrito, che ; totus homo ab ipfo are fu'morbus eft ; ed inoltre,
che secondo l'età in noi germogliano i vizi propri di effe, i quali se non
saranno a tempo dçbito estirpaţi, quei della puerizia fivedranno adulti nelle
altre età; ma vie peggio ancora, che vedo verificarsi ciò che diffe Orazio
nell'Odę 6. lib.3. cioè i Ætas parentum pejor avis tulit Nos
nequiores, mox daturos Pro ille eft, Sopra l'educ. de
figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò comprenderece à che segno debba
essere ora l'educazione più esatta di prima. Mec. Ed io che soglio
conversare spesso co' miei amici ho veduto più di una volta, in occasione, che
questi as. pertavano qualche visita di soggezione, verificarli ciò, che dice
Giovenale nella satira 14, Hofpite ventura ceffabit nemo tuorum ;
Verre pavimentum, nitidas oftende co- lumnas,
Arida cum tota defcendat aranea tela, Hic lavet argentum, vasa aspera
fer- geat alter, Vox domini fremit inftantis, virgam.
que tenensis. Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao ning Atria
difpliceans oculos veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen
uno Semodio foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che
vedo verificarli appresso alcuni ciò, che se gue : 14 [ocr
errors][ocr errors] Illud non agitas, ne sanctam filius
omni. Afpiciat fine labe domum, vitioqae ca-
rentem, Sem. Vi concorre altro alla cattivas 90 Educazione,
che la trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati
difetti Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj
dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira. Sic
natura jubet velociùs, du citiùs nos Corumpunt vitiorum exempla domeftica
magnis Cum subeant animos auctoribus .
Quali cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti .
Sem. Mà come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non
distinguendo questi ancora il bene dal male? Pub. [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Dice Plutarco nell'educazione de'
figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli conforme appunta fanno
nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino Platone saggiamente
avertisce le balie à non raccontare loro favole di ogni sorta , mà solamente
u quelle, che ponno essere giovevoli al buon costume;confermandoci ciò
S.Ba, filio, il quale, scrivendo à quei dellas città di Neocesarea
, confessò loro di ellere debitore di una buona parte della sua
divozione alla nutrice, la quale,non perdendo mai alcun sermone di S.
Gre. gorio, li serviva di molti belli derti uditi da esso in tutte
le congiuntùre, che se le presentavano per imprimnerglieli benc nel
cuore ancora tenero ; laonde saggia- mente diffe Focilide :
Mentre fanciullo lei, virtute impara , Ma oltre il malesempio',
pregiudicano anche ad elli molto le carrive insinua. zioni,
Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai genitori,
quants [ocr errors] 3 ci [ocr errors] [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche vediamo i
ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi liano
liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose cattive.
Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue ; posciache alcuni
hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati difetti da' quali
esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa menzione Enea Silvio
libr. 1. comment.; che dediti all'ubriachezza procuravano , appena slactati
ch'erano i loro figliuoli, di affuefarli al vino facendone gustare loro de' più
generofi, che si trovassero; ed uno fti, persuadendosi , che non averle il suo
figliuolo bastantemente bevuto vino di giorno, volle di notte, in tempo chc
dormiva,farglielo ingojare con un cannellino; mà perche sonnacchioso corceva la
bocca ingiuriò aspramente las moglie ; dicendole, che non era suo fi. gliuolo
legittimo, per non affomigliarsi ad esso, cui tanto piaceva il vino. E vi
[ocr errors] ed uno di que [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors] re [ocr errors] recherà orrore il sentire di
vantaggio bu quello, che riferisce S. Gregorio di un li esecrando bestemmiatore
il quale ingi nuava ad un suo figliuolino di cinque anni di ritrovare
bestemmie anche infoJite, e riferisce ancora il gastigo , che da Dio ricevette
per sì detestabile dclitro, Mec. Mà senz' and are cercando gli antichi
esempi ; non ci è stato à giorni noftri un Padre, che premiava de' suoi
figliuoli quello, che cimentandoli co i suoi fratelli, rimaneya vittorioso
nel d fare à pugni ? cosa tanto crudele , che non fi racconta già
praticata da Gladiatori Romani tra fratelli, Sem. Le Madri però non
saranno state così perverse nel mal'educarli, Pub. Queste ancora sono
state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad, : Principessa molto vana, che
per colpa fua diveniffe Boleslao parricida, e fratricida ; dove che il
fratello Vinceslao educato da Ludimilla sua ava molto fagi gia, e pia
divenne un Sanco , come nela [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged
small] la sua vita si riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto
apporti la buona educazione. Mec. Questo non è da porfi in dubio,
scorgendoli anche ne bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licur.
go per fare conoscere tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de
quali era avvezzato per la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale
inclinazione, non attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel
mede: simo tempo à vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda
: nel vedere il primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne
andò verso il catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i
vostri figliuoli ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo
Tolomeo Re di Egitto domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore,
che regnava tra gli uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc
nell'educare i figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano
nascere: Sem. Mà à chi dev'essere più à cuore questa educazione?
Pub. A coloro, cui dev'essa maggiormente premere, che sono i genitori, e questi
debbono con industriose, e diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e
d'andare ne i loro teneri cuori giornalmente istillando il prezioso liy
quore delle virtù, senza desistere mai; essendoche, come avvertì Plutarco
questa voce costume , pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo
esercizio, onde da ciò si può comprendere che non ci vuole trascuraggine
nell'educare i figliuoli. Riferisce Orazio Flacco, le diligenze in ciò usate da
suo padre; verso di lui lib. 1. Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam
portare docendum; Ipfe mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores
aderat , quid mulia? pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab
omni Non 11 [ocr errors] V 3 [ocr errors][merged small]
Non folùm facto verùm opprobrio quo que furpi. Santamente dunque ordina
Salomone ne' suoi proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, &
dabit delicias anime tudo Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati,
che non abbiano tempo das poterlo fare? Pub. Se averanno occupazioni più
riLevanti di questa, saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e
non facendolo meritano la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro costoro:
Dove andate meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete ogni
pietra; e nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le vostre
facoltà, vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che questi
operano in quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe, e de i
piedi non fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere
l'occupazione più riguardevole di questa ? Sem. [ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro
personale, i quali ricer. cano somma attenzione, e si può dalli buona
amininistrazione di questi ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi
ai figliuoli ancora, onde perciò non potranno distrarsi per
educarli bene. Pub. E questo lustro, e gloria se si estingueffe
nc'figliuoli mal educati qual i acquisto averebbero fatto i Padri? Gli
Ateniesi nelle feste di Cerere faceano un misterioso giuoco, ed era , che
comparivano avanti l'alcare quei destinati ad effo à prendere ivi un luine acceso,
qual dovea porgersi ad un'altro , che in una decerininaca distanza lo stava
aspettando, per consegnarlo ancor esso ad altri, che in egual lontananza lo
atrendevano: se il detto lume si foss' estinto prima di giugnere all'ultima
mera , era in libertà di ogni uno beffeggiare colui in inani di cui si
estinguěya. E Platone fu di se. timento nelle sue leggi, che : gignentes,
alentes liberos vitam tanquam 1 [ocr errors] lampada alii aliis
tradunt. Or figuratevi ancor voi, che questo splendore, che voi dite debba
passare ne' posteri; come rimarrebbe colui , che per la sua malas educazione lo
estingueffe ? in che ludibrj egli li troverebbe venendo da tutti, beffeggiato ?
e sapendosi, che vi ebbe colp’anche la poca applicazione del padre in educarli,
dirà facilmente qualcuno : quanto era meglio un poco meno di luftro, mà più
durevole nella sua descendenza. Mec. Da questo dunque procederà, che
alcuni figliuoli di uomini illustri sono di costumi tanto diversi da efli , che
pajono più tosto nati dal disonore, averanno quelli facilmente difefcato nell'
educarli. Pub. Plutarco ne adduce ancora un alıra cagione credendo egli
che i fi. gliuoli degli uomini illustri divengano facilmente superbi, ed
arroganci; e lo comprova coll'esempio di Diofanto figliuolo di Temistocle, il
quale solevas, dire ne cerchi, che tutto ciò, che li fos se [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][merged small] se piaciuto sarebbe anco al
popolo d'A. tene piaciuto; perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e
quello che la madre Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli
Ateniefi. Sem. Credo però , che più comparibili polfano essere le Madri
se diferteranno in deira educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato
turte le ore del giorno in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi ,
ò conversazioni; talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare
a' figliuoli,quando non foffero diftrarte an. che nel giuoco . Pub. Già
sono capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri
figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno
certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita
;. perch'esse vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio
col mal esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che
foss'esfa scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in
te, & in patre suo videat , quod fi fecerit peccer . Sem. Non si
potrebbe supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag gine?
[ocr errors][ocr errors] Pub. Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai
differente l'industria,che adoperano i propri genitori da quellas, che sia
l'altrui, ed eflendo questa à proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà
quella de' propri genitori, che più di ogni altro li ainano? Si suol dire
ingeniofus amor , e questo appunto è quello, che li ricerca nella buona edu.
cazione . Sem. Se dunque li può supplire, saranno scufabili quei
genitori, che sostituiscono in loro vece chi lo faccia. Pub. Non per
questo però debbonli affatto allontanare da efsa, senza averci qualche
sopraintendenza particolare, e non usando questa non si potranno mai
scusare, Mer. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Meg. Siete Publio troppo rigoroso, e questo
credo , che proceda , perche voi foste l'educatore de' vostri figliuoli; mà non
sono ora più quei tempi felici , ne' quali si pensava di lasciarli più rosto
ben educati, che ricchi; non sarà poco, che abbiano ora i figliuoli un Ajo di
ti. tolo , che non li lasci almeno precipi. tare in tutti i vizj ; onde da
alcuni, che sono arrivati a conoscerlo a è trovato quel santo ripiego di porli
nei seminarj, assai giovanetti, e prima che la malizia fi avanzasle in
elli. Pub. Or io non mi sono curato di porre i miei figliuoli in questi
seminarj; perche ho voluto fare a modo del Profeta , il qual dice : Filii tui
ficut novelle oliva. tum in circuitu menja tuk. Sono questi seminarj
fantissimi,istituci ostimi per ap: prendere il rimore di Dio, mà oh quanto fà
di più quel Padre amoroso , ed actento, quella Madre faggia, e divora, in
educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e questo ben lo conobbe Orazio
ringraziando suo padre della buo V è C. na sua educazione
in tal guisa . Laus illi debetur,à me gratia major; perche : obiiciet
nemo fordes mihi . Mac. Voi aveste però la fortc,, che vi furono i vostri
figliuoli, tanquam novelle olivarum ; perche, se riflettiamo alli rami di elli,
sono simbolo di pace , e tali appunto sono li vostri ellendo dotati di ottimo
naturale ; fe al frur. to, è vero ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma
questo con industria diviene anche dolce, ed il fimile è seguito in elli,
essendo giovani; se poi final. mente al sugo, che da' suoi frutti maturi si
esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun movimento, solendosi dire per
proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à questo sono anche i vostri
figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun richiamo fin'ora, e spero,
che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno sempre più in bontà: mà se
in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati, come piante di mirto,
questi non iftavano bene in circuitu menja tud. Sem. [merged
small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][merged small][ocr
errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione, producendo il mirto un fiore
gratissimo ? Mer. Sì bene, mà però senza alcun frutto, ed è pianta
dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano i serpenti, e se fossero ftati
di limile cattiva natura i vostri figliuoli, Publio, come vi fareste contenuto
con efli loro? Pub. Gli averei ben domati io; perche più fieri de'Leoni
non potevano già essere, e pur questi coll'arre divengono mansueti, e vi
assicuro, che non averei fatto da cerusico pietoso; avendo appreso da Salomone
il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à puero disciplinam ; fi enim percufferis
eum virgâ, non morietur. ** Més. Sapete pur, che Dione, con forme racconta
Plutarco nella sua vita, per il soverchio rigore usato , e fatto ufare,
nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che per disperazione cgli si
precipitasse da una finestra : il rigore paierno non è sempre moderato , per
cagione, che il più delle volte questo parsa dal soverchio amore, al
foverchio (de [ocr errors] 9 [deg no ; e poi i Padri
vorrebbero in un tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi
han d'uopo di tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il
Dottore. Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio,
senza prepa, sare prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è
che il noItro Ippocrate c'insegnò : Corpora cum quis purgare volucrit oportet
Auida facere , Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con
arrivar sino à privare della sua eredità il figliuolo , certamente, che la
Grecia non avrebbe avu. PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli
in tali angustic ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso :
veWatio dat intellectum . GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere,
che sotto padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc
posciache avendolo diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò
averàalırove trovato chi lo cducasse con più discretezza; e poi questo fu un
bene per accidente, il quale assai di rado rie. sce con tanta felicità,
rimirandosi dall' altra parte infiniti, che discacciati da' propri genitori ,
datisi in preda maggiormente de vizj, terminarono infelicemente la loro vita
negli spedali, ò disperati, di trovare modo da vivere, presero il soldo
militare, per foftentarli in quel breve tempo, che vissero . Pub. Or io
sono di questo parere, che debbano i propri genitori educare i loro figliuoli;
perche, se saranno buoni , e docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi,
ed ostinati niuno credo, che potrà usare diligenza , ed attenzione maggiore di
cfli: saprete pure quel che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il
primo di studiare diceva sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al
quale sotto voce anche risspoodeva il secondo : e cu credi, che jo mi curi di
questo che nulla mi preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] fete capace
di farlo, e fiete anche pru. dente, mà come pretendete esiggere
tutto questo da un Padre imprudente, e vizioso, il quale non rifletterà
punto à quel saggio documento di Giovenale registrato nella Satira
14. il quale è:Maxima debetur puero reverentia, so quid Turpe paras,
nec tu pueri contempferis annos, Sed peccaturo obfiftat tibi
filius infuns, Nam fi quid dignum cenforis feceris ira, Quandoque
fimilem tibi ; te non corpore Bantung Nec vuleu dederit, murum
quoque filius, & cum Omnia deterius tua per veftigia
peccer. Pub. Allorsì, che converrebbe tro- vare chi
foffe capace di farlo , per la ra- gione, che Giovenale medefimo
appor- ta successivamente nella Satira da voi citata : Unde
tibi frontem, libertatémque parensis Cum facias pejora fenex?
Wacuumque cerebro Jam [ocr errors]
[ocr errors][ocr errors][ocr errors] Jampridem capul huc venioja
cucurbito quçrat . Mà però, che l'educatore insieme coll' educando
dimorassero in propria casa. Mec. E se in casa propria, oltre il mal
esempio, la laurezza del vivere ritardassero i loro progressi? Pub.
Confesso,che in questo caso converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche
remoti; acciocche il mal esempio, e la trascuraggine grande de' genitori, colà
non giungeffero.Mà è possibile, che questi, a' quali non dev'esser cosa di
maggior premura di questa, possano as proprio compiacinento dare mal efempio a'
figliuoli? e poi se non sono prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ?
Certa cosa c,che i figliuoli mal ducati non apporteranno loro altro, che
confulione, dicendo l’Ecclesiastico al 22. Confusio pat.is eft de filio in
disciplinato. Mer. Il mondo oggi corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome,
e solamente perche li hanno generati , onde perciò con vie. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] X viene ricorrere
ad altri Padri savj, u prudenti , che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido
, essendo ora gran parte de' genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello
struzzolo, che gli abandonano, non già delle aquile, che con tanta attenzione
istruiscono i loro polli. Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i
genitori saranno capaci, e diligenti nell'educare i loro figliuoli, niu. no
meglio, di efli potrebbe farlo; e fe nella casa paterna si vivesse, come
conviene non sarebbe d'uopo cercare altro luogo per educarli,potendosi con
profit. to istruire in effa. Sem. Che doverà fare il buono educatore, sia
Padre, è estraneo, per isvellere da efsi i difetti? Moc. Questo lo
vedremo nella seguente Conferenza. CON [merged small][ocr errors]
Intorno à quello, che debba farsi da' Genitori
per educar bene i figliuoli. [ocr errors] Mecenate ,
Sempronio , Publio , e Medico [ocr errors] мес. . L peso
maggiore, che abbiano i Pa. dri , mi persuado che sia l'educazione dei
figliuoli s perche si tratta di navigare sempre contro acqua, dovendo
opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle à forza
d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende assai
difficilc poterli alla prima superare. Sem. Non mi fono risoluto fin ora
di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà, che
s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli , ne' quali vedo , che
appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere alcun
riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori . Mec. Non vi
sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi
sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro.
Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche
sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da
Publio.Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro
buono esempio. Sem. Ed in quali cose ? Mer. In tutte ; perche se
voi sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli,
quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino
nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra po [ocr errors]
[ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece
divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che
volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri,
come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli collaa
mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non fate 10
una parola, che quel difetto,che volete da effi (vellere lo rimirino in voi
medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo
dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se
medelimo cominciò à dare il buono esempio. Sem. Ed il secondo qual sarà
? Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche
minima verso alcuno. Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità
paterna Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette
occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece [merged small][ocr
errors] che il pre ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di
vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad
approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che'
compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal
esempio di questo, che profitco farebbero ? Igenitori debbono : imitare il Sole,
e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri : e sappiate che
la parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche questa lo
fè divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè trascurare tal mi.
sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti tutti derivati dalla
connivenza paterna. Sem. Il terzo qual sarà ? Mec. D'accomodare
l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le occasioni, che vi si
presenteranno. Sem. E queste quali saranno ? Mec. Se voi li vedrete
attenti , e che & approfittino dei buoni documenti che [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo sarà opportuna
la dolcezza; mà se poi vedre. te, che trascurino, e diferčino, dovrete servirvi
del rigore per correggerli. Sem. In tutti i loro trascorsi mi dove. rò
contenere ugualmente severo? , Mec. Ci sono alcuni difetti, de' quali non
si dee far caso, essendo prudenza alle volte non darsene per inceso; altri sì,
benche minimi in apparenza, non debbonsi lasciare impuniti : per esempio una
tal inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione, che da disubbidienza è
compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò una finzione maliziosa
anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere affatto dow principio ;
perche se prendono piedes non li svellono più ; ed in correggerli di queste non
dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle buone far loro confeffare la
verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con risentimento ainmonirli, facendo
loro capire , per quan. to sarà poflibile, la deformità grande [ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] di tali vizj, con
non perderli sopra quefti più di mira ; concioliacosache come insegna
l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium fine bonore : du confufro
illorum cum ipfis fine intermifione . Sem. Il quarto quale sarà ?
Mec. Di essere tanto voi, quanto las Madre sempre concordi in ammonirli; perche
se un di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà scusaro, non solamente non fi
approfitteranno della correzione , mà prenderanno animo di far peggio, trovando
chi li difenda ; ed in questo errore fogliono cadere frequenteinente le Madri
con danno evidente della buona educazione; come par che l'accenni Salomone ne'
suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati sur confundit miirem suam :
ond'effe , per non cadere in questo, debbono imitare quelle faggio miatrone del
testamento vecchio tra le quali che non fece Sara per l'educa. zione d'Isac,
Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele ; siccome ancora Sansa Monaca, S.
Celinia, che fecero ofetime educazioni de' figliuoli, dilendo- ne
da queste nati un S. Agostino, un S. Remigio: tra le quali merita
anche di essere annoverata la pia , e zelance Madre di S.
Andrea Corfini, che non desistè giammai d'industriarsi Gintanto,
che non lo vide di lupo cambiato in agnello. Sem. Riferitemi
ora il quinto. Mec. Dovete parimente tener celato l'amore, che portate
loro, ne tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere, che Giete disamorato
affatto verso di essi ; perche il soverchio amore li farà prendere troppa
confidenza con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi il callo,non li
prezzeran più . Quella correzione risentita , fatta à suo tempo, cou parole,
che li pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad operare bene, più di
quello che facessero le sferzate . La scimmia, allorche si moftras madre
sviscerata de suoi parti,con troppo ftringerseli al lato li uccide, e questo
segue per lo soverchio amore, che por [ocr errors] porta loro , non
già per isdegno. Il destriero più generoso colle continue sferzate divien
reftio. Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo affetto , ficcome i
Padri di soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più amorosi li portano i
figliuoli verso le Madri, che verso i Padri, de'quali hanno bensì maggior
timore. Sem. Ed il sesto finalmente ? Mec. Di non farli trattare in
assenza vostra con persone, che possano distrug. gere quanto di buono avere in
esli inlinuato; posciache debbono anche credere, che cutti abbiano da operare
in quella forma, che voi prescrivere , che elli vivano; e se per disavventura
udiranno da qualche malvagio consigliero maslime contrarie alle vostre , quanto
male apporterebbero queste infinuandosi in quelle tenere menti, e non atte ancora
à ben discernere qual sia il veleno, e quale l'antidoto. Ne vi starò so-. pra
di ciò à riferir esempj, perche di Umili miserie ne accadono giornalmen
tes [ocr errors] E te, come voi ben sapere ; vi addurrà solamente
ciò che si osserva in un certo animale (come riferisce il Salier Hs: -
Juppon:) che dimora in una montagna del regno di Gotto nel Giappone,
il quale è in grandezza, e figura fimile al lupo ; viene però
ricoperto da un pelo morbidiffimo al par della seta, e la sua carne
è delicatissima al gusto;entra que- sto animale bene spesso nel mare;
mas se per fua (ventura s'inoltra
molio in effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato
presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel rimanente
conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or se il
conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo
squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che
apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da
altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à
guidare land carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per
governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina
l’Ecclefiaftico al 7. Difcede ab iniquo , & deficient man la abfte. E S.
Agostino scrisse che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå
societate . Sem. I Genitori, Publio , debbono ugualmente essere à
parte dell'educazionc Pub. Certamente, che sì ; mà però in modo,
che uniforine vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli
concordeinenre: si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per
esenipio la Madre, essendo assidua, e non vagabonda,averà maggior campo
d'infinuare loro , ed anco di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda
alli precetti Divini , dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che,
per non attediarsi punto in replicare le medesime cose infinite volte, riescono
in ciò lingolari, cd in segucla d'iftruir. [ocr errors] li nel Galateo
oon affetrato, e vano, ma bensì nel serio , ed in quello, che insegna ciò, che
appartiene ad un gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle
cose mondane, mi alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione,
che si dee à Dio in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico al 2. Serva
timorem illius, do in illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in
mandatis ejus , & dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, &
difpexis ilum? Sem. Ed il Padre quale incombenza doverà prenderli ?
Pub. Essendo un poco grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon
Padre cominciare ad iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili
alla Republica, come faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft ,
quod patria civem , popu loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus,
utiliser E per fare questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da
elli certi primi difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la
pertinacia , e disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e
questo farlo più tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con
percosse in sì tenera età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della
colazione è un gastigo molto profittevole ; 'mà divenuti, che saranno alquanto
più capaci dee istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à
fine, che se le imprimano bene nel cuore. Pub. E queste quali sono
? Pub. La prima, ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le
creature Dio, e di venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere , che
tutto il bene, che abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da
esso conseguire, non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri
maggiori travagli: dicendo appunto l’Ecclefiaftico al 33. Timenti deum non
occur. rent [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent
mala, fed insentatione Deus illums confervabit, & liberabit à malis ,
Sem. E dopo questa ? Pub. La seconda farà di amare il noftro prossimo
come noi medesimi, e di non fare altrui ciò, che sarebbe discaro à noi stesi ;
e far loro di vantaggio capire, che ognuno sarebbe miserabile in questo mondo ,
se non fosse soccorso dal compagno : e venendo l'occasione di comprare qualche
cosa,andare infinuan. do loro in quel punto questa verità, che se quel povero
uomo non avesse faticato per noi, se sarà farto per esempio , noi . anderemmo
nudi , ò vestiti al più di pampini , con mostrar loro ancora, che conviene sodisfarlo
delle dovute mercedi , affinche possa vivere per averci à servire con
puntualità un'altra volta : Capitando lavoratori di campagna farà bene che
conprendano,che se quei miserabili non iftassero di giorno al sole, e di notte
allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane , nè li berebbe quel buon vino,
che ci portano in tavola, onde [ocr errors][subsumed][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] degli altri. che
debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche possano con amore attendere à
coltivare la terra, che li produce mediante la loro industria ; e non perdere
alcuna delle occasioni , che capitano per meglio imprimere in quei teneri cuori
l'amore verso il prossimo, clas puntualità in fodisfare quanto si dee a' poveri
mercenarj. Sem. Offervo però quei, che sono più puntuali in
sodisfare,peggio serviti Pub. Non è così, Sempronio, può effere che vi
sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà nell'universalc offervo, che
chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già muovere à ben operare il
proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo tenuti di sodisfarli
puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui , che traIcura di farlo
: Panis egentium, dice l' Ecclesiastico al 34. vita pauperum eft : qui detrabit
illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis
pre [ocr errors] proximum fuum . Qui effundit fanguinem, e qui fraudem
facit mercenario , fratres '. funt. Mec. Queste massime sono certamen. te
necessarie , affinche divenuti adulti non si facciano guadagnare dal mal
esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche non conviene ; e sarebbe
anche necessario nel medesimo tempo d’in. finuare ne'loro animi la benevolenza
neceffaria verso la servitù ; affinche la possano riscuotere reciproca dalla
medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere Seneca nell' Epistola 47,
è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo egli : non habemus illos
boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas guila: Quemadmodum tecum
fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato sempre colle massime di questo
grande Uomo nel inorale ; che il servitore: 60lat magis dominum , quàm timeat,
e për cagione di ciò assegna:quod Deo fatis eft, quod colitur, eu amatur ; onde
che più di questo noi non dobbiamo esiggere, Y da [merged
small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] da noftri servitori, e tanto più
che non paseft amor cum timorë mifceri. Pub. Dice questo grand’uomo
cercamente il vero ; perche se non farà reciproco l'amore tra il servidore, ed
il Padrone, avendo continuamente questi. al.lato,continua sarà ancora
l'occasione prossima di rammarico tra efl ; e fatto che averà l'abito in
questo, non potrà più aftenersi di non contriftarlo, per ogni lieve cagione.
Sem. Dunque, Mecenate, al parere del vostro Seneca non si potranno licenziarei
servitori, chcli porteranno male? Mec. Non pretend' egli questo ; ma
folamente, che non fieno i Padroni in fervos fuperbiffimi, crudeliffimi , dow
contumeliofiffimi ; come pocrete vedere nella citata Epiftola. Sem. Essendo
però noi li Padroni, toccherà ad efli soffrire qualche noftra ftravaganza
. Pub. Dobbiamo anche noi riflettere, fino a che segno possano quest'
esferes forferte da cali perchè se le nostre stra-,vaganze fossero grandi, e
continue, ci renderemmo noi meritevoli di riprenfio. ne :
vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al 4. ove così dice: Noli effe ficut
leo in doa mo tua evertens domesticos tuos, & oppria mens
fubjeétos tuos . E c'insegna di van-' taggio , come ci dobbiamo portare
co") fervitori senfati al settimo , dicendoci : sonladas
fervum in veritate operum, ne- que mercenáriun danten animam fuam.
Servus fenfatus fit sibi dilectus , quas ani: ma sua ; ne defraudes illum
libertate, nebo que inopem derelinquas illum, - Sem. Ma
se divenissero a noi importu. ni, contradicendo a quello, che noi
bra. miamo di fare, doveremo anche collea rarli? Pub.
Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio voftro, dovrete non solamente
tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima; perche farà segno, che non vi
adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la considerino svantaggiosa a loro
medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed udite l'oracolo dell'Eccle
siasti [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Aico
al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis bi quafi anima tua : quasi fratrem ,
fic cum tracta , quoniam in janguine anima comparasti illum. sibaforis eum
iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete acquistato con perdere per vostro
capriccio un servitore tanto fedele? quando ne trovarete un' altro fimile ad
eiro ? & abbiate da me questa certa notizia, che l'adulazione ne'
servitori, si è avanzata a questo segno , per il dispiacere,che alcuni Padroni
mostrano nell'udire la verità fincera : laonde esli, per non perdere la loro
grazia , vengono forzati ad adularli , c tradirli insieme. Ma vorrei, che
questi, che hanno a male di udire da fervitori la verità, facessero attenta
riflessio. be a quello che dice Giob al cap-31. che è questo: Si contempla
fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum discepia. rent adversus me :
quid enim faciam cum Surrexerit ' ad judicandum Deuse du cum quaferis
quid respondebo illi ? Nunquid non in utero fecit me ; qui & illum operatus
eft, & formavit me in vulva unus? Semp. Sem. Quando però
saranno grandi li figluoli li scorderanno di questi utili avvertimenti .
Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il rammentarli frequentemente', li
praticherà esso ancora, dal di cui buono csempio comprenderanno meglio, che
debba farli così.. Sem. Vorrei sapere , Publio, fe il Pa. dre possa
condurre i suoi figliuoli a vedere le maschere? Pub. Anzi dee farlo, con
que sta avvertenza però d'imprimere ne loro cuori , che quei,che con sembianti
sì deformi, e spaventofi si trasmutano,sono paz. zi, e che quei sconci gefti, e
parole oscene,chc dicono, sono tutticffetti della loro pazzia, con infinuare
loro, che divenendo effi grádinon lo facciano per non essere anch'elli tenuti
pazzi. Sole. vano i Spartani fare ubriacare i schiavi, c li facevano vedere a
loro figliuoli, af. finchè prendessero orrore all’ubriacheza za da quelle
pazzie, che da fimile get tc agitata dal vino fi commetreyades rem
ied effendo riuscito a quelli profittevole; fperarei, che facesse il fimile
anco a quefti, e tanto maggiormente non avendo il mal'esempio da i genitori,
perchè se ne aftengono , cd essendo veriffimo quel detto : Quo fuerit imbuta
recens fervabit ode Tefta diu. Impreffe che faranno da principio ne'
cuori de' fanciulli fimili verità, difficil. mente si cancelleranno più.
Sem. E crescendo negli anni, & avan. zandosi nella capacità, che averaano
da fare i genitori? Pub. Di prevenire tutti concorde mente i mali,
ne'quali potessero cadere; insegnandoci l'Ecclesiastico al 18. Antò languorem
adhibe medicinam , per lo che doveranno porre un antemurale a vizj in questa
forma: Già efli averanno cominciato ad aver l'uso di ragione, e potranno
comprendere qual fia il male, & il beno,cominciando a conoscere gli effetti
dell’uno, e dell'altro; : onde venendo loro questi meglio spiegati
comprende ran. ranno con più facilità qual mostro orrendo sia
l'uomo vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che abborrisce i vizi, quanto
odiati da cucci siano i primi, ed amati li secondi, prenderanno in questa forma
ancor efi orrore al vizio; efe non averanno compagni più che cattivi, i quali
vadino seducendoli, come potrà cflere, che non s'incamminino ancor'eff
per la buona via ? ed una volta, che fi sono incamminati per essa colla
grazia di Dio, e con l'occhio paterno vigilante sarà cosa difficile il
discostarsi più das quefta . Sem. E delle massime di onore, e de puocigli
cavallereschinon ne discorrere? Pub. E che credete voi , Sempronio, che
le massime di Dio non siano anch'effe di onore, e cavalleresche? Impoffel
fatevi bene di queste, che tutte le altre vengono di seguito ; non sapete voi,
che la prima vircù : Eft vitium fugere, fapientia prima Stultitiâ caruifle.
Datemi uno , che abbia in orrore il via zio, cche lo fugga, che io lo crederò
perfetto in cutro.Sem. Io credeva, che queste matsime dovessero servire per i
figliuoli, che s’indirizano alla vita religiofa,non per quel. li, che debbono
vivere nel mondo, ove senza aver un poco d'inganno pare, che non a polla
convivère; Pub. Quanto ficte in errore ; perchè ugualmente sono
necessarie le mailime di Dio per i Religiosi, che per i fecolari, dovendo tutti
indirizarci per la via dell' ecernità ; nè crcdiate che godano quelli, che
vivono,come voi dite al mondo, van. taggio alcuno di più di coloro, che ope.
rano come si dee; anzi sono infelicillimi , & uditelo dall'oracolo
dell'Eccle. {iastico al 2. V & duplici corde , d. labiis fceleftis, du
manibus malefacientibus, peccatori terram ingredienti duabus viis. Va disolutis
corde, qui non credunt Deo; & ideo non protegentur ab.co. Va his, qui
perdideruns Justinentiam, & qui dereliquerunt vias rectas, diverterunt inue
vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit Dominus ? Se dunque lo
mafime del mondo faranno differenti da queste abban, [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele puré , che non fanno per voi ,
perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di Dio? Sem. Dicemi, se in
casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti, li doveran. no ancor questi
ingerire nell' educazione Pub. Questi ancora , ma però più con dare loro
buon' csempio, che con pas role; posciache è cola inolto difficile, che tutti
questi siano uniformi nelle buone direzioni di effa'; oode fe taluno di
questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse differente a quella , che udi
da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non prestérebbe la dovuta crea
denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è questo lo mostrerò col
segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che "polledrucci anco
possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta ancor esli di effere
domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci vorrà più tempo in
renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo di pren. [ocr
errors][merged small] -prendere qualche vizio ; perchè fentendo, oggi una mano
più gravę, nel di seguente altra più legiera,e certe speronate differenti dalle
altre , pon comprenderanno così bene quello , che doveranno fare; e cal, volca
inasprendoli diverranno anche restj. Se questi paren. ti fossero tutti uniformi,
e caminaffero colle medesime direzioni, potrebb'effere meno male, ma sempre
meglio farà , che sia uno solo quel complesso , & armonia vaiforme de
propri genitori savj, e prudenti, da'quali una sola volontà li forma. i
37. Sem. Voi, Publio, che avete educa. toi vostri figliuoli da voi medesimo,
in, segnatemi di quali documenti xifiere servito per iftruirli nelle þuo be
creanze, cda cui gli apprendelte per potermene ancor'io prevalere a suo tempo
2 Pub. Per non crrare mi sono servito di quci, che non possono fallire,
aven, doli ricavati dalla Sacra Scritsura. Sem. E che parla quefta ancora
delle buone creanze, che debbono insegnarli a'figliuoli? Pub. [ocr
errors][ocr errors] Cena Pub. Divinamente ne tratta l' Eccle. El di
fiaftico al 31. ove dice: Utere , quafi himo frugi iis , que tibi apponuntur ,
ne cum manduces multum, odio babearis; cela prior causa disciplina , el
noli nimius effe, ne * forsè offendas. Et fi in medio multorum fe. disti
prior illis , e exsendas manum fuam , nec prior pofcas bibere. Sem. E del
rispetto, che debbe avetfi a Maggiori, ne parla ? Pub. Di questo ancora
al 32. dicen. do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus
fueris ; babeat caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus
fimul' quçrens • • In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes
non multùm loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae
Scrittura , potrete divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli.
Sem. Vorrei sapere ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in
un uomo civile, è facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che
negli altri, per porerlo affatto svellere da figliuolis [ocr errors] Pub.
Io ho stimato sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi
tollerabile; quello però, che ho sem. pre proccurato di svellere con più
attenzione da miei figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto,
che, crescendo questa avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come
una lacuna,che assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad
inaffiare, e rendere fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono
apportare notabile danno a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi
li divia: ed udine, come a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 &
alia infirmitas peffima, quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum
Domini fui , pereunt enim in afflictione peffima, & in appresso miserabilis
prorsùs infirmitas : quomodo venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod
laborauit in ventum ? Cunétis dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in
con ris multis, & in ærumna, aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio
con dire Jemper Avarus eget.Sem. Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai
pericolo, che divenga avaro , sembrandomi la vita di questi infelicissima . E
tornando all'educazione: se il Padre non fosse capace di educare, ela Madre
fosse poco prudente, chi si dove. rà sostituire in loro vece? Mec. Buoni
Maestri, è se saranno ricchi , potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui
discorreremo nella ventura Conferenza. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA III. Intorno all'uffizio, e
qualità dell'Ajo, Ĉ dei Maestri: [merged small][ocr errors] V
[ocr errors] Sem. Ual'è l'uffizio dell' Ajo ?
Pub. L'Ajo dee at- tendere precisame- te al
costume, ed a ciò ch'è ordina. to ad effo. Sem. Ed al
Maestro, che apparticoche di fire ? Pub. Oltre quello, che riguarda il
costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto quello, che ha da
premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non potrebb’essere
anche Ajo Ajo il Maestro, giacche attende questi al costume ancora
? Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi provedono di Ajo, è
dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò diligenza maggiore.
Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio? Pub. Se s'incontrasse un
uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione , mi perfuado :, che questi
foffe di profitto maggiore, ma per essere raris : fimi quefti,quindi è, che chi
può li provede dell'uno, dell'altro. Sem. Che condizioni dee avere
l’Ajo? Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo doverà avere anche
otti mo in priino luogo , dovrà essere prus Idente, ed accorto,
industrioso, e diri piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie, non
molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare , fia
prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina, sarebbe
anche ile requisito. Sem. [ocr errors] Sem, -Mà trovare tante parti
in un uomo farà cosa molto difficile. Pub. E perciòi rari fono quei , che
facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli', alcuni Padri di
averly nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente di citolo,
battando loro di avere l'ombra , e non tutto l'effenziale di efia,
persuadendosi , che questa possa essere sufficiente. Sem. E come,
anderebbe Gmil'educa. zione? Pub. Quafi nella medesima maniera , che se
non ci foffe chi la dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo . Mac.
lo so, che dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli
proposti diverli ; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera
infigne ; ed un eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi
volle al suo fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il
suo figliuolo nè aveva a sufficienza ; al secondo oppose , che Aimava fi fosse
potuto trop. U troppo divagare dal suo ufficio chi at tendeva
a comporre poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe
fated to troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere
seco, che di cielo, e di terra: alla fine gli fu pro* posto un buono
Istorico, eccellente Fi. losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio
bisogno: perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui,
l'insegnerà a tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure
giuste 3 ; e lo fermo al suo fervigio, Sem. In qual'età li dee porre
sotto la cuftodia dell'Ajo l'educando? Pub. Più prestamente, che si può.
Sem. Mà 'non sarebbe fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella quale non
è ancora capace di comprendere i buoni documenti? Pub. Non li chiama mai
spesa super, fua quella, che & fà per educare i pro· pri figliuoli, essendo
ucilisfimo rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che averanno elli le virtù
si troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle vicende della fortuna; ed in
quella età, quantunque non comprendano i buoni documenti, nulladimeno questi in
qualche parte, cominciano ad imprimerli nella loro mente oltre;di che quanto
gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive l'averli ayuci in custodia da
çenerį anni? Meç. Si disse tempo fà di uno, che gettava il danaro avendo
posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto già alquanto vizioso, perchè
non averebbe allora potuto egli più emendarlo, aven. do prelo già possesso in
esso i vizj. Pub. Questo lo credo anch'io ; per. chè le piante tenere
sono quelle , che si possono piegare a proprio compiacimento, dove che le già
cominciare ad assodarfi vogliono crescere co’loro di. fepti , quantunque ci si
adoperi ogni in. duftria per emendarli. Quindi è che l'Ecclefiaftico al7.così
ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos, & curva illos à pueritia
illorum. Sem. nes [ocr errors] Sem. Qual onorario si dee dare
all' ile Ajo ? Pub. Non ci è danaro, portandosi be che uguagli il
beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente trattare, Mec.
V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato un educatore, a suo
modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe trattato assai bene, mà
di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso legato nel suo tcftamento
, per maggiormente animarlo ad impiegare ogn'industria poffibile pro de fuoi
figliuoli, Pub. Costui mostrava conoscere cer. tamente l'utile maggiore
de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva, che rimanendo dopo la sua morte efli
bene educati quancunque fossero alquanto meno ricchi di beni di forcuna ,
sarebbe questo stato compensato dall'utile assai più riguardevole, che
risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al pa. rere di
Cicerone.Ora:pro Sexto: virtus in [ocr errors] tempeftate fava quieta
eft,lucer in tenebris , expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in patria ,
Splenderque per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit , quale
sorte cerçamente non godono le richezze. Sem. In qual modo si hanno da
prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli? Pub. Secondo
l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono
insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę
fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare Som. Di
quante fpecie possono essere questi naturali? Pub. E quì presente il
Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo
brevemente e con termini chiari da capirsi da ogn'uno : Med. Secondo la
diversità de temperamenti sono varj ancora i naturali ; posciache questi da
quelli in gran parta des [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
derivano, ed effendo quattro le specie bi principali de temperameati a
quattro sorte ancora si potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè
all'igneo , o biliofo, che dir vogliamo , al femmatico, al melanconico, o al
soverchiamente allegro, detto fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne,
che nascono dalle diverse mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale
predominano, de quali ora non ne parlo. Sem. Per meglio distinguerli
dunque i doverebbe l'Ajo essere Medico ancora. Med. Cimancherebbe
questo d'averci anche da impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a
bastanza allora che sono infermi? Sem. Questi naturali sono sempre
uniforme in tutte l'età? Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle
mutazioni di esse, offervandoli ciò manifeftamente. Sem. E per quali
cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi, secondo che ci avanziamo
nell'età acquis [ocr errors][ocr errors] 2 3 acquistãdo
energia maggiore alcuni fer, menti col crefcere gli anni, ficcome questa si può
scemare ancora accostandoci alla vecchiaja. Sem. Come si dovrà regolare
con chi è di naturale biliosoa, Med. In quefti, per quanto si può, è
sempre meglio servirsi della dolcezza ; poscia che colle afprezze maggiormente
si accendono, ed allora divengono pertinaci. Sem. E se di questa si
abusaffero? Med. Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi in rigore per
far loro conofcere , che nel mele, e nel zuccaro ancora è nascosto
l'amaro.' Pub. Di questo già raggionammo baftantemente nella paffata
conferenzas istruendone i Padri, onde non stiamo.a dilungarci di vantaggio
Med. Siami permesso di aggiungere, a quanto fù detto, una mia rifeflione, ed è
quefta : che le severe correzioni riescono più utili fatte a sangue freddo,
canto per profitto dell'educando quanto per vantaggio dell'Ajo , che può senza
ira insinuargli le sue più mafurate ammonizioni , e restano anche maggiormente
iinpresse ricevute di mattina a ventre vuoto, essendo la mente anche più
limpida, dove che ricevute allorche si trovano già agitati dall'errore
commesso, non sono cosìcapaci di comprenderle. Sem. Come si doverà
contenere co' sanguigni. Med. Questi sono più facili de primi ad
educarli ; perchè sogliono essere difinvolti ;basterà tenerli frenati in
certi eccelli , ne quali potrebbero cadere', di soverchia allegria, e curiosità,
ed avvicinandosi all'età giovenile tenerli lontani da cose veneree . Sem.
Che potrà fare il povero Ajo allor che sono grandicelli, ed averanno quei
stimoli, che fanno prevaricare anche i saggi? Medi Il miglior antidoto ,
che fias contro li stimoli della lussuria c, di condurre qualche volta i
giovani ne noftri Spe. [ocr errors][ocr errors][merged small]
24 spedali , ed in tempo, che si faccias qualche amputazione di parti
genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico: e cercamente induce loro tale
spavento sì crudele spettacolo, che si sono alcuni di questi spogliati affatto
di fimili pensieri, per l'orrore conceputo allorchè udirono, che da donne era
ve. nuto quel tanto male, e che per esse conveniva soffirire sì atroce tormento
di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di non essere più uomo. Sem. Ec i
malinconici come vanno trattati? Med. Questi appunto sono quelli , che
fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà ancora noi quando essi sono
malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo, é maggiormente fe regierà in
elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare : bene è vero però, che
nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si manifesta colcrefcere
essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono eroi, ò al pessimo ,
elo. [ocr errors] [ocr errors] e sono molto iniqui, e perversi; debmit
bonsi dunque con grande industria queili fti trattare, e senza usar
loro molta vios lenza, e più coll'affiduirà , e colli efemin pj fatti da
lor medesimi leggere, o rifei riti di persone viventi da loro cono, of sciute,
che con aspre sferzate;debbonsi anche tenere divertiti, & applicaci a
più cose, alle quali abbiano genio. Sem. Come divertiti, & applicati,
parendo queste cose contrarie Med. Divertiti, dico, con far loro prendere
aria amena , conducendoliins villa più frequentemente degli altri, &
i applicati alle volte a cose diverse dallo studio, come farebbe il suono,
il quale se sarà di loro genio li può tenere lontani da que pensieri
tetri, che occupa no continuamente le loro menti; ma di o questo converrà
discorrerne più diffusamente a suo tempo. Pub. Egliflemmatici come van
regolati ? Med. Questi sono quelli, che se non faranno onore all'Ajo gli
recano almeno poo [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
pochi travagli; perchè fogliono essere pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero
però, che nelle mutazioni dell'età sogliono alle volte sciogliersi, e divenire
un poco più spiritosi, e fare ancora com petente riuscita. [ocr
errors] Sem. Come suole essere, Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da
Maeftro, nelle scienze ? Pub. Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari,
riuscirà egregiamente come dicemmo ; ma se vorrà poi insegnare colla medesima
maniera le scienze, che insinua il buon costume,anderà tutto peffimamente.
Sem. E perchè Pub. Lo stile tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume
è d' infingare tutto in voce, il quale nulla giova per fare loro apprendere con
fondamento le frienze ; perchè queste sarebbero superficialmente adattate ,
& à quella guifas appunto, che G soprapone loro ridotto in fogli al legno,
il quale col tempo di. sperdendol rimane legno ciò, che mo. Atraa
[ocr errors] tre ftrava di essere oro, dove che il Maes po stro, professore
esperto, procura d'in= finuarle nella mente colle sue regole, e collo
scritto, affinche abbia pronto il comodo di ricordarli di quello , che si
fosse mai dimenticato. G Mec. Ora comprendo da che fia pros ceduto, che
viaggiando molti anni fono udj in una Città discorrere alcuni giovani co molto
spirito in ogni scienza, i quali per essere di poca età mi recarono ammirazione
; ma avendo avuto curiosità alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore
avessero farto, mi fu risposto, che avevano più tosto deterio. rato;
bisogna dunque che il loro Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con
fon10 damento. Pub. Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa,
fece alla prima las < sua bella comparsa, ma terminò poi u
peffimamente. Sem. L'autorità dell' Ajo sin dove fi
Atende? Pub. Tanto'oltre, quanto quella del Padre,dovendo essere
amplifima, a fine che f. rendano ossequioli, & obedienti ad effo,
Mec. Le Madri però sono quelle, che procurano di ristrignerla,imponendo loro,
che non li gastighino, nè li sgridino, ma che li compatiscano se non si
approfittano de’loro documenti; e questo lo fanno per rimore, che non
fiammalina, e bene spesso,per questo timore di male ideale , ne nasce il certo
male della possima educazione loro ; perchè per non disgustarle gli Aji fanno a
lor modo, comportando quanti difetti efG hanno: le saggie madri però lasciano
che li gastighino ad arbitrio loro, eli correggano secondo il bisogno ,
conoscendo queste per isperienza, quello che per dottrina ancora conobbe
Salomone al prover. 22. ftultitia colligata eft in corde pueri, d virga
disciplina fugabit Cam • Sem. Debbono usare distinzione alcu, na in
questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente saprà re. go:
ne [ocr errors] golarsi anche in questo , & accomoderă i il gastigo
secondo l'erà, econ quei mo. di, che conoscerà effere all'educando più
sensibili ; per esempio se lo scorgessc goloso, il fargli sottrarre qualche
pietanza in tavola gli sarà di gran gastigo ; se giocoliero, togliendoli
quell'ora di divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe averà un certo roffore in
sentirsi sgridare, questo sarà appunto l'opportuno suo gastigo ; in somma il
migliore sarà quel. lo, che si renderà più sensibile. Sem. Può l’Ajo per
qualche suo af. 1 fare allontanarsi da effo ? Pub. Per quanto meno farà
possibilu dee farlo; perche non mancano scelerati adulatori, i quali, per
guadagnarsi la grazia de padroni giovani,infinuano loro ciò , che può
dilettarli , quantun. que lia pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe
allontanarsi da effo per qualche tempo, dee avere di chi possa fidarsi in sua
assenza . Sem.E qual sorta di divertimento deb, bono permettere
loro? [ocr errors] [ocr errors] Pub, :: Pub. Tutti quelli, che non
sono viziofi, e fono ad esli geniali, per esempio il giuoco delle boccie, della
palla, del volanıę, ed altri, anche più laboriosi di questi, competenti alla
loro età. Sem. Nel tempo che sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono
i Padri educarli ancor effi? Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle
buone direzioni dell'Ajo, pofranno qualche cosa contribuire ancor essi,
L'incombenza loro però è di offeryare qual profitco facciano, e di sentirne
anche il parere di più persone capaci sopra i loro buoni progrefli , esaminati
che li averanno; per altro scorgendo, che yą. da tutto a lyo dovere non debbono
con fondere i figliuoli con documenti diffc. reori, ne contristare l? Ajo con
varjare il loro metodo; bafterà la loro vigilante Lopraintendenza ; mà
muta quando non vogliano come doverebbero, effimedelimi in tutto
instruirli. Sem. Bramerei ora sapere le condi. zioni che doyerà avere un
ottimo Mae. Aro Pub. [ocr errors][merged small] [ocr errors]
101 Pub. In primo luogo dev'essere di via ta esemplare, dotto , c prudeme
, siccodel me è necessario ancora, che abbia buo na comunicativa, per
farsi ben capire, fia sostenuto, diligente, e si sappia far 1 amare, e
temere, e sia anche pratico delle tristizie de figliuoli, per non farq
gabbare da effi. Sem. Trovandogi un uomo di tante buone qualità potrebbe
anche servire I per maestro di casa, ed elascore nelme, desimo tempo;
perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe più facilmente i debi, tori a
pagare ciò, che debbono particos e larmente ora, che sono tanto renitenti di
farlo, Med. Questo e uno degli errori mal. fimis perch'essendo talunò
ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi fa in modo , che divenga
trascurato in tutti; essendo grito quel detto; Pluribus intentus minor eft ad
fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi serve., faccia solamente
l'ufficio suo ; perchè considero,' che non sia poco,che li riesca in una
sola cosa, cosa, ed ho provato con isperienza, che se taluno
procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne pur una ne farà bene.
Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo affare l'insegnare a figliuoli
le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà non già il farli divenire uomini
eccellenti; perchè in un istante si generano, e con poca fatica , mà per bene
addottrinarli non solamente vi è duopo di molti anni, mà ancora di attenta , ed
induftriosa applicazione . Per abbozzare una statua ci vuole poco, mà per
ridurla a somma perfezzione numero infinito di sealpellate di più ci vogliono;
C riflettendo voi al valore della statuas abbozzata, ed a quello della ridotta
a perfezione, ben comprenderete il van. tagio di più che ne ricaveranno i
vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con profitto. Sem. Io lo
dicca a buon fine ; perchè risparmiandosi qualcheservitore,mi riufciva più
comodo di fargli un buono af4 fegnamento , acciochè viveffe contea. to.
Pub. Glie lo dovete fare senza accrom (cergli maggiori brighe, se bramare, to
che la statua da voi abbozzata abbia iti ma , e valore grande, Mec.
Veramente in quei casi conviene deporre l'avarizia', ed ogni parkmonia ; e non
fare come quel Padre sciocco riferito da Plutarco, che domandando ad Aristippo
; quanto paga. mento ricercava per ammaestrare il suo figliuolo, udendo
domandare inillo dramme rispose ; questo è troppo ; perchè con mille dramme
potrei comperarç un servo; çoi saggiamente replicò: duna que averai due
servi, tuo figliuolo, e e quello, che comprerąi: facendogli conoscere,
che se non era bene ammacftrato, sarebbe diyenuto un servo il fuo figliuolo
ancora. Sem, Quale farà l'incombenza del Macftro? Pub. Gjà per
quanto appartiene al co. fune seguirerà quello, che si è detto CON
[ocr errors] Аа 1 con cominciare prima da Dio ;' nel rima, nente
poi lasciate pensare ad esso, per; che avendolo scelto pratico, e dotto faprà
secondo l'età, e capacità andarlo itruendo come fi dee: bensi voi di.
chiaratevi apertamente com voftri fi, gliuoli alla sua presenza , che
volete,che lo ftimino, ed obbediscano da Padre, con dargli ogni più ampla
facoltà di cor. eggerli, e gaftigarli severamente in ralo di bisogno;
perchè bramare di riconofcere per figliyoli solamente quei , che studieranno, e
faranno passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto fu mai eroico l'atto, che fece
l'Imperatore Teodosio ; impercioche avendo scelto Arsenio per Maestro del fuo
figlinolo, ed avendogli detto; Pofthac tu magis pater ejus quam ego, come
riferisce il Baronio all’A.380-avvenne un giorno, che passando Teodo, 'fio per
la camera, oye Arsenio faceva la repetizione a suo figliuolo, osservò , che il
Maestro fe ne stava in piedi, e lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere
di non [ocr errors][ocr errors] non dimostrare ad Arsenio il suo
dispia çimento ; veramente gli disse ini avvcdo, che voi non sapere far bene il
vo. ftro uffizio ; tenete, tenere il grado di Maestro, e non di scolaro : Sagra
Mac fta , replicò Arsenio, non sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a
se. dere per dar la lezzione ad un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la
Coro, na di capo al suofigliuolo,c comando ad Arsenio , che fedesse ; & ad
Arcadio suo figliuolo, che stasse in piedi colla testad á scoperta, fin
tanto che il Maçstro gli parlaffe , Sem. E se non faceffero tutto quello
i profitto, che io defiderasli, che averò el da fare? Pub, Vedere,
Sempronio, parliamo chiaro, i Padri yorrebbero dopci in bre. yiflimo
tempo i loro figliuoli, onde in quefto non abbiate tanta fretta, lasciateci
porre il sempo neceffario per impof sessarsi bene; må se poi vi
accorgette, nel che oon dare tempo al tempo non li apejet profitrassero, doveţe
esaminare d'onds A a 7 prox , [ocr errors] erro
[ocr errors] [ocr errors] provenga la cagione, e se saranno più Hgliuoli,
vedendo , che taluno di edi li di approfittaffe, e gli altri rimanessero
indietro, la colpa non sarebbe del MaeItro, ma bensi dei figliuoli, e che non
applicassero, o che non fossero di mente ancor capace di apprendere. * Sem. E
se la cagione venisse dal Mae. Itro, che fosse disapplicato , contenzio, so, o
troppo bestiale ? Pub. E'voi trovarene un'altro į mas non date fede loro
alla prima ; perchè dopo , che averanno ricevuto il gastigo verranno a piangere
da voi, el dole. che il Maestro fia bestiale; ma non diranno già la
cagione giusta; per çui li ha gastigati; ed in questo caso avvertite a non dar
mai ragione a loro trovandosi presenti,anzicon volto afpro sgridageli , e dite
loro che lo averanno meritato : informatevi però bene come è andato il fatto ,
per ritrovare la verità. Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà
da fare? Pub, ranno, Pub. Se saranno disapplicati, vedete
ancor voi di usarci diligenza , con promettere loro premi per animarli ad
essere più attenti ; e fe poi venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna
averci pazienza; e rimirate le dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono
uguali , e pur la mano turta insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la
figliolanza, quando venga secondo la sua capacità impiegata bene. Sem.
Dolendosi il Maestro di questo, e dichiarandosi di non poterci aver più
pazienza? Pub. Confolatelo, & animatelo ad averci ancor effo
pazienza, conforme conviene, che P abbiate ancor voi Mec. Si doleano con
Antipatro i MaeAtri, che i suoi figliuoli non volevano per tante fatiche, e
diligenze usate loro , approfittarsi punto dei loro documenti, e per consolarli
egli dicevan che vi era un paese nel mondo, ove le parole si gelayano in tempo
di verno appena uscite dalla bocca, a cagione digio freddi ecceffivi, che
le racchiudevano nell'aria, ma appena comparfa la primavera,fgelandoli queste
allora si udivano.. Non dubitate , diceva loro » che verrà ancora in essi la
primavera ; ed alloras queste parole, che odon'ora da voi , fi Igeleranno ancor
effe; continuate pura parfare , per , per uđitne all'ora di vantago Sem.
Dovero comparire nel cempo , che si fa scuola? Pub. Anche, frequentemente
s per ve. dere che si fa, per aninarli insieme a portarfi bene, c tenerli in
freno. Sim. Stimate neceffario ohre di tea net loro il Maestro di
mandarli alle fouo: le publiche? Pub. Per godere di quei vantaggi, che
apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi però avvertire due cofe; la
prima , che vadano sempre accompa. gnati dal reperirore, perchè del fetvis rore
in curto non vi dovete fidare, poa tendolo indurre fare a lor modo:Pal. tra poi
che fixno vicini in feuola a come pa [ocr errors][ocr errors]
mpagni bene accostumati, perchè ivi po. trebbero divenire maliziosi
trattando con carrivi. eri Mec. Bisogna ancora stare molto cau.,
telato nello scegliere questi reperitori, detçi comunemente Pedanti,
perchè vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya of a' figliuoli
il fare la fabbatina , il giuoco delle carte, & altri vizj in vece delle
virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha procurato,
che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro al Padre
qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di stato , per
ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi, non debbonli
consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella riprensione,
che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come riferisce Eliano,
che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor mandria, che loro figliuolo,
perchè a custodire quello impiegavano uomini fedelilimi, & ad iftruire
questi ripų [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] A a 4 riputavano abile chiunque fi folfe loro abbattuto
dinanzi. Sem. E le figliuole fi debbono regola. re nella medesima forma?
:) Pub. In alcune cose non vanno regolate così, conforme udirete nella
seguente Conferenza. w CON [ocr errors][merged small][merged
small][merged small] Semn. He differenza cie tra l'educazione dei
С figliuoli, e quella delle figliuole ? Pub. Primieramen: te,
che queste,non dovendosi incamminare per la via delles fcienze , non hanno
d'uopo di tanti maeftri; e poi essendo diverli i loro vizj, e naturali
inclinazioni,debbonsi quefticon differenti manicre correggere , Sem. '
quali sono questi vizj delle figliuole 22 Pub. La vanità par che nasca
con lo ro, quçfta opera, che moltissime di effe [ocr errors] cffe
sino dalla nascital par che mostrino compiacimento in fegtir lodare
la loro bellezza : ha poi la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il
quale viene da alcuni creduto per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora
moftransi vezzofe, e molto affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno
a divede. re appena nate la loro dispettosa rozzez. za , contrafegni tutti non
leggieri di ciò, che possa nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale
inclinazione. Sem. Di correggere tali difetti cui partiene
principalmente * Pub. Alle Madri, che con affiduità amorosa aflifton loro
; dovendo i Padri portarsi giornalmente fuori di casa per affari, che li
tengono alle volte lungo tempo occupati; c quefte avendo bisogno di una affidua
cuftodia da niuno meglio, che dalle Madrila poffono riccvc, re: debbono però i
Padri per quaaco fa. rà perineslo lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi.
Sem. Che dovranno fare le Madri in quella tenera età, nella quale ne put
capiscono ciò che loro si dice? Pub. Poffono far tholco, con impea dire
ancora, che non rimirino , ed odino ciò che non è convenevole; perchè quello, che
mostrano inclinazione alla vanità; non bisogna cominciare ad ornarle vanamente,
pe å far loro certi ýczzi disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e
quegli atti con facilità grande in si tenera età; quelle bensi che mostrano
dispettosa rozzezza pof. fono follorarli con fimili vezzi per inco
minciare a poco y a poco a renderle più [ocr errors][ocr errors]
umane. [ocr errors] Sem. E di poi cominciando a capire , che dovrà
farsi? Pub. Allora farà tempo d'incomina ciare a far loro apprendere ,
che la bela lezza della donna non confiste ja altro che nella bontà
de'coftumi. Sem. Oh capiranno beneche cosa dano costumi le picciole
figliaole? Pub. Non importa, perchè quantunque allora pon lo capiscano,
nulladime nos [ocr errors][ocr errors] no , effe continuando
ad udirlo a fuo tempo ben lo comprenderanno; basta che allora non si secondino
le innate inclinazioni loro viziose. Sem. Mà fe la Madre avesse
compiacimento di essere stimata bella, c fpiritofa, e forse anche vana , come
potrà istruire la sua figliuola diversamente da sè medesima, e che non abbia da
compiacerli anch'essa di ciò ? Pub. Ora entriamo nei guai grandi, perchè
se la Madre non diriggerà bene tal affire, l'educazione anderà pellina
menic. Sem. In questo caso che dovrà farsi? Pub. Quello appunto,
che fù da me praticato, di provederli d'una buona matrona ; e se questa fù
utile alla mia famiglia, essendovi la Madre capace, evigilance, ; quanto
più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi rappresentare ? Sem. Lo
credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi della matrona, ditemi quai
requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ; perchè essendog [ocr
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dismesso questo buon servigio, non si potranno trovare con facilità quelle ,
che siano esperte. Pub. Non dev' essere giovane , nè vecchia , mà di età
conlistence, Sem. Perchè non vecchia , pocendo quest' avere maggiore
sperienza del mondo? Pub. E vero , mà la vecchiaja ancora la può rendere
più fastidiosa , e meno attenta : e poi se dovrà cuftodire le vostre figliuole,
che hanno da nascere, chi sà se fosse allor viva ; e vivendo farebbo decrepita
, quale età non lega.molto colla gioventù, e perciò non sarebbe ad effe
accetta,dec ancora essere di buo. ni costumi, e pia,di parentato civile, ed
onoraco , prudente , discreca, attenta, affezzionata', che sappia ben cucire di
bianco , leggere , fcrivere mediocres mente, e che non sia curiosa di leggere:
libri profani, e lascivi. p9 Sem. O che mal farebbe, se leggere ancora
l'istorie profane, potcado fervire si di effe per meglio iftruirlo?
Pub, -1 Pub. Le storie profane non tutge conferiscono alla buona
educazione, el, fondovene alcune molto nocive ad essą come già dicemmo, onde
chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire alGuna di queste, non
prendessero amo, re anche l'educande a simile lectura Sem. E se sapesse
la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe maggior van taggio , per
insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in uso ::Pub. Che pretendete
? forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna ? Sem. Non lo dico per
questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei paeli , o trovandoli con alcuna
, che la parlasse, sarebbe da esse capita, e por trebbero risponderle.
Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole per far pompa del loro spirito ,
e non vi accorgete, che quefta non è la sua strada; e qual nccefficà
avete,cheessa converfino , e tratejno con gence ftraniera s volere forse, che
apprendano į cofumi loro diffepsadi dai noftri? Sem, [ocr errors]
[ocr errors] GB [ocr errors][ocr errors] Sem. Non bramo quefto, mà hò
sentito dire , che sia vantaggio grandes e l'avvezzarle disinvolte, e
spiricosc, perchè più facilmente fi maritano queste, Pab. Voi prendereste
moglie di spiritofa, e disinvolta Şem. Io non già, ora chc sò come debi
ba sceglierli. Pub. E perchè dunque volete incam, minare le vostre figlie
per una yia , che voi la ftimate non recta e non vi avve, dere , che in ţal
guisa mostrarefte di amarle poco a Sem. Il saper ricamare ancora mi per,
suado, che la requisto necessario nella matrona : i Pub. Per far che ?
per educarle forse nella vanità e non sapete, che cosi fa comincia bel bello ;
posciache dalla sem ta fi paffa al’oro, e dall'oro alle perle per
formarne ricami di gran valore.Cor. 4, nelia madre dei Gracchi fe
conoscere a quella gentildonna Capuana, la quale 0 era alloggiata
in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa farsi,per mio fvario.
bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i suoi figliuoli, ed in qual
forma da effa fi aducavano, che non era già nelle vanità, mà bensì nelle virtù
. Sem. Bramerei almeno , che sapesse insegnar loro un poco fuono, e di
canto, Pub. Questo poi sarebbe peggio, per: che l'educherebbe cantarine,
& im. parandolo per vostro syario, non lo di fimparerebbero già, per non
dilectare an, che gl'altri. sem. Contenendom’io in questo vo. fro antico
rigore mi farefte mutare il mondo. Pub. Io non pretendo tanto : voi mi
vichiedere del regolamento della vostra cafa ;c chcaforse pretendece che da
queta debba prendere la norma tutto il mondo a facciano gli altri ciò che
vogliono , mi basterebbe di ottenere, che voi, che ricercate il mio parere
appren. deste ciò, che dovrete fare, Sem. Io resto perfuafiffimo di quanto
dite per benefizio mio, ma sifetto añ, cora [ocr errors][ocr
errors] cora nel medefimo tempo a quello , che li il mondo dirà, operando
diversamente da quanto ora li costuma dalla maggior parte . Pub.
Qual parte del mondo stimate voi, che sia più saggia, la maggiore, o la
minore? Sem. Ho udito sempre dire, che sia la minore, Pub. Or
dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel numero de i meno saggi? deh
seguitate la più sana , e non vi prendere fastidio alcuno dell' altra , quantunque
sia più numerosa : prendete di grazia la mira verso quò eundi dum, non
quò itur. Sem. Rimango persuaso, e quanto m'insegnafte voglio
risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione ; scelto che averò questa
matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere moglie, che averò da
fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa ? Pub. Voi, allor che le
consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che Bb fia [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] lia cura sua
d'istruirla principalmente nella pietà , e devozione, e che rimuova da essa
tutti i difetti allorche li ye desse comparire , senza indugiarvi un momento ;
anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al bisogno con semi, narę
anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle virtù, e che per questo
procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo ch'ella li porti diligen. te
nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche non habbia da parerle penosas
quella vita tanto soggetta, che farà ; e credetemi, che il premio è il maggiore
incentivo a farci fare con amore quelle cose, che senza di esso ci parrebbono
molto penose. Mec. Questo è certiffimo, posciache chi mai li porterebbe
il primo a scalare una muraglia, difesa da tanti nemici are mati, se non se
{perasse da questo un premio grande ? Sem. Fatto che avrò le mie parti,
in che forma essa adempirà le sue ? Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo
[merged small][ocr errors][ocr errors] ftri figliuoli, principierà il suo
minister ro con invigilare, venendo lattato,dal... la balia, a quanto
sara necessario, con i fare anche da soprabbalia , nè permetteo ra già, come
dicemmo, chc oda,quan tunque non le comprenda ancora , cer, i te canzone
amorose, nè pure, che fifli i suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti
scomposti, & indecenti; perchè quantunque non siano allora da esso
conosciuti per quel che sono , nulla dime, no in progresso di tempo, conforme
fi apprendono le parole, così ancora può insinuarsi nell'animo qualche
cintura noSeminaciva di tali difetti; e procurando, che D in vece di quelle
oda, e rimiri cose profittevoli,cd oneste, delle quali se ne i apprenderà
alcuna particella, resterà questa a benefizio dell'educazione, e i
procurerà ancora nel tempo della lacta zione colle buone sue maniere , di
prin- cipiare ad affezionarselo. Sem. Che dovrà fare dipoi
? Pub. Già toccherà ad effa slattarlo, e * si perderà il sonno più
di una notte. B b 2 Sem, [ocr errors][ocr errors][ocr errors]
liri Sem. Sarà bene, acciocche non lo perdiamo anche noi, di tenerlo in
qualche mezanino lontano dalle nostre stanze, Mec. Per questa cagione
sono andato io più volte in collera co i miei amici , avendo osservato lontani
dal loro appartamento i figliuoli anche lattanti,per timore, come dicean'o ,
che non turbarsero il loro riposo, e diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e
vegliate tanto per il giuoco, e continue conversazioni, oh bene non potete
vegliare un poco pe’ vostri figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui
tanto debbono premere , vi persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio
vorranno perdere il fonno? Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi
vuole; ma da questo quanti mali ne saranno seguiti lo faprà meglio il
Dottore. Med. lo dalle offervazioni fatte sono arrivato a conoscere
questa verità ; che più fortunati siano nel mascere, e nel imorire i poveri,
che i ricchi; perchè quelli dalle proprie Madri sono lattaţi, eand custoditi
diligentemente con amore;docal ve che questi sono consegnati alla indi
screta servitù, e trattati assai diversadai mente in tutto ; e posso riferire a
que fto proposito di averne curati alcuni,che caduti dal letto, per
trascuraggine del. le balie , ebbero a perdervi la vita , ed altri, per il gran
pianto fi allentarono , negando cal volta loro il latte le balie, allorche ne
avevano bisogno; e per avere loro ripercosso secretamente il lat. time, quanti
ne sono periti? Giccome ancora quanti ne sono morti af gati per averli tenuti
negligentemente nel proprio letto ? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado
G odono accaduti tra po veri , quantunque questi siano assai i più
numerosi, che i bene stanti. Della morte dei ricchi non parlo, perchè
ave. rete uoi medesimo osservato questi, be ne spesso, per li soverchi, e
conculcati : rimedj, dati loro, più facilmente , che i poveri perire,
& alle volte in mano de Ciarlatani. Pub, Se voi dunque
avercte amore per [ocr errors][ocr errors] Bb 3 per i
vostri figliuoli non li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo
per. che tal vicinanza darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più
attenzione , & all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio.
Sem. Riferitemi ora il modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio
s'ella, operi a suo dovere? Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a
bastanza, di quello, che dovrå farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan.
to cimor di Dio, e crediate pure per cofa certa, che questo è il fondamento
principale della buona educazione; efsendo esso solamente capace di rimuovere
tutti i vizj, non porendo questi far breccia ove si ricrova benradicato: è vero
però, che questo feme santo noni basta piantarlo solamence, na decli col.
rivare sempre con atrenzione, e fervore, acciocche non perisca, essendo che a
poco a poco germoglia ne teneri par. goletti, ed in questo doverete aricor voi
invigilarvi. In seguela poi dovrà, appe 19 and appena che le
figliuole faranno capa. ci, tenerle impiegate ad apprendere qualche
lavoro di quei necessarj a saperG dalle donne, che sono il cucire , far
calzerte, cessere, e filare, e questi disporli secondo l'ctà, e capacità loro :
nel medesimo tempo impareranno a leggere, e di poi a scrivere, e questa sarà
l'incumbenza , che dovrà avere intorno al lavoro, Sem. O ben le donne
civili, e nobili averaono da teffere, e filare che han. no forse da procacciarsi
il vitto con que. fti lavori Mer. Intorno al filare non avete occasione
di risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo ; non sò però se per
bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle case civili
conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle anche a noi
al. tri uomini. Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però stare
oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col locarle
dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate . Mer.
Nonaveranno filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era
tempo ancora, the imparaste a filare alla moda. Pub. Le caste donzelle in
questo s'im: piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo
facessero Penelope, Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno
fi vestiva co gli abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio ; &
Augusto non portò già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola
, e Nepoti erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li
vergognavano queste di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto
inferiori ad effe ? Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più
non vedendolo praticarea alle Madri? Pub. Questo genio può farfi venire
con riferir loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio
nel di fe fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le
cose di Dio sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino
Arcivescovo di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero
di Angeli, che formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di
una povera časa ; li ven , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere
l'occasionc y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre
con tre sue figliuole , le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e
stavano con gran modestia : vedendo il Santo il bisogno , che avevano, fc loa
to una buona limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada
vide, che la stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti
quei stromenti, che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò,
evide le medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare ,
e fare le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se
Iddiogradisce canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto
più lo gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e
credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do
queste più docili demaschi. Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di
vantaggio ? Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la
quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo , onde queste essendo
pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della
mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà
impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di
quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il
corpo, per poi passare quelle ore de. ftinate al lavoro; e terminate queste ,
conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e
permettendolo il tempo, in aria con affatto [ocr errors] rac [ocr
errors] .. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras del definare
converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è
neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare
al solito lavoro. Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la
custodia della matrona? Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le
lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle
ore , che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non
essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti
mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni. Semi. Nascendo tra
fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?
Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne
nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal
manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les [ocr errors][ocr errors]
confidenza , avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere
tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne
consapevole il Padre, o il Maestro , affinchè pensano a prendervi il più
opportuno rimedio con tenerli separati. . Sem. Crescendo le figliuole in
età, e scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la
matrona per estirparlo? Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che
giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con
preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino. Sem. Venendo
le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi,
e fofpirare, che averà da fam rela matrona? Pub. Le figliuole ben'
educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in
alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si
saprà inters ! [ocr errors] e nare nella sua confidenza per
consigliarl a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a
lasciarsi regolare dal suo amo. roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio,
quan. do si vedellero contristate, porle in monastero per compire
l'educazione? Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più
ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia
l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi ; mà se poi vivessero con
libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ? Sem. Vivono colà
tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso
libero ad alcuno. Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie
staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de'
sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la
quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci
de’monafterj, sopra le qua; [ocr errors] di autorità niuna yoi
avere. Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura
dell'Educayde, Pub. Voi y’ingánate$épronio, se crede, te,che l'altrui
vigilanza superi quella de genitori attenti , e capaci : onde mi perJuado , che
nella casa paterna queste ftiano meglio , che altrove, Mec. Voi dite
bene,Publio , che fiee te capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre,
ed una Madre, che ad ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole , e
tanto maggiormente se non averanno una tale donna capace , e fedele a ben
diriggerle, o saranno prive di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a
custodirle? Pub. Credo certamente di no. Mec. Or dunque, che fi hà
da fare in questo caso per non lasciarle a discrezio. ne dell'infida servitù ?
o bisognerà, chę qualche faggia parente la conduca in casa sua, o porle in
monasterio , sotto Ja direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio
appro;od [ocr errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in una
gran passione , la quale non si : può rimovere da esse senza cósolarle.Ne
certamente si cureranno già di ricevere i queste in casa loro le saggie parenti
: e ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne potreste Iperare ? E
ponendole in monaftcro sotto la cura di faggiaMaestra qual bene potranno
ricevere da essa ef$ sendo tra loro discordanti di genio ? fa rebbe più
capace tal una di queste di sedurre altre compagne,a far che si unifor
massero al suo genio , più tosto, che di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al
monastero oi tornerebbe conto , che vi entrassero, 1 Intorno poi al sudetto
riincdio ne parleremo a suo luogo , e tempo, Şem. E quelle figliuole, che
non avea se ranno le accennate paflioni ponno eduei carsi ne monasteri?
Pub. Se i loro genitori sarın capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non
fra farà d'uopo cercare altra casa , che las paterna per educarle, come
dicemmo parlando de figliuoli della Conferenzís [ocr errors] 1, della
presente decade ; mà se poi foffe il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe
anche fanciulle racchiu. derle in monafterio, affinchè si discostas sero
dalrimirare i mali efsempj domesti ci, specialmente quei, che potrebbero dalle
Madri ricevere , Sem. Vorrei che mi diceste, Mecena, te,in che possono
difettare le Madri nella educazione dellc figliuole? Mec, In due cose
principali, che so. no l'eccessivo amore che portan loro,e la libertà che
vogliono mantenere per fare ancor esse tutto a lor modo. L'amore non le
permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e la libertà,che vogliono godere ,
le disanimerà a procurare di farle .vivere diversamente da quello ch'esse
.coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito in mia presenza, Si trovavano
in una conversazione alcune gentildonne în tempo di carnevale , le quali
domandavano l'una l'altra quante volte avevano condotte, le loro figliuole alle
commediese per verità non udj già che alcu na if ve le avesse
condotte poche volte; vi fù f, bensì la più attempata dell'altre, che hin disse
in tempo ch'ella era zitella rare tudi volte G costumava condurvele, e se non #
era modeftiffima l'opera, che si recitava cui non potevano già udirla le
zitelle; vi fù chireplicò ancora che non si poteva oggidi far di meno di
non condurle;perchè altrimenti fi contrifterebbero tanto, che non ci si
potrebbe più vivere ; non dico altro,che vedo il mondo andare da male in peggio
come predisse Orazio. Sem. Oh consideriamo come anderà l'educazione delle
cittadine , e dello à plebce ! Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da
qualche tempo in qua un'ottimo regolamento, essendosi aperte scuole publiche in
ogni Rione, e mantenute dalla generosità del nostro Prencipe , - ove
vengono dirette da Maestre molto esemplari numerose figliuole,molte delle
quali si tratrengono ivi tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione
tutte di apprendere il fanto timor di Сс Dio, Dio, ed il buon
costume, ma eziandio d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e
necessari per la casa , tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che
potrebbero in esse introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto
istituto giuagesse ad eliere sufficienre anche per le più miserabili,
un'infinito bene, e più universale se ne porelle ricevere Sem. Bramerei
ora di sapere quale sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze?
Pub. Si parlerà di questo quando ci rivedremo, [ocr errors][merged small]
[ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1 Sopra l' età
opportuna d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle
par. ticolari inclinazioni de' figliuoli, Sempronio , Publio ,
Mecenate , & Medico, [ocr errors] Pub. A proporzione
delle cose li può chiama. re ànima del monL do ; essendo che questa
lo mäntic ne, clo fà risplen. dete : sconcerto grande certamente formano
quelle cose, che sono prive di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno,
che avesse voçe rauca abituata di fare il Musico,non doverebbe certamen
Сс 2 quali deb bago Z S Semo
1 1 [merged small][ocr errors] [ocr errors][merged
small] 3. onde to H fpo. F
2 Dum Sem, A 2 Mec. 127. ÇON:
IOI ani te egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche
giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto.
Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con
proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli. Sem. L'erà
dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?
Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ;
nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia
proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare
la lingua latina , per meglio intenderle. Sem. Ho sentito dire da
qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli
altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col
sentir parlares altri che la possiedono. Pub. Vedete , Sempronio, se voi
bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia. tc * t'e a mico di
fare poche novità nell'edu care, & istruire i vostri figliuoli, e
fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i
cavalli da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida
vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca tefte per vostra
disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per
addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli
perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.
Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato
Timor teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano
imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che
doppia facica glicon veniva fare ; cioè, che disimparasfero essi
ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte
: onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non
avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3 an.
[ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche
malamente apprefero. Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli
allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne
acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ;
ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero
prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari
contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle
scienze. Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli
altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?
Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a
fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un
campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per
non vederlo divenire sterile, e poi chi sà [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello,
che comparisce prima del suo tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci
đuti di minor ingegno si vedranno cari, chi di frutti, questi non si
rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile. Met.
Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran
Personaggio, e recieztala alla sua presenza con tanto spirito, che ne. i
rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira to; il meno ingegnoso, é fpiritoso,
che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra
ftaja composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi
egli a quel Personag gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c
capacità grande da giovanetti, la quale perdono poi avanzati che sono o
negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma
voi Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura
! Rimafer quel Signore in vdir si propra, ed argu Сс 4
ta ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere
fata fua. , sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno
d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo. Pub. Voi non dovere dubitare
di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove
tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà
del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri. Sem.
Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più
ad una, che ad altre scienze? Pub. Dovrece principalmente fare esplorare
il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro
capacità, e disposizione naturale. Sem. Come si potrà conoscere, che fia
stabile questo genio ? Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i
figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinate egli
effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare,
chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le
cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare
ciò, di non ingannarli. Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli
per apprendere le scienze quale sarà? Pub. Quantunque secondo il loro
spi. rito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o
tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto
maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per
meglio intenderle. Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina
li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra,
che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la
possiedono. Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre
di famiglia, sia. tc * t'e a mico di fare poche novità
nell'edu care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo
avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli da essi
ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi
dico di vantaggio,che se vi abbaca tefte per vostra disgrazia in Maestri,
che $ volessero sperimentare modi nuovi per addottrinarli, non vi
prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano
di questi, converrebbe farli tornare da capo. Mer. Vi fu a questo
proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor teo, che
pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza
buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che doppia facica glicon
veniva fare ; cioè, che disimparasfero essi ciò che avevano appreso, e
poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte : onde se dupplicata
riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non avessero pre. sa la strada
diritta, il fimile seguirebbe Cc 3 an. [ocr errors][ocr errors]
anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero. Pub.
E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la
capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di
esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già
quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel
documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde
tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze. Sem.
Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non
potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ? Pub. Dee benli
avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli
studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a
suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire
sterile, e poi chi sà [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
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suo tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si
vedranno cari, chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi?
ricordiamoci, che: nil violentum durabile. Met. Aveva un giovanetto di
questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala
alla sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno
degl’ascoltanti ammira to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra
efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja
composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel
Personag gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande
da giovanetti, la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni.
Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi
Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura !
Rimafer quel Signore in vdir si propra, ed argu Сс 4 ta
ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua.
, sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più
tosto di ritegno, che di stimolo. Pub. Voi non dovere dubitare di ciò,
vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i
precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del
freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri. Sem. Come mi
dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una,
che ad altre scienze? Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro
genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e
disposizione naturale. Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile
questo genio ? Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli
dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinapo [ocr errors]
ruti zioni, & in proseguimento di essa li van. no spiegando meglio,
& alla fine avvici. nandosi al tempo di risolversi , la palesano
espressamente, ed in questo caso è veramente stabile, e fissa. Oh quanto
die si conobbe bene fin da suoi teneri anni il genjo di Marco
Catone : posciache quanrunque venisse violentato con fiere minaccie
a fare cosa da esso creduta di- sdicevole da Quinto Popedio Latino,
si mantennc sempre costante nel suo senti- mento; il di cui animo
intrepido G. avan- zò, crescendo negli anni; posciache condotto
alquanto più grandicello, da Sarpedone fuo pedante a casa di Silla
per visitarlo, e vedendo nel cortile di decto palazzo la lista de'
proscritti, eb. be a dire : è possibile, che non vi sia chi ammazzi
un tiranno sì crudele comes Silla? domandò egli al suo pedante un
coltello, dicendogli , che ad esso fareb- be riuscito facile il poterlo
uccidere ; perchè fi poneva a sedere accanto a lui come riferisce
Valerio Massimo, Sem. E se nell'ecà genera avessero mo.
stra, strato qualche inclinazione ad una scien. za, e poi dopo
qualche anno li fossero invogliati di qualche altra , ed alla fine, venuto il
tempo da determinarli, voJeffero apprenderne alera differente da queste, che
doverà farsi? Pub. Questi sono di genio istabile , e non li fiffano mai,
onde a qualunque fcienza si applicheranno, non sarà mai di lor piena
sodisfazione , ed in questo caso consigliatevi con chi ben conosce. rà il loro
talento, come sono i Macítri, e da esli comprenderete in quale fcienza ciascun
di loro potrà riuscire più atto, e fare in modo , che in quella fi
applichi. Sem. Ma fe moftraffero non avervi genio ? Pub. Questo si
fa venire con far suggerire loro, che quella scienza , la qua. Je si crede
proporzionata alla loro abilità, sia la più bella, la più nobile, la più utile,
c la più dilettevole, che li accomoderanno senza indugio a volerla
apprendere. Sem. [merged small][ocr errors][merged small] Sem.
Sarebbe necessario, che m'in formaste ancora sopra la facilirà , che uno possa
avere in apprendere più una scienza, che un'altra Pub. Se voi scorgerece
un figliuolo serio, e prudente, per quel che potrà portare la sua età, divota',
e che inclis ni all'ecclesiastico, questi pare nato per istudiare Teologia, Se
serio parimente, e prudente , volonteroso di studiare, s che tal volta nelle
picciole altercazioni nare tra fratelli effo fi frapponga , e mostri voler
giudicare , chi di loro abbia corto, o ragione , a questi fate pur
studiare Legge, che diverrà un'altro Bartolo. Se poi obiecterà , sarà riflessivo,
tirerà frequenti conseguenze , questi averà cutti'li buoni requisiti per
divenire un'eccellence filosofo . Se lo vedrere ingegnoso in adattare, e
difporre i suoi giocarelli puerili, prendere misure di alcune cose, il suo
genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ; conforme seguì in Protagora,
ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete sonrinyamente ap [ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] applicato a disegnare, o rimirar
picture, la sua inclinazione naturale lo porterà a fare il Pittore : finalmente
se lo vedrete afliduo nel tempo, che qualcuno sia malato in casa, e desideroso
d'allistergli, c stare con attenzione ad ascoltare ciò, che dirà il Medico, il
genio, e l'abilicà lo portano a studiare Medicina. Sem. Se sarà nobile però
come potrà effere Medico, non costumandoli das pertutto che questi esercitino
cale pro feffionc Pub. Dunque sarebbe affai fortunato uno de’vostri
figliuoli; se fosse Medico; perchè essendo singolare , che stimas grande
averebbe egli, e che belli acquisti apporterebbe a casa vostra ? Sem. E
se tal uno morteggiaffe, che odoraffero questi alquanto di cattivo? Pub.
E voi fate, ciò che fè Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò
motreggiato, quando pofe la gabella fopra l'orina , cioè di fargli odorare i
danari, che da detta imporzione furono esatti, e trovò il buon figliuolo,
che [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli,
alcuni nou 3 che non avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile
seguirebbe anche in questi. Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se
vi sia stato alcun nobile, che abbia imparato a medicare cavalli? Sem.
Che voi non lo fipete! essendo. !ci quel vostro amico, che non solamen te
lo sà fare, mà anco l'esercita , peel rò nobılmente. Mec. Oh Dio
buono,per medicare le bestie s’ha da impiegare senza alcun moc
teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14 uoino tanto più nobile di esse hà
d'ave. mai retinore di essere motteggiato! più no bile dunque farà
creduto da questi of l'esercizio del Manescalco, che quello del Medico,
giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da essi viene abbor.
rito? Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra quali vi è Pasquale
Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni Senatore Veneto ; laonde
potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello elpi scrivere di medicina,
per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano. Med. Vi è stato anche a
giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale non hà
risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia fperimentale ; e
quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano , avendolo queste
renduto glorioso a’posteri . Mec. In questo particolare bisogna , che io
parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre ricchezze in lussi, lo
facciamo prontamente ; per impiegarle poi a beneficio della viriù, non ci
sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate, quantunque realmente non
fiano. Mà torniamo al nostro assunto. Sem. Vorrei sapere dal Dottore, da
che proceda la varietà dei genj . Med. Questo secondo il mio debole
fentimento credo , che da temperamenti poffa in gran parte derivare, perchè
colui , ch'è malinconico averà genio as cose serie, il bilioso ad altre più
risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed 1 [ocr errors][ocr
errors] il sanguigno amerà la varietà delle cose, e poi rifletto, che
l'arie ancora, ove al- cuni nascono, ponno contribuire molto alla
determinazione de genj, essendoche vi sono alcuni luoghi,ove quasi tutti
at- tendono ad un solo metiero, ed in un tal clima li
osservano genj affai differen, ti dall'altro; ben è vero però, che
alle volte ancora le altrui fortune fanno ve. nire il genio più ad
una cofa , che ad un'altra per esempio l'essere un semplice Soldato
divenuto Generale, ha fatto venire il genio a più d'uno di
seguitare la guerra : l'avere lasciato un Medico ricchezze
considerabili, ha dato moti- vo a molti di applicare alla Medicina
ed il fimil è accaduto nell'altre profes- sioni. Leggo però che
nella Cina, cd in alcuni altri dominj fuori dell'Europa quefi genj
sono già fissati , non essendo permesso ad alcuno il fare differente
me- stiero da quello di suo Padre., e perciò colà igenj sono
stabili non potendoli yariarere a suo modo. Şem.
E se quedo genio, che taluna do [ocr errors] de'figliuoli hà,
non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà farsi? Pub. Questo suole
per lo più corrifpondere, quando nasca spontaneamente, e aon da impegno; perchè
ci potrebb' essere taluno, che avendo genio il suo compagno di applicare, per
esempio alla legge , e questa quantunque non geniale nulladimeno per non
discoftarli da esso, volesse anch'egli ftudiarla , ed in questo caso, vedendo
voi, che non avesse quell'abilità, che tale profes. fione richiede, potreste
farlo allontanare dal detto suo amico per qualche tempo, senza che penetrasse
il perchè, e così il genio , che nasce dall'impegno,fi muterà facilmente,
quando non vi concorra anche il proprio . Sem. Come mi potrò allicurare,
che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla scienza , la quale bramano di
acquiItare ? Pub. Niuna cosa vel potrà far meglio conoscere , che lo
profitio , che faran. no ja quclle, perché è impossibile che con
[ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità , ed il genio ,
questo non si faccia anche da principio, ed accertato, che voi sarete di
ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of proporzione. Sem. E
se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da questa per porli ad
apprendere alcra scienza? Pub. Conviene maturare bene fimile si
risoluzione, per conoscere meglio don de proceda il non farsi profitto,
poten. do ciò nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata inclinazione, o da
inabilirà : se provenissc dalla prima potrete fare da qualche loro
confidente scoprire i qual fia la loro propria inclinazione, ; dove il
genio li porti, e prima di perdere maggior tempo ponereli in quellas ad essi
geniale ; se poi nascerà dalla inabilità, ovunque li porrete, questa farà
sempre impedimento al conseguimento di essa. Sem. E se procedesse dall'essersipenriti,
ritrovandola più difficile di quello, che se l'erano figurata ? Dd
Pub. [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi
cenereli per istabili, poltroni, che poco di buono ne potrete tiçayare; perchè
ovunque gli applicherere , sempre faranno il medesimo, non avendo fermezza , ge
sofferenza per la fatica, Sogliono però alle volte alcuoi di questi rimetçerli
nella buona strada , quando ciò venisse da una certa pufillanimità di cuore ,
onde farà bene di ajugarli da principio con buoni repetitori, mediante i quali
animandosi , prosegui. ffono poi con profitto , Sem. E se non ayeffe
taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero regolare Pub. Vi potrete con
questi regolare a yostro modo , ogni qual volca či liau Pabilità, e l'ingegno ;
perchè sogliono alcuni per modestia in tutço , e per tut: to forromergersi al
volere paternoję queIti riescono per lo più virtuofi , ogni qual voltą abbia
l'ayerţenza di farli applicare a quella scienza, che Gia proporzionata al loro
talento, come già di. femmo Sem. Stimate bene che nel tempo,i che applicano
alle scienze si possano , pare per loro divertimento, far applicare al plin
suonogal canto, o ad altri civili diverčia 0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę
far divertire day * quells, fateli applicare anche a questi , A Colui, che
applica, e li approfita in cose ferie , non bisogna distrarlo con
çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio grande a queste come
ande, rebbero , Sempronio mio, le serie an zi che, se ne
moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro, che
approfittati, che saranno nelle scienze, * yoi medelimo volere, che si
divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna mengi . In un
caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di
temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo
contriftato, Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse
la salute, che converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere,
DI? che [ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu.
che si moderi ciocche sarà eccessivo;perchè quello che non fi può apprendere ia
un giorno, fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti,
levateli affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque
fias ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue
faciche: e non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi
possa superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo
perseguiteranno;cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno credulo,
o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella totale
rimozione dall'applicazione: Sem. Approfftrati che saranno i figliuoli,
che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene? Pub. Ci
penseremo trattanto, e la di. scorreremo in appreffo. CONFERENZA VI.
[ocr errors] Sopra gl' impieghi, che dovranno darsi da faggi Padri a'
figliuoli ben’educati ,, e dotti. [ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. o sviscerato
ainore de Padri verso i figliuoli, li fa bene spesso cadere in mol. ti eccelli,
e partis colarmente allorche questi nascono ; pofciache fino da quel
punto di figurano alcuni di efi , e senza alcun fondamento, di far loro
ottenere grandezze, & onori confiderabili, e per ciò allora dispongono
d'indirizare il primo per l' Ecclesiastico, a fin che giunga a sublimi posti;
di acca fare il fe con el Dd 3 [ocr errors] condo , e
fargli ottenere una groni lima dote : d'incamminare il terzo per un generalato
di esercito: ed al quarto ; c quinto di dat per moglie figliuole ereditieres e
ricche, acciocche poffano passare la quelle famiglic ad ereditarne archie il
cognome. Se tali chimere, senza verun fondamento ideates riuscisfero , oh chie
bella cosa che sarebbe! l'averebbero con quefti modi certamen. té accomodati
tutti affai bene : mà benedetta sia quella volta, che pur una di queste si
verifichi in tutto ; posciachè al destinato per l'ecclefiaftico viene genio di
prender moglie; a quello per la moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso;
all'altro per condurre eserciti d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i
fei; ed agli altri destinati, pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per
quanto poisono s la propria , con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in
preda : e sapete ciò da che nasce dal non avere i Padri appreso bene da
Salomone al 16. quello che debbatio fare , qual'è? Cor. bos st
bominis difponii viam fuam, fed Domini eft. n diriģere grefus fuos; onde per
voler fare to tutto da se medesimi, perciò non poffo. ! nio avere buon fine i
loro disegni . of Mec. Questo l'ho confiderato anche dio più volte, in
occasione, che seativa I dire a Padti: questo l'ho già destinato i per la tal
via ; e quello per quell'altra s # conforme ch'elli fossero stati arbitri
del la Providenza Divina , che regge turto, a difpofitoti assoluti delle
inclinazioni de figliuoli ; é volendo ammonire sopra di ciò talun di
quefti , mitróncava il dia scorso con dire che già poneva da para te gli
assegnamenti necessari, e che pensava ancora alle fpefe straordinarie ; per i
quando avessero conseguito quelle caris che; che bramavano di fare
orretiere 2 figliuoli; ed era quelto trent'aniti primas che le potessero
conseguirt , onde mi sembra vano le loro menti teatri di commedie, ove fiori
personaggi paffeggiano · Sem. Non ci averanno dunque das penfare, i Padri
allorche nascono i Ai gliuoli di far conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non
hanno allora da pensare a questo, mà bensì di proccurare, che divengano abili a
conseguire quella buona sorte , che Iddio 'averà preparata a meri. tevoli : e
perciò fantamente un saggio Padre aveva in una tela fatti dipingere i suoi
figliuoli colla sola camicia, e con questa iscrizione. Tocca a Dio lo
stabilire In che guifa han da vestire . Volendo significare , che a lui
non toccava fare altro, se non ricoprirli colla ca. micia, affinchè non
comparisfero affatto nudi ; nel riinanentę poi si uniformavi colla volontà di
Dio, acciocche li avesse rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non
consisteva in altro, che nella buona educazione , alla quale dovea cffo
pensare; onde non prima , che fiano educati, ed istruiti questi nelle
virtù,possono i Padri comprendere, che voglia Iddio disporre di eli. Sem.
Qual di questi il Signore Iddio averà disposto per acca farsi? E sem. Quello ,
che conoscerece più (e frio, sano, e sensato, e che averà inclina.
kizione a questo, perchè avere pur udito bu qual capacità , e segno ci
vuole per prenaf dere moglie? Sem. Se il primo genito , al quale si suol
dar moglie, non avesse tutte queste condizioni, e foffe volonteroso
d'accasarsi, che si averà da fare? Pub. Se gli mancaffe la sanità, o
faviezza sarebbe segno, che Iddio non vo. lesse; e voi potreste sostituire ad esso
chi fosse più capace.. Sem. É se ci fosse il maggiorasco, che ma potrò
far io venendo egli chiamato as [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Pub. Farete dal canto vostro tutto quello , che potrete ; perchè non
manca. no, ripieghi in simili contigenze, per farlo rinunziare a questo, con
serbarli un buon assegnamento; mà se poi non vi riufciffe converrà averci
pazienza; perchà vostra non è la colpa , mà di chi lo chiamò a questo, che non
pensò a tanto. Sem. E per l'ecclesiastico, chi dielli a doverà
incaminare, Pub, [ocr errors] Pub. Il più docilc, dotto, e
divoto. Sem. E se non avess' egli tal genio ? Pub. Sarebbe
segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi sostituitene un altro ad
effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute incominciatead
istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che tal genio gli
venga . Sem. É quale sarebbe questa via Pub. Quella della
Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare Avvocato di
dome, perchè cið (crvirebbe a nulla. Sem. Come mi dovrà regolare in far
questo? Pub. D'incaminarlo per la medesima via , che calcarono quelli che
sono riufciti eccellenti in tale professione ; i quali ne'primi anni
cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de Notari. Sem. Mà una
persona nobile non potrà far questo. Püb. E percið non potranno forfe
giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo fecero: More [ocr
errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra ventu. fieri moltissimi nobili
con pericolo giornalmente di morte, e cominciano meri fanci di volontà; perchè
dunques non possono fare ancor questo, nel quale non li incontra un fimile
pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo,onoratiffimos crfendo diretto
all'atimigistrazione della giustizia ? sem. E dipoi che dovranno
fare Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori Curiali , ed
esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con iftare sotto la
loro dettatvra , se forà bisogno : e finalmeiite im poffeffati, che saranno in
detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici de primi
tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati , tros Vandofi
colmi di doctrina , e di sperien2à. Sem. Esercitato che averanno
l'Avvocatura che faranno ? Pub. Avendo acquistata perizia maga giore in
tal ministerio , c per averlo lom de. [ocr errors] deyolmente
qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per grazia
pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado avanzandosi,
potranno conseguire ciò, che bra. mano: Sem. E’lsudetto genio come verrà
? Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la giustizia, sarà senza
dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere solamente mostrato
desiderio di esser giusto,fupplicandolo di ciò,come fi legge al 3. dei Rè: Quia
poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies multos ; nec divitias
&c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed, hæc que non
poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite ciocche dice
per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo: Beatus vir ,
qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju, ftitiam , qui
judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las vocazione
ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno di eisi
volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare? Pub. Non altro ch'esplorare se
fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera vocazioneld, dioè, che
lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si sono veduti gastighi
assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino Volcre , : Sem. Come
mi porrò accertare di questa vera vocazione ? Pub. Dovete alla prima
mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia : conducerelo
continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le difficoltà,
che potrebbe in. contrare nella vita religiosa ; come anco delle astinenze, ad
altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare della propria
volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo, é costante nel
suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione. Sem. Mà non
sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle comig me
medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo vedcili
malinconico? Pub. Questo poi non dovretç fare ; perchè allor îi che
perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli poi
Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj
sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli
viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che
godono questi , quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi,
sommą tranquillità d'animo, Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî
venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli
vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu,
no impiego della Republica . Pub. Ayversite, Sempronio, di non far
questo, con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di,
venire gli altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento
delo la la sua parte șinunziara , o perchè non saperç a che
impiegarlo, mentre questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare
solamente a Dio quelli, ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come
sogliono pure troppo effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li
difertosi, o di poco fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio
apo punto di Çaigo , che gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe
chę essendo questi turti suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene,
se non avranno capacità sufficiențe di farlo? Mec, Sarebbero dunque, come
quelle vittime, che si offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno
dai Gentili, che morivano nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di
alçro, che di piançi. Sem. Se paluno & volçís'elimçre da qualunque
impiego per starsene senza pensare a cosa alcuna,che averò da fare? Pub.
Coltui bramerebbe darG all' ozio, e non è volontà di Dio, che stia
l'uo l' uomo ozioso leggendosi nella Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso
voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di delizie non volle , che stesse
ozioso l'uomo , come lo permetterà nel mondo? quando allorchè ye lo pose gli
disse : In Judore vultus fui vefceris pane tuo, donec rever. teris in terram ;
quale poi fa il danno, che apporta l'ozio uditelo dall'Ecclefiastico al 33.
Multam malitiam docuit otio. fisas; e maggiormente questo può nuocere a chi hà
beni di fortuna', perchè essendo l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne
seguirebbe da questo? Allorsi che la buona educazione gli gioverebbe poco; onde
per ovviare a ciò potreste farli suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi
sta per lo più a sedere , gon si fatica, ne fi applica a cose di rilievo,
discor, rendosi bensì delle novelle della città, e del mondo,e li fà una vita
neghittosa,la quale farà facilmente confacevole al suo genio, e perciò, che la
provasse un poco: caso poi, che ricusasse questa ancora, allora vedete a chc
aveffe genio, e la. [ocr errors][ocr errors] sciateglielo fare,
perchè sempre sarà meglio, che faccia qualche cosa', che stia coralmente
in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli ci sono la pittura, nella quale alcuni
malinconici i sono con genio esercitati : il lavoro alcorno : il dar las
vernice indiana , ed altre cose simili , confacevoli a chi non voglia
intraprendere affari di suggezione, ed udite ciocchè consigliava ancora San
Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe junco, vel canistrum piecte
viminibus ; più costo che ftare ozioso. Sem. E se tal uno di essi volesse
applicare a far negozj di cambi, e ricambi, edsagl’affitci'de dazj, averò da
permetterglielo? Pub. Ci penserei prima d'accordarglielo; non solamente
perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S. Matteo da far simili esercizj, mà
ancora, perchè questi impieghi, che mediante un fallimento, o altri accidenti
del mondo ponno scomodare di molto, non sono negozj licuri, anzi azzardolidimi
in chihà da perdere molto del suo ; che questo lo faccia chi poco può
discapitare di proprio gl’è tollerabile. Sem. Avendo taluno genio alla
caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più cavalli di quelli, che Geno
necessarj,averò da collerarglielo? Pub. Essendo tal genio diretto alle
bestie, quando fi eccedesse nel numero , o nell'amore verso di effe, non
sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere del Petrarca: in Dial. de
equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e nell' amore, perchè
gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò biasi. mati;
tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente dispone il
Deutero.al 17. Rex non multiplicabit fin bi equos ; or dunque come potrà ciò
permcttersegli, essendo anche dispendioso? Sem. Vado or riflettendo come
G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti eccellenti
nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e 'capaci di dar loro direzioni
buone in [ocr errors] j tempo, che debbono prendere stato : © che
faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo d'uopo
riflettere a tante cose per accomodarli bene? Pab, La gran providenza di
Dio supa plisce a questo; effendoche : bong menfi fuccurrit Deus,Allorchè
questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi comprenderanno qual
ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza giugneranno felicemcate
fin dove Iddio averà disposto, che arrivino. Sem. Io sono rimasto
sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti , ed anco per
vie indirctte , giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte quanrunque di
vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro, Pub. Questo
ancora è un arcano della Providenza Divina ; posciachc essas I tollererà , che
caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che ? vedendosi questi nell'au, ge
delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza il Divino
ajuto for [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] formino
la statua di Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo falsolino s' atterra,
come appunto provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate non avanzarsi, avendo
merito, Iddio conosce, che quel posto,che voi credere, che compete. rebbe loro,
e non lo conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche, oc'incontrerebbero delle
disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna salute, e di quefta
verità non dubiterere punto ; perchè alle volte: honores mutani mores, ondes
chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete udire altre ragioni sopra di
ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di questo nel libro:quare bonis
viris mala accidant cum fit Providentia . Sem. E che dice di più di
questo? Pub. Tra le altre cose urili dice la Pro. videnza Divina a
coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6.Quid habetis quod de me
queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circum. dedi ,
animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos , argento
, ebo [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ebore
ornavi: intus boni nibil eft . Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ
occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt , fordidi , turpes ad
fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti . Non eft ifta folida, sincera
folicitas: crufta eft, quidem tenuis . It aque dum illis licet ftare, co
ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod
difurbet; ac detegat , tunc apparet quantum alta , ac veræ feditatis alienus
Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis
, & undique inspexeritis,meliora,majoraque permisi vobis , metuenda
contemnere , cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus : bona veftra
introrsum obverfa sunt . Non egere feu licitate fęlicitas veftra eft.
Ferte fortiter, bc. · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da
provederli senza soccorrerli di proprio , vorrei , che ora m’ istruiste come mi
doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte
? Pub, [merged small][ocr errors] Ec 3 Pub. Questo è un
prudente quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il
mantenimento ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso
conforme diffe Tacito: felicitate corrumpimur. Sem. Come dunque mi dovrò
regola. re coll'ammogliato ? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento ,
fentendo giornalmente molci dolersi de loro Pa. dri, che non li provedono in
tempo opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così
pensa mio Padre trattarmi. Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole,
c fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento ; con questa
considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando
la famiglia. Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del
bisognevole? Pub. Qualche cosarella credo anch' io di fi, perchè accadono
alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo
equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia
essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati. Sem. E per qual cagione?
Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il lusso, las crapola,
e cento altri vizj. Sem. Mà se farà ben’educato non caderà in questi
trascorsi . Pub. L'essere ben’educato opererà , che questi non si dolga
del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo Padre ; mà per altro
fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno, che gli li porrà
d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde toglieregli affatto
l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed egli più fano
Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione dell'azienda ? Pub.
Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in tutte le cose, dovendo egli,
non solamente dopo la vostra mor [merged small][merged small][ocr errors]
te reggere la casa , mà eziandio se mai per disgrazia voi v'inabilitaste; o
pure per la soverchia età volerte attendere alla quiere. Señ. Ed
agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per farli vivere da se ?
Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di quanto farà loro'bisogno, al
più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare loro un tanto per vestirsi,
con qualche cosarella di più, mà non già con prodiga mano ; perchè l'abbondanza
del danaro è la rovina dei giovani, anco ben educati, e credetemi, ch' io sò
qualche cosa in questo particolare, e Mecenate ne sarà tal-volta informato più
di me. Mec. Voi dire la verità, poichè se un figliuolo di famiglia
maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e tentato da questi a
prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non averà, questi Teduttori
faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è grano ; come dille
Ovidio. Hora [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Horrea formicæ
tendunt ad inania nunquam Nullus ad amisas currit amicus opes. Sem.
Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con effo lui quello, che
fo con gl' altri? Pub. In questo caso voi potreste fargli da economo ,
affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi guadagni , per animarlo
ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri fratelli ad imitarlo; e
continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non bisognofa ; mà se non
bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo bene educato
spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol prevalere del
consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i figliuoli,
abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi avessero avuto
bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli didarglielo. Sem. E se uno
de miei figliuoli foffo; destinato a qualche giverno, o 'alera [ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ca. [ocr
errors] carica dispendiosa,per servigio del Prencipe? Pub. In questo
caso,Sempronio , con. verrà,che voi facciate tutti li sforzi por. fibili in
soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per queste cótingenze debbo. no i
buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene, e non bastando, pofsono
anche fare debito; perchè questo si chiama rinvestimento, che a suo tempo,
oltre il decoro , recherà anco utile alla casa. Sem. Vediamo ora come
dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in primo luogo come averò da contenermi
coll' ammogliato; se lasciarlo padrone libero, o usufruttuario con fare la
primoge, nitura ? Pub. Lasciandolo voi, che sia arrivaco in età affodata,
e senza vizj, attento alla casa, e versato nel maneggio di effa, potreste anche
fare di meno di legarlo con fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete
sapere i naturali de' figliuoli, che da esso nasceranno, e se [ocr
errors] e se sarà in tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non
sarebbe male d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per
fargli conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in
moltiplicare la roba. Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare Pub. Un
Ogorevole mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro
condizione, ed a colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche
cosa libera per poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà
ottenure ; må dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ? Mes. Avendo
veduto , che alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro
dirczione foffero ftati mode tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o
pompe funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano
o essere più quci di prima , cosi ben disci· plinati nella parhimonia ; questo
dico mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà
loro di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a
fine di precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso. Pub,
Sapete pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto
dopo morte ? e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi?
or come potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non
è più vostro? Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi
eseguire anche dopo morte , perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che
sono proprie; onde perchè non le potrei conseguire difpo. nendo, che si dovesse
ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante
al loro decente. sostentamento? Pab. E che pretenderefte farne di tal
vincolato investimento? Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le
figliuole ; e credetemi, che que [ocr errors] [ocr errors] queste
doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde
quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che
sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento
maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente
a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare,
non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare
maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro
bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli,
e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore
paterno portandoli tutti seco rispettofi. Sem. Voi Mecenat vorreste
reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere,
perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre
di questo pre [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di
accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti;onde stencerebbero i poveri
Primogeniti a vivere anchę mediocremente, Mer, lo non hò preteso di
appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas
penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic,
facendo trovare queste pronte in tempo , che ne potranno avere biso, gno,
Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e
dosti , che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa,
zione, e nelle scienze Pub. L'esaminaremo ia appreso, SON
[ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel provedere i
figliuoli ignoranti, ç yiziosi, Publio , Sempronio , Mecenate
, & Medico. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]
Pub. Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri
allorche vedono i lo ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc
suoi Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis
lætabitur inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li
vedono viziofi al decimo ferrimo ove dice ; Ira patris filius ftultus,
dolor matris, qua genuit eum. Quindi è, che è, che l'Ecclesiastico al
16. conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habe re. ·
Sem. Questi cattivi , e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro
teneri anni, che gli abbiano ben'educari. Pub. Ci sono di quei, che
l'ebbero an. cora, e pure da essi niun giovamento ne riportarono Sem.
Come è possibile questo? Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è
radicato nel cuore de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa
fi renderà il poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della
volontà ? Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi
dal cuore, e dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è
Pub. Ardua impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone
nelle sue Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior.
io figliuoli, pensare allnde mente quando chi n'è contaminato non
coopererà ancor ello per rimuoverli? Sem. E come potrà farac di meno,
avendo avanti gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti , e
ragioni convincentisfime ! Pub. Si trovano questi talmente accecati, e
sordi, che non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce
ancora dal loro naturale , egenio perverso, che in vece di apprende. re, e
vedere con loro profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come
saggiainente insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet
disciplinam patris fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet.
Sem. Questi genj perversi donde nascono ? Pub. Dalla poca cognizione
dell'onefto, e del vero bene , e da questa deriva, che credono ogni qualunque
cosa, che appag! la loro volontà, per onesta, quautunque sia detestabile, ed
avendo, fatto in tal falfa ccedenza l'abito, quc FF Ito
[merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in naturalezza, e genio, per es. ser
divenuta la loro fantasia quasi consimile a quei cristalli con artificio
lavorati, che fanno comparire le cose proporzionate,e belle per i isconcie,e le
íconcie per belle , e proporzionate . Sem. Indicatemi ora qualcuno di
que. Iti vizj tanto perversi. Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo
certa crudeltà ferina, qual fù di colui, che con un ago cavava gli occhi a
cerci uccelli : d'altri che feriva col coltello, o bastone il compagno, e
scorgendo sgorgare sangue maggiormente s'infieriva: o pure una certa
inclinazione a trafugare, e nascondere cose non comestibili , prese anco da
qualche scrigno: l'essere pertinace, e perseverante nel non dire mai verità, e
fare qualche danno per imputarlo altrui; overo quantunque corretto,e gastigato
più volte il continuare tuttavia a non volere apprendere cose di Dio, con avere
dispiacere di sentirne anche parlare ; imparando ben l'altre dannose al buon costume
: non rispettare [ocr errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più
quanworld do sono da elli correcci; e tutti questi di fetti crescendo
esli negli anni vedendosi avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che
limili vizj sono già divenuti padroni del cuore , e della volon. tà. Mec.
Vi fù uno di questi, che in età di cinque anni ammazzò con coltello un
fuo compagno, e non essendo capace, i per essere di sì tenera età, di
gastigo, o proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà
per li rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe na
da quel Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere
nel suo dominio . Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono
máfuete le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che questi,
in qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di
grazia, se vi poress’essere qual che rimedio, per rendere mansueci anco o
questi, o pur datemi sopra cio, per mio Ff 2 re regolamento,
qualche buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti
figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci. Pub. Lo
credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia ,
ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che
sperarlo ; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare
eradicativi per isvellere questi vizj? Med. Se non foffero cotanto
radicati spererei disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a
questi, per vedere se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar
loro tant' orgoglio , Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio ;
perchè allora coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in
cutti, almeno in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche
sperienza tractanto , per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato
giovevole. Sem. [ocr errors] . Elio Sem. Mà intanto
insegnatemi almeno แบ่ง quello, che li potcffe fare di vantaggio 11 nell'educare
questi, perchè poi, che averà ritrovato qualche rimedio il Dotcore, mi
informerà di quello. Pub. Se fi potesse discernere in tempo, che prende
il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà volesse fare progresi, la prima cosa
che farei, sarebbe, di mutargli la nutrice, se fosse donna risentita , e tiera,
ed in vece di questa gli farei dal Dottore scegliere un latte di balia pacifica
, e femmatica; effendocche di ciò me ne porge morivo quello, che seguì
all'Imperatore Commodo, il quale per essere stato nudrito da una donna
rifen tita, e barbata come un uomo , data* gliela affinchè diveniffe
generoso; mà in vece di questo divenne un gladiatore , per non
dilergarfi di altro, che di sangue, j e di caroificine, ed hà ben creduto
talun che appunto detta balia fosse figliuola di gladiatore. Med. Olrre
lo sceglierla proposito,fi potrebbe anch'essa far nudrire di erbe,ed altri cibi
di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso del vino, e slattato che
fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne vino, ne carne per alcuni
anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire impossibile , a conoscer quisto
ne? bambini. Sem. A questi sarebbe bene, fin dalla tenera età cominciare
ad usarglı gran rigore per vedere di domarlo? Pub. Se si verificasse
realmente che le vespe muojono nell'olio, e risuscitano
nell'aceto,converrebbe,per estinguere vizj li perniciofi, valerli più costo del
dolce lenitivo, che dell'afpro pungente; contuttociò per assicurarsi meglio
con. viene regolarfi secondo gli effetti, che produrranno in loro i gastighi ;
essendoche xlcuni fanciulli nella tenera era acora s'infieriscono allorchè fi
veggono perciotere colla sferza, onde senza pro ditco alcuno questi di
batterebbero, come insegnò Salomone : ne suoi Proverbi al 27. fi contuderis
ftultum in pila quafi pofanas feriente de super pile, non aufes retur ab
eoftultitia ejus Semo erli che Sem. Ponendosi questi per la buona
via , con deporre gran parte della loro fierezza, si potrà sperare, che
divengano buoni? Pub. Dee sempre temersi, che possano ricadere nel
medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle bestię togliere af. fatto la
fierezza nativa, quantunque mostrino essere divenute mansuete. Mec.
Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone : questo era divenuto apparentemente
fi mansueto,chę girava per tutta la città senza recare molestia ad alcuno; mà
abbattendosi un giorno in un macellaro , che portava sulle spalle un gran pezzo
di carne , se gli avventò alla vita, lo ferìgravemente colle unghie,e se non
era pronto a dargli la detta carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la
sua fierezza , che teneva di anzi celata. Sem. E quelli , che mostrano
inclinazione al furto ? Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta',
termineranno malamente la lor [merged small][ocr errors] Ff 4
loro vita; effendo cosa assai difficile, per non dire impoffibile, il poter
svellere af. fatto tal vizio ; perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal
bisogno, las cattiva loro inclinazione li porta a rubare, Sem. Si possono
questi gastigare colle sferzate ? Pub. Così fi dee fare, perch'essendo
vili di natura, enon superbi come i primi , dalle percoffe possono ricevere
profitto,almeno in aftenersene per qual che tempo. Mec. Abbiamo
l'esempio di colui , che condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo
fè premurofiffima istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe,
avicinoffi tanto ad essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per
colpa voftra io vado al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da
piccolo, non vedreste tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta
ignominiofa morte. Pub. E neceffario ancora condurli a 31 2
vedere far giustizia, e con tal occasione insegnare loro qual gastigo meritano
quei, che rubano', e che in oltre sono semprc miserabili questi infelici, come
ben conobbe Salomone al is, de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, &
femper in egeftate funt , Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse
una volta gran terrore ad uno quantunque ftolido mendico ; poscia che per
essere stato giustiziaco un monctario falso, aveva una collana appesa al collo
di dette monete falsificato da esso, e credendo il mendico, che per quelle
monete foffe fatto morire , al. lorchè taluno gli esibiva una moneta di
argento, la ricusava con allontanarli da eslo , contentandofi solamente di
quelle di rame, che non le aveva vedute appese in quella collana di
vituperio. Sem. Mostrando poco rimor di Dio , e meno rispecto a
genitori? Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio peggiore di catti,
diviene incorrig. gibile per opera de'genitori. [ocr errors][ocr errors]
Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare? Mec. Polemone essendo
giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla scuola di
Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà bensì per
disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi di ciò il
saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li vantaggi,
che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni , che rimase sorpreso
il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per seguitare
Zenocra. te, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare, si cambiò
da peffimo , ch'egli era , in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi non
dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di non
mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e colli
buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi non
farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume , e state ancor
voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e
sapranno ben quei buoni' directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo
al bene, e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen.
di. Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i
viziosi loro figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso,
che questi sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di effi , e li
znaltrattassero ancora : Sem. Se per disavventurà de poveri genicori
rimanessero questi incorriggibi. li , che fi averà da fare per
provederli? Pub, Udite come mai parla bene a in questo proposito
l'ecclesiastico ál 22. Confufio Patris eft de filio indisciplinato: onde
come potrà mai in simile confun fione régolarsi egli con prudenza! Certa cosa
è, che per prender moglie questi non sono buoni ; per Rcligios- neanco;
. de [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] de maneggi
della Republica non sono capaci; talmente che non sapranno, che impiego
potessero far loro ottenere. Sem. Perchè non sarebbero buoni a prendere
moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo capi di casa non mettessero giudizio
? Pub. A voi darebbe l'animo di convivere insieme con costoro, se vi
foffero compagni Sem. A me difficilmente. Pub. Or dunque, perchè
volere porli a convivere con una giovane senza fpe. rienza? ed a che vica
infelice fiespor. rebbe questa con marito si vizioso? E poi roi procurate fare
il poffibile per togliere da effo i vizj, e non essendovi ciò riuscito ,
pretendere forse far razza de suoi difetti In quanto poi, che il prendere
moglie li possa fare mutar coItume, non è credibile ; perchè, se Mulieres
faciunt prevaricari fapientes, che faranno a vizioli di questa specie? Ne fi
potrà persuadere alcuno, che questi tali non abbiano già provato le
dissolu., sez: [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tezze di
Vegere, perchè i vizj al parere di Seneca non vanno mai foli; e se quem ste non
hanno moderato il loro orgoglio, che più potranno acquistar di buono
conginngendosi in matrimonio Il dir poi, che si prenderanno il pensiero dei
loro tigliuoli nell'educarli, questo è lontano dal vero ; perchè li vorranno
bensì allevare limili adelli, e quando ciò non riuscisse loro palcsemence, mediante
le diligenze usate in contrario dalle Madri, faranno il possibile nasco,
ftamente di conservare in effi, alincno in propri difetci, acciocche non li
dica, che non liano loro degni figliuoli; come ap parisce dagli esempj
dell'ubriaco, e de beftemmiatore riferici di sopra . Sem. E qualcuno di
questi perchè non si potrebbe indirizzare per la vian Ecclefiaftica Pub.
Peasate voi che questi abbias vera vocazione di caminare per queIta santa
via. Sem. Mà se G dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa , e mi
pregafle, che [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr
errors][ocr errors] che gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da
ricusare il farlo 2 Pub. Certamente che sì, perchè quefi farà mosso
dall'intereffe, cioè dal conseguire l'utile del pingue beneficio, non già dal
servire a Dio, come far dovrebbe ; onde farà non diffimile a colui, che brama
prendere moglie, non per il fine del santo Matrimonio, mà per l'intereffe della
pingue dore, che si ritrova colei , che vuole sposare. Mec. A proposito
di groffa dote fece una donna accorta una bella burla al suo futuro sposo: Ella
era per verità alquanto deforme, e perciò più d'uno dicca al giovane, che la
voleva prendere, il qual era molto bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di
sposarla,cui rispondea, che li bastava di effettuare il matrimonio , per dare
di mano alla grossa dore , che aveva; per altro, che di tal moglie punto non si
curava i Fù ciò riferito alla giovane, la quale fe portare da una sua
damigella, allorchè fi dovea spofare, una grolla borsa di danaro in Chiesa,
ed aspete [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] aspettò , che il
Parroco avesse domandato allo sposo se la voleva,il quale udito ciò disse,
senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta donna si fe sporgere la
preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu ricercata anch'essa del
suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine doveffe fare quella
borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse servire per un publico
donativo per effo , ed i Chierici, che fosse la mancia per loro : alla
fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo fignore si è
dichiarato volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la borsa,essendo
parte di essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole qual consenso
dunque hò da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e così confuso, e
mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il beneficio
ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione della sua
dote. Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo sarebbe un
ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni costumi; ne
fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir buoni ;
ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose
viziose. Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della
Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via
di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo? Pub. Questo ne
tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia,nó
direbbe già egli quello, che diffe Giulio Cesare : che per un Regno di poteva
far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano
che capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi,
quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed
iniquità chia capace di commettere un vizioso. Sem. Che dunque doverei
fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi? Pub.
[ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi vive, cd alle
volte qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se fono fanguinarj
possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina
nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di
Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e
rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde
poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse
comprende, re, che se tanto li fa per un uomo , quant. to di più fi doverà fare
per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano
questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio al 21. Si
genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut
Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent
ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c.
lapidibus eum obruet populus Civis Gg tatis [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de
medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio
mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis
humani tonfura. Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra ? Pub. E
voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in
qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non
siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è
seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che
non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna
però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura
riflessione : c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono
amico, Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?
Pub. Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che
non potrei te cogliere loro, non per odio persona le; mà de loro vizjicon
questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita
esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e
perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento
maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita
scandalosa. Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter
godere quel i frutto maggiore? Pub. Non sarà meglio, che facciano così,che
operino sfacciaramente male ? de l'interno Iddio solamente lo rimira ; le
l'esterno appena è palese a gli uomini, i quali di questo solamente pouno
appa- garsi; e poi vi è stato qualcuno ancora , ch’hà incominciato
a menar vita mi- gliore , per conseguire qualche premio, che poi si
è ravveduto da dovero. Mec. Vi è l'esempio di quel Soldato,
che [ocr errors][ocr errors] bu COM [ocr errors] [ocr
errors] che si racconra essere stato convertito da S.Francesco Saverio : Questi
era un pessimo uomo, ed iracondo a segno, che non averebbc sofferta una parola
anche indifferente, che non l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco
vendicarsene . Le ainmonizioni, ed esortazioni faccegli dal Santo nulla
giovavano; alla fine li disse mostrandogli una moneta di oro, se voleva
guadagnarsela rispose francamente di sì : or sù dunque replicò il Santo venire
meco , e giriamo d'incor. no l'esercito ; Io la porterò in mano, affinchè la
miriate, e voi non avete a fare altro, che di sopportare con pazienza quello,
che udirete dire contro di voi. Fù dato principio alla grande ope. ra,ed egli
rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva di quanto male udiva contro di sè, e
cerininato felicemente il giro, guadagnò il premio. Allora il Santo tiratolo da
parte gli disse: figliuolo mio per una si vile mercede voi avere potuto
sopportar tanto, e per un Dio non poteie sofferire una minima particella
diquesto ? il Signore Iddio in quel punto $ gli toccò il cuore , e fi ravvide
per sempre. Sem. Mà se poi i difetti de' figliuoli non fossero gravi a
questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non disdicano ganto, per essere
divenuti ormai familiari, potrebbero con questi proporsi a sudetti ministeri,
ed impieghi ? Pub. Spiegatevi apercamente, quali voi intendere per questi
vizj familiari? Sem. Per esempio se caluno di esli avesse principiato da
14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della notte fuori di casa, e
quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che non lo facesse , ed effo
ciò non oftante continuafle ; contraeffe debiti; e perchè è figliuolo di
famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni dette pagherà. con
grandissimo difcapito, senza data , per firmarla dopo la morte di suo
Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male del profimo , di
mancare alle volte alla parola data ; ne ga: [ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3 [ocr errors]
gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il compagao nel
giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte? Pub. Cofarelle, piccoli
vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il giovane li sarà
abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo rango: ad uno
che sarà avvezzo la maggior parte della notte dimorare fuori di sua
casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj Ecclesiastici, ed im.
picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in quelle ore, o a farsi la
disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi sono ferrari ? e come vi
persuadete, che possano adempire l'obbligo loro, effendo scarf di dottrina , e
di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per la meno inutilmente si perde
il tempo a e fatta che averete rifcllione agli altri loro vizj, che avete
apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se lo potrete fare : mà
esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente colpa de figliuoli
canto deviamento. Sem. [ocr errors][merged small] Sem. É' loro
certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo, col. le lagrime su
gli occhi. Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo, che piagneva il suo
figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati questi Padri
nell'educarli? Sem. Certa cosa è, che tante diligenze, quante ne hò udite
nelle nostre conferenze,non le han faute. Pub. Or dunque, se non gli
hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine, perchè viziosi li
vollero efli. Sem. Mà che averanno da fare ora? Pub. Questa
penitenza appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li viziogi
. Sem. Ci sarà pure qualche rimedio? Pub. Ciè certamente, ed è
questo; di fare alli piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro figliuoli,
cioè di educarli bene; perchè altrimenti, non essendo capacii loro Padri di
fare questo, i vizj non li fyelleranno mai dalle loro famiglie: Sem. Voi
diceste,che questo cocchi al Padre, Pub, [ocr errors][merged
small][ocr errors] Gg 4 Pub. Sibene quando sia capace di farlo, e vi pare
, che questi viziofi fiano abili ad educare i figliuoli a suo dove-' re? Il
loro mal esempio come permetterà, ch'essi apprendano le virtùd Onde quantunque
schiamazzino alle volte redendo i loro figliuoli viziosi,č incerco se lo
facciano per zelo di amore, o per invidia , perchè non possono essi più con.
tinuare fimile vita rilassata essendo vecchi. Sem. Io hò cap to a bastanza
, ed ora compreоdo la cagione; perchè nell'universale non si possono affatto
estirpare i vizj, mà voglio approfittarmene per casa mia, per non avere anche
io a fare il pianto del coccodrillo. Ma le povere figliuole come si doveranno
provedere? essendo gran disgrazia loro, quando capitassero in mano di simili
viziofi. Pub. Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo ; perchè
richiede affare si rilevante lungo ragionamento. CON [merged
small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub. Onfesso
ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa. driffi contristano ál. lorchè
nascono tan, co loro figliuole ; perchè il penfare a collocarle bene non
è piccolo intrico, chiamandoli questo affare dall'Ecclefiaftico al 7.opera
grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus feceris, o bomini fenfato da
illam; posciache saranno state educate alcune di effc col timore di Dio, senza
lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite inquanto è necessario per il
buon regolamento di una casa; mà che servirà loro tutto questo , se capiteranno
in mano di un marito imprudente , vizioso, ed indiscreto! e fimile appunto a
quello , ch' ebbe quell'innocente Giustina , il di cui Epitatio sepolcrale è
questo. Immitis ferro secuit mea colla mari. [ocr errors] Dum
propero nivei folvere vincla pedis Durus, ante thorum , quo nupér
nupta coiur, Quo cecidis noftrę virginitatis honos. Nec culpâ
meruisse necem bona Numina testor, Sed jaceo fasi forte perimpia
mei Discise ab exemplo Juftine , difcite pa. tres Ne
nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che gran facenda è questa
! Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob. dicendo: Qui bonum
generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul & filiam perdidit:
quindi è, che [ocr errors] che saggiamente fù conligliato da
Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui dovesse dar per
moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco vizioso, replicò
egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che le ricchezze ,
che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas. Sem. Mà quando si sono
fatte le dili. gen ze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia imprudére, e
vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto ? Pub. Se voi
sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas giovane savia
per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i giovani, che
vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano, tanto si
fa,che alla fine riesce fimile facenda. Sem. Mà chi sono questi, che
faranno tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle
? Pub. Se non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti , i quali
raffidati, che per [ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa
cffo possa divenire saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine
caderà a dire di sì. Sem. Mà i genitori come lo permetteranno? ·
Pub. Saranno ancora effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non
poteffero arrivare a proferire quel doloroso sì. Sem. Saranno dunque
anche i suoi genitori poco prudentia Pub. Oh bene : non fiete voi ancora
a pieno informato dal mondo; mà ne ben Mecenate. · Mec. Ne sono pur
troppo, anzi fono arrivato a conoscere , perchè fi dica insa geniofus amor;
avendo scoperto, che amore aguzza l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche
artificiofa la lingua alla menzogna . Sem. Mà che potrebbero fare questi,
quando il Padre steffe faldo in non volergliela dare? Mes. L'ingegno
agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la dispone in modo , che [ocr
errors][ocr errors] niuno più degno di merito si affacci a chiederla, per
rispetto di colui, col quale si tratta : e sapere pure, che in questi cali, per
non fare inimicizie, non li vicne mai alla negativa scoperta , potendovi
costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per cui far non si vuole: Siprude
bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane pensa di farsi monaca; laonde
in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno affacciare tutti li peggiori,
ed i più scapestrati giovani, che siano nella Città a chicderla,e cutci
inferiori di condizione ad ello; talmente che il Pae dre , che la vorrebbe
maritare, trovan dofi annojato, alla fine li piega, per non che trovare
soggetto migliore, che la fac. i cia domandare : e tanto più, che si tro
verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la pretende. Sem.
Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione della donna
nell'accasarsi , che dell'uomo. Pub. Non ci è dubbio alcuno, perchè
l'uomo non è ricercato, ne violentaco per [ocr errors] en
[ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la brama. Mec.
Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li coftumaffe ; mà ora posso
dirvi di certo, che questo li pratica, essendo seguito in persona mia,
che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi colla tale, senza
ricer carla. Sem. Or io quantunque non fia versato sufficientemente
nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un giovane
favio,quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che fosse,hò
sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni conresa.
Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle difficoltà;
onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza tante rifellioni
; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già scegliere questo
giovane savio così all'infretta; converrà dunque che l'impariats,
ed [ocr errors][ocr errors] Ff 3 Ес Pub.
. [ocr errors] 1 [ocr errors] 1 Sem. Come si doverà dunque
fare per conoscerlo? Pub. Il Padre che ha figliuole da mai ritare
dev'essere un Argo, per rimirare nel medesimo tempo cento giovani, ed
offervare i loro andanlegri. Mec. Oggidì però non è necessario averne
tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne
giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna
Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti
Sufficit una domus , paucos confus me dies, do Dicere te miferum poftquam
illic vec [ocr errors] neris, [ocr errors] Pub. Fatemi piacere
dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel
discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù
viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti.
Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri CU: [ocr errors] cusandolo, che
vi confermiate nellas credenza di qnello , che di me sospettafte,che io fia
nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò non
vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde se
voi, Sempronio,vedrere un gio.. vane accompagnarfi, e conversare continuamente
con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso per tale,
senza fare altra diligenza; verificandoli quel proverbio:all'accoppiar ti
veggio. Sem. E se fi desse il caso, che questi non converfaffe con
altri? Mec. Questo è difficile oggidì, che fi conversa tanto; mà se
caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo. nomia, e se la
scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo infociabile, e non
senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro, disinvolto, e non
converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di esso; perchè lo farà a
cagionc , che non troverà coma pa de pagni bene accoftunati uguali
ad effo. Sem. Vorrei qualche altra regola,per meglio potermene avvedere ;
perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali egli conversalle, potrei
ingannarmi. Mes. Se voi vedrete un giovane stare in chicfa con poca
divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in piazza, questi farà
poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i passeggi, e rimirerà con
grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà egli effemminato ; se
dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi una certa superiorità ,
farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa , sarà vanos se poi oggi dirà
una cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e finalmente se
frequenterà i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a questo vizio; in
somma da se medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi difetti.
Sem. Starei fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in questi tempi,
dovendo fare tante diligenze; mi cor. H vers pa [ocr errors]
verrebbe prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città dicendo: homi.
nem quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in cucco; e per
turto, senza alcun de'detti diferci. Moc. Mà chi non vuole affogarla ,
dee anche servirsi del cannocchiale del Galileo,che scuopre le macchie del
sole. Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri riguardassero al
minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie. Mer. Sarebbe questo
la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che incomiacierebbero a
spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene accostumari, ed a tale
proposito posso riferirvi ciò , ch'è seguito in una riguardevole città.
Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello faccano , alla guerra,
cominciarono le donnc a non ammettere alle loro conversazioni coloro, che non
avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva ; conciofiacofache li
reputavano vili, e codardi.Servi tale renitepza di Aimolo grande a tutta
la Die la gioventù per andare alla guerra; segnoche pochi furono
quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono: " or se una fimile
ripulsa molte canti ad andare incontro alla morte; dovrebbe
certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla vita migliore,
quando questi non trovasfero inoglie. Pub. Vedete voi,Semprouio,che
sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima trovare mariti a
proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non dalla cattiva
educazione della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba premcre questo
affare anco alla Repubblica, Sem. Io lo scorgo molto bene; mà che fi
dovrà fare ritrovandoci in queste an. [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] Mec. Quello che disse quel Filosofo, che presc per moglie una donna
allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così, egli
rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche dirò
io de'mariti difetto Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no
considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla condizione
del galantuomo. Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona direzione
doverà darfcle da genitori? Mes. Debbono i genitori allorche le maricano
non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a farli
rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla prima,
perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero groffa
dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara,
allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc
ciocchè fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs
eam, & dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum,
regere familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere.
Sem. E se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero
mari tare [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc
dovrà egli fare, non efrendo molio ricco? Mec. Maricarle , con dar loro
quella dote più congrua, che può. Sem. Mà li scomoderebbe troppo
privandosi di sì considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con.
veniffe dar loro maritandole turce. Mec. E come potrebbe farac di
me00? Sem. Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache.
Mec. E se non Gi volessero fare? Scm. Non mancano modi al Padre accorto,
che ci facciago, o colle buones ocolle cattive. Mec. Padre voi chiamare
colui, che vuole sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non
accorto, màcrudele; perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in
vitas. contro il loro genio? Sem. Come chiuderle in vita,
trattantandosi'di darle, e consagrarlo a Dio? Mes, Non si chiama darle a
Dio , [ocr errors][ocr errors][ocr errors] qualia quando la loro
volontà non ci concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor
consenso : questo li chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio
chiamare a questo stato : ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del
bene, facendone tanto poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno:
del male si che ne faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo,
trovandoli in iftato di disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso
orribile di una di quelle, fatta Monaca per forža, la quale , quando ebbe
eseguito quanto defideraya il Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli
disse alle orccchie : fignor Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di
casa.in que: fto mondo non ci rivederemo più ; må bensi nell' altro ed in
pellimo luogo, perchè ci danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far
godere i maschi, li hanno da porre in disperazione Je feminine? Se voi non
potere dar loro dieci mila sçudi di dorc, dategliene me no, [ocr
errors] cina no , ed acca sacele; quando volontaria. mente non siano
inclinate alla vita reli giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane
per i sposo, mà vi faranno dire bensì, che la loro vocazione sarebbe
di accasarli . Starà dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ;
mà so ben io da che ciò procede. Sem. E da chc? Mec. Dall'eccellive
doti, che corrono, le quali oltre il dispendio,che apportano per le spese
grandi, che si richiedono allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a
darli altrui nel maricarsi le figliuole. Sem. Or io non voglio
nell'anima. mia questo peccato ; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò
mnaritare; mi diremi: che dote farebbe proporzionata, Publio ? Pab.
Quella , che fi foleva comune. mente costumare prima , che foffero inse dal
Prencipe , come già dicemmo ; e se [ocr errors] Hh 4 feaveste
da trattare co persone discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi
curate di tanti lussi, e perciò volece dare quella dote, che si costumava in
quel tempo, che questi non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto
doppio negozio, essendovi anche accertato di appareatare con gence discreta , e
capace; se poi non lo vorranno fare , averete scoperto , che non sono a
proposito per vostra figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso
eccellivo. Sem. Questa dote li dovrà consegnare libera ? Pub.
Questo poi nò; perchè potreb. be alienarli , c restare la voftra figliuola
indotata, Sem. E se non vorranno concludere il matrimonio fenza la dote
libera? Pub, E voi sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno,
quando si pretenda questo, denotando che ci sia bisogno in quella casa di
danari. Questo sì, che sposata che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste
prometo; perechè non porrere immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra
conjugi per quem fta benedetta dote promessa, e non pio gaca ; provando bene
spesso le povero mogli, per tal cagione, molti mali trace tamenti. Sem. E
se non mi trovali il danaro pronio? Pub. Prendcrelo più costo ad
interesse, e perciò i saggi Padri di famiglia sogliono essere buoni econoini,
con met. tere da parte ogni anno qualche fommi di danaro, per essere anche
puntuali allorchè locano le loro figliuolc; e fanno coato allora di fare
vantaggioso rinvs. Itimento. Som. Sarebbe dunqne bene, che s'iq.
dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e s'impiegaffero con fervore in
fare confiderabili avanzi. Pub. Di far qucfto non sono cenuri in costo
alcuno; bilta ch'elli non fcia. lacquino le loro rendire, perchè li poslono
anche fare avanzi congderabili in questo modo , ellendo che: Parfimonias eft
magnum veftigab. Sem. [ocr errors][ocr errors] 1 [ocr errors]
di ; Sem. Almeno lo doverebbero fare, avendone molte da maritare.
Pub. Neanco; perchè il buon Padre re, ed avendole educate bene,molti
concorreranno a prenderle, e con onesta doto,perchè porranno a cõro la buona
educazione per qualche migliajo di scudi, essendo realmente essa
l'equivalente;onde saggiamente diffe. Plauto in Aulu. Dummodo morata rectè
veniat dotata eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3.
Dos eft magna parentum Virtus, metuens alterius oiri Certo federe
caftitas. Sem. Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare.
Pub. Sì quelli che s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro
pollibilità ; quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide.
reranno in primo luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca.
pitale, che della dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle,
non fo [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors]
solamente non sono soggette alle sue in- costanti vicende, mà sempre
crescono di valore , onde faggiamente Orazio eb- be a dire nella r.
Epistola. Vilius argentum eft auro , virsusibus au- [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se il Signore mi delle', in 32stigo de
mici peccati, una figliuola risentita', vana, pronta, loquace, contenziosa, che
con tutta la buona educazione non si fosse potuta mutare, volendo questa
marito, che averò da fare? Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li
sofferente colla sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo ,
prudente, non iracondo, mà soItenuto. Mec. Vi fu però quel filosofo,il
quale diede una sua figliuola simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato
perchè avesse ciò fatto , rispose : per gastigarlo : Sem. Doverò in
quello caso conte. nermi nella moderata dore ? Pub. Per levarvi di casa
una figliuo: la di questa forra, non dovete reftare per dat [ocr
errors] . 492 Conf. 8. Deco feconda la doro, perche date allo sposo un grande
osso da rodere, onde, è di dovere, che gli diate ancora un poco più di polpa,
per consolarlo , cd a fine, che ci abbia ancora un poco più di
soff:renza. Sem. E se questa, la prima volta , che contrastasse con suo
marito, tornaflc a casa mia ? Pub. Voi immediatamente dovete rimandarla a
casa sua, senza darle alcun ricetto, e sgridarla ancora; acciochè non fi
avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle apertamente, che colà hà da mori.
re, perche se il Padre comincierà a dar. le ricetto, è finira; ogni giorno
seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta saggiamente disse: Obliviscere
domum Pa. tris tui. Mec. Un saggio Padre in fimile avveniincnto fè
questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero , e gli disse. Per grazia
vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate per amor mio, nà se mai
succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel gastigo, che vor.
гс [ocr errors] rece; perchè io non intendo più inters porre nè pur una
minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò più per mia tigliuola ,
trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella , che credeva, che suo Padre fosse
scco andato per isgridare fuo marito, perdè l'orgoglio a segno, che in avvenire
muco modo di vivere. Sem. Se avelli una figliuola brutta, c mal fina, e
volelle marito, che avcrò da fare? Pub. Primeramente vi dovrete informare
col vostro Dottore,se possano i suoi difetti pregiudicarle nel pártorire, con
porre a risico la sua vita ; accertato che farete di questo , che non poffa
seguire, maritätela pure nel miglior modo, che potretc, darele anche buona dote
per avere un uomo di propofito. Mec. Vi fu molti anni sono una lice per
cagione, ch'essendosi sposata senza il consenso de suoi Genitori una giovane,
perchè il di lei Padre pretendevas darle la dote stacutaria, e lo sporo ne
chiedeva di vantaggio ; essendo che oltre gli altri difetti , che aveva era
statas sempre senza denti : giunse queftas istanza all'orecchie del Prencipe ,
il quale ordinò che fossero alla rolitas dote accresciuti duc mila scudi
di più , per uguagliarc i difetti, che aveva la sudetta sposa. Sem. Mà se
non si affacciaffe alcuno, che li voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi
Monaca? Pub. Questo sarebbe peggiore facrificïo dell'altre, che volevare
dare a Dio, essendo stata rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa
ancora le medefine ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a
questo stato; onde la potrete tenere in casa vostra , e procurate, che ha
servita più degli altri voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che
all'interne sue imperfezzioni, vi si aggiungano anco gli esterni
(trapazzi. Sem. E con quelle che averanno la vocazione di farsi Monache,
come mi doverò contenere ?, Pub. [ocr errors] Pub. Primieramente di
far esplorare beo bene la loro volontà , per accertarvi, le lia vera vocazione,
c non disperazione ; perchè alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente
quando non possono avere quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che
siano chiamate da Dio,adocchiare tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti,
į di diversi istituti, e fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè
sappiano ciò,che - doveranno fare ; e dipoi dice loro, che fi scelgano
quell'istituto,che piace loro, e fatele pur monacare. Sem. Sarà bene di
tenere loro una conversa per forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia,
venendole permesfo,fatelo, per altro non inno. vate cosa di vantaggio di
quello, che ivi fi suole praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro
il livello costumandosi, e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a
loro modo,affinchè nó ab. *biano da stare dopo la vostra mortc all'
indiscretezza de fratelli, i quali foglio [ocr errors][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] no essere molto trascurati in
soddisfarle, e trattatele in modo, che nő abbiano bi. sogno di soccorso altrui;
perchè così viveranno staccatiffime dal secolo. Sem. E se qualcuna
volesse imparare a cantare,efsendol già dichiarata di far. fi Monaca?
Pub. Non permetterei quefto ; perchè, se poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa
ficile cantando delle belle ariette, voi rimarrette colla cantarina in casa;
ditele bensì che lo imparerà allorchè larà Monaca, perchè ivi averà delle altre
compagne ancora, colle quali si potrà esercitare per meglio apprenderlor
Sem. E se volesse viaggiare un poco per il mondo , prima di chiudersi?
Pub. Questo neanco firebbe ben fit. to ; perchè col viaggiare si può vedere, e
trattandosi,udire più d'una cosa, che po. trebbero rimuoverla dal suo fervore,
e. quando questo desiderio procedesse per cagione di divozione, conducerela in
qualche luogo de più vicini,ove sia qual. chc divoro Santuario, per consolarla
. Soma 1 '1 Sem. Se bramasse vestirsi da sposa prima di
monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo ? Pub. Alifte por motivo
di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro doyendofi sposare col
Signore , non mi pa. jono simili abiti da esso graditi, mà ben. † sì i
più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe essere, che
si portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li spoglia di esli
per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e vanità
mondane. Sem. Rimanendo redove le figliuole , averò da riceverle più in
casa inia? Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già dimenticate,
come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di riceverle :- e
perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare colle
Spose di muoverle nell'uscire dalla casa paterna più volte in giro
affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . 4 Sem. Mà se
rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare così
solc li Pub. [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero corparvi,
mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle. Sem. E
volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci? Pub. Lo ponno
fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole
fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in
affare di tanta premura , conforme è questo. Sem. E se avesse più
figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche
ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro
Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.
Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare
leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno
portarsi verso i suoi genitori defonti. [ocr errors][ocr
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Mec. A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo, essendo egli in
sen. timenti, mi persua do che sia questa: di lasciare i figliuoli
pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati nella roba,
mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente , che quando la
Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di elli il
Patrigno, ela pro propria Madre molto certamente farebbe dividendo
l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo mari. to.
Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe. Sem. Mà ti è pur
bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori ; come dunque
potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene affiftiti? Mec.
Può essere , che a tempi antichi li Tutori fossero di giovamento a Pupil. li :
oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno bensì del gran male i
cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così pochi, che non sò se
arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla Giovenale : Boni
quippe homines numero vix funt totidem quof Thebarum poriæ , vel
divitis oftia Nili. Sem. Udii pur da voi , Publio, nella Conferenza
decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli Economi; or come
dunque i Tutori, essendo an [ocr errors][ocr errors] anch'elli
Economi, possono apportarc e questo gran mile. Pub. Tra l'Economo, ed il
Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo non appartiene
l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente riconosciuro delle
sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per accrescere, o mantenersi
almeno il credito acquistato , a fine di essere ados, perato in altre fimili
contingenze; essendo che per profeffione lo esercita ; dove che il Tutore,
dovendo anche invigilare alla educazione , vedendosi poco, O nulla riconosciuto
delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua estimazione in cal
ininisterio , per non cu. rara punto di fimile briga inutile ,
fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata, e
maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale, il
quale dice: Quis enim virtutem ample&titur ipfam Prema fi
tollis? Laon. [ocr errors] 0 li 3 Laonde non
recherà maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi. Sem. E questi, che
mali potrebbero apportare, Mecenate? Mer. Primieramente di lasciar fare a
figliuoli ciocche eff vogliono , e poi ponno prendere tanto amore alla roba
de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte
di cffa. Sem. Edin che modo ? Mec. Faranno comparire debiti
antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori,
fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ;
lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno
offerire sot. to mano ; & farà cal vendita, nella quale farà grossa
senfaria a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza
considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio,
sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se
spregasscro i figliuoli anderebbe per sodisfare i ca. pricci di chi
n'è padrone. Sem. Costumeranno di far questo i più
bisognofi. Mec. I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non
bisognosi per arricchirsi di vantaggio. Sem. Mà è possibile, che nel
Mondo ci sia gente così iniqua che lo faccia? Mec. Questa è questione di
fatco; di. cendomi il mio Procuratore , che giornalmente accadono liti di rendiinenti
de'conti in cause de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri di
amministrazione così intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge
essere stati fatti così da gente molto maliziosa . Sem. Talinente che voi
non lodate, che si diano a Pupilli questi Tutori? Mer. I cattivi
certamente noa posso lodarli. Sem. E quali saranno i buoni?
Mec. Quelli, che ricuseranno di ac- cettar qucfte brighe
Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non vogliono accettarle ; dunque
bisognerà cadere a prédere per necelfità i mediocri, che non fanno nè bene nè
male. Oh confideriain corne p')trà andar bene l'educazion de figliu li !
Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di famiglia aver un amico confidente
di lom na integrità, è che fosse anche informato de fuoi interelli, e que. fti
impegnarlo da molto tempo prima ad accettare, se li delle mai il caso, ch' egli
morisfe in tempo, che i suoi figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe
fargli carità di tenerli, ed allevarli, come se foffero fuoi ; senza però
discapito di borsa; ed è cosa facile , che prene desse allora l'impegno di
farlo, perchè fi lusingherebbe, che ciò non fosse per seguire in breve.
Sem. Signor Mecenate mio, scusate. mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il
mondo così corrotto che dubiterei molto, che l'amico si ponesse anche in luogo
di Padre con isposare la moglie del l'amico rimasta vedova . Mec.
[ocr errors] Mec. Questo non doverebbe farli da un buono amico, Sem.
Questo ancora è di fatto, conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo
praticaco, e lo sò con tutto che io ab. bi. meno anni di voi. M:c. Losò
anch'io; mà questo diceva per vedere di fuggire il maggiôr male; or dunque
bisogna conchiudere, che doppia disgrazia lia, quando i Padri muojono giovani,
Sem. In fimile intrico dunque o biso. gierà , che il Dotcore trovi rimedio, che
in tal erà non si inuoja , o pure tro. Vire chi poffi fedelinente indirizire
cali Pupilli: avete voi, Doctore , un simile rimedio ? Med. Rimedio per
non morire non si è trovato fin'ora; ben è vero però, che a prolungare la vita
con tenersi lon, tani da cerci spropositi massicci , che possono abbreviarla, a
questo si può are rivare. Sem. Ed in che modo Med. Contenendosi con
moderazione nel [ocr errors][ocr errors] nell'esercizio
conjugale; perchè ci so. no taluni, che si pongono alla disperata in tale
facenda, come se nel dì seguente la moglie dovesse essere loro rubata, senza
avvederfi, che ruberà la morte elli alla moglie , continuando tal vita; oltre
poi tanti altri disordini accompagnati a queste. Bisogna dunque, che viva re.
golato chi ha figliuoli di tenera età , e non li fidi della gioventù ; perchè
que. sta tradisce bene spesso, e che consideri il danno, che apporterebbe alla
sua famiglia , con morire prima d'invecchiarli. Sem. Questo si può fare ;
mà se non baftaffe ? perchè hò veduto morire anchci giovani non aminogliari , e
ben regolati ancora ; che doverebbe dunque farli per terminare la vita non
tanto dolorosamente? Pub. Hò udito riferire, che in alcune città vi lia
una specie di magistrato , composto di persone di sperimentata integrità, le
quali invigilano a questo ; onde introducendoli trà di noi potrebbe
con consolar molto i Padri, cui seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per
lasciare i figliuo li non atti ancora a poterli da se regola [ocr
errors] re. [ocr errors] Sem. Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che
procurerei ach'io di entrare in derto magistrato. Pub. Se vi avelli da
porre io, due di difficoltà ci avrei ; la prima , che fiere troppo
giovanezessendo cariche da con. ferirsi a persone di provetta e à, e l'al
tra perchè voi lo chiedete, essendo che A finili impieghi, doyendosi conferire
a solimericevoli, aleuoi di questi più toe $ fto li ricusano, che li
domandino; ed è a cosa cerca , che colui, che brama un ins cumbenza, non
solamente senza lucro, mà di molto incomodo ancora', qualche fine vi hà per lo
più vantaggioso per se.. medesimo, il quale potrebbe rendere infructuoso ogni
vantaggio, che da ello, si speraffe . Serth Che averebbero da fare
quefti? Pub. Primieramenre d'inventariare fedelmente tutto quello, che
avesse la. [ocr errors] sciato quel defonto, di eficare poi il superfluo
, e non fruttifero, e rinvestire il ritratto in faccia de Pupilli , con fare le
cose chiare, e senza procacciarli emolumento alcuno . Sem. E che
altro? Pub. Di dare fefto immediatamente all'educazione; con porre nel
migliore feminario i maschi, se saranno di erá ca. paci, e le femmine in un
Monastero dei più csemplari. Sem. Ele rendite chi le amministrerà? • Pub.
Un ministro salariato, che fia capace, o più secondo l'azienda che foffe, i
quali rendessero esatto conto ad uno dei detti sopraintendenti dell'ope. rato
ogni settimana, per potersi poi, da più di elli congregati ogni mese, risol.
vere gli emergenti più difficili, che ac. cadeffero. Sem. E degli avanzi,
che si farebbe? Pub. Andarli rinvestendo , allorche foffero arrivati ad
una certa somma, con tutte le dovute cautele acciocchè fosse. ro fatti a
ragione veduta.Sem. Nello stabilirli poi divenuci adulti chi ci penserebbe?
Pub. Quci deputati medesimi, che sopra intendono all'amministrazione.
Sem. E se caluno di questi avesse figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin
eli: 0 pur faceffe quello che fu obiettaco a Tutori. Pub. Vi sarebbero
sopra di ciò, le suc regole, in quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere
tra esli l'apparentarli; perchè quando mai fossero eguali, che male farebbe
l'appareatare con gente scelta, e capace a bene dirigere. Oltre di che con qual
amore di vantaggio liarebbe amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più
vigilante riceverebbero questi in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri
in detra soprainten denza affinchè non seguissero casi disdif cevali, che
daffero occalione di inormo, rare , ed essendo questi scelti nobili, c bencftanti,
non li indurrebbero a far quelle cose, che furono obiercare a Tucori, c tanto
più ch'essendo molti a for pra [ocr errors] sopraintendere
difficilmente tra questi vi sarebbe chi potesse, anche volendo, defraudare
iPupilli in cosa alcuna per la vigilanza degli altri. Sem. E se in detta
amministrazione seguisse qualche disgrazia, chi sarebbe teauto-a
risarcirla? Pub. O questa seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui,
ed in questo caso non sarebbe a ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse
inalizia ; il delinquence farebbe obbligato a risarcirla. Sem. A fare
ottenere loro buoni impieghi, e provedecli di cariche proporzionate alle loro
condizioni, e capacità, chi vi doverebbe pensare, fatti aduki ? Pub. Il
medesimo inagiftrato, atinchè con ragione di potessero chiamare quei, che lo
compongono veri Padri della Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti
questi capaci sapranno da se medesimi farli strada per il conseguia mento di
effe. Sem. Sino a quale ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione?
Pub. 11 [ocr errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero
collocate ; i maschi poi non sareb* be male in tempi si calamitosi, che
vi stessero fino a tanto, che fossero atti, è 1 capaci di sapersi
regolare da se mcdefifoto mi nell'amninistrazione de loro beni. Sem. E se
caluno di questi rimaneffe d incapace di operare a dovere? Pub. Affinchè
non dilapidaffe il fuo, converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse
chi porelle prendere partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche
fratello di giudizio , o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato.
Sem. Mà questi pareori, perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie.
iro di amministrare detta roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe
ftabilico fimile magiftrato? Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc
quali però, sono peggiori degli altri, perchè prendono maggior
contidenzas colla roba de fuoi parenti è perciò facilmente se
l'appropriano;onde di questi non vi prevalec, se non quando li scor
gere gerete con lunga sperienza, che siano ve. ramente
difinteresati, Pub. dove sono andati quei parenti antichi , che avevano
premura maggiore della roba de loro congiunti,che della propria : hò veduto io
alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di danaro per folicvarli
nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne fu uno tra gli altri,
che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale eras quali che fallito,
e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti da esso fatti, che ascendevano
a fomma molto considerabile. Sem. Ritornando alla grand'opera di cariià
del sudetto Magistrato , mi perfuado, che in quei luoghi, ove li costu. i
Padri morranno senza avere da pensare all'indirizzo , che dover ango • avere i
loro figliuoli divenuti Pupilli. Pub. Occalione non hanno di ricerca.. re
altri inodi : posciache questo Magiftrato pensa non solamente a diriggere i
Pupilli ricchi, ma anche quei che riman goo [ocr errors] gono con
mediocre commodo. Sem. Oh luoghi fclici, ove la morte non reca tanto
cordoglio, divenendo ivi l'amore, e l'autorità paterna a guisa di fenice,
che rinascono, ed alle volce più i profittevoli a figliuoli di quello, che
fos fero prima a cagione dei Padri trascura#ci, e nel costume , e
nell'economia , e se per questi ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto
anderebbero meglio le cose? Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora
piena sperienza del mondo vorrelte aggiustarlo in un tratto ; come
fogliono fare alcuni zelanti giovani , allorch' entrano a governarne qualche
particella di efto. Abbiare de me questo configlio, cavato da Licurgo, che
nelle riforme bisogna camminare affai lenta. mente, e con molta circospezione ,
per non cadere in peggio. Sem. Che doveranno fare i figliuoli per
mostrarâ grati verso i loro genitori defonti? Pub. Due cosc, la prima è
di mante, gere nel mondo la meinoria onorovolsdielli, e l'altra, che
maggiormente preme, di alleggerire le loro pene, che possono foffrire
nell'altra vita. Mec. La prima dagli Egizi li praticava con imball mare i
corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco gli atavi , i tritavi, con
quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali furono eredi, e con quanta
stima, c vencrazione universale! che se ac loro sommi bifogni avessero avuto
necessità di danari, impegnando una di queste mumie, ne trovavano quanti
facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere di riscuoterle in breve. Gli
antichi Romani ancora fabricavano tempj alle memorie de’loro Padri, o per lo
meno ftatue per mano di eccellenti scultori. Sem. Come si doverà fare per
mantenere viva la memoria de genitori? Mec. Se sono stati illustri per le
loro rare virtù, e maneggi, debbonsi anche imitare da figliuoli, per fare
scorgere a chi non li conobbe, di essere le loro virtù passare in effi; insegnandoci
l’Ecclelia. [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ftico al 11.
che in filiis agnofcitur vir. Sem. E se avesse dato alla luce opero
letterarie , doverà imitarlo in queste ? Mer. Certamente più in queste
che pcll'edificare ville sontuose, posciache quelle di Cicerone, e di Seneca
fono già da gran tempo distrutte, ma non già i loro libri, i quali continuano i
loro anni sempre più gloriofi alla fama. Pub. Fù interrogato un favio, se
fosse più defiderabile l'acquistare un regno, o l'avere dato alla luce qualche
operas dottrinale, utile a posteri; rispose egli che la seconda ; perchè della
prima non pofsiamo eslerne altro, che meri usufrutruarj, privandoci della
proprietà di esso la morte, dove che della feconda ne Gamo perpetui poffeffori
,accrescendo più tosto la morte il valore di essa, e perciò con ragione diffe
Giovenale : fat. 8. Libera fi dantur populo fuffragia quis să
Perditus ut dubitet Senecam preferre Neroni. Sem. E se non avessero fatto
cofa al- cuna memorabile ? Kka Mer. [ocr errors]
Mec. Debbono i figliuoli incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte
dal figliuolo del rale, anco i genicori faranno partecipi della gloria di
efsi. Sem. E se fosse stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse
quel coraggio, che si richicde in tal carica ? Mec. Procuri egli di
uguagliare la fua gloria in cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre
fè prodezze grandi in guerra, e questi le ha fatte in affari di
pace. Sem. Lasciando debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo
fodisfarli del fuo, quando avesse? · Mec. Certamente che sì, per non farlo
dichiarare fallito ; e di vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non
riceverne infamia; cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia
feceto più debiti del loro capitale. Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre
qualche ignominioso gastigo?. Mec. Doverà egli allontanarli dos
quel qu I paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo
scusare; per altro se fosse stato' cattivo a quel fcgno , che non avesse
meritaco‘limiles ignominia,doverà colle opere buone, e a gloriofe
cancellare ogni memoria po. co buona di esso; perch' essendo pro? prietà
della luce scacciare le tenebre così ancora delle buone operazioni
pre fenti è di cancellare la memoria delle 8 carrive passate.
Sem. E se lo avesse privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il
testa. mento , avendo ciò fatto senza cagione? Mec. Sofferendo ciò farà
credere, che certamente lo faceffe fenza cagione , . i poichè facendo
altrimenti, se non l'ebbe allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi
dopo la sua morte il figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono
un memorabil'esempio i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi
contro le leggi, non vollero,per riverenza dovuta ai Padre , far istanza alcuna
in contrario. Sem. Kk 3 Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi
figliuoli, ed anche pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire
qualche fomma confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i
figliuoli lo portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti
di ciò, come dovranno contenerfi in fimi. le affare? - Mec. Uniformarsi in
tutto , e per tutto al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate
gradirà tal atco , mà lo rimunererà ancora . Pub. Un caso prodigioso si
racconta a questo proposito nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo
elemosiniere', il quale, ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo,
cui dopo avergli fatto vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che
gradirete più, che vilasci questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per
vostro curatore rispose il figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore
: ciò udito fece dispensare a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e
supremo Cu. ratore? Si ritrovava in Costantinopoli, ove egli dimorava , uno
de'principali, ch'aveva una sola figliuola, la quale per essere ricchissima
veniva da molti desiderata per moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò
alla Madre di essa, che infinuaffe a suo marito, qualmente la loro figliuola
avesse più bisogno di un uomo faggio, che di ricchezze, e che maritandola a
qualche Signore correva pericolo ch'ella fosse malamente trattata: Piaccque cal
consiglio al marito , il qnale repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina
Maesta, che glielo dia a foo compiacimento, ed andare voi in quefto punto
alla Chiesa a supplicarla,e có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in
Chiesa dopo di voi ; qual fù appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã
curatore arricchito in un istáte. Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch'
effetri buoni produce l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è
detto del Padre doyerà aacora inrcn. der, [ocr errors][merged
small][ocr errors] Kk 4 dersi della Madre, in tutto quello, che
apparterrà a figliuoli. Sem. In che doverà con Gftere il bene che sono
tenuti di fare i figliuoli, per l'anima dei loro genitori? Mec. In
sodisfare in primo luogo tutti i loro debiti, e legati pij, ed adempio re
prontamente le loro disposizioni. Sem. Må se non ci saranno danari
pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi saranno pure i suoi tempi da
sodisfar-, li con commodo ? Mer. Sapete che detti effetti , ne' quali ci
è debito; non vanno considerati come propri, e per ciò, non entrando
nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che si vendano ? fe
poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non gli hà, e
fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione quella povera
anima penaffe in. tanto, oh che bcll'amore moftrerebbe il figliuolo per
suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno di affetto
verso fuo Padre è questo, di ob be [ocr errors] Les bedirlo
sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua
morte Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino
alla morte a fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si
vogliono fare, e maggior meate mi sono confermato in questo leggendo, che
vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che
quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc
nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per
ciascuno, di cendo loro, che il quarto lo vendeffero, e ne
facessero tanto bene per l'anima sua morto che fosse. I detti figliuoli
il di venente, per vivere se ne andarono alla caccia coi quattro
uccelli, uno de quali seguitando la preda non tornò più : co-
minciarono a contrastare tra loro di chi fosse il perduto, ed ogn'uno
giurava, che quello, che era ritornato, ed aveves sulle mani
era il suo ; fi accordarono alla fine, che il perduro era quello , che
do- veva impiegarli in beneficio dell'anima del [ocr
errors] ! [ocr errors][ocr errors] del loro comune Padre ; il quale
rimase privo di quel bene. Sem. Oltre di questo doveranoo far
altro? Mec. Avere giornalmente una viva memoria di essi, col
raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno, fervencemente; perchè non
è picciolo il bene, che da cfli ricevettero, conGitendo in tutto il loro
etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri doveri, daranno anche chiaro
indizio deila loro buona cducazione. Sem. Vorrei sapere da voi , Publio,
so la vedova possa essere capace di ben’ educare i propri figliuoli,parendomi
che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire, che non farebbe poco a
dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e gli altri avuti col
secondo marito, Pub. Perchè nò ; quando ella perseyerasse costante nello
stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza, ftesse attenta , ed avesse
petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e Mecenatc parlò del
na delle vedove , che prendono altro mari to, non di quelle di cui diffe
Ovidio, [ocr errors] che. bes 01 ol Sustinent in
viduâ triftia figna domo. Sem. A trovare però oggidi chi sia il dotata di
tante virtù sarà cosa molto difficile, dicendo di queste Giovenale. Rara avis
in terris nigroque fimillima cygno. Pub. Si a voi, Sempronio, che
forse of anderete solamente in cerca de diferti ili donncschi, mà non già a chi
brama di trovare le virtù, per approfittarsene, o gi ainmirarle; e non
crediare già, che ogbe gidi le virtù sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi
sappiare, che quando paa re, che i vizj (i dilatino maggiormente, do allora è
il tempo , ch'esse li affaticano in trovare ricetto dai più lavj, per
risplendere maggiormente : ed io vi poffo finceramente palesare, che ci sono
presentemente alcune vedove, le quali vivono con tanta csemplarità , che ponno
uguagliarsi alle antiche matrone, delle quali i Scrittori fecero tanti grandi
elogj.Sem. Bisogna che queste vivano molto ritirare ; c da ciò trascerà che, da
me non son conosciute, laonde notificatemi chi sono, affinche possa anche io
fodar. le, ed onorarle, come meritano , ed apprendere insieme dalle loro
operazioni qualche urile documento. Pub. Mostrare certamente troppa cu.
riosità , Sempronio, con volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere
qualche documento dalle loro operazioni , questo lo potrete appagare con udire
le relazioni dell'operato da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano
a fine di acquistare gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e
perciò non fi curaro punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco
il farlo dall'Ecclefiaftico al 2. dicendo : Ante mortem non laudes hominem
quemquam. Sem. Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e
tragono in educare i figliuoli? Pub. Quefte , Sempronio , sono quela
le res ope mogli,che amarono di vero cuore i loro
mariti, e perciò appresero da Didone ciò, che rifeșisce nel quarto
dell'Enei- di Virgilio : Ille meos primus qui me fibi junxit
ame- Abftulit ille, babe ai fecum, fervetque sepulchro. laonde
quantunque rimase vedove nel più bel fiore degli anni, non vollero
giammai acconsentire a rimaricarsi ; inà bensì rimirando ne'figliuoli
qualche par. ic de’loro genitori collocarono in elli, per tal
cagione cutto il loro materno affetto; e non li potranno mai
baftantemente esprimere le deligenze da esse usare a
pro dei loro vantaggi ; posciache , ia cu- ftodire, ed
accrcfcere le sostanze di clli, che cosa non fanno mai? Sem.
E come possono , essendo mancato il capo di casa, crescerle? Pub. E pure
ciò non ostante , l'hò osfervato in più di una di effe, c quello, che mirende
ammirazione, senza fordida economia , perchè mantengono illo [ocr
errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ro to grado
decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono meritevoli di quell'encomio, che fè
Cicerone a Craffo , ed a Scevoli, chiamando il primo moderatiffimo nello
fpendere fra i fplendidi , e l'altro splendidiffimo tra i moderati ; vi potrei
anche dire di vantaggio, che avendole osservate e faccillime jipitatrici del
bombice, il quale per formare la sua casa poge tutta la sua miglior softanza in
essa, onde spero, che l'imiteranno anche dopo morte, con divenire farfalle per
volarsene più speditanicnte al Cielo. Sem. Hò udito esaggerare tanto
cótro il luffo nelle passare conferenze ; como mai queste si fanno così bene
regolare in tempi, ne quali ci troviamo.? Pub. Vidifli parimente in
quelle , se ben vi ricorderete , che non mancava presentemente ancora, chi
viveffe net costume ancico, e che non si osservalle da tutti chi operava in tal
forma ; perchè pochi erano l'imitatori di efli, c da ciò nasce, che queste di
regolano con tan. tanta aggiustacezza, perchè vivono a quella
usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello presente, lo fanno con
gran moderazione, e più per salvare una certa apparenza, a fine di non
singolarizzarsi, che per vanità. Sem. Mà nell'educarli di che norma si
servono ? Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo , ina con
grandiilima atten#zione ; folamente di vantaggio hò osserte vato, che avendo
quefte già bene im bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad effe
ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero si
so no servite più costo della piacevolezza ; coli ed in questo modo hanno
continuato ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da
figliuoli. Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano? Pub.
Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse
fanno' in questo; effendoche taluna li ha così ben accomodaci , che
: non non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre,
trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi. Sem. Oh
fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi , non mi dimenticherei gianımai
di tanto beneficio ricevuto da effe. Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè
a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene,e
quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno
sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano
paragonare alle antiche Porzie , alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline
che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia,
pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e Sem.
Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio
, che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a
prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei
certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare
i figliuoli. Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli
de benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.
Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale
ondc lo porteremo alla ventura Conferenza. [merged small][ocr errors][ocr
errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA
X. Sopra l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita
danneggiata. Publio , Mecenate , Sempronio , i Medico.
Pub. He bella cosa fareb. be , se nel monС do ognuno viveffe
conforme richiede l'obbligo cristiano: di non fare altrui, ciò, che a se
dispiace: oh bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno
potrebbe vivere ad occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c
tanre sorte di supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia
degl'uomini rimarrebbero affas. [ocr errors] to oziose; e li ministri di
Giustizia a che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo giudice di se
medesimo? Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo ritornato
il secol d'oro, nel quale come lo descriffe Ovidio ne suoi fafti.
Proque metu populum fine vi pudor ipfe regebar, Nullus
erat justis reddere jura labor. E Giovenale nella fac. 6. Cum
furem nemo timerer Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.ret borte,
Mà quanrunque fiafi tanto affaticato Platone per farlo ritornare , appena
c rimasto ogni suo pensiero riposto nel ga- binetto delle sue
Idee, senza recare vei runo profitto; onde si può conch iudere, che
questo probabilmente non tornerà [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr
errors][merged small] Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di
argento ? perchè a sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già
divenuto rugginoso, fembra dura , ed insoffiribile cola. L12
Sem. [ocr errors] Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire
un pezzo di ferro argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano
indarno. Non sarebbe poco se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben
diceste, che sia divenuto rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura,
affinchè non comparisse tanto deforme, come presentemente par, che sia diveDuto
• Sem. Facciamolo dunque ; ma da che parte di esso si doverà principiare?
Pub. Da quella più tenera, come abbiamo fatto finora nei nobili, cioè dalla
tenera gioventù, ove la lima può più facilmente attaccare : cominciate voi
dunque a portarmi il lavoro, che io li. merò. Sem. Qiello , che' mi
premerebbe più d'ogni altra cosa, sarebbe che in. cominciassimo a ripulire un
poco i servitori. Pub. La ruggine in questi è troppo dura; come volete
voi, che limi, efsendo di già quefti divenuti adulti; por [ocr
errors][ocr errors] tatemeli giovaneci, che io cominciero limarli. Sem. E
come potranno questi allora discernerli? Offervandoli, che ne pur i loro
figliuoli hanno genio a fare tal meftiero; ideandosi tanco i Padri, quanto
effi, allorchè cominciano a conoscere i vantaggi della vita civile, di voler
parfare ad effa,con avanzarli di condizione. Pub. Dunque se non si sà
precisamente chi voglia incaminarli per questa via, cominciamo da tutti i
figliuoli poveri , che cosi comprenderemo quelli da incaminarsi in cursi li
mestieri nel inedeliino tenipo. Sem. Che doverà farfi in questi prima di
ogni altra cosa ? Pub. Quello appunto, che già dicem. mc:infinuare bene
nell'animo loro il fan. to timor di Dio, base fondamentale di O tutte le
virtù morali, e cristiane Sem. E chi doverà far questo? th Pub. I loro
genitori. Sem. E se questi non ne avessero appreso tanto, che hastaffc
loro ? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è incombenza,non solamente di
proccurare, che fieno istruiti i figlioli, mà anche, i genitori medelimi,
Mec. Se ci fosse un fol pastore in una gran greggia di pecorelle, molte ne
divorerebbero di più i lupi ; onde come potranno baltare questi, che sono pochi
a tanci? Pub. Ci sono i Maestri, che supplisco. no ancor ela. Mec.
Mà quelli che non hanno modo da tenerli? Pub.Sogovi tante scuole per i
poveri, che possono ben ivi apprendere ciocche appartiene a questo Mec.
Mà fe trascureranno di andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi.
medierà?. Pub. Colgastigo, che servirà dierempio agli altri, che non ci
cadano, ed a tal effetto ci è per questi la casa di correzione, ove sono
severamente morti. ficati. Mec. Vorrei, che vedeflimo, Publio , se
[ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo di non avere rovente bisogno di
limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che molti pochi sono correcti da eso ;
e quantunque ci licno le forche alzate, tanto i delicti fi comincitono gel
inedefimo tempo. Pub. E che prerendete forse, che nel monda non feguano
delicti? Mec. Non pretendo tanto, mà solamente che sceinino questi più
notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno duopo digastigo. Pub. E come
fareste per procurare che minor numero deili presenti ne leguillero? Mec.
Vorrei in diverse parti della cietà scegliere i più caritativi ; e pii
artetici, che ci foffero in ogni profeflione, ed a questi consegnare , e raccomandare
più di uno dei giovanetti, arrivati in età di poter cominciare ad apprendere i
principi di quell'arte, alla quale 'mostraffero inclinazione, ed abilità.
Pub. E prima di detto tempo chi ne averebbe il pensiero di andarli istruendo
nel beo operare ? Mr. [merged small][ocr errors][merged small][ocr
errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur tanti pii, cd esemplari
operarj , zelantisfimi del buon costume, cui non recherebbe gran briga
l'invigilare sopra di elî, con un ben regolato ripartimento, li quali per rimediare
a'disordini maggiori, che incontrasfero doverebbero avere chi desse loro
assistenza, e braccio autorevole; e credetemi, che dupplicato bene da ciò ne
risulterebbe: cioè, che non anderebbono in quelle ore vagabondando per la
città, e li approfitterebbero insieme di molti buon iavvertimenti, e cosi la
gregge averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno: e fapere pure, che
quantunque tanto si operi da questi zelancisfimi nello svellere i vizi già
adulti, nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da cfsi si ottiene ,
onde mi parrebbero fatiche con profitto maggiore queste impiegate, allorchè i
vizi sono anco teneri, potendosi allora con più facilità sradicare; che quando
sono già adulti,senza tralasciare però d'invigilare a fradicare anche questi assodati.
Pub. [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi
manterrebbe detti figliuoli da quei artefici; acciocchè l'istruiffero fin
tanto, che il loro lavoro meritalse premio ? Mer. Sarebbe facile qui tra
noi a trovarsi il modo, essendoci si numerose, e considerabili limosine di pane
, da diftribuirli a poveri; nè si potrebbe dubicare in conto alcuno, che questi
non folsero tali ; onde sarebbero con giustizia , e profitto impiegare in essi
; nè potrebbero gli altri dolerli, perchè verrebbero anche distribuite colla
discreta propora zione rispetto agli altri bisognosi invalidi; ne
apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di questi, provedusi già di
pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi sopra, non potrebbero andare
vagabondando in cerca de vizj conforme facevano. Pub, E'pensiero questo
da macurarsi meglio per discernere, che vantaggio conliderabile potesse
apportare. Sem. E se avessero genio di studiare? Mec. [ocr
errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo ne discorreremo nel fine.
Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj familiari a ragazzi poveri ? Mec.
Possono essere innumerabili, se non sono sradicati alla prima da qual. cuno, e
tanti appunto, quante sono l'erbe dannose , & inutili, che nascono in una
siepe abbandonata da chi la coltivi. Posciache questi poffono essere
primieramente affatto ignoranti dei misteri della Santa Fede; non hanno in
bocca altre parole, che difonckte, appreses per istrada, e ral volia per essere
figliuolini nè pur fapranno i loro ligniti. cati ; fi afsucfaranno da teneri
anni al rubare, e cominciando dalle core commefibili faran passaggio all'altre
ancora ; diverranno poi tanto impertin nenti, che daranno fastidio a tutti; bu.
giardi , fraudolenci, bestemmiatori, e malizioli a segno, che quabrunque fico
no di dieci, e undici anni saranno già capaci in pratica di tutti i vizj
concernenti alla luffuria . Puo. [ocr errors] [ocr
errors][ocr errors] De i buos [merged small][ocr errors][ocr
errors] [ocr errors] prove, e do po [merged small][ocr
errors][ocr errors] Sem. Ma è poflibile, Dottore, che in sì tenera età facciano
questo? Med. Io più d’uno di questi ho vedy. to venire zoppi all'ospedale
per ca. gione di buboni gallici, che avevano acquistati con tali viziose
ritrovata la verità gli ho anche mol. to bene sgridati. Sem. Da che
diviene questa gran facilità di cadere in fimili vizj? Med. Lo spiegò
Socrate a Teodata bellissima meretrice,allorche li gloriava di superarlo nel
saper sedurre più facilmente essa i suoi scolari,di quello avess' cgli potuto
fare colla sua dottrina in rimuovere dal suo amore i suoi drudi, con
risponderle,che lo credeva , nè punto fi maravigliava di ciò; perch'ella li
tirava all'ingiù , & a seconda del precipizio con poca sua fatica dove
ch'egli dovendoli tirar fuori da questo aveva d'uopo impiegarvi fatica
maggiore; come riferisce Eliano, Sem. Oh so, che crescendo questi vizj
con gli apoi, quanci mali effetti eli pros [ocr errors][ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 540 Conf. 10. Dec.
feconda produrranno ! riempiranno per la meno le galee di genec facinorosa, se
pur que. fti non anderanno sulle forche; onde conosco anch'io, ch'è troppo
necessa. rio darci riparo, altrimenti di questi viziosi ne toccheranno ad
ogn'uno per servitori, o per arrifti: ma come fi potrebbe fare almeno , che non
cre. scessero di vantaggio? Mes. Se non li trova il modo, che non vadano
vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani da quei, che fono un poco più
adulti di essi, sempre correranno tali pericoli; e perciò lag. giamente ordinò
Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i villaggi, e gli Egizi non li
faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa avcano corso a piè nudi due,
o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro figliuoli non avevano colla frezza
colpito, e fatto cadere il pane, che posto avevano in luogo eminente, non
facevano gustar loro altro; conforme ancora facevano le donne dell'Isole
Baleari, ma colla fionda, c CO: [ocr errors][ocr errors] così li
tenevano occupati , affinchè non aveflcro campo di avanzarli ne'vizj. Ma
trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero questi affai più
profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere arti, dove fossero
istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale applicassero di genio
; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano , le quali sono ; l'autorità
del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza allidua di uomini pii,
ezclanti del buon costume. Sem. Ma vi è pur S. Michele a Ripas grande ove
si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando altro? Mec. Abbiamo
certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo, ove col timor di Dio
G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era sendo usciti di là
molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da softcocarli, divenuti capaci
d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma questo folo non è sufficiente
per educare tutri i [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors]
nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è poffibile moltiplicarne canti
altri confimili ad effo, che foffero fufficienti; onde bisognerebbe trovare un
modo praticabile , acciocche fossero istruiti nella medesima forma, ma senza
ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione di quella . Pub. Tutto
si potrebbe fare, ma però se non si toglieffe prima quello , che dasse loro
mal' esempio, gioverebbe a nulla. Meo. Questo è veriffimo;.perchè
entrando caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e di buon costume ,' fe
cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che non li possono dire in
pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno obbedendolo as non
divenire ancor esso diviato ? effen. do che: a bove majori discit arre minor ,
Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente banchettare , & a vesse
tutto il commodo da disordinare anch' effo, come non diverrà gologfimo? E
par [ocr errors][ocr errors][ocr errors] last particolarmente se si
abbatteffc in chi, come dice Giovenale, Radere tubera terra Boletum
condire, codem in jure na, tantes Mergere facedulas didicit
Sco ap Et cana monstrante gula. Se si accorgerà poi, che manchi di pa.
rola, imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il mio Padrone, ben lo
posso far arch'io , perchè farà forse oggi di civiltà prar carlo. Voi
dunque, Semi pronio, vidolete attorto dei servirori; doleceri bensì dei
padroni, che gli ac- coltumano viziosi. Sem. Ma io
per la Dio grazia non fò di questo, e pure mi sono capitati molci
cattivi fervitori. Pub. Saranno stati prima corrotti da altri padroni se
non gli avete corrorti voi, e perciò imparare a non mutarli tanto spesso ,
potendovi abbattere ins peggiori, i quali non sarebbero più correggibili:
Barbatos licet admoveas, mille inde magiftros.Mec. Non solamente i servitori si
approfittano del mal'esempio de' padroni, ma tutti gli artisti, e mercanti
ancora, dandosi da caluno di esli a questi, invece del danaro, che avanzano,
certe mercaozie, le quali non trovano ad clitare, e le pongono a prezzi
altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare i conti, ed in che forma !
Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono, e tarano? Mec. Si bene,
ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire, che hanno ricevuto, a
ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano di aver dato loro, a
cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute. Sem. Sicche faranno un
bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e ditemi, Dottore,
se ciò si pratica collo Speziale ancora ? Med. Taluno per quanto ho udito
lo fa. Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro questi, che
sono così malamente pagari. Med. Med. Li poveretti troppo fi
sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo gliono starci in
capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1 nedj.
Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà di uscire
dal El Regno, avevano una bella maniera di contrattare, la quale era di
chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer canzic, e guai a
colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd
gravissime. Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe
puntualmente il danaro; må dovendosi tener morto questo più anni, e poi
pagarfi Iddio sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo.
no tenere per guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che
fa raono imitati. Sem. E per fare, che i servitori non divengano
viziosi, olcre il non dar loro mal'esempio, che si potrebbe fare di e
vantaggio ? Mer. [ocr errors] Mm Mec. Bisogn' anche
procurare, che non abbiano occasione di addocrinarli in certe cose, che
mal'interpretate da efli, da buone che sono potrebbero divenire pesime; e vi
riferirò a tale proposito un esempio. Si abbatte un giorno un mio amico, che seco
aveva due fervi. tori, ad udire un certo discorso morale, fatto da un buon
religioso, mà molto semplice, sopra il furto, e venuto al par. ticolare, a che
fomma questo doveste giugnere per essere peccaminofo , avvedutosi egli,
ch'erano attentissimi i suoi fervitori in udirlo, chiese incontinente
licenza,con iscusa di dover fare certo ur. gentislimo negozio in quel punto;mà
come egli,ini riferì il negozio era, che non udifícro questi , che li potesse
con ficura coscienza rubare una anche minima cosa, perchè, come diceva, costoro
l'averebbero reiterato tante volte in un giorno, che in breve mi farei
impoverito. Pub. Mi persuado ancora, che non convenga dar loro il comodo
di approvecciarsi malamente, con fidarsi alla sjeca di cili, dando loro gran
maneggio; per [ocr errors][ocr errors][ocr errors] perchè la
comodità appunto fà l'uomo ladro. Mec. Vi era uno di questi, il quale
prendeva cutto all'ingrosso, e con vantaggio grande, e dipoi lorivendeva a
minuto, ed a prezzo rigoroso al suo padrone, e vi faceva giornalmente guada.
gno considerabile, scusandosi in far ciò, ch'era per sua industria
, perchè non gli aveva ordinato di far questo il suo padrone. Onde ingannavasi
costui in credere di non aver obligata, ad effo tutta la sua industria, come
difatto avea . Sem. Sarebbe dunque riuscito van taggioso per loro se
avessero studiato , ed appreso le buone dottrine. Mic. Se avessero fatto
questo non si porrebbero a servire, come dice uno di questi al suo padrone,
allorchè lo sgrida, ch'era un ignorante, cui replicó: signore se fossi dotto
non servirei , mà bensì averei chi mi servisle. Sem; Ne hò però ayuti di
quei, che sono stati alla scuola, e sapevano anco ra un poco di latino. Ner. [ocr
errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm
2 Mec. Mà che serviva loro questo? Sem. A nulla ; mà però se non
mori. vano i loro Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e forse
sarebbono riusciti uomini dotti. Mer. Vorrei, ch'esaminaflimo ora qual
fosse meglio: chei figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada delle
lettere , o pure fi ponessero da principio ad apprendere le arti, Sem. E
che pretendereste forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo bellagio
per la via, che giudica per se più vantaggiosa? Capece pure, che vi sono stati
molti plebci , che sono riusciti in esso come accennò Orazio
fat.6.1. Multos fape viros nullis majoribus oj tos, Ei vixise
probos , magnis du honoribus auctos. Mec. Questi non saranno stati però
miserabili, perchè dice ancora GioveHaud facilè emergunt quorum virtutibus
ebfas.Res angufta domi. e poi se taluno di questi, inà molto
di rado, è riuscito, oh quanti sono andati a inale! onde vorrei, che
vedeffimo quali di questi fieno quelli , che possono essere capaci
di compire questa carriera, ed a quali non getti conto. Perchè il
sen. tiere delle scienze, é assai lungo , ed crto, ed ha difficile
ancora il suo ingres- so; come bene lo descrive Silio Italico
dicendo. Ardua faxofo perducit semita clive , Aspera
principio, nec enim mihi fallera, mos est, profequitur labor ad
nitendum intrare volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che
farcbbe trovandosi nel mezo di esso ? non vorrà tornare indiccro per vergogna,
nè potrà ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde
non sa a che partito appigliarsi; dove che la via delle arti, efiendo assai più
piana, e più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e
[ocr errors] Mm 3 van. vantaggiosa a questi di poterla
cerminare. Sem. Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d’incaminarsi
per il sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di
compirlo. Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a
guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere
inesperti . Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia
capace d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti .
Mec. Se per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri
artisti, o di vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli
parcamente, questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle
scienze, e maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ;
perchè morendo questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di
quei, che sono nel principio del camino può essere, che; torni
indietro, econ ripugaanza grande si ponga ad apprendere qualche arre,
quelli, che saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove.
ranno i meschini, non avendo chi più li sostenri ? talmente che per procac.
ciarli il vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l’apparenza
del proseguimento di tale impiego , ch' esli si avevano figuraco di voler
esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta,ed un perucchino, ne quali
consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far
da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla republica,
stroppiando cause, se prenderanno la via legale ? e quello ch'è peggio , che se
per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente ?
Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per
cagione di essi. Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?
Mec. [ocr errors] Mm 4 Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano
sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati;
onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità?
ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si
trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne
quando vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri. Sem. Quali voi
crederefte, Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con
sicurezza maggiore? Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in
questo mentre , poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter
terminare i loro studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno
cali gertato averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi
ancora fi porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. al 27. csclama.
Propter inopiam multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire ORAZIO.
Ma Magnum pauperies opprobrium jubet. Quiduis ad facere et
pari, Virtutisque viam deferit arduam. Sem. A chi toccherebbe
di farne la prova del loro ingeg:10 , e capacità ? Mec. Niuno meglio de'
loro maestri , che li avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito;
mà taluni di questi alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a
fare proseguire loro l’opera mal’incominciara . Pub. Sapere, Mecenate,
che non è disprezabile pensiero questo da voi apportato, e rifletto ora
anch'io, che il voler porre con tanta facilità i poveri all'acquisto delle
scienze possa essere una delle cagioni, che ritardano più tosto la buona
educazione, e mi inaraviglio che non si dia già dato opportuno riparo a questo
inconveniente, Mec. Sicte pur pratico del mondo, e non riflettere , che
non tutto arriva all' orecchie di chi vi può dare rimedio,perchè se vi
giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti si prendereb [ocr
errors][merged small] Res nale fac. 3:bero dalla vigilanza di effo.
Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a leggere, scrivere , e l'abaco lo
stimerei necessario ; mà che questi poi si applicassero alli studi delle
scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè modo da foftentarli, ora che voi
ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo dannoso anch'io. Sem. Come
fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i quali erano affatto privi
de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi stato raccontato di
Diogene, che appena avesse una botte per difendersi
dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem, pre la
terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido mantello.
Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi, dovete sapere, che
considera AQUINO la povertà in due maniere ; ove parla : Contra genti. Jes;
cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate. Questi filosofi da
voi mentovati erano poveri; perchè non [ocr errors][ocr errors][ocr
errors] si curavano punto de'beni della fortuna, e riputandoli dannosi
non istudiavano di cumulare richezze, quantunque das queste
'venissero adescati . Mentre , che non fece Alessandro il grande per
ri- muovere dalla sua bramata povertà Diogene , quantunque in
darno? Quan, . to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco
Socrate ? mà egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè
intendere , che in Atene a vile prezzo si vendevano le farine, e che colà
le acto que nulla costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non
folamente non li * contristava, mà serviva loro più tosto di ajuto per la
filosofia; come riferisce 1 Stobeo, fer.93, che confeffalse, l'isteiro
Diogene . Anzi Epicuro passò più oltre, come si ricava da Seneca
nell'epift. 2 1. persuadendosi egli,che la volontaria poi vertà ,
la quale si uniforma alle leggi di natura , non debba riputarsi povertà,
į inà più tosto ricchezza superiore a tutte 3 le altre, di qual sentimento ,
oltre molti altri filosofi, fù ancora Democrito; men [ocr errors][ocr
errors] tre tre venendo egli interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual
fosse il vero modo da divenire molto ricco, rispose : con divenire povero di
desiderio. Sem. Potrebbero dunque i nostri poveri figurandoli volontaria
la loro forzata povertà, divenire Filosofi ancor efli. Pub. Non è più
quel tempo antico, nel quale i poveri si contentavano audrirli di solo pane, ed
acqua , o di sole erbe, come riferisce Eliano, che faceffe Diogene; onde questa
povertà volontaria, senza un special dono di Dio si renderà impollibile a
conseguirsi . Sem. Vorei sapere, perchè questa povertà forzata abbia da
ritardare l'acquisto delle scienze, c la volontaria più tosto da
promoverlo? Pub. Perchè la forzata contrifta fortemente
l'animo,apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove che la
volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente
cranquillo : Laonde chi mai coll'animo con, [ocr errors] tristato potrà
applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze ? le quali richiedono
attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile
nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem
operari bona; e più chiaramente nel secondo della politica. Impossibile eft
inte digentem ftudio vacare ; c non potendosi i poveri di spontanea volontà
chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè
questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò
sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al
serm. 95. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis
fufficio, as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il
loro desiderio ancora , non li appagano punto di ciò, chè si trovano, braman.
do sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c
per tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio,
se [ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale?
Sem. Non altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che
se me ne approfitterò saprò scegliere la noglie approposito, ed allevare nel
buon costume anche i miei figliuoli, che nasceranno. Mi rimane solamente di
sentire dal dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la filosofia,
e specialmente in quei figliuoli, che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni
documenti morali. FIL. Di questo ne tratteremo domani. – “I have a train
to catch.” Grice: “I like Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to
write a treatise for the week: the first day (or giornata) and so forth. It is
an empirical ethical treatise along Aristotelian lines of the type I classify
as ‘is’ rather than ‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for
pragmatics is why maxims ought to be followed rather than being, as they are,
mainly and ceteris paribus followed! My answer to that is in three stages, and
the first ‘answer, dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of
EMPIRICAL fact, followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He
wrote extensively, knowing British parents, how a father must take care of his
son, or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords:
“a dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question
about the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos –
Grice on morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our
parents” Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere. “Empirical fact we’ve learned since childhood
and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull
empirical.” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Gaio – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of
the Accademy. Although he appears to have enjoyed a significant reputation,
next to nothing is known about him. Porfirio mentions commentaries on Plato by
Gaio that may have been edited by his pupil Albino.
Grice e Galba – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mussonio:
deportato da Nerone, pardonato da Galba – Deportato da Vespasiano, pardonato da
Tito.
Grice e Galeno – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Brought to
Rome by Antonino.
Grice e Galetti – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo.
Emporium.
Grice e Galilei – Eppur si muove -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pisa).
Filosofo. Galileo Galilei. Grice: “His father was, like mine, a musician.” – “La
filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non
s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto.
Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed
altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne
umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro
laberinto”. Personaggio chiave della rivoluzione scientifica, per aver
esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo
galileiano" o "metodo sperimentale"), il suo nome è associato a
importanti contributi in fisica e in astronomia. Di primaria importanza fu
anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema
eliocentrico e alla teoria copernicana. I suoi principali contributi al
pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale
nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima
volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per
acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica,
volta a privilegiare, attraverso il metodo sperimentale, più la categoria della
quantità (attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura) che
quella della qualità (frutto della passata tradizione indirizzata solo alla
ricerca dell'essenza degli enti) per elaborare ora una descrizione razionale
oggettiva[N 6] della realtà fenomenica. Sospettato di eresia e accusato di
voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture,
Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22
giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella
propria villa di Arcetri. Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galilei
venne gradualmente accettato dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992,
papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle
scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni
dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel
1981, riabilitando Galilei. La casa natale di Galilei Abitazione
all'800 Abitazione in via Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo
riportante come luogo "in Chapella di S.to Andrea", si credeva fino
alla fine dell'800 che Galileo potesse essere nato vicino alla cappella di
Sant'Andrea in Kinseca nella fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre
Vincenzo fosse un militare. In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino
alla Chiesa di Sant'Andrea Forisportam, come la vera casa natale. Nacque a
Pisa, figlio di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati. Gli Ammannati,
originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini; Vincenzo
Galilei invece apparteneva ad una casata più umile, per quanto i suoi antenati
facessero parte della buona borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa
Maria a Monte, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di
valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica,
per necessità di maggiori guadagni, la professione del commercio. La
famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo Galilei,
che fu musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto Galilei, morto in
fasce. Dopo un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti
toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto di Pisa, fu ospitato
"senza spese" da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di
battesimo di Michelangelo Galilei, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle
necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa,
Galilei conobbe Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo
Tebaldi il quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposò, probabilmente
per metter fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si
facevano sul conto della giovane nipote. Successivamente fece i suoi primi
studi a Firenze, prima col padre, poi con un maestro di dialettica e infine
nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di
novizio. Vincenzo iscrisse il figlio a Pisa con l'intenzione di fargli studiare
medicina, per fargli ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato
Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva
procurare lucrosi guadagni. Nonostante il suo interesse per i progressi
sperimentali di quegli anni, la sua attenzione fu presto attratta dalla semiotica,
la logica, e la matematica – lo studio del segno -- che comincia a studiare dall'estate
del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio
Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Tartaglia. Caratteristica
del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica:
non di una scienza astratta o formale, ma di una disciplina materiale che
servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche
ingegneristiche. Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci"
(prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a
insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e
il lato ‘prammatico’ della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa abbia
seguito anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dall'aristotelico
Bonamici. Durante la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale
scoperta, che chiama l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo.
Rinuncia a proseguire gli studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i
suoi nuovi interessi, occupandosi di meccanica e di idraulica. Trova una
soluzione al "problema della corona" di Gerone inventando uno
strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei “corpi”. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento
del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi.
Cerca intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni
private a Firenze e a Siena, andò a Roma a richiedere una raccomandazione per
entrare nello Studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli
preferirono alla cattedra Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne due
Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi
già formulate da Manetti sulla
topografia dell'Inferno. Galilei si rivolse allora a Monte, matematico
conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Monte e fondamentale
nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando,
superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de'
Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua
volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la
sua protezione, ebbe un contratto triennale per una cattedra a Pisa, dove
espose chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa ostilità
nell'ambiente accademico di formazione aristotelica. Il metodo che sigue e
quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai
supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno
insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi
filosofi quando insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano,
non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè
perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele,
sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché
hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia
contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla
esperienza e alla ragione”. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu
antiquiora”, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar
conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato,
pubblicato a Torino, “Diversarum speculationum mathematicarum liber d
Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'impeto come causa del
moto violento. Benché non si sapesse definire la natura dell’impeto impresso a
un corpo, questa teoria, elaborata da Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini,
pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla
tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel
quale il corpo animato stesso si muove. A Pisa Galilei non si limitò alle
sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni
sul Tasso” che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si
tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi
volumi della Gerusalemme e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al
Tasso la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del
verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar
rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico
di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del
fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la
famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dovette provvedere alla
dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze
della sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per
soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del
Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso Studio
di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le
autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un
contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno.
Tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso
destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato
per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la
mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Bruno a
Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di
relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana), intrattenne rapporti cordiali anche con
personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come Cremonini,
filosofo rigorosamente aristotelico. Frequenta anche i circoli colti e gli
ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con Sagredo, che Galilei
rese protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e Sarpi, esperto di
semiotica. È contenuta proprio nella lettera
al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli
spazii passati dal moto naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per
conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le
altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di
velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto.
Galileo tiene a Padova lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe
essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle “Questioni
meccaniche” di Aristotele. A Padova Galileo attrezza con l'aiuto di un
artigiano che abitava nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva
esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio.
Perla macchina per portare l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto
un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni
private e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente
passa ai 1.000. Una nuova stella fu
osservata d’Altobelli, il quale ne informò Galilei. Luminosissima, fu osservata
successivamente anche da Keplero, che ne fece oggetto di uno studio, il De Stella
nova in pede Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre
lezioni, il cui testo non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrisse un
opuscolo Lorenzini, sedicente aristotelico originario di Montepulciano,su
suggerimento di Cremonini, e intervenne a sua volta con un opuscolo anche
Capra. Interpreta il fenomeno della ‘nuova stella’ come prova della mutabilità
dei cieli, sulla base del fatto che, non presentando la "nuova
stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre
l'orbita della Luna. A favore della tesi si pubblica “Dialogo de Cecco di
Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova. Ronchitti difende la
validità del metodo della parallasse per determinare la distanza minima di cose
accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli astri. Rimane
incerta l'attribuzione del dialogo, se cioè sia opera dello stesso Galilei o di
Spinelli. Compose due trattati sulla fortificazione, la Breve introduzione
all'architettura militare e il Trattato di fortificazione. Fabbricò un compasso,
che descrisse in “Le operazioni del compasso geometrico et militare” (Padova). Il
compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato,
né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione; ma
Capra lo accusa di aver plagiato una sua precedente invenzione. Ribalta le
accuse di Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio
padovano e pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar
Capra milanese, dove ritorna anche sulla precedente questione della nuova
stella. L'apparizione della nuova stella crea grande sconcerto nella società e
Galileo non disdegna di approfittare del momento per elaborare, su commissione,
oroscopi personali, al prezzo di 60 lire venete. Peraltro, e messo sotto accusa
dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo
ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato
oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il
procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica
veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non
giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio. Il
caso venne probabilmente abbandonato anche perché Galileo si era occupato di
astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o previsionale. La sua
fama come autore di oroscopi gli portò richieste, e senza dubbio pagamenti più
sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi Sagredo,
Morosini e qualcuno che si interessava a Sarpi. Scambia lettere con Gualterotti,
e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i temi natali calcolati e
interpretati figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo
proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si dedicasse a questa attività anche
quando non era pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche
valore. Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che
credono in quello che vedono. (if you see that p, because you want that p). Non
sembra che, nella polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già
pubblicamente pronunciato a favore della teoria elio-centrica di Copernico. Si
ritiene che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non
disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente
l'assenso della universalità dei filosofi. Tuttavia, espressa privatamente la
propria adesione al copernicanesimo a Keplero – che aveva pubblicato il suo
Prodromus dissertationum cosmographicarum scriveva. Ho già scritto molte
argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho
osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico, nostro
maestro. Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che
Galileo punterà per la prima volta verso il cielo. Di ottica si erano occupati
già Porta nella sua Magia naturalis e nel De refractione e Keplero negli Ad
Vitellionem paralipomena, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione
del cannocchiale. Lo strumento fu costruito indipendentemente da Lippershey, un
ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo decise allora di preparare un
tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, ambedue con una faccia
piena e con l’altra sfericamente concava nella prima lente e convessa nella
seconda. Quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro
abbastanza grande e vicino, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e
nove volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista
naturale. Presenta l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia
che, apprezzando l'invenzione, gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un
contratto vitalizio d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la
ricostruzione del cannocchiale non è un episodio che possa destare grande
ammirazione. La novità sta nel fatto che Galileo è il primo a portare questo
strumento, usandolo in maniera prettamente logica e concependolo come un
potenziamento del sentire – il vedere. La grandezza di Galileo nei riguardi del
cannocchiale è stata proprio questa. Supera tutta una serie di ostacoli
concettuali (cf. Galileo sees that the star is nice +> without a telescope –
I could see the cow from the window) -- utilizzando suddetto strumento per
rafforzare le proprie tesi. Grazie al cannocchiale, Galileo propone una
nuova visione del mondo celeste. Giunge alla conclusione che, alle stelle
visibili ad occhio nudo, si aggiungono altre innumerevoli stelle mai scorte
prima d’ora. L'Universo, dunque, diventa più grande; Non c’è differenza di
natura fra la Terra e la Luna. Galileo arreca così un duro colpo alla visione
aristotelico-tolemaica geo-centrica del mondo, sostenendo che la superficie
della Luna non è affatto liscia e levigata bensì ruvida, rocciosa e costellata
di ingenti prominenze. Quindi, tra gli astri, almeno la Luna non possiede i caratteri
di assoluta perfezione che ad essa erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre,
la Luna si muove, e allora perché non dovrebbe muoversi anche la Terra che è
simile dal punto di vista della costituzione? Vengono scoperti i un satellite
di Giove, che Galileo denomina “la stelle medicea”. Questa consapevolezza l’offre
l'insperata visione in cielo di un modello più piccolo dell'universo
copernicano. Le scoperte furono pubblicate nel Sidereus Nuncius, una copia del
quale Galileo invia a Cosimo II, insieme con un esemplare del suo cannocchiale
e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo
Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente
l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto
probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma
anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di
fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero
mancato di sollevare polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo
II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et
pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S.
A. ci aggiugnesse quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più
anni in filosofia, che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica
a Galileo l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa
et di” “Filosofo” del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere
né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi
l'anno, moneta fiorentin. Galileo firma il contratto e raggiunse Firenze.
Qui giunto si premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la
migliore lente ottica che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato
quando era a Padova dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava
occhialetti sempre più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con
il cannocchiale mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò
a Keplero che ne fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de
observatis a se quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti
Galilaee” -- riconoscendo la verità delle scoperte di Galilei. Ferdinando ruppe
la lente. Galilei gli regala qualcosa di meno fragile: una calamita armata, cioè
fasciata da una lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumenta la
forza d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava
quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento
a Firenze lascia la sua convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a
Padova, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e
Vincenzio, che riconobbe. Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la
quale già convive l'altra figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle
cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a Bartoluzzi. In
seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Ammannati,
Galileo fece entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri
(Firenze), costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali
sedici anni. Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di
suor Arcangela, e mentre Virginia Galilei si rassegna alla sua condizione e
rimase in contatto epistolare con il padre, Livia non accetta mai
l'imposizione. La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscita apprezzamenti ma
anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il
cannocchiale, di una scoperta che non gli apparteneva, fu messa in dubbio anche
la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia Cremonini, sia Magini,
che sarebbe l'ispiratore del libello “Brevissima peregrinatio contra Nuncium
Sidereum” da Horký, pur accogliendo l'invito di Galilei a guardare attraverso
il telescopio che egli aveva costruito, ritennero di *non* vedere alcun
supposto satellite di Giove. Solo più tardi Magini si ricredette e con
lui anche Clavius, che aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da
Galilei fossero soltanto un'”illusione” prodotta non direttamente dal corpo di
Galileo mai dalla lente del telescopio. Quest’obiezione e difficilmente confutabile.
Conseguente sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio, sia
all'ipotesi che la lente potessero deformer la vision natural all’occhio nudo.
Un appoggio molto importante fu dato a Galileo da Keplero, che, dopo un
iniziale scetticismo e una volta costruito un telescopio sufficientemente
efficiente, verifica l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando
a Francoforte la “Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellitibus
erronibus quos Galilaeus Galilaeus mathematicus florentinus jure inventionis
Medicaea sidera nuncupavit”. Poiché i gesuiti del Collegio Romano sono considerati
tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, si recò a Roma per presentare
le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori da Paolo V e da Cesi, che lo
iscrisse nei Lincei. Galileo scrive a Vinta che i gesuiti avendo finalmente
conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatte da due mesi in
qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo “riscontrate
con le mie” e si rispondano giustissime. Però, a quel tempo non sapeva ancora
che l'entusiasmo con il quale anda diffondendo e difendendo le proprie scoperte
e teorie suscita resistenze e sospetti precisamente in ambito
ecclesiastico. Bellarmino incarica i matematici vaticani di approntargli
una relazione sulle nuove scoperte fatte da un valente matematico per mezo d'un
istrumento chiamato cannone overo ochiale e la Congregazione del Santo Uffizio precauzionalmente
chiese all'Inquisizione di Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale,
qualche procedimento a carico di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana
comincia già a intravedere quali conseguenze avrebbero potuto avere questi singolari
sviluppi della filosofia sulla concezione generale del mondo e quindi,
indirettamente, sui sacri principi del cristanensimo. Scrisse il Discorso
intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel
quale appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostra, contro Aristotele, che i
corpi galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non
della loro forma, provocando la polemica risposta del Discorso apologetico
d'intorno al Discorso di Galileo Galilei di Colombe. Al Pitti, presenti il
granduca, la granduchessa Cristina e Barberini, allora suo grande ammiratore,
diede una pubblica dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando
definitivamente Colombe. Galilei accenna anche alle macchie solari, che
sosteniene di aver già osservate a Padova, senza però darne notizia: scrisse
ancora, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti,
pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a tre lettere di Scheiner
che, indirizzate a Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle scienze e amico
dei Gesuiti dei quali era banchiere. A parte la questione della priorità della
scoperta, Scheiner sosteneva erroneamente che le macchie consistevano in sciami
di astri rotanti intorno al Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida
appartenente alla superficie del Sole e ruotante intorno ad esso proprio a
causa della rotazione stessa della stella. L'osservazione delle macchie
consentì, quindi, a Galileo la determinazione del periodo di rotazione del Sole
e la dimostrazione che il cielo e la terra non erano due mondi radicalmente
diversi, il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e
imperfetto. Infatti, ribadì a Federico Cesi la sua visione copernicana
scrivendo come il Sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con
rivoluzione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante
intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il
funerale o più tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia,
essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto
aspettando di veder scaturire gran cose dal Peripato per mantenimento della
immutabilità de i cieli, la quale non so dove potrà esser salvata e celata».
Anche l'osservazione del moto di rotazione del Sole e dei pianeti era molto importante:
rendeva meno inverosimile la rotazione terrestre, a causa della quale la
velocità di un punto all'equatore sarebbe di circa 1700 km/h anche se la Terra
fosse immobile nello spazio. La scoperta delle fasi di Venere e di
Mercurio, osservate da Galileo, non era compatibile col modello geocentrico di
Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di Tycho Brahe, che Galileo non
prese mai in considerazione, e con quello eliocentrico di Copernico. Galileo,
scrivendo a Giuliano de' Medici il 1º gennaio 1611, affermava che «Venere
necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li
altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pittagorici, Copernico, Keplero e
me, ma non sensatamente[N 36] provata, come ora in Venere e in Mercurio». Difese
il modello eliocentrico e chiarì la sua concezione della scienza in quattro
lettere private, note come "lettere copernicane" e indirizzate a
padre Benedetto Castelli, due a monsignor Pietro Dini, una alla granduchessa
madre Cristina di Lorena. L'horror vacui Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Vuoto (filosofia). Secondo la dottrina
aristotelica in natura il vuoto non esiste poiché ogni corpo terreno o celeste
occupa uno spazio che fa parte del corpo stesso. Senza corpo non c'è spazio e
senza spazio non esiste corpo. Sostiene Aristotele che "la natura rifugge
il vuoto" (natura abhorret a vacuo), e perciò lo riempie costantemente;
ogni gas o liquido tenta sempre di riempire ogni spazio, evitando di lasciarne
porzioni vuote. Un'eccezione però a questa teoria era l'esperienza per la quale
si osservava che l'acqua aspirata in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne
rimaneva inspiegabilmente una parte che si riteneva fosse del tutto vuota e
perciò dovesse essere colmata dalla Natura; ma questo non si verificava.
Galilei rispondendo a una lettera inviatagli nel 1630 da un cittadino ligure
Giovan Battista Baliani confermò questo fenomeno sostenendo che «la ripugnanza
del vuoto da parte della Natura» può essere vinta, ma parzialmente, e che,
anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile far salire l’acqua per
aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia, circa 10 metri e mezzo. Galilei
quindi crede che l'horror vacui sia limitato e non si chiede se in effetti il
fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come dimostrerà Evangelista
Torricelli. La disputa con la Chiesa Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Disputa tra Galileo Galilei e la Chiesa. La
denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il cardinale Roberto Bellarmino Il 21
dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze il frate domenicano
Tommaso Caccini lanciava contro certi matematici moderni, e in particolare
contro Galileo, l'accusa di contraddire le Sacre Scritture con le loro concezioni
astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Giunto a Roma, il 20 marzo 1615,
Caccini denunciò Galileo in quanto sostenitore del moto della Terra intorno al
Sole. Intanto a Napoli era stato pubblicato il libro del teologo carmelitano
Paolo Antonio Foscarini, la Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del
Copernico, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei,
che intendeva accordare i passi biblici con la teoria copernicana
interpretandoli «in modo tale che non gli contradicano affatto». Bellarmino,
già giudice nel processo di Giordano Bruno, tuttavia affermava che sarebbe
stato possibile reinterpretare i passi della Scrittura che contraddicevano
l'eliocentrismo solo in presenza di una vera dimostrazione di esso e, non
accettando le argomentazioni di Galileo, aggiungeva che finora non gliene era
stata mostrata nessuna, e sosteneva che comunque, in caso di dubbio, si
dovessero preferire le sacre scritture. L'anno dopo il Foscarini verrà,
per breve tempo, incarcerato e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant'Uffizio
stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere all'esame delle Lettere sulle
macchie solari e Galileo decise di venire a Roma per difendersi personalmente,
appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il Galileo matematico» – scriveva
Cosimo II al cardinale Scipione Borghese – «et viene spontaneamente per dar
conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state
apposte da' suoi emuli». Il papa ordinò a Bellarmino di convocare Galileo
e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di
obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli
precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non
difenderla e non trattarla». Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo
una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la
proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie
ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse
permesso quello che ad altri era vietato. Comparvero nel cielo tre comete,
fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta
Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano,
tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de
tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni
dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le
comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per
avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al
centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole,
contro l'ipotesi eliocentrica. Galilei decise di replicare per difendere
la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo
scritto Discorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma
in cui la mano del maestro era probabilmente presente. Nella sua replica
Guiducci sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma
puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra,
ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee
deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita
rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato
con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente
Galilei e il copernicanesimo. Galilei a questo punto rispose direttamente:
fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu approvato
dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma. Dopo la morte di papa Gregorio
XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio pontificioBarberini, da anni
amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse erroneamente Galileo che risorge
la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul
punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era
stato costrett, come scritto al nipote del papa Francesco
Barberini. Galileo resenta una teoria rivelatasi successivamente erronea
delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la formazione
della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e dalla
direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti e
Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva
che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le
argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di
metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Galileo
scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale la filosofia è scritta in
questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi
“(io dico l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava
all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della
verità sulle questioni naturali. Giunse a Roma per rendere omaggio al
papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti
del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non
ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna
assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato
onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio –
Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla
Disputatio di Francesco Ingoli. Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica,
nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane
dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle
argomentazioni teologiche. Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta
quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana: alla comune
obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente
nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie
terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la
Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella
quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in
generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello
stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria
ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario
alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si
conserva».[65] Dialogo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Galilei comincia
il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli
interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla
cosmologia, e dunque anche quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi
personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari
prolungarono la stesura dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa
famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in
legge a Pisa si sposa con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno
dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio
della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta
vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per
ottenere l'imprimatur ecclesiastico, l'opera venne pubblicata. Nel
Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e
quello elio-centrico. Tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici
di Galileo, Salviati e Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la
conversazione. Il terzo protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di
Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è
il sostenitore del sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è
sostenuta da Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si
diffusero le voci di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine
del Papa il “Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di
rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa
Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione.
L’Inquisizione romana sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo
l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario
generale del Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché
spera che la questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del
processo, ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa
insistenza del Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga. Il processo
comincia con il primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di
aver ricevuto un precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare
la teoria elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio
Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare
che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le parole “quovis modo” (in
qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore,
Galileo non solo ammise di non avere detto cosa alcuna del sodetto precetto, ma
anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo mostra il contrario di detta
opinione del Copernico, e che le ragioni di Copernico sono invalide e non
concludenti. Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, pur sotto
strettissima sorveglianza, in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, con
ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno successivo all'ultimo
interrogatorio, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria
sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai inquisitori
generali contro l'eretica pravità, nella quale si riassume la lunga vicenda del
contrasto fra Galileo e il cristanesimo, cominciata con lo scritto Delle
macchie solari e l'opposizione dei cristiani al modello Copernicano. Nella
sentenza si sostiene poi che il documento fosse un'effettiva ammonizione a non
difendere o insegnare la teoria copernicana. Imposta l'abiura con cuor
sincero e fede non finta e proibito il Dialogo, e condannato al carcere formale
ad arbitrio nostro e alla pena salutare della recita settimanale dei sette
salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare, mutare
o levar in tutto o parte le pene e le penitenze. Se la leggenda della frase di
Galileo, «E pur si muove», pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire
la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione
del processo segna la sconfitta del suo programma di diffusione della filosofia,
fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale
– contro il cristenesimo che produce esperienze come fatte e rispondenti al suo
bisogno senza averle mai né fatte né osservate – e contro i pregiudizi del
senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: una
filosofia che insegna a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e
nel senso commune e che vuole insegnare a pensare. La sentenza di condanna
prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di
recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il
rigore letterale fu mitigato nei fatti. La prigionia consistette nel soggiorno
coatto per cinque mesi presso Palazzo Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui,
in Palazzo Piccolomini a Siena. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incarica
di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Livia, suora di clausura.
Piccolomini favore Galileo, permettendogli di incontrare personalità della
città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera che
denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta
avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa del
Gioiello, che possede nella campagna di Arcetri. Si l’intima di stare da solo,
di non chiamare ne di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santita.
Solo i familiari poaaono fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche
per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la morte di Livia. Poté
tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori: a Diodati consolandosi
delle sue sventure che l'invidia e la malignità “mi hanno machinato contro” con
la considerazione che l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più
sublime grado dell'ignoranza. Da Diodati seppe della versione in latino che
Bernegger anda facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco, purissimo
peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di filosofia che scrive a
Venezia mordacità e contumelie contro di lui. Questa, e altre lettere,
dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni
copernicane. Dopo il processo scrive e pubblica “Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali”,
organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre
medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo,
Salviati e Simplicio. Nella prima giornata si tratta della resistenza dei
materiali. La diversa resistenza deve essere legata alla struttura della
particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una
spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito,
considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In
particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito –
viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza
di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene
giustamente che tutte le cose discendeno con eguale velocità, in opposizione
con Aristotele che ritiene l'impossibilità concettuale di un moto in un vuoto.
Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella
terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto
uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato
e delle oscillazioni del pendolo. Intraprende corrispondenza con
Bocchineri. La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato una giovane, di nome
Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di Galilei,
Vincenzio. Quando Galilei incontra Bocchineri, questa è una donna che si
è affinata e ha coltivato la sua intelligenza, sposa di Buonamici, un
importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei. Bocchineri e
Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e Galilei non manca di
elogiare l'intelligenza di Bocchineri dato che sì rare si trovano donne che
tanto sensatamente discorrino come ella fa. Con la cecità e l'aggravarsi delle
condizioni di salute è costretto talvolta a rifiutare gli invite NON *SOLO* per
le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età,
ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son
note. L'ultima lettera mandata di
"non volontaria brevità". «Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi /
più mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala vi stese /
sgombrò primo le vie del firmamento. E tumulato nella Basilica di Santa Croce a
Firenze. Il Cristenesimo mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli
allievi. Quando i seguaci diedero vita al Cimento, esso intervenne presso il Granduca,
e il Cimento e sciolto. Convinto della correttezza della cosmologia
copernicana, Galileo era ben consapevole che essa fosse ritenuta in contraddizione
con il testo cristiano che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo.
Il cristanesimo considera le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la
teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto
come semplice ipotesi (“ex supposition”) o modello matematico, senza alcuna
attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione
il “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico non e condannato dalle
autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si
inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a Castelli.
Difese il modello copernicano sostenendo che esistono *due* verità
necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è
certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma
comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il
lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come
già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali *Lutero* e Keplero, i fatti
della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere
compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere,
come già sostenuto da Agostino, il messaggio propriamente basato nella fede
dalla descrizione, storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e
didascalica, di fatti, episodi e personaggi. Dal che seguita, che qualunque
volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, splicito,
potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e
proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora. Poi che
sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti di un
corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la
dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera alla granduchessa
di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare
il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno
del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno
non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema geo-centrio la rotazione diurna (giorno/notte)
non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve
essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole, e dire che
quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che ferma 'l primo
mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei
a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo dice al
contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel sistema
elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione
della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra
attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra manifestamente
la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e Tolemaico, e
all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio avesse
fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente
bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema
copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della
(ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna
prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la
critica proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape meglio di
chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città,
crollerebbero come un castello di carte. Il più ignorante dei frati, senza
sapere nulla del momento di inerzia, sape benissimo quel che succedeva quando i
cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli
scogli. Se si interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole
non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari
di qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di Galileo, Giosuè
avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera! Sperando di far
passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo disprezzo per gli
avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le quali destarono
preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere
polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che alcuni passi della Bibbia
dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema copernicano. Le Sacre Scritture
si occupano di Dio. La filosofia naturale, che fa indagini sulla Natura si fondarsi
su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non
possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso
di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro,
bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del “significato”
splicito superficiale (explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto
"al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze
degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune,
velando così con una sorta di “allegoria” il “senso più profondo” di un
enunciato.. Se il “messaggio” “letterale” diverge da un enunciato del filosofo
naturale, non lo può mai il suo “contenuto” "recondito" e più
autentico, ricavabile dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato”
più epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la
sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado,
l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al
cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che,
applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di
Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema
copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico.
Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale
esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa
verità che proviene da Dio. Il primo è le
Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al
"volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione
dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni
relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione
(non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o
corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio –
nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella
disputa filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla
autorità di luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a
posteriori) e dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi
dei grecchi --, quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello
Spirito Santo, e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli
ordini di Dio, nostro genitore.” La filosofia – regina scientiarum – La
‘materia’ della filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come
filosofia prima, filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere
di pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario,
se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma
che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in
definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione,
entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno
naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla
all’esperienza. Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe
sostanzialmente da Galileo. Aristotele ammetteva la necessità di rivedere
l'interpretazione dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico, Bellarmino
sostenne, ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a suo
favore. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro
del mondo (o nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e che il
sole (elio) non circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole, allhora
bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono
contrarie, e più tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on metaphor and
‘My neighbour’s three-year old is an adult”), che dire che sia “falso” (‘You’re
the cream in my coffee”, “My neighbour’s three-year old understands Russell’s
Theory of Types”) quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal
dimostratione, fin che non mi sia mostrata. L’ esperienzia di visione –
osservazione -- con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare
(che si sarebbe dovuta riscontrare come l’effetto dello spostamento della Terra
rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece evidenza contraria alla
teoria elio-centrica. In tale contesto, Aristotele ammetteva quindi che si
parlasse di una teoria o ipotesi o modello elio-centrico solo “ex suppositione”
(come ipotesi matematica geometrica o aritmetica). La difesa di Galileo ex
professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente)
della teoria geo-centrica quale “reale” descrizione fisica del sistema solare e
delle orbite dei pianete si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione
ufficiale d’Aristotele. Tale contrapposizione sfociò nel processo a Galilei, che
si concluse con la condanna per veemente sospetto di eresia" e l'abiura forzata
delle sue concezioni astronomiche. RiAl di là dal giudizio storico,
giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere epistemologico
filosofico e di “ermeneutica” che furono al centro del processo sono state
oggetto di riflessione da parte di Grice. che spesso ha citato la vicenda di
Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente paradossali, il suo
pensiero in merito a tali questioni. Contro Feyerabend, sostenitore di
un'anarchia epistemologica, Grice sostenne che Aristotele si attenne alla
ragione più che Galilei, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche
e sociali della teoria elio-centrica. La sentenza aristotelica contro Galilei e
razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può
legittimare la revision. Questa provocazione sarà poi ripresa da Ratzinger,
dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica. Ma il vero scopo
per cui Grice espresso tale provocatoria affermazione e "solo mostrare la
contraddizione di coloro che approvano l’eliocentrismo di Galileo e condannano
il geo-centrismo aristotelico, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei
sono rigorosi come lo erano gl’aristotelichi ai tempi di Galileo. Nel corso dei
secoli che seguirono, l’aristotelismo modifica la propria posizione nei confronti
di Galilei. Il Sant'Uffizio concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore
nella chiesa di Santa Croce in Firenze. Benedetto XIV olse dall'Indice i libri
che insegnavano il moto della Terra (“e pur si muove”) con ciò ufficializzando
quanto già di fatto aveva fatto Alessandro VII con il ritiro di un dicreto.
La definitiva autorizzazione all'”in-segna-mento” del moto della terra e
dell'immobilità del sole arriva con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione
approvato da Pio VII. Particolarmente significativo risulta il contributo
di Newman, a pochi anni dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo
e quando le teorie di Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e
provate sperimentalmente. Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con Aristotele.
«Quando il sistema copernicano comincia a diffondersi, quale aristotelico non
sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo,
per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione?
Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole, fissato in un
solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e
un'analisi completa, si scoprì che Aristotele non aveva deciso quasi niente su
questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera
di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio, “Master
dixit””. Newman compie della vicenda Galileo come conferma, e non negazione, di
Aristotele. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta
ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai aristotelichi una certa
interpretazione di questa affermazione fisica geo-centrica, che Aristotele non
l'abbia formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando
alla questione da un punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far
propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto
all’esperienza, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin
dall'inizio essa ha sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto
fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a
dar loro un senso di autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo
VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola
definitiva riguardo a queste polemicheGiovanni Paolo II auspicò che fosse
intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con
la Chiesa e istituì una Commissione per lo studio della controversia
tolemaico-copernicana nella quale il caso Galilei si inserisce. Il papa ammise,
nel discorso in cui annuncia l'istituzione della commissione, che"Galileo
ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini
aristotelichi. Si cancella la condanna e chiarì la sua interpretazione sulla
questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galilei
fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le
rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e,
d'altra parte, alla mancanza di perspicacia, ovvero di intelligenza e
lungimiranza, dei filosofi aristotelichi che lo condannarono, incapaci di
riflettere sui propri criteri di interpretazione di Aristotele e responsabili
di aver inflitto molte sofferenze a Galilei. Come dichiara Giovanni Paolo II, come
la maggior parte dei suoi avversari aristotelichi, Galileo non fa distinzione
tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione
sulla natura, di ordine “filosofico”, che esso generalmente richiama. È per
questo che Galilei rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare
come un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse
confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del metodo
sperimentale di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero dunque i
aristotelichi era quello della compatibilità dell'eliocentrismo e Aristotele.
Così l’esperienza, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi
suppongono, obbligava gl’aristotelichi ad interrogarsi sui loro criteri di
interpretazione di Aristotele. La maggior parte non seppe farlo. Il giudizio
pastorale che richiedeva la teoria copernicana e difficile da esprimere nella
misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso
d’Aristotele. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle
abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo.
La storia del pensiero scientifico del Medioevo e del Rinascimento, che si
comincia ora a comprendere un po' meglio, si può dividere in due periodi, o
meglio, perché l'ordine cronologico corrisponde solo molto approssimativamente
a questa divisione, si può dividere, grosso modo, in tre fasi o epoche,
corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di pensiero: prima la
fisica aristotelica; poi la fisica dell'impetus, iniziata, come ogni altra
cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti; e infine la fisica
galileiana. Fra le maggiori scoperte che Galilei fece guidato dagli
esperimenti, si annoverano un primo approccio fisico alla relatività, poi noto
come “relatività galileiana”, la scoperta delle quattro lune principali di
Giove, dette appunto “satelliti galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e
Callisto), il principio di inerzia, seppur parzialmente. Compì anche
studi sul moto di caduta dei gravi e riflettendo sui moti lungo i piani
inclinati scoprì il problema del "tempo minimo" nella caduta dei corpi
materiali, e studia varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la
cicloide. Nell'ambito delle sue ricerche di matematica – geometria ed
aritmetica -- si avvicinò alle proprietà dell'infinito introducendo un celebre
paradosso di Galileo. Galilei incoraggiò Cavalieri a sviluppare le idee del
maestro e di altri sulla geometria con il metodo degli indivisibili, per
determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per
l'elaborazione del calcolo infinitesimale. Quando Galilei fece rotolare le
sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e
Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a
quello di una colonna d’acqua conosciuta fu una rivelazione luminosa per tutti
gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò
che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringere
la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per
dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso
e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. Galilei
fu uno dei protagonisti della fondazione del metodo scientifico espresso con
linguaggio matematico e pose l'esperimento come strumento a base dell'indagine
sulle leggi della natura, in contrasto con Aristotele e la sua analisi
qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che
la superficie della luna fosse pulita tersa e assolutissimamente sferica, e se
qualcuno disse di credere, che ella fusse aspra e muntuosa fu reputato parlare
più presto favolusamente, che filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco
il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria
dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerevoli cavità ed
eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità. Già
nella lettera a Welser a proposito della polemica sulle macchie solari, Galilei
si domandava che cosa l'uomo nella sua ricerca vuole arrivare a
conoscere. «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera
ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in
notizia d'alcune loro affezioni» Ed ancora: per conoscenza intendiamo
l'arrivare a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si
sviluppano? «Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e
per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle
remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza
della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole;
né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la
copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando,
trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. La ricerca dei
principi primi essenziali comporta dunque una serie infinita di domande poiché
ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la
sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi
dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua,
per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che
scorre nei fiumi ma questa «notizia dell'acqua» è soltanto «più vicina e
dependente da più sensi», più ricca di informazioni particolari diverse, ma non
ci porta certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo
esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le
caratteristiche particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che
sono da noi distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua. Occorre
dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi
difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele,
credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica
sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E
non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere
«questo gran libro del mondo» (cioè dall'osservare direttamente i fenomeni),
come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da
Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità.
Invece i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra
un mondo di carta.A fondamento del metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto
dell'essenzialismo e la decisione di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei
fenomeni nella convinzione di poterli tradurre tramite la misurazione in numeri
così che si abbia una conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per
l'uomo che la raggiunge gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare
lo stesso perfetto conoscere divino che la possiede interamente e
intuitivamente. Però...quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni
matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Il metodo
galileiano si dovrà comporre quindi di due aspetti principali: sensata
esperienza, ovvero l'esperimento distinto dalla comune osservazione della
natura, che deve infatti seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a
ipotesi (metodo ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare
l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non
ottenne la legge di caduta dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne
avrebbe dedotto che un corpo cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso
nell'aria arriva prima a terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò
invece il moto dei corpi in caduta controllandolo con un piano inclinato,
costruendo cioè un esperimento che gli permettesse di ottenere risultati più
precisi. Anche l'esperimento mentale può essere un utile strumento di
dimostrazione e permise a Galileo di confutare le dottrine aristoteliche sul
moto. necessaria dimostrazione, ovvero un'analisi matematica e rigorosa dei
risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa risultati
universali e ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile espressi dalla
legge scientifica. In questo modo Galileo concluse che tutti i corpi nel vuoto
precipitano con una velocità proporzionale al tempo di caduta, anche se
chiaramente non aveva effettuato esperimenti considerando tutti i possibili
corpi con differenti forme e materiali. La dimostrazione va ulteriormente
verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento che è
l'esperimento concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni
formulazione teorica. Sintetizzando la natura del metodo galileiano, Rodolfo
Mondolfo infine aggiunge che: «Il vincolo stabilito da Galileo tra
osservazione e dimostrazione le esperienze fatte mediante i sensi e le
dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – era un vincolo
reciproco, non unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione
potevano valere scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro
necessità, né la dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua
"assoluta certezza oggettiva" come quella della natura senza
appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua
conferma in essa nel suo punto d’ arrivo. È questa l'originalità del metodo
galileiano: avere collegato esperienza e ragione, induzione e deduzione,
osservazione esatta dei fenomeni e elaborazione di ipotesi e questo, non
astrattamente ma, con lo studio di fenomeni reali e con l'uso di appositi
strumenti tecnici. La terminologia scientifica in Galilei Fondamentale è
stato il contributo di Galileo al linguaggio scientifico, sia in campo
matematico, sia, in particolare, nel campo della fisica. Ancora oggi in questa
disciplina molto del linguaggio settoriale in uso deriva da specifiche scelte
dello scienziato pisano. In particolare, negli scritti di Galileo molte parole
sono tratte dal linguaggio comune e vengono sottoposte ad una
"tecnificazione", cioè l'attribuzione ad esse di un significato
specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo semantico). È il caso di
"forza" (seppur non in senso newtoniano), "velocità",
"momento", "impeto", "fulcro", "molla"
(intendendo lo strumento meccanico ma anche la "forza elastica"),
"strofinamento", "terminatore", "nastro". Un
esempio del modo in cui Galileo nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei
Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze: «Voglio
che ci immaginiamo esser levato via l'emisferio, lasciando però il cono e
quello che rimarrà del cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a
una scodella, chiameremo pure scodella. Come si vede, nel testo ad una
terminologia specialistica ("emisferio", "cono",
"cilindro") si accompagna l'uso di un termine che denota un oggetto
della vita quotidiana, cioè "scodella". Galilei è ricordato nella
storia anche per le sue riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti
dell'analisi scientifica della natura. Celebre la sua metafora riportata nel
Saggiatore, dove la matematica viene definita come il linguaggio (o la
semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in cui è scritto libro della natura:
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta
aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se
prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli,
cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a
intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un
oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette in collegamento le parole
"matematica", "filosofia" e "universo", dando
così inizio a una lunga disputa fra i filosofi della scienza in merito a come
egli concepisse e mettesse in relazione fra loro questi termini. Ad esempio,
quello che qui Galileo chiama "universo" si dovrebbe intendere,
modernamente, come "realtà fisica" o "mondo fisico" in
quanto Galileo si riferisce al mondo materiale conoscibile matematicamente.
Quindi non solo alla globalità dell'universo inteso come insieme delle
galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o sottoinsieme inanimato. Il termine
"natura" includerebbe invece anche il mondo biologico, escluso
dall'indagine galileiana della realtà fisica. Per quanto riguarda
l'universo propriamente detto, Galilei, seppur nell'indecisione, sembra
propendere per la tesi che sia infinito: «Grandissima mi par l’inezia di
coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l’universo più proporzionato alla
piccola capacità del loro discorso che all’immensa, anzi infinita, sua potenza»
Egli non prende una posizione netta sulla questione della finitezza o infinità
dell'universo; tuttavia, come sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo
inclina verso la tesi dell'infinità: è più facile riferire l'incomprensibilità
all'incomprensibile infinito che al finito che non è comprensibile». Ma Galilei
non prende mai esplicitamente in considerazione, forse per prudenza, la
dottrina di Giordano Bruno di un universo illimitato e infinito, senza un
centro e costituito di infiniti mondi tra i quali Terra e Sole che non hanno
alcuna preminenza cosmogonica. Lo scienziato pisano non partecipa al dibattito
sulla finitezza o infinità dell'universo e afferma che a suo parere la
questione è insolubile. Se appare propendere per l'ipotesi della infinitezza lo
fa con motivazioni filosofiche in quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di
incomprensibilità mentre ciò che è finito rientra nei limiti del comprensibile.
Il rapporto fra la matematica di Galileo e la sua filosofia della natura, il
ruolo della deduzione rispetto all'induzione nelle sue ricerche, sono stati
riportati da molti filosofi al confronto fra aristotelici e platonici, al
recupero dell'antica tradizione greca con la concezione archimedea o anche
all'inizio dello sviluppo nel XVII secolo del metodo sperimentale. La
questione è stata così ben espressa dal filosofo medievalista Moody. Quali sono
i fondamenti filosofici della fisica di Galileo e quindi della scienza moderna
in genere? Galileo è sostanzialmente un platonico, un aristotelico o nessuno
dei due? Si limitò, come sostiene Duhem, a rilevare e perfezionare una scienza
meccanica che aveva avuto origine nel Medioevo cristiano e i cui principi
fondamentali erano stati scoperti e formulati da Buridano, da Nicola Oresme e
dagli altri esponenti della cosiddetta "fisica dell’ impetus" del XIV
secolo? Oppure, come sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa
tradizione dopo averla brevemente processata nella sua dinamica pisana e
ripartì ispirandosi ad Archimede e Platone? Le controversie più recenti su
Galileo sono consistite in larga misura in un dibattito circa il valore
fondamentale e l’ influsso storico che su di lui avevano esercitato le
tradizioni filosofiche, platoniche e aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche.
Galileo viveva in un'epoca in cui le idee del platonismo si erano diffuse
nuovamente in tutta Europa e in Italia e probabilmente anche per questa ragione
i simboli della matematica vengono da lui identificati con entità geometriche e
non con numeri. L'uso dell'algebra derivato dal mondo arabo nel dimostrare
relazioni geometriche era invece ancora insufficientemente sviluppato ed è solo
con Leibniz e Isaac Newton che il calcolo differenziale divenne la base dello
studio della meccanica classica. Galileo infatti nel mostrare la legge di
caduta dei gravi si servì di relazioni e similitudini geometriche. Da una
parte, per alcuni filosofi come Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur
Burtt (1892–1989), la sperimentazione fu certamente importante negli studi di
Galileo e giocò anche un ruolo positivo nello sviluppo della scienza moderna.
La sperimentazione stessa, come studio sistematico della natura, richiede un
linguaggio con cui formulare domande e interpretare le risposte ottenute. La
ricerca di questo linguaggio era un problema che aveva interessato i filosofi
sin dai tempi di Platone e Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non
banale della matematica nello studio delle scienze della natura. Galilei si
affida a esatte e perfette figure geometriche che però non possono mai essere
riscontrate nel mondo reale, se non al massimo come rozza
approssimazione. Oggi la matematica nella fisica moderna è utilizzata per
costruire modelli del mondo reale, ma ai tempi di Galileo questo tipo di
approccio non era affatto scontato. Secondo Koyré, per Galileo il linguaggio
della matematica gli permette di formulare domande a priori prima ancora di
confrontarsi con l'esperienza, e così facendo orienta la stessa ricerca delle
caratteristiche della natura attraverso gli esperimenti. Da questo punto di
vista, Galileo seguirebbe quindi la tradizione platonica e pitagorica, dove la
teoria matematica precede l'esperienza e non si applica al mondo sensibile ma
ne esprime la sua intima natura. La visione aristotelica Altri studiosi di
Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman Randall Jr., hanno
invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo rispetto alla filosofia
platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la matematica è un linguaggio
e non è direttamente definita né come l'universo né come la filosofia, ma è
piuttosto uno strumento per analizzare il mondo sensibile che era invece visto
dai platonici come illusorio. Il linguaggio sarebbe il fulcro della metafora di
Galileo, ma l'universo stesso è il vero obbiettivo delle sue ricerche. In
questo modo secondo Drake, Galileo si allontanerebbe definitivamente dalla
concezione e dalla filosofia platonica per accostarsi invece alla filosofia
aristotelica per cui ogni realtà deve avere in sé stessa le leggi del proprio
costituirsi. La sintesi tra platonismo e aristotelismo Secondo Eugenio Garin
Galileo invece, con il suo metodo sperimentale, vuole identificare nel fatto
osservato "aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa
matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica"
che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della
nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale
di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha
aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi
ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi,
largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono
presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha
manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle
eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela
nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca
quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino,
cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente,
rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico:
"numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo
divino, è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in
qualche modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il
corrispondersi di questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna
sapienza divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di
ragione. Studi sul moto La descrizione quantitativa del movimento
Rappresentazione dell'evoluzione moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo
nello studio del moto. Ad ogni punto di una linea corrisponde un tempo e una
velocità (segmento giallo che termina con un punto blu). L'area gialla della
figura così ottenuta corrisponde quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo
di tempo (t2-t1). Dilthey vede Keplero e Galilei come le massime espressioni
nel loro tempo di "pensieri calcolatori" che si disponevano a
risolvere, tramite lo studio delle leggi del movimento, le esigenze della
moderna società borghese: «Il lavoro degli opifici urbani, i problemi
sorti dall’invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle
fortificazioni, i bisogni della navigazione relativamente ad apertura di
canali, a costruzione e armamento di navi, avevano fatto della meccanica la
scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e in
Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e
continuazione degli studi di statica degli antichi e le prime ricerche nel
nuovo campo della dinamica, specialmente per opera di Leonardo, del Benedetti e
dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei protagonisti del superamento della
descrizione aristotelica della natura del moto. Già nel medioevo alcuni autori,
come Giovanni Filopono nel VI secolo, avevano osservato contraddizioni nelle
leggi aristoteliche, ma fu Galileo a proporre una valida alternativa basata su
osservazioni sperimentali. Diversamente da Aristotele, per il quale esistono
due moti "naturali", cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei
corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno
verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo
tende a cadere verso il basso nella direzione del centro della Terra. Se vi
sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano,
avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già
espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo
dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro
natura. Per raggiungere questo risultato, uno dei primi problemi che
Galileo e i suoi contemporanei dovettero risolvere fu quello di trovare gli
strumenti adatti a descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo alla
matematica, il problema era quello di capire come trattare eventi dinamici,
come la caduta dei corpi, con figure geometriche o numeri che in quanto tali
sono assolutamente statici e sono privi di alcun moto. Per superare la fisica
aristotelica, che considerava il moto in termini qualitativi e non matematici,
come allontanamento e successivo ritorno al luogo naturale, bisognava dunque
prima sviluppare gli strumenti della geometria e in particolare del calcolo
differenziale, come fecero successivamente fra gli altri Newton, Leibniz e
Cartesio. Galileo riuscì a risolvere il problema nello studio del moto dei
corpi accelerati disegnando una linea ed associando ad ogni punto un tempo e un
segmento ortogonale proporzionale alla velocità. In questo modo costruì il
prototipo del diagramma velocità-tempo e lo spazio percorso da un corpo è
semplicemente uguale all'area della figura geometrica costruita. I suoi studi e
le sue ricerche sul moto dei corpi aprirono inoltre la via alla moderna
balistica. Sulla base degli studi sul moto, di esperimenti mentali e delle
osservazioni astronomiche, Galileo intuì che è possibile descrivere sia gli
eventi che accadono sulla Terra che quelli celesti con un unico insieme di
leggi. Superò quindi in questo modo anche la divisione fra mondo sublunare e
sovralunare della tradizione aristotelica (per la quale il secondo è governato
da leggi diverse da quelle terrestri e da moti circolari perfettamente sferici,
ritenuti impossibili nel mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto
circolare Sfera sul piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei
si occupò dell'origine del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un
fenomeno che è conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e
porta a considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza
l'applicazione di una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di
inerzia, poi inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in
assenza d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino
a quando forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era
invece presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un
secolo più tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa
formulazione di tale concetto. Galileo pose due piani inclinati dello
stesso angolo di base θ, uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x.
Facendo scendere una sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN notò
che la sfera, arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati,
continua il suo moto rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A
quel punto, in assenza d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per
un tratto l2 = l1 e si ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In
termini attuali, la conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale
energia potenziale Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera
discende il primo piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2
sino alla sua base, dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul
piano orizzontale coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità
costante vmax, fino alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il
piano inclinato di DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si
trasforma nuovamente in energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a
quello iniziale (Ep = mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla
(v2 = 0). Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul
principio d'inerzia. Si immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano
inclinato di DX (θ2 < θ1),e di ripetere l'esperimento. Per riuscire a
risalire - come impone il principio di conservazione dell'energia - alla
medesima quota h2 di prima, la sfera dovrà ora percorrere un tratto l2 più
lungo sul piano inclinato di DX. Se si riduce progressivamente l'angolo θ2, si
vedrà che ogni volta aumenta la lunghezza l2 del tratto percorso dalla sfera,
per risalire all'altezza h2. Se si porta infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2
= 0°), si è di fatto eliminato il piano inclinato di DX. Facendo ora scendere
la sfera dall'altezza h1 del piano inclinato di SN, essa continuerà a muoversi
indefinitamente sul piano orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia)
in quanto, per l'assenza del piano inclinato di DX, non potrà mai risalire
all'altezza h2 (come prevederebbe il principio di conservazione dell'energia
meccanica). Si immagini infine di spianare montagne, riempire valli e
costruire ponti, in modo da realizzare un percorso rettilineo assolutamente
piano, uniforme e senza attriti. Una volta iniziato il moto inerziale della
sfera che scende da un piano inclinato con velocità costante vmax, questa
continuerà a muoversi lungo tale percorso rettilineo fino a fare il giro
completo della Terra, e ricominciare quindi indisturbata il proprio cammino.
Ecco realizzato un (ideale) moto inerziale perpetuo, che avviene lungo
un'orbita circolare, coincidente con la circonferenza terrestre. Partendo da
questo "esperimento ideale", Galileo sembrerebbe erroneamente
ritenere che tutti i moti inerziali debbano essere moti circolari.
Probabilmente per questo motivo considerò, per i moti planetari da lui
(arbitrariamente) ritenuti inerziali, sempre e solo orbite circolari,
rifiutando invece le orbite ellittiche dimostrate da Keplero. Dunque, ad essere
rigorosi, non pare essere corretto quanto afferma Newton nei
"Principia" - fuorviando così innumerevoli studiosi - e cioè che
Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due principi della dinamica. Misura
dell'accelerazione di gravità File:Isocronismo.webm Spiegazione del
funzionamento dell'isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un
paraboloide. Galileo riuscì a determinare il valore che egli credeva costante
dell'accelerazione di gravità g alla superficie terrestre, cioè della grandezza
che regola il moto dei corpi che cadono verso il centro della Terra, studiando
la caduta di sfere ben levigate lungo un piano inclinato, anch'esso ben
levigato. Poiché il moto della sfera dipende dall'angolo di inclinazione del
piano, con semplici misure ad angoli differenti riuscì a ottenere un valore di
g solamente di poco inferiore a quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²),
nonostante gli errori sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere
completamente eliminato. Detta a l'accelerazione della sfera lungo il
piano inclinato, la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui,
dalla misura sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di
gravità g. Il piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore
dell'accelerazione (a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°,
allora sin θ = 0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio
determinabile, con una strumentazione rudimentale, rispetto a quello
dell'accelerazione di gravità (g = 9,81 m/s²) misurato direttamente con la
caduta verticale di un oggetto pesante. Misura della velocità della luce
Guidato dalla similitudine con il suono, Galileo fu il primo a tentare di
misurare la velocità della luce. La sua idea fu quella di portarsi su una
collina con una lanterna coperta da un drappo e quindi toglierlo lanciando così
un segnale luminoso ad un assistente posto su un'altra collina ad un chilometro
e mezzo di distanza: questi non appena avesse visto il segnale, avrebbe quindi
alzato a sua volta il drappo della sua lanterna e Galileo vedendo la luce
avrebbe potuto registrare l'intervallo di tempo impiegato dal segnale luminoso
per giungere all'altra collina e tornare indietro.Una misura precisa di questo
tempo avrebbe consentito di misurare la velocità della luce ma il tentativo fu
infruttuoso data l'impossibilità per Galilei di avere uno strumento così
avanzato che potesse misurare i centomillesimi di secondo che la luce impiega
per percorrere una distanza di pochi chilometri. La prima stima della
velocità della luce fu opera, nel 1676, dell'astronomo danese Rømer basata su
misure astronomiche. Apparati sperimentali e di misura Termometro di
Galileo, in un'elaborazione successiva. Gli apparati sperimentali furono
fondamentali nello sviluppo delle teorie scientifiche di Galileo, che costruì
diversi strumenti di misura originalmente o rielaborandoli sulla base di idee
preesistenti. In ambito astronomico costruì da sé alcuni esemplari di
cannocchiale, provvisti di micrometro per misurare quanto distasse una luna dal
suo pianeta. Per studiare le macchie solari, proiettò con l'elioscopio
l'immagine del Sole su un foglio di carta per poterla osservare in sicurezza
senza danni alla vista. Ideò anche il giovilabio, simile all'astrolabio, per
determinare la longitudine usando le eclissi dei satelliti di Giove. Per
studiare il moto dei corpi si servì invece del piano inclinato con il pendolo
per misurare intervalli temporali. Riprese anche un rudimentale modello di
termometro, basato sulla dilatazione dell'aria al variare della temperatura. Il
pendolo Schema di un pendolo Galileo scoprì nel 1583 l'isocronismo delle
piccole oscillazioni di un pendolo; secondo la leggenda l'idea gli sarebbe
venuta mentre osservava le oscillazioni di una lampada allora sospesa nella
navata centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita nel vicino Camposanto
Monumentale, nella Cappella Aulla. Questo strumento è semplicemente composto da
un grave, come una sfera metallica, legato ad un filo sottile e inestensibile.
Galileo osservò che il tempo di oscillazione di un pendolo è indipendente dalla
massa del grave e anche dall'ampiezza dell'oscillazione, se questa è piccola.
Scoprì anche che il periodo di oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo
dalla lunghezza del filo {\displaystyle l}l:[135] {\displaystyle T=2\pi
{\sqrt {\frac {l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}} dove
{\displaystyle g}g è l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha
{\displaystyle l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da
un estremo all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle
T=2,0064s}{\displaystyle T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il
valore medio {\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò
questa proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli
temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando
era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia
idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera
in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata postuma
«Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno due braccia, e
quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi nel mezo, dove
si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le braccia che stiano
nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di più; e sopra l'uno
delle braccia si notino i termini dove ritornano i contrapesi de i metalli
semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo di pesare i metalli più
puri che si trovino. Viene anche descritto come si ottiene il peso specifico PS
di un corpo rispetto all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si trovano poi due tavole che riportano
trentanove pesi specifici di metalli preziosi e genuini, determinati
sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile con i valori moderni. Il
compasso proporzionale Una descrizione dell'uso del compasso
proporzionale fornita da Galileo Galilei. Il compasso proporzionale era uno
strumento utilizzato fin dal medioevo per eseguire operazioni anche algebriche
per via geometrica, perfezionato da Galileo ed in grado di estrarre la radice
quadrata, costruire poligoni e calcolare aree e volumi. Fu utilizzato con
successo in campo militare dagli artiglieri per calcolare le traiettorie dei
proiettili. Galilei e l'arte Letteratura Gli interessi letterari di Galilei
Durante il periodo pisano Galileo non si limitò alle sole occupazioni
scientifiche: risalgono infatti a questi anni le sue Considerazioni sul Tasso
che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su
fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme
liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza
della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama
nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle
situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo,
la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma
poetico. Galilei scrittore. D'altro più non si cura fuorché d'essere
inteso» (Giuseppe Parini) «Uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro
di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che
è l'ultima perfezione della prosa.» (Francesco De Sanctis, Storia della
Letteratura Italiana) Dal punto di vista letterario, Il Saggiatore è considerata
l'opera in cui si fondono maggiormente il suo amore per la scienza, per la
verità e la sua arguzia di polemista. Tuttavia, anche nel Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo si apprezzano pagine di notevole livello per qualità
della scrittura, vivacità della lingua, ricchezza narrativa e descrittiva.
Infine Italo Calvino affermò che, a suo parere, Galilei è stato il maggior
scrittore di prosa in lingua italiana, fonte di ispirazione persino per
Leopardi. L'uso della lingua volgare L'uso del volgare servì a Galileo per un
duplice scopo. Da una parte era finalizzato all'intento divulgativo dell'opera:
Galileo intendeva rivolgersi non solo ai dotti e agli intellettuali ma anche a
classi meno colte, come i tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano
comunque comprendere le sue teorie. Dall'altro si contrappone al latino della
Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas,
rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene a delineare una rottura con
la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a
differenza dei suoi predecessori, non trae spunti dal latino o dal greco per
coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua
volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti diversi nei confronti delle
terminologie esistenti: terminologia meccanica: cauto accoglimento;
terminologia astronomica: non respinge i vocaboli che l'uso abbia già accolto o
tenda ad accogliere. Li utilizza, però, come strumenti, insistendo sul loro
valore convenzionale ("le parole o imposizioni di nomi servono alla
verità, ma non si devono sostituire a essa). Lo scienziato poi segnala gli
errori che nascono quando il nome travisa la realtà fisica o che nascono dalla
suggestione esercitata dagli usi comuni di un vocabolo sul significato figurato
assunto come termine scientifico; per evitare questi errori, egli fissa
esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono preceduti o seguiti da
una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto totale che si manifesta con
la sua messa in ridicolo, servendosene come puri suoni in un gioco di
alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e Compagnia dell'Arte del
Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su suggerimento di Giorgio
Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo sviluppo della prima
corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia di San Luca. Annoverò
tra i primi accademici personalità come Buonarroti, Bartolomeo Ammannati,
Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli l'Accademia rappresentò il
più naturale e prestigioso centro di aggregazione per gli artisti operanti a
Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza e arte. Essa
prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della matematica e
pubbliche dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno scienziato come
Galileo Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina delle Arti del
Disegno. Galileo, infatti, prese pure parte alle complesse vicende riguardanti
le arti figurative del suo periodo, soprattutto la ritrattistica, approfondendo
la prospettiva manieristica ed entrando in contatto con illustri artisti
dell'epoca (come il Cigoli), nonché influenzando in modo consistente, con le
sue scoperte astronomiche, la corrente naturalistica. Superiorità della pittura
sulla scultura Per Galileo nell'arte figurativa, come nella poesia e nella
musica, vale l'emozione che si riesce a trasmettere, a prescindere da una
descrizione analitica della realtà. Ritiene inoltre che tanto più dissimili
sono i mezzi usati per rendere un soggetto dal soggetto stesso, tanto maggiore
l'abilità dell'artista. Perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son
lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico
Cardi, detto il Cigoli, fiorentino, fu pittore al tempo di Galileo; ad un certo
punto della sua vita, per difendere il suo operato, chiese aiuto al suo amico
Galileo: doveva, infatti, difendersi dagli attacchi di quanti ritenevano la
scultura superiore alla pittura, in quanto ha il dono della tridimensionalità,
a discapito della pittura semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una
lettera. Egli fornisce una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa
anche giudizio di valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con
le sue tre dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due
dimensioni, inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore
una maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite
la vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo
mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa
gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno
dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo
era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi
tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni
acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori
nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la
lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella
lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive: «Non ammireremmo noi un musico,
il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci
muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto
più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti patetici
musicali, ciò facesse...» (Opere XI) mettendo sullo stesso piano la
musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo le
emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche Banconota da 2.000 lire
con la raffigurazione di Galileo 2 euro commemorativi italiani per il
450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati
dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati dall'uomo:
la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite Ganimede; l'asteroide
697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema di posizionamento
spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di accelerazione); il Telescopio
Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La Palma (Spagna); l'aeroporto
internazionale "Galileo Galilei" di Pisa; un gruppo musicale
giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal titolo "Eppur si
muove"; una canzone scritta e interpretata dal cantautore pugliese
Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo"; il sottomarino
Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo Galilei; la banconota
da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da Edoardo Pachera durante la
52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società, produttrice di strumenti
scientifici, ottici ed astronomici e denominata Officine Galileo; una moneta
commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º anniversario della sua nascita; un
supercomputer di potenza di calcolo pari a circa 1 PetaFlop, installato presso
il consorzio interuniversitario CINECA e classificato per diverso tempo fra le
prime 500 strutture di calcolo al mondo; una cattedra di storia della scienza
dell'Università di Padova, detta appunto cattedra galileiana, istituita per
Enrico Bellone a cui poi successe William R. Shea che la resse fino al 2011,
più la Scuola Galileiana di Studi Superiori della stessa università, nonché
l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti di Padova. Galileo Day
Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni presso istituzioni locali il
15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua nascita. Altre opere: La
bilancetta (postuma), Tractatio de praecognitionibus et precognitis and
Tractatio de demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del compasso geometrico
et militare, Sidereus Nuncius, Discorso
intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Istoria e dimostrazioni intorno
alle macchie solari e loro accidenti (pubblicato dall'Accademia dei Lincei),
1613 (su archive.org, BEIC) Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare,
Roma, Il Discorso delle Comete, Il Saggiatore, Roma, Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo, Firenze, Due nuove scienze, Leida, Trattato della
sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera al Padre Benedetto Castelli, Lettera
a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro Dini, Edizione nazionale Opere di
Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura di Antonio Favaro, Firenze, G.
Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione nazionale sotto gli auspicii di
Sua Maestà il Re d'Italia. Firenze,
Tipografia di G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale,
Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in quattro volumi: Vol. 1: Iconografia
galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio, a cura di M. Camerota e P. Ruffo,
con la collaborazione di M. Bucciantini, Testi, a cura di A. Battistini, M.
Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e P. Ruffo, Documenti, a cura di M.
Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle Opere Letteratura e teatro Vita di
Galileo è il titolo di un'opera teatrale di Brecht in più versioni, a partire
dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli ultimi anni di Galileo Galilei è
il titolo di un'opera teatrale giovanile di Ippolito Nievo. Galileo è uno
spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini e Marco Paolini. Film
Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato pisano. Galileo è un film
di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph Losey tratto dal dramma
Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole di Puccianti, Galileo fu
veramente cultore e propugnatore della Natural Filosofia: in effetti egli fu
matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel senso attuale di questa
parola; e queste varie discipline considerò sempre e trattò come intimamente
connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come diversi aspetti e atteggiamenti
di una stessa attività dello spirito: filosofo dunque, anche perché portò su
questa attività la riflessione e la critica; ma non incurante delle conseguenze
o, come ora si direbbe, delle applicazioni pratiche. I problemi più importanti
e centrali lo impegnarono per tutta la durata della sua vita scientifica, non
con continua opera su ciascuno di essi, ma con ritorni successivi sempre più
approfonditi e più generali, e in fine risolutivi» (da: Luigi Puccianti, Storia
della fisica, Firenze, Felice Le Monnier, Fondamentali furono inoltre le sue
idee e riflessioni critiche sui concetti fondamentali della meccanica, in
particolare quelle sul movimento. Tralasciando l'ambito prettamente filosofico,
dopo la morte di Archimede, il tema del movimento cessò di essere oggetto di
analisi quantitativa e discussione formale allorché Gerardo di Bruxelles,
vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel suo Liber de motu riprese la
definizione di velocità, già peraltro considerata dal matematico del III secolo
a.C. Autolico di Pitane, avvicinandosi alla moderna definizione di velocità
media come rapporto fra due quantità non omogenee quali la distanza e il tempo
(cfr. Gerard of Brussels, "The Reduction of Curvilinear Velocities to
Uniform Rectilinear Velocities", edito da Clagett, in Grant, A Source Book
in Medieval Science, Cambridge (MA), Harvard University Press, e Mazur, Zeno's Paradox. Unraveling the
Ancient Mystery Behind the Science of Space and Time, New York/London,
Plume/Penguin Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da
Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il Saggiatore, Grazie al
perfezionamento del telescopio, che gli permise di effettuare notevoli studi e
osservazioni astronomiche, fra cui quella delle macchie solari, la prima
descrizione della superficie lunare, la scoperta dei satelliti di Giove, delle
fasi di Venere e della composizione stellare della Via Lattea. Per maggiori
notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica astronomica, Milano, Editore
Ulrico Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia della luce, IBologna, Nicola
Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico, un'ipotesi autenticamente
"eliocentrica" fu quella di Aristarco di Samo, poi sostenuta e
dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano invece,
contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è "eliostatico" ma non
"eliocentrico" (vedi nota seguente). Il sistema di Keplero, poi, non
è né "eliocentrico" (il Sole occupa infatti uno dei fuochi dell'orbita
ellittica di ciascun pianeta che gli ruota attorno) né "eliostatico"
(a causa del moto di rotazione del Sole attorno al proprio asse). La
descrizione newtoniana del sistema solare, infine, eredita le caratteristiche
cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto rotatorio del Sole) di quella
kepleriana ma spiega causalmente, tramite la forza di gravitazione universale,
la dinamica planetaria. ^ A proposito del modello copernicano: «È da notare
che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema [solare] non ruota intorno
ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale conserva ancora
un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di un sistema
eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G. Bonera, Dal sistema tolemaico
alla rivoluzione copernicana, E non più soggettiva, come era stata fino ad
allora condotta. ^ Secondo Giorgio Del Guerra, nella casa sita al n. 24
dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque
Galileo Galilei, Pisa, Tipografia Comunale. Verosimilmente, Galileo non dovette
avere buoni rapporti con la madre se non ricorda mai gli anni della sua
infanzia come un periodo felice. Il fratello Michelangelo ebbe occasione di
scrivere a questo proposito a Galileo, quasi augurandosene l'ormai imminente
dipartita: «[...] di nostra madre intendo, con non poca meraviglia, che sia
ancora così terribile, ma poiché è così discaduta, ce ne sarà per poco, sì che
finiranno le lite.» Un Tommaso Ammannati fu fatto cardinale da Clemente VII nel
1385, mentre il fratello Bonfazio Ammannati ottenne la porpora da uno dei
successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati
Piccolomini, cardinal, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e
autore di una Vita dei papi che è andata perduta. ^ Si ricorda un Tommaso
Bonaiuti, che fece parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di
Atene e un Galileo Bonaiuti, medico noto al suo tempo e gonfaloniere di
giustizia, il cui sepolcro nella Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei
suoi discendenti; a partire da Galileo Bonaiuti, il cognome della famiglia
cambiò in Galilei. ^ Così scriveva Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei: «per la
vostra ho inteso quanto havete concluso con il vostro figliuolo [Galileo]; et
come, volendo cercar di introdurlo qua in Sapienza, vi ritarda il non esser la
Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni buon pensiero; et che desiderate che
la si mariti, e quanto prima. Le considerationi vostre son buone, et io non ho
mancato né manco di far quell'opera che si ricerca; ma sino a qui son venuti
tutti partiti, per non dir obbrobriosi, poco aproposito per lei… Per
concludere, ardisco di dire che credo che la Bartolomea sia così casta come
qual si vogli pudica fanciulla; ma le lingue non si possono tenere; pure io
crederrò, con l'aiuto che do loro, di levar via tutti questi romori et farli
supire; per il che a quel tempo potrete facilmente mandare il vostro Galileo a
studio; et se non harete la Sapienza, harete la casa mia al vostro piacere,
senza spesa nessuna, et così vi offero et prometto, ricordandovi che le novelle
son come le ciriegie; però è bene credere quel che si vede, e non quel che si
sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente l'iscrizione doveva
avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi voleva andare in
un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500 scudi stabilita da
un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un ateneo diverso da
quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo testimonierebbe la coincidenza
di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli appunti di fisica abbozzati
da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del De motu del Bonamico. (In:
Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura filosofica e scientifica, La
filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle scienze, Milano, Bramante
Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato La bilancetta, circolato
prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel 1644 (Annibale Bottana,
Galileo e la bilancetta: un momento fondamentale nella storia dell'idrostatica
e del peso specifico, Firenze, Leo S. Olschki Editore). Studi riportati nel
Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato in appendice ai
Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla
meccanica e ai moti locali. ^ Galileo sottopose a Clavius una sua
insoddisfacente dimostrazione della determinazione del baricentro dei solidi.
(Lettera a Clavius). Giovanni de Medici aveva progettato una draga per il porto
di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando aveva chiesto una
consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò che non avrebbe
funzionato. Giovanni de Medici volle comunque costruire la draga che in effetti
non funzionò. (Giovan Battista de Nelli, Vita e commercio letterario di Galileo
Galilei, Losanna, con tale Benedetto Landucci che Galilei raccomandò a Cristina
di Lorena riuscendo a fargli ottenere nel 1609 il posto di pesatore al saggio;
il lavoro, consistente nel pesare gli argenti che venivano venduti, procurava
un guadagno di circa 60 fiorini. Lettera a Cristina di Lorena (Ed. Naz., Vol.
X, Lettera N., Alla dote per la sorella Livia avrebbe dovuto contribuire anche
il fratello Michelangelo. (Lettera a Michelangelo Galilei, Michelangelo... fu
versatissimo nella musica e la esercitò per professione; essendo stato buon
liutista non v'è dubbio che fosse allievo egli pure di suo padre Vincenzo. visse
in Polonia al servizio di un conte palatino; nel 1610 era a Monaco di Baviera
ove insegnava musica, e in una lettera datata del 16 agosto di quell'anno, egli
pregava il fratello Galileo, di acquistargli grosse corde di Firenze per suo
bisogno et dei suoi scolari...» (Dizionario universale dei musicisti, Milano,
Casa Editrice Sonzogno). Le spese per i viaggi in Polonia e Germania furono sostenute
da Galileo. Michelangelo appena sistematosi in Germania volle sposarsi con Anna
Chiara Bandinelli e, anziché saldare il debito per la dote che aveva con il
cognato Galletti, spese tutto il denaro che aveva in un lussuoso ricevimento
nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di veder che V.S. non sia trattata second'i
meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona speranza. Et
s'ella vorrà andar a Venetia questa state, io l'invito a passar di qua, che non
mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla; chè certo io
non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma, come saranno,
io le spenderò tutte in suo servitio. (Lettera di Guidobaldo Del Monte a Galilei.
In: Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. 35, Ancora vivente, Galileo fu ritratto da
alcuni dei più famosi pittori del suo tempo, come Santi di Tito, Caravaggio,
Domenico Tintoretto, Giovan Battista Caccini, Francesco Villamena, Ottavio
Leoni, Domenico Passignano, Joachim von Sandrart e Claude Mellan. I due
ritratti più famosi, visibili alla Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi
sono invece di Justus Suttermans che rappresenta Galileo ormai anziano come
simbolo del filosofo conoscitore della natura. (In "Portale Galileo")
^ Per moto «naturale» s'intende quello di un grave, ossia di un corpo in caduta
libera, diversamente dal moto «violento», che è quello di un corpo che sia
soggetto ad un «impeto». ^ L'esatta formulazione della legge è stata data da
Galileo nel successivo De motu accelerato: «Motum aequabiliter, seu
uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus
aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove l'accelerazione
di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al tempo e non allo spazio.
(Ed. Naz.) ^ Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva a Galileo, senza dar
credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo», sarebbe stata
osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere col vescovo
Antonio Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio
Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento,
Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e
Pensiero, «Nacque in Padova intorno al 1580. Poco più che ventenne professò i voti
nell’Ordine Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel
monastero di S. Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli,
insieme col quale fu discepolo di Galileo, prendendo le parti del Maestro nelle
questioni relative alla stella nuova dell’ottobre 1604.» (Da Museo Galileo). Usus
et fabrica circini cuiusdam proportionis, per quem omnia fere tum Euclidis, tum
mathematicorum omnium problemata facili negotio resolvuntur, opera & studio
Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis explicata. (In: Patauij, apud Petrum
Paulum Tozzium, 1607) ^ Alcuni calcoli astrologici, anche risalenti al periodo
fiorentino, furono conservati da Galileo e compaiono nel volume 19 dell'Opera
omnia (sezione "Astrologica nonnulla", pp. 205-220). Da notare che
per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche caso
accompagnati da interpretazioni o pronostici. ^ È stata ritrovata una lista
della spesa dove Galilei, insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di
acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il
suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Ottavio Brenzoni conservata nella Biblioteca Centrale di
Firenze) ^ Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani
all'imperatore pagano Flavio Claudio Giuliano che in punto di morte avrebbe
riconosciuto la vittoria del Cristianesimo: «Hai vinto o Galileo» riferendosi a
Gesù nativo della Galilea. ^ Il comportamento di Galileo è stato variamente
giudicato: vi è chi sostiene che egli le chiuse in convento perché «doveva
pensare a una loro sistemazione definitiva, cosa non facile perché, data la
nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio» (come se egli non
potesse legittimarle, come fece con il figlio Vincenzio e come se una
monacazione coatta fosse preferibile a un matrimonio non prestigioso; cfr.
Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla
rivoluzione scientifica a Hegel, Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri
ritengono che «alla base di tutto stava il desiderio di Galileo di trovare per
esse una sistemazione che non rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo
carico [...] tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr.
Ludovico Geymonat,). ^ «quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la
testa», avrebbe detto Cremonini secondo la testimonianza di Paolo Gualdo. (Da
una lettera del Gualdo a Galilei. Scheiner pubblicò ancora sull'argomento il De
maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La priorità della scoperta
andrebbe all'olandese Johannes Fabricius, che pubblicò a Wittenberg, il De
Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole conversione. Cioè con i
sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava infatti che una colonna
d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione del suo stesso peso,
così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in
alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata
sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.» (in IL VUOTO – Elisa
Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di Galileo, suor Maria
Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti, in una
sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che una
volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!"
(In Giuseppe Baretti, The Italian Library). Tale frase non è contenuta in alcun
documento contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per
il suo valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in
"Vita di Galileo", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano
alla quale egli si dedicò a lungo. ^ In Paschini è riportato che: «secondo le
norme del Sant'Offizio» questa condizione «era equiparata ad una prigionia per
quanto egli facesse per ottenere la liberazione. Si ebbe il timore
probabilmente ch'egli riprendesse a fare propaganda delle sue idee e che un perdono
potesse significare che il Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito di esse»
(cfr. pure Alceste Santini, "Galileo Galilei", L'Unità). Conceditur
habitatio in eius rure, modo tamen ibi in solitudine stet, nec evocet eo aut
venientes illuc recipiat ad collocutiones, et hoc per tempus arbitrio Suae
Sanctitatis.» (Ed. Naz.) ^ A Galileo era infatti proibito stampare qualunque
opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa corrispondenza si trovano in:
Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine, Gaspari editore, Antonio Favaro,
Amici e corrispondenti di Galileo Galilei, Alessandra Bocchineri, Venezia, Pubblicazioni
del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Valerio Del Nero, Galileo
Galilei e il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini, Galileo: tra
scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, 2008, p. 150 e sgg.;
Geymonat, Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani, Banfi, «Galileo fu invitato alla villa di
S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di luglio del 1630, ospite
di Giovanni Francesco Buonamici, che con lo scienziato vantava una parentela da
parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei, Sestilia, aveva
sposato a Prato l'anno prima il figlio di Galileo, Vincenzo.» (In Comune di
Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo Vincenzo Viviani
e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli. ^ «La prego a condonare
questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio con
affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere suo Consorte.»
(In Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società
Editrice Fiorentina, 1848, p. 368) Anfossi pubblicava–anonimamente–in Roma un
libro in cui le leggi di Keplero e di Newton erano presentate come «cose che
non meritano la menoma attenzione» e si chiedeva come mai «tanti uomini santi»
ispirati dallo Spirito Santo, «ci han detto ottanta e più volte che il Sole si
muove senza dirci una volta sola che è immobile e fermo?» (Sebastiano
Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Firenze, G.C. Sansoni, L'edizione
curata da Favaro si basava sulle copie allora disponibili, perché l'originale
non era stato ritrovato (Avvertimento. Il manoscritto originale è stato
scoperto nell'agosto 2018 e pubblicato come appendice a Michele Camerota,
Franco Giudice, Salvatore Ricciardi, "The reapparance of Galileo's
original letter to Benedetto Castelli". L'effetto di parallasse stellare,
che dimostra la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sarà misurato da
Friedrich Wilhelm Bessel solo nel 1838. Per il testo della condanna, vedi:
Sentenza di condanna di Galileo Galilei, su it.wikisource.org. Per il testo
dell'abiura, vedi: Abiura di Galileo Galileisu it.wikisource.org. ^ Questa
frase è stata citata in un intervento molto criticato di Joseph Ratzinger (cfr.
"La crisi della fede nella scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e
modernità nell'Europa dei rivolgimenti, Roma, Edizioni Paoline. Ratzinger
aggiunge da parte sua che: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste
affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal
risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale
affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho
voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio
della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica.» ^ Già
chiaramente indicati nella Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di
Toscana. L'Accademia del Cimento, fra le più antiche associazioni scientifiche
al mondo, fu la prima a riconoscere ufficialmente, in Europa, il metodo
sperimentale galileano. Fu fondata a Firenze da alcuni allievi di Galileo,
Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani. Si lasci alla storiografia
stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto inerziale
unicamente come circolare [...] o se ammettesse anche la possibilità in natura
della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in Galileo non
si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se
fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune
considerazioni preliminari al principio della relatività del moto.» Portale
Galileo, su portalegalileo.museogalileo.it.Testi non compresi nella prima
edizione dell'Edizione Nazionale curata da Antonio Favaro, ma in quella curata
da William F. Edwards e Mario G. Helbing, con Introduzione, Note e Commenti di
William A. Wallace, per Le opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale,
Appendice al Volume III: Testi, Firenze, G.C. Giunti. Bibliografiche
Abbagnano, Albert Einstein, Leopold Infeld, L'evoluzione della fisica. Sviluppo
delle idee dai concetti iniziali alla relatività e ai quanti, Torino, Editore
Boringhieri, Mario Gliozzi, "Storia del pensiero fisico", in: Luigi
Berzolari (a cura di), Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi,
Vol. III, Parte II, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Paolo Straneo, Le teorie
della fisica nel loro sviluppo storico, Brescia, Morcelliana, Giuliano Toraldo
di Francia, L'indagine del mondo fisico, Torino, Giulio Einaudi editore, George
Gamow, Biografia della fisica, Biblioteca della EST, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, Max Born, La sintesi einsteiniana, Torino, Editore Boringhieri, Natalino
Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, La Nuova
Italia Editrice, Centro di Studi Filosofici di Gallarate (a cura di),
Dizionario dei Filosofi, Firenze, G.C. Sansone Editore, Ludovico Geymonat (a
cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Aldo Garzanti
Editore, Ludovico Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Biblioteca
della EST, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Federigo Enriques, Giorgio De
Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico, dall'antichità fino
ai tempi moderni, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, Renato Pettoello, Leggere
Kant, Brescia, Editrice La Scuola, 2014, Cap. III, § 6. ^ David Lerner (a cura
di), Qualità e quantità e altre categorie della scienza, Torino, Editore
Boringhieri, Pietro Redondi, Galileo eretico, Roma-Bari, Editori Laterza, 2009.
^ Sentenza di condanna di Galileo. Giovanni Paolo II. Vaticano, discorsi,
Discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia
delle scienze, su w2.vatican.va, 31 ottobre Tullio Regge, Cronache
dell'universo. Fisica moderna e cosmologia, Torino, Editore Boringhieri, La
dimora natale di Galileo: l’enigma delle tre case, William Shea, La Rivoluzione
scientifica–I protagonisti: Galileo Galilei, in: Storia della Scienza Treccani,
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la fabrica & gli usi del compasso geometrico & militare sotto il titolo
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galileiana di scienze, lettere ed arti Arcetri Astronomia Bibliografia su
Galileo Galilei Cannocchiali di Galileo Casa di Galileo Galilei Domus
Galilaeana Fisica Galilei (famiglia) Isocronismo La favola dei suoni Meccanica
Metodo scientifico Micrometro di Galileo Museo Galileo Niccolò Copernico
Ostilio Ricci Processo a Galileo Galilei Relatività galileiana Rivoluzione
astronomica Rivoluzione scientifica Termometro galileiano Trasformazione
galileiana Villa Il Gioiello Vincenzo Galilei Virginia Galilei Vita privata di
Galileo Galilei. Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
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Archivio integrato di risorse galileiane, su galileoteca.museogalileo.it. Museo
Galileo – Firenze, Italia, su museogalileo.it. Conserva gli strumenti
scientifici originali di Galileo European Cultural Heritage Onlinesu
echo.mpiwg-berlin.mpg.de. Scheda su Galileo Galilei accademico della Crusca sul
sito dell'Accademia, su adcrusca.it.Fondo "Antonio Favaro", su
domusgalilaeana.it. Archivio "Scienza & Fede", su disf.org.
Laboratorio storico "G. Galilei", su
illaboratoriodigalileogalilei.it. Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose
più serie che non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della
superiorità è il sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo
preannunziò la scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di
ceva essere stata la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta
dessero qualche vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il
poeta: esatte premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il
pensiero è una catena e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete
Galilei e Keplero e avrete soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete
Copernico, e li avrete soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle
univer sità italiane e sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie
di grandi pensieri che furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento
all' anglo. Un fatto può essere occasionale, ma per quegli uomini che portano
nel cervello quella preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e
lo trasforma. Così nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To
gliete Bruno e Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete
tutti. Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già
greca di origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova
della cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur
dove la reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione
il libro della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe,
che aveva già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di
reagire trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero
mandava ad uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante
maledizioni gli erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e
di Roma, era nel tempo istesso tirato dalla logica a prendere da Machiavelli la
teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica
de'fini pubblici da Dante e da Petrarca, ispirati — alla loro volta
—dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare nella serie, come
appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti principii della
rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai sistemide'quali l'uno
suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo, ma alle singole teo
riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che non sia una
conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti, la critica di
Galilei? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama filosofo
telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato il metodo
sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da Aristotile
tra materia e forma, come Pomponazzi e Campanella avevano troncato il dualismo
tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un gruppo, è una catena
nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente, e tutti insieme
presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il risorgimento fu
naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata europea. Se dalla
serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di Galilei, vi
accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di un
improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche astro
e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per quale
via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà volgare
ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore non
alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una ad
una le pre messe di Galilei e di Klepero per arrivare sino a Newton? che
io voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre
emerse la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle
rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite
abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa?
Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non
imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive
snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si
allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. 216 senza guastare la
serie, debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo
sommo e scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese Galilei il
metodo sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3.
° Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è
poco, e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la
quale voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente.
II. « Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo
il metodo sperimentale: » Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma
vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento
e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che
presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere
che è veramente me todo sperimentale. Galilei si trova a pari distanza tra
Telesio e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire
nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da Vinci,
che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle cose
reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di Bacone,
diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di Ga lilei? Ecco il punto. E la
risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio e
Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche
ipotesi, è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e Galilei
comincia dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio
stesso delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica
—dice Bacone. La matematica è reale come le cose afferma Galilei. Con la
matematica sei arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro
Galilei. E la terra gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza
Bacone. Stolto ! dice Galilei -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta
e la terra continua il suo giro. 217 Ma chi ti malleva la realtà della
matematica? Il fatto stesso che misuratamente si move, misuratamente per corre
il tempo e lo spazio, nella misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta.
- La misura è: io la colgo: chi non la coglie non vede il fatto. Telesio non lo
dice. Leonardo lo disse, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a
voi è stato muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi
dire che sia l'istesso metodo? Fu Bacone l'anglo che intese Galilei o un altro?
Quando si parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere
tutto il fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due
termini s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la
qualità si quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è
l'evoluzione, e la legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la
causalità, che in Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto
dunque non è fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così Galilei lo intuisce e
così lo intuisce intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto.
L'esperienza che in Galilei è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che
in Galilei è sperimentale, in Bacone diventa empirico; e quel processo che
nell'uno è fecondo di scoperte, nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un
bel rimuovere Bacone tutti quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli
rimane fisso l'idolo peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da
Vinci notando nel fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi
precetti e con effetti amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla
meccanica, e specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si
ripeta pure che in Galilei l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto
contemporaneo ci deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di
Copernico, senza il metodo speri mentale e il teloscopio di Galilei, e senza il
calcolo superiore di Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle
medesi me anzi a più larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo
tedesco, nell'italiano e nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a
Klepero e furono trovate poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da
solo, non valse altrettanto che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato
induceva computando, il genio non poteva co struire? L'esempio di Bruno, non
bene inteso, potrebbe inficiare la cri tica di Galilei, nè per il genio vale
ricorrere ad eccezioni, che com plicano la quistione e non spiegano nulla. Il
vero è che Bruno intese il fatto e l'esperienza come Galilei, e movendo dal
medesimo punto, l'uno giunse con la logica dove l'altro con la matematica. La
conseguenza è che la matematica è la logica delle cose, e che se rispetto alla
mente, come dice Leibintz, pensare è calcolare, rispetto alle cose moversi
misurata mente vuol dire evolversi razionalmente. Bruno è la riprova, non
l'eccezione. Appena, infatti, il nolano intese il sistema copernicano,
n'esultò, cercò alla matematica la riprova della logica, e come Campanella
scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di Copernico. Era dal medesimo punto
di partenza la medesimezza del pensiero logico e del pensiero matematico, con
medesimezza di disegno e di effetti. E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la
medesima cosa, cioè costruire la fisica col pensiero, come il nolano,
introducendovi la matematica, come Galilei, e perchè egli riuscì a costruire
una fi sica falsa, disconoscendo Bruno in tutto e in gran parte il disegno di
Galilei? Perchè egli non muove come que due dal fatto, bensì dall'idea astratta,
dal puro cogito, che non è la cosa, ma l'ombra della cosa, e l'ombra ei tratta
come cosa salda. Perciò non solo non giunse per forza di logica, agl’infiniti
mondi del nolano, ma nep pure per forza di matematica a riconoscere
l'importanza del siste ma eliocentrico dimostrato da Copernico e da Galilei.
Bacone errò, mutilando il fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio errò,
correndo dietro l'ombra del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde
nell'empirismo l'altro nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di
avere insistito sulla indu zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di
aver convertito la qualità in quantità, e la quantità continua nella discreta.
Ma l'uno e l'altro, non avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero
nulla alla scienza della natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia
degli scopritori - ne gata a Bacone - nomina Galilei, Klepero, Newton. E perchè
non ricorda Bruno? Quanta non è la sua gioia dove saluta le comete come
testimoni della sua filosofia, e parlando di Copernico, ag giunge qualche
felicità essere toccata al secolo suo, quando dai 219 lidi dell'oceano
germanico un grande astronomo sorse a con forto della sua filosofia. In quella
gioia c'è — come ho detto— l’unità del pensiero logico col matematico, e nella
medesimezza de' risultati c'è la cognatela tra la natura e il pensiero, la
quale vuol essere riaffermata, supe rando da una parte il vecchio idealismo
metafisico e dall'altra il positivismo empirico. Ed ora, dopo il metodo
sperimentale, dobbiamo esaminare in Ga lilei il valore che egli dà alla
conoscenza. III. Non è di piccolo momento questo esame; involge il massimo pro
blema della filosofia ed è un punto importante della mente, e dirò, del
carattere di Galilei. Si può formularlo così: Il metodo speri mentale condusse
Galilei a quel relativismo filosofico che dà alla conoscenza un valore precario,
cioè o relativo al soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un certo tempo e
luogo (empirismo)? In altre parole: per Galilei nulla di permanente, di
assoluto, di uni versale entra nella conoscenza, o c'è invece delle conoscenze
che per loro necessità intrinseca s' impongono a tutti gli uomini, e alla
natura come agli uomini, e a Dio come alla natura? Ci sono— risponde il Pisano
- e il fatto ci dice che sono, e ci dice che sono le conoscenze matematiche
sian pure o applicate, perchè non mutano per variare di luogo e di tempo, e
perchè tali si riscontrano nelle cose quali si trovano nella mente. La natura
le impone, la mente le sugella, neppur Dio potrebbe negarle, ma o il sofista o
il pazzo. L'affermazione è solenne, e bisogna lasciargli la parola. Quanto alla
verità, egli dice di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella
è l'istessa che conosce la sapienza divina. Nessun divario, dunque, in questo
tra la sapienza divina e umana? Di vario di modo, egli dice, lo ammettiamo,
perchè in Dio è sapienza intuitiva quella che nell'uomo è discorsiva; di numero
pure, perchè Dio le sa tutte quelle verità, e l'uomo una parte; ma di necessità
no: sono del pari necessarie per lui e per noi, e mille Demosteni e Aristotili
e-voleva dire—mille Dei non potrebbero scemare la certezza di una sola di
quelle. Partecipa di questa certezza la scienza della natura, le cui leggi sono
matematiche. E il processo fu questo: Telesio affermò che il 220 libro della
filosofia è la natura; Bruno aggiunse che quel libro è scritto in carattere
assoluti: Galilei conchiuse che i caratteri sono matematici. Anche Cartesio
disse come Galilei: Apud me omnia sunt ma thematice in natura; ma lo disse dopo
e timidamente, essendoci questa differenza tra’due pensatori, che per Galilei
le verità mate matiche leggibili nella natura hanno l'istesso valore per la
mente sia divina o umaņa, e per Cartesio niente è limite alla onnipotenza di
Dio, neppure il principio di contraddizione. Se lo disse davvero o per vivere
tranquillo, specialmente dopo le persecuzioni fatte a Galilei, non - so; ma,
certo, l'italiano lo a vanza di tempo e di fermezza. Delle altre scienze che
non sono le naturali Galilei dubitò, perchè si sottraggono alle matematiche e
l'uomo vi mette del suo. Le abbandonò al relativismo. Ma se tutto è evoluzione
e tutto procede da natura, noi ben pos siamo affermare che i suoi Dialoghi
delle Scienze Nuove saranno quasi prefazione di una Scienza Nuova intorno alla
comune natura delle nazioni. Le teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica
sociale hanno assai allargato il campo di applicazione alle matematiche. Noi, è
vero, non possiamo mutare le leggi naturali, ma possiamo forse mutare le leggi
sociali e costruire a nostro talento le società umane? La storia non rientra
ogni giorno più nelle leggi della natura e però della misura? La morale par
certo la cosa più im ponderabile, ed è pure altrettanto graduale e necessaria
nel suo processo che il suo moto si potrebbe dire uniformemente accelerato. Dal
pensiero si traduce nella volontà, dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal
fastigio all ' imo (1 ). Signori, ho esaminato quelli che nella scienza di
Galilei mi parevano i punti principali ed ho tentato liberare dagli equivoci
volgari il metodo sperimentale. Non a pompa letteraria mi sono giovato di
rapidi raffronti ma per delineare quello che fu il cervello più equilibrato di
quanti al mondo furono scienziati. Le conse guenze scientifiche e morali di
quella profonda rivoluzione intel lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio
nazionale e con pura coscienza di uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di
pensiero, di (1 ) Qui manca qualche pagina intorno all'applicazione delle
matematiche ai fenomeni sociali e morali, non potuta trovare. 221 poesia, di storia,
di gloria e di dolori che a me non che il tempo, mancò il volere di divagare.
Abbasserei l'occhio da Telesio, da Co pernico, da Galilei per posarlo sulla
politica? Farei allusioni, rim proveri, programmi? Mail monumento che divisate
è mondiale; una sillaba aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per
rien trare nella mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve
fortuna che ci solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i
nostri codici, i nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che
sapienza di fronte alle leggi onde Galilei sta biliva il ritmo dei cieli,
Machiavelli la vicenda degli Stati, e Vico il corso dell'umanità? C'è qualcosa
al di sopra dei codici ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che
lasciano libri sacri e parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette
nella pagina più au tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno
c'è stato che senza chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di
stelle, la pose nel firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo
che vi trasmette un libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e
non mi chiedete altro. The principle of relativity states that it is im-
possible to determine whether a system is at rest or moving at constant speed
with respect to an inertial system by experiments internal to the system, i.e.,
there is no internal observation by which one can distinguish a system moving
uniformly from one at rest. This principle played a key role in the defence of
the heliocentric syst- em, as it made the movement of the Earth com- patible
with everyday experience. According to common knowledge, the prin- ciple of
relativity was first enunciated by Galileo Galilei (1564–1642; Figure 1) in
1632 in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning
the Two Chief World Syst- ems) (Galilei, 1953), using the metaphor known as
‘Galileo’s ship’: in a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena
can be described by the same laws holding on Earth. Many historical aspects of
the birth of the rel- ativity principle have received little or scattered
attention. In this short paper we put together some evidence showing that
Giordano Bruno (1548–1600; Figure 2) largely anticipated Gal- ilei’s arguments
on the relativity principle (Bruno, 1975). In addition, we briefly discuss
Galilei’s silence about Bruno, and the con- nection between the lives and
careers of the two scientists. Figure 1: A portrait of Galileo Galilei by
Ottavio Leoni (en.wikipedia.org). Figure 2: An eighteenth century egrav- ing of
Giordano Bruno (http://www. the history blog . com / wp - content / up-
loads/2012/02/bruno-giordano.jpg). Page 241
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the
Principle of Relativity The Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo
is the source usually quoted for the enun- ciation of the principle of
relativity by Galileo Galilei. However, its publication in 1632 was certainly
not a surprise, as Galilei had expres- sed his views much earlier, in
particular when lecturing at the University of Padova from 1592 to 1610. Some
aspects of the evolution of Galilei’s ideas, from the Trattato della Sfera ...
(D’Aviso, 1656) in which the Earth is still placed at the centre of the
Universe, towards the Dia- logo, and passing through his heliocentric cor-
respondence with Kepler from 1597 onwards (Galilei, 1890 –1907), are examined,
for ex- ample, by Barbour (2001), Crombie (1996), Cla- velin (1968), Giannetto
(2006), Martins (1986) and Wallace (1981; 1984). In February 1616, the Roman
Inquisition condemned the theory by Nicolaus Copernicus (1473–1543) as being
foolish and absurd in philosophy. One month before, the inquisitor Monsignor
Francesco Ingoli (1578 –1649) ad- dressed Galilei in the essay Disputation Con-
cerning the Location and Rest of Earth Against the System of Copernicus
(Ingoli, 1616). This letter listed both scientific and theological arg- uments
against Copernicanism. Galilei only responded in 1624, and in his lengthy reply
he introduced an early version of the ‘Galileo’s ship’ metaphor, and discussed
the experiment of dropping a stone from the top of the mast. Both arguments, as
we shall see, had previously been raised by Bruno, and later were used again by
Galilei, although with small differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra
i Due Massimi Sistemi del Mondo, Galilei discusses the arguments then current
against the idea that the Earth moves. The book is a fictional dialogue be-
tween three characters. Two of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in
the ok that disappeared a few years after the publication of the book. Salviati
plays the role of the defender of the Copernican theory, putting forward Gali-
lei’s point of view. The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat
who is educated and liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he
acts as a moderator between Salviati and the third character, Simplicio, who
fiercelysupportsAristotle. Thenameofthislast character (reminiscent of
‘simple-minded’ in Ital- ian) is in itself a clear indication of Galilean dia-
lectics, which are designed to destroy oppon- ents. Despite being a famous
commentator of Aristotle, Simplicio manifests himself with an embarrassing
simplicity of spirit. Galilei uses Salviati and Simplicio as spokespersons for
the two clashing world views; Sagredo represents the discreet reader, the
steward of science, the one to whom the book is addressed, and he intervenes
during the discussions, asking for clarification, contributing conversational
topics and acting like a science enthusiast. On the second day, Galilei’s
dialogue con- siders Ingoli’s arguments against the idea that the Earth moves.
One of these is that if the Earth is spinning on its axis, then we would all be
moving eastward at hundreds of miles per hour, so a ball dropped from a tower
would land west of the tower that in the meantime would have moved a certain
distance to the east- wards. Similarly, the argument goes that a cannonball
shot eastwards would fall closer to the cannon compared to a ball shot to the
west since the cannon moving east would partly catch up with the ball. To
counter such arguments Galilei propos- es through the words of Salviati a
gedanken- experiment: to examine the laws of mechanics in a ship moving at a
constant speed. Salviati claims that there is no internal observation which
allows them to distinguish between a smoothly-moving system and one at rest. So
two systems moving without acceleration are equivalent, and non-accelerated
motion is rel- ative: Salviati – Shut yourself up with some friend in the main
cabin below decks on some large ship, and have with you there some flies, but-
terflies, and other small flying animals. Have a large bowl of water with some
fish in it; hang up a bottle that empties drop by drop into a
widevesselbeneathit. Withtheshipstanding still, observe carefully how the
little animals fly with equal speed to all sides of the cabin. The fish swim
indifferently in all directions; the drops fall into the vessel beneath; and,
in throwing something to your friend, you need throw it no more strongly in one
direction than another, the distances being equal; jumping with your feet
together, you pass equal spaces in every direction. When you have observed all
these things carefully (though doubtless when the ship is standing still
everything must happen in this way), have the ship proceed with any speed you
like, so long as the motion is uniform and not fluctuating this way and that.
You will discover not the least change in all the effects named, nor could you
tell from any of them whether the ship was moving or standing still. In
jumping, you will pass on the floor the same spaces as before, nor will you
make larger jumps toward the stern than toward the prow even though the ship is
moving quite rapidly, despite the fact that during the time that you are in the
air the floor under you will be going in a direction opposite to your jump. In
throwing something to your companion, you will need no more force to get it to
him whether he is in the direction of the bow or the stern, with yourself
situated op- posite. The droplets will fall as before into the Page 242
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno
and the Principle of Relativity vessel beneath without dropping toward
the stern, although while the drops are in the air the ship runs many spans.
The fish in their water will swim toward the front of their bowl with no more
effort than toward the back, and will go with equal ease to bait placed any-
where around the edges of the bowl. Finally the butterflies and flies will
continue their flights indifferently toward every side, nor will it ever happen
that they are concentrated toward the stern, as if tired out from keeping up
with the course of the ship, from which they will have been separated during
long intervals by keeping themselves in the air. And if smoke is made by
burning some incense, it will be seen going up in the form of a little cloud,
remaining still and moving no more toward one side than the other. The cause of
all these correspondences of effects is the fact that the ship’s motion is
common to all the things contained in it, and to the air also. That is why I
said you should be below decks; for if this took place above in the open air,
which would not follow the course of the ship, more or less noticeable
differences would be seen in some of the effects noted. (Galilei, 1953: 217).
Note that Galilei does not state that the Earth is moving, but that the motion
of the Earth and the motion of the Sun cannot be distinguished (hence the name
‘relativity’): There is one motion which is most general and supreme over all,
and it is that by which the Sun, Moon, and all other planets and fixed stars –
in a word, the whole universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as
a unit from East to West in the space of twenty-four hours. This, in so far as
first appearances are concerned, may just as logically belong to the Earth
alone as to the rest of the Universe, since the same appear- ances would
prevail as much in the one sit- uation as in the other. (Galilei, 1953:
132). The possibility that the Earth
moves had been discussed several times, in particular by the Greeks, mostly as
a hypothesis to be rejected. Also an annual motion of the Earth around the Sun
had been considered by Aristarchus of Samos (c. 310 – c. 230 BC). Later, some
medi- eval authors discussed the possibility of the Earth's daily rotation. The
first was probably Jean Buridan (c. 1300–1361; Figure 3), one of the ‘doctores
parisienses’—a group of profes- sors at the University of Paris in the
fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s example of the
ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and Galilei, is con- tained in
Book 2 of his commentary about Aris- totle’s On the Heavens (1971): It should
be known that many people have held as probable that it is not contradictory to
appearances for the Earth to be moved circu- larly in the aforesaid manner, and
that on any given natural day it makes a complete rotation from west to east by
returning again to the west – that is, if some part of the Earth were
designated [as the part to observe]. Then it is necessary to posit that the
stellar sphere would be at rest, and then night and day would result through
such a motion of the Earth, so that motion of the Earth would be a diurnal
motion. The following is an example of this: if anyone is moved in a ship and
imagines that he is at rest, then, should he see another ship which is truly at
rest, it will appear to him that the other ship is moved. This is so because
his eye would be completely in the same relationship to the other ship
regardless of whether his own ship is at rest and the other moved, or the
contrary situation prevailed. And so we also posit that the sphere of the Sun
is totally at rest and the Earth in carrying us would be rotated. Since,
however, we imag- ine we are at rest, just as the man on the ship Figure 3:
Jean Buridan (www.buscabio- grafias . com / biografia / verDetalle / 576 / Jean
%Buridan). moving swiftly does not perceive his own mo- tion nor that of the
ship, then it is certain that the Sun would appear to us to rise and set, just
as it does when it is moved and we are at rest. (Buridan, 1942: Book 2,
Question 22). Here we agree with Barbour (2001), that what Buridan is referring
to is kinematic relativity. To Barbour, ... we have [here] a clear statement of
the principle of relativity, certainly not the first in the history of the
natural philosophy of motion but perhaps expressed with more cogency than ever
before. The problem of motion is beginning to become acute. We must ask our-
selves: is the relativity to which Buridan refers kinematic relativity or
Galilean relativity? There is no doubt that it is in the first place kinematic;
for Buridan is clearly concerned with the condi- tions under which motion of
one particular body can be deduced by observation of other bod- ies. (Barbour,
2001: 203). Page 243 Alessandro De Angelis and
Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity
Later, Buridan (1942) writes: But the last appearance which Aristotle notes is
more demonstrative in the question at hand. This is that an arrow projected
from a bow directly upward falls to the same spot on the Earth from which it
was projected. This would not be so if the Earth were moved with such velocity.
Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from which the arrow was
projected would be a league’s distance away. But still supporters would respond
that it happens so because the air that is moved with the Earth carries the
arrow, although the arrow appears to us to be moved simply in a straight line
motion because it is being carried along Figure 4: A miniature portrait of
Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du ciel et du
monde (n.d.) (en.wikipedia.org). with us. Therefore, we do not perceive that
motion by which it is carried with the air. Buridan already expresses some
concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that ... the
violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral motion of
the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar to
the occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro-
jected upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it
would be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to
the limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor
with a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a
few years later by Nicole Oresme (c. 1320 –1382; Figure 4). Oresme first states
that no observation can disprove that the Earth is moving: ... one could not
demonstrate the contrary by any experience ... I assume that local motion can
be sensibly perceived only if one body appears to have a different position
with re- spect to another. And thus, if a man is in a ship called a which moves
very smoothly, irrespective if rapidly or slowly, and this man sees nothing except
another ship called b, moving exactly in the same way as the boat a in which he
is, I say that it will seem to this person that neither ship is moving.
(Oresme, 1377; our English translation). Oresme also provides an argument
against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or stone in the
original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle of composi-
tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up- wards is moved
eastward very swiftly with the air through which it passes, with all the mass
of the lower part of the world mentioned above, which moves with a diurnal
movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the Earth
from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man were
on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his movement,
and he drew his hand downwards, describing a straight line along the mast of
the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down. Following
this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow moving straight
down or straight up. Inside the ship moving in this way, one can have
horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of movement, and
all look like if the ship were at rest. And if a man walks westwards in the
boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to him that he is
moving west while he is going east. (ibid.). Also, Nicolaus Cusanus (1401–1461)
stated later, without going into detail, that the motion of a ship could not be
distinguished from rest on the basis of experience, but some different argu-
ments need to be invoked—and the same ap- plies to the Earth, the Sun, or
another star (Cu- sanus, 1985). All this happened before Copernicus: a dis-
cussion of how things could be, not so much abouthowthingsreallyare.
Thisviewpointwould change after Copernicus.
In April 1583, forty years after the publication of the book by
Copernicus and nine years before Page 244 Alessandro
De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of
Relativity the 28-year old Galilei was called to the Uni- versity of
Padova, Bruno went to England and lectured in Oxford, unsuccessfully looking
for a teaching position there. Still, the English visit was a fruitful one, for
during that time Bruno completed and published some of his most important
works, the six ‘Italian Dialogues’, including the cosmological work La Cena de
le Ceneri (The Ash Wednesday Supper, 1584) (see Bruno, 1975). This latter book
consists of five dialogues between Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s
theories; Smitho, a character who was probably real but is difficult to
identify, possibly one of Bruno’s English friends (perhaps John Smith or the
poet William Smith)—the English- man has simple arguments, but he has good
common sense and is free of prejudice; Pru- dencio, a pedantic character; and
Frulla, also a fictional character who, as the name in Italian suggests,
embodies a comic figure, provocative and somewhat tedious, with a propensity
to- wards stupid arguments. In the third dialogue, the four mostly com- ment on
discussions heard at a supper attend- ed by Theophilus in which Bruno—called in
the text ‘il Nolano’ (the Nolan), because he was born in Nola near Naples—was
arguing in part- icular with Dr Torquato and Dr Nundinio, re- presenting the
Oxonian faculty. Bruno starts by discussing the argument relating to the air,
winds and the movement of clouds, and he largely uses the fact that the air is
dragged by the Earth: Theophilus ... If the Earth were carried in the direction
called East, it would be necessary that the clouds in the air should always
appear moving toward west, because of the extremely rapid and fast motion of
that globe, which in the span of twenty-four hours must complete such a great
revolution. To that the Nolan replied that this air through which the clouds
and winds move are parts of the Earth, be- cause he wants (as the proposition
demands) to mean under the name of Earth the whole machinery and the entire animated
part, which consists of dissimilar parts; so that the rivers, the rocks, the
seas, the whole vaporous and turbulent air, which is enclosed within the high-
est mountains, should belong to the Earth as its members, just as the air does
in the lungs and in other cavities of animals by which they breathe, widen
their arteries, and other similar effects necessary for life are performed. The
clouds, too, move through happenings in the body of the Earth and are based in
its bowels as are the waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said
that we inhabit the con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we
have the same relation with respect to animals that live above the Earth, as do
in re- spect to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in
a way the vaporous air is water, and that the pure air which contains the
happier animals is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is
water for us, this air of ours is water for them. This is how one may respond to
the argument referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface,
but in the bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids,
is within us, that turbulent air is not outside, but is as if it were in the
lungs of animals. (Bruno, 1975: 117). The Dialogue then moves to discussing the
motion of projectiles, and Bruno starts by ex- plaining the Aristotelian
objection to the stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most
suffic- iently, and you have excellently opened many secrets of nature which
lay hidden under that key. Thus, you have replied to the argument taken from
winds and clouds; there remains yet the reply to the other argument which
Aristotle submitted in the second book of On the Heavens2 where he states that it
would be impossible that a stone thrown high up could come down along the same
perpendicular straight line, but that it would be necessary that the
exceedingly fast motion of the Earth should leave it far behind toward the
West. Therefore, given this projection back onto the Earth, it is necessary
that with its motion there should come a change in all relations of
straightness and obliquity; just as there is a difference between the motion of
the ship and the motion of those things that are on the ship which if not true
it would follow that when the ship moves across the sea one could never draw
something along a straight line from one of its corners to the other, and that
it would not be possible for one to make a jump and return with his feet to the
point from where he took off. (Bruno, 1975: 121). In Theophilus’ speech, Bruno
then gives the following reply (in reference to the ship shown in Figure 5):
Theophilus – With the Earth move ... all things that are on the Earth. If,
therefore, from a point outside the Earth something were thrown upon the Earth,
it would lose, because of the latter’s motion, its straightness as would be
seen on the ship AB moving along a river, if someone on point C of the
riverbank were to throw a stone along a straight line, and would see the stone
miss its target by the amount of the velocity of the ship’s motion. But if
some- one were placed high on the mast of that ship, move as it may however
fast, he would not miss his target at all, so that the stone or some other
heavy thing thrown downward would not come along a straight line from the point
E which is at the top of the mast, or cage, to the point D which is at the
bottom of the mast, or at some point in the bowels and body of the ship. Thus,
if from the point D to the point E someone who is inside the ship would throw a
stone straight up, it would return to the bottom along the same line however
far the ship mov- Page 245 Alessandro De Angelis and
Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity
ed, provided it was not subject to any pitch and roll. (Bruno, 1975: 121). He
then continues with the statement that the movement of the ship is irrelevant
for the events occurring within the ship, and he explains the reasons for this:
If there are two, of which one is inside the ship that moves and the other
outside it, of which both one and the other have their hands at the same point
of the air, and if at the same place and time one and the other let a stone
fall without giving it any push, the stone of the former would, without a
moment’s loss and without deviating from its path, go to the prefixed place,
and that of the second would find itself carried backward. This is due to
nothing else except to the fact that the stone which leaves the hand of the one
supported by the ship, and consequently moves with its mo- tion, has such an
impressed virtue, which is not had by the other who is outside the ship, Figure
5: The ship referred to in the dialogue; note that the letters are missing
(math.dartmouth.edu). because the stones have the same gravity, the same
intervening air, if they depart (if this is possible) from the same point, and
arc given the same thrust. From that difference we cannot draw any other
explanation except that the things which are affixed to the ship, and belong to
it in some such way, move with it: and the stone carries with itself the virtue
of the mover which moves with the ship. The other does not have the said
participation. From this it can evidently be seen that the ability to go straight
comes not from the point of motion where one starts, nor from the point where
one ends, nor from the medium through which one moves, but from the efficiency
of the originally impressed virtue, on which depends the whole differ- ence.
And it seems to me that enough consid- eration was given to the propositions of
Nun- dinio. (Bruno, 1975: 123). The experiments carried out in the ship are
thus not influenced by its movement because all the bodies in the ship take
part in that move- ment, regardless of whether they are in contact with the
ship or not. This is due to the ‘virtue’ they have, which remains during the
motion, after the carrier abandons them. Bruno thus clearly expresses the
concept of inertia, using the word ‘virtu`’, in Italian meaning ‘quality’,
which is carried by the bodies moving with the ship—and with the Earth. Bruno’s
arguments certainly constitute a step towards the principle of inertia. We have
seen that in La Cena de le Ceneri Giordano Bruno anticipates to a great extent
the arguments of Galileo Galilei on the principle of relativity. In fact, his
explanation contains all of the fundamental elements of the principle. The idea
that the only movement observable by the subject is the one in which he does
not take part, was presented earlier by Jean Buridan and Nicole Oresme,
together with the notion of the composition of movements, which was alien to
Aristotelian mechanics (see Barbour, 2001). Sim- ilar arguments were used by
Nicholas Copern- icus (1543). The main missing ingredient was the idea of
inertia, which explains the fact that projectiles move along with the Earth. In
fact, while there is a continuous line between Buri- dan, Oresme, Copernicus,
Bruno and Galilei, the arguments of Bruno on the impossibility of detecting
absolute motion by phenomena in a ship constitute a significant step towards
the principle of inertia and providing a dynamical context for relativity. What
is new in Bruno, and what brings him almost exactly to where Galilei stood, is
a clear understanding of the concept on inertia. The arguments and metaphors
used in dis- cussions concerning the world systems were common to different
authors, and were largely derived from Aristotle, Ptolemy and their com-
mentators. Often they were used without ref- erencing, and sometimes they were
attributed to the wrong source. For example, in his On the Heavens, Aristotle
uses as experimental argu- ment the one about the stone that is sent upwards.
In their comment on this work, Bur- idan and Oresme used a modified version of
this experiment in which an arrow is sent upwards in a ship—although this was
possibly introduced by an earlier unidentified commentator/translator.
Nevertheless, the description by Galilei of exact- ly the same ship experiment
that Bruno used in the Cena makes it very likely that Galilei knew this work.
The use of the dialogue form with a similar choice of characters can also be
seen as a possible sign that Bruno influenced Galilei. Page 246
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno
and the Principle of Relativity However, Galilei never mentions Bruno in
his works, and in particular there is no reference to him in Galilei’s large
corpus of letters, even though he references the ‘doctores parisienses’ in his
MS 46 (Galilei, c. 1584),3 a 110-page long manuscript containing physical
speculations bas- ed upon Aristotle’s On the Heavens. Some authors (e.g.
Clavelin, 1968) have commented on Galilei’s silence about Bruno, putting
forward reasons of prudence, but as pointed out by Mar- tins (1986) this can
hardly explain the absence of any mention also in his personal correspond-
ence. Furthermore, although Galilei himself never mentions Bruno’s name in his
personal notes and letters, several of his correspondents do mention the Nolan.
In a letter to Galilei dating to 1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had
expressed his admiration for Galilei, although he regretted that in his works
the latter failed to mention Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans
who had anticipated such discov- eries—including Kepler himself: This morning I
had the opportunity to make friends with Kepler ... I asked what he likes about
that book of yourself and he replied that since many years he exchanges letters
with you, and that he is really convinced that he does not know anybody better
than you in this profession ... As for this book, he says that you really
showed the divinity of your genius; but he was somehow uneasy, not only for the
German nation, but also for your own, since you did not mention those authors
who intro- duced the subject and gave you the opportun- ity to investigate what
you found now, naming among these Giordano Bruno among the Ital- ians, and
Copernicus, and himself. Thus, we can say that Galileo Galilei was probably
aware of Giordano Bruno’s work on the Copernican system. When Galilei arrived
in Padova in 1592 it is also possible that the two scientists met, because
Bruno was a guest of the nobleman Giovanni Mocenigo in Venice at the time and
Galilei shared his time between Padova and Venice. In 1591, Bruno had unsuc-
cessfully applied for the Chair of Mathematics that was assigned to Galilei one
year later. Although it might be impossible to prove that the two astronomers
met, it is hard to believe, given the motivations and characters of the two men
and the circumstances of their lives during those years, as well as the small
size of the Italian scientific community in those days, that they failed to
discuss their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican
system. 6 NOTES 1. Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and
therefore the Goddess of the Sea. 2. See Aristotle (1971: Section 296b). 3.
Although Antonio Favaro, the Curator of the National Edition of Galilei’s
works, dates it to 1584, Crombie (1996) and Wallace (1981; 1984) prefer a date
of around 1590. We wish to thank Luisa
Bonolis, Alessandro Bettini, Alessandro Pascolini, Giulio Peruzzi and Antonio
Saggion for useful suggestions, and the anonymous referees for directing us to
some important aspects that we neglected to mention in the first draft of this
paper. 8 REFERENCES Aristotle, 1971. On the Heavens. Cambridge (Mass.), Harvard
University Press (Loeb Classic Greek Lib- rary English translation of the c.
350 BC Greek original). Barbour, J., 2001. The Discovery of Dynamics, Ox- ford,
Oxford University Press. Bruno, G., 1975. The Ash Wednesday Supper. The Hague,
Mouton (English translation by S.L. Jaki of the 1584 Italian original).
Buridan, J., 1942. Questions on Aristotle‟s On the Heavens. Cambridge (Mass.),
Medieval Academy of America (English translation by E.A. Moody of the c. 1340
Latin original). Clavelin, M., 1968. Galileo‟s Natural Philosophy. Paris, Colin
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Nuremberg, Johannes Petreius (in Latin). Crombie, A.G., 1996. The History of
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Volgareelatino nel carteggio galileiano Sommario 4.1 Galileo
epistolografo: volgare e latino. – 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne. –
4.3 Le lingue dei corrispondenti. – 4.4 Le lettere latine di Galileo. 4.1
Galileo epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della respublica
litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo importantissimo,
anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre n’a pas besoin
d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999,
52).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le lettere svolgevano anche
tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori, principi e cardinali,
eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed ecclesiastici, artisti e letterati,
amici e familiari: il carteggio galileiano comprende tutto questo.2 I
destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma non mancano corrispondenti
stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione), in Baviera, a Praga e nei
Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla respublica litterarum e
la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988; Bots, Waquet 1994 (in
particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet, Frijhoff); Waquet 1998;
Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento di Marta
Fattori); Jau- mann 2001; Bots, Waquet 2005; Fumaroli 2015. 2 Breve, ma
puntualissimo, Bucciantini in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia 2004,
257-65. All’epistolario galileiano è dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha
cura- to un’antologia delle lettere italiane dello scienziato (Galilei 2008),
con introduzione di Battistini (L’umanità di uno scienziato attraverso le sue
lettere). Sul registro polemico nell’epistolario si veda Ricci 2015.
Filologie medievali e moderne Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano suo epistolario sia di estensione europea, Galileo si rivolge
soprat- tutto alla classe dirigente degli Stati italiani, laica ed
ecclesiastica» (Battistini in Galilei 2008, 13).3 In che lingua scriveva
Galileo le sue lettere? Ci si aspetterebbe che, nonostante la programmatica
scelta del volgare per le sue opere, egli utilizzasse nella corrispondenza con
gli stranieri il latino, lingua franca dell’aristocrazia del sapere. Una
verifica integrale nei volumi dell’EN riserva invece la sorpresa di una
situazione affatto diversa, che riportiamo in tabella: Anni Lettere di cui
scritte in latino da Galileo a Kepler (4 agosto 1597, EN 10, 67; 19 agosto
1610, EN 10, 421) 1 a Brengger (8 novembre 1610, EN 10, 466) a Kepler (28
agosto 1627, EN 13, 374) a Fortescue [Aggiunti] (febbraio 1630, EN 14, 83) 1 a
Bernegger [Aggiunti] (16 luglio 1634, EN 16, 111) 1 agli Stati generali dei
Paesi Bassi (agosto 1636, EN 16, 468-9) a Boulliau(d) (1 gennaio 1638, EN 17,
245) a Boulliau(d) (30 dicembre 1639, EN 18, 134) 3 Cf. anche Garcia
2004, 257: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son esprit, à
la seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les plus
actives culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e moderne
23 | 19 58 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino
nel carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i criteri di
Favaro, che in- clude anche le epistole-trattato, quali le tre sulle macchie
solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si tratta delle
lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia distrutto un
numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono inequivocabili. Sappiamo
poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò Ag- giunti su commissione
dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2 Un confronto con
Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente. Charles Adam
ricostruisce che nel carteggio superstite «sur un total de 498 lettres, 63 sont
en latin» (Adam 1910, 22), cioè il 12,65%. Del resto la familiarità del fi-
losofo con il latino era profonda: Il apprit le latin à fond, non seulement
comme une langue morte, mais comme une langue vivante qu’il pourrait avoir à
parler et à écrire. Il la parla, en effet, quelquefois en Hollande, et même en
France à une soutenance de thèses; et il l’écrivit dans trois ou quatre de ses
ouvrages et un certain nombre de lettres. Quelques- unes de ses notes mêmes,
rédigées pour lui seul et à la hâte, sont en latin. Il maniait cette langue
aussi bien et souvent mieux que le français, le plus souvent avec vigueur et
sobriété, parfois aus- si pourtant avec quelques gentillesses de style qui
rappellent les leçons des bons Pères; lui-même avoue qu’il a fait des vers,
sans doute des vers latins, et une fois avec Balzac il se piqua de bel esprit
et lui écrivit dans un latin élégant ‘à la Pétrone’. (Adam 1910, 22)4 Il latino
fu ancor più abituale per Marin Mersenne (1588-1648), che anche in quanto
ecclesiastico (ordine dei Minimi) era più legato alla lingua antica: su 308
epistole da lui redatte e conservateci sono la- tine il 38, 64% (119), in
francese le restanti.5 Sarebbe interessante uno studio dell’uso linguistico in
tale epistolario che analizzi il tipo di missiva, la provenienza e la
formazione dei destinatari. Accenniamo qui soltanto al fatto che Mersenne, a
cui furono rivolte alcune lette- 4 Al carteggio di Descartes è dedicato l’ampio
volume di Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999; vi si veda in particolare il
saggio di Torrini che compara l’epistolario di Descartes e di Galileo: per il
primo il carteggio fu un luogo privilegiato di discussione filosofica, ben più
che per Galileo. 5 Conteggio nostro dai 17 volumi della corrispondenza
dell’erudito (Mersenne 1945- 1988). Divergono leggermente dalla nostra la somma
indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice delle
missive a pp. 145-9 (317). La lettera nr. 1691 a Baliani ci è tradita in
italiano da una stampa secentesca delle opere di questi, ma si tratta
probabilmente di una traduzione dall’originale latino o francese (cf. il
commen- to di de Waard, Beaulieu). Filologie medievali e moderne 23 | 19 59
Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i
curatori del carteg- gio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal
l’italien» (commento alla lettera nr. 1691). Troppo seccamente, perché egli
comprendeva in verità assai bene l’italiano, come dimostra la tradu- zione-rielaborazione
di pagine galileiane (Les Méchaniques de Gali- lée, Les nouvelles pensées de
Galilée).6 Interessante sarebbe valutare affermazioni di comprensione o
incomprensione di una lingua stra- niera come quelle di Giovanni Battista
Baliani, in cui la grafia sem- bra giocare un grande ruolo. Per esempio, ha
ricevuto da Mersenne una lettera «in lingua francese, ma tanto chiara ché io
l’ho intesa leg- gendola correntemente» (missiva nr. 1429), cioè è riuscito a
legger- la nonostante fosse in francese e nonostante la grafia. Un mese pri- ma
aveva spiegato al corrispondente: «Rispetto alla lingua, in che V. P. mi deve
scrivere, confesso, che mi è più caro che mi scriva in lat- tino, che già hò
preso un poco la pratica del suo carattere. Il france- se però intendo meno,
ancorche intenda assai bene i libri stampati» (missiva nr. 1417; in nota i
curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso problema). Galileo non
leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era consuetudine e norma nella
respublica litterarum, Galileo fece uso parchissimo del latino per
l’epistolografia. Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a
quell’altezza cronologica, almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua
mater- na per comunicare con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga-
lileiano – lettere composte o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi
eccezioni.9 Anche tra le lettere che nell’EN fanno corona all’epi- stolario
galileiano propriamente detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato furono
raccolte da Favaro, sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un connazionale
(foss’anche il papa) in italiano. Analo- gamente si comportano i dotti francesi
(pur con qualche eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si scrivono in
francese. Ricorrono in- vece non infrequentemente al latino i dotti tedeschi
per comunicare tra loro: nell’EN si veda Scheiner che scrive a Kircher, e
Bernegger a tutti i propri connazionali.10 Analogamente, l’olandese Hugo de
Gro- 6 Sul rapporto Mersenne-Galileo (e Descartes-Galileo) si veda almeno
Bucciantini 2009. 7 Cf. anche Favaro 1983, 1392. 8 Pantin 1996, 58: «À la fin
de la Renaissance, les langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du
français et de l’italien) étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et
même de raisonner (dans la correspondances scientifiques du début du XVIIe
siècle les allemands sont souvent presque les seuls à parler latin)». Di
diverso parere Battis- tini in Galilei 2008, 13: «pur essendo ancora il latino
la lingua abituale nel trattare ma- terie scientifiche ed erudite, anche tra
connazionali». 9 Paolo Maria Cittadini, che si firma teologo dello Studio
bolognese, si rivolge in la- tino a Galileo (EN 10, 389). 10 Per un’indagine
sulla corrispondenza dei dotti tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980.
Cf. anche Leonhardt 2011, 213. Filologie medievali e moderne 23 | 19 60 Galileo
in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano ot (Grotius) scrive in latino a Maarten van den Hove (Martino Orten-
sio nell’EN) e a Gerhard Voss (Vossius). 4.3 Le lingue dei corrispondenti
Galileo non si allinea al costume della comunicazione latina con stra- nieri,
mostrando una forte tendenza a evitare la lingua antica.11 D’al- tra parte,
l’adozione dell’italiano da parte di stranieri testimonia la fortuna della
nostra lingua e il suo prestigio.12 Galileo instaura una comunicazione italiana
paritetica – nel senso che entrambi i corri- spondenti scrivono in italiano –
non solo con Clavius e Faber, che vi- vevano stabilmente in Italia da molti
anni (si noti però che in alme- no due lettere il principe Cesi aveva scritto
al secondo in latino), ma anche con Markus Welser,13 l’ingegnere militare
Antoine de Ville (al- lora in servizio della Serenissima),14 Carcavy, Peiresc,
Reael, Lowijs Elzevier,15 Ladislao IV di Polonia, Massimiliano di Baviera, Jean
de Beaugrand. L’effettiva conoscenza dell’italiano da parte dei corri-
spondenti non si può misurare solo dalle missive, per alcune delle quali va
postulato l’intervento di un madrelingua (certamente nel caso di principi e
regnanti, ma anche le lettere di Reael sono troppo ben scritte per non supporre
almeno un correttore).16 Significativo il caso di François de Noailles
(1584-1645).17 Già sco- laro di Galileo a Padova, ufficiale militare e poi non
troppo abile am- basciatore francese a Roma (1634-36), attivo nel chiedere alla
Chie- sa clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a Poggibonsi sulla via del
ritorno in Francia e ricevette una copia manoscritta delle Nuove scienze, delle
quali fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui inviate a Galileo dall’ottobre
1634 al novembre 1638. Le prime cinque sono in italiano e risalgono al tempo in
cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto una è interamente autografa (EN
16, 144), ma probabilmente 11 Nell’inopportunità di riportare dettagliate
rassegne biografiche sui molti personag- gi che nomineremo, rimandiamo una
volta per tutte all’Indice biografico dell’EN (anche del supplemento 2015) e
agli indici di Drake 1995 e di Heilbron 2010, nonché al rege- sto di nomi
propri curato dal Museo Galileo di Firenze, disponibile online e continua-
mente aggiornato. Daremo qui solamente qualche informazione utile al nostro
discorso. 12 Cf. Stammerjohann 2013. 13 Cf. cap. 2, § 5. Quando questi è
malato, anche il fratello Matthäus scrive in ita- liano a Galileo. 14 Cf.
Pernot 1984 e Vérin 2001. 15 Scrive in italiano anche a Micanzio. Bonaventure e
Abraham Elzevier si erano in- vece rivolti a Galileo in latino. 16 Diodati
scrive a Reael in italiano (EN 16, 492). 17 Su di lui cf. Favaro 1983, 1317-45.
Per i corrispondenti francesi di Galileo riman- diamo a Baumgartner 1988 e ai
riferimenti bibliografici ivi contenuti. Filologie medievali e moderne 23 | 19
61 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano composta o almeno rivista da un madrelingua. Le altre
quattro han- no soltanto la sottoscrizione di pugno del diplomatico. Il 15
gennaio 1636, in un punto morto delle discrete manovre per il mitigamento della
condanna di Galileo, Noailles si scusa con questi del ritardo nel- lo scrivere:
«Potrà similmente attribuire la cagione dell’haver tardato a scriverli
all’assenza del mio secretario italiano» (EN 16, 377). È al- meno in parte un
pretesto, ma ci informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La
stessa lettera riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea
della competenza linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente
inferiore alla lingua e allo stile esibi- to nelle altre lettere a Galileo: «Il
latore de la presente li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue
virtù et come sto con desiderio di servirla in ogni occorrenza». Di fatto,
l’uso dell’italiano sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al
maestro degli anni pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in
Francia (1636) Noailles gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di
segretari – in france- se (restano tre lettere autografe). Lettere che –
l’ambasciatore dove- va certo esserne al corrente – Galileo non poteva intendere
e di cui restano tra i manoscritti galileiani le traduzioni italiane.18 A
Grienberger e de Groot che gli si rivolgono in latino, Galileo ri- sponde in
italiano. In latino gli scrivono anche Gassendi (con l’ec- cezione di una
missiva italiana composta insieme a Peiresc), Tycho Brahe, Mersenne, Morin,
Abraham e Bonaventure Elzevier, l’avver- sario Scheiner e parecchi altri.19 Ma
non sono conservate le risposte del nostro (a Tycho non rispose affatto) 20 e
dunque non sappiamo in quale lingua fossero composte. Gli scrissero invece in
italiano Martin Hasdale (tedesco, fu a lun- go in Italia per divenire poi
potente consigliere alla corte di Rodolfo II); David Ricques (polacco o
tedesco), Thomas Segget (scozzese, fu a lungo in Italia; poi a Praga), il greco
Demisiani, il cardinale François de Joyeuse, Krzysztof Zbaraski (nell’EN
Cristoforo di Zbaraz), Ri- chard White (allievo di Castelli, scrive da Londra e
si scusa per gli errori di lingua), Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a
Napoli), Philippe de Lusarches (maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi
a Roma), Johannes Riijusk (cugino del Reael, scrive da Venezia), Francesco van
Weert (olandese al servizio della Serenissima), Justus 18 Cf. l’introduzione di
Favaro alle missive e il supplemento di EN 18, 436. Al ruo- lo dei segretari
nella respublica litterarum accenna Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti
1999, 57-8. 19 Raymund Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia),
Theophilus Mül- ler (tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio
identificato), John Welles (da Lon- dra), Jan Friedrich Breiner, Michel
Coignet, Marek Lentowicz (che fu studente a Pado- va), Bartholomäus Schröter
(tedesco), Jean Tarde, Filippo d’Assia, Jan Brozek (polac- co), Maarten van den
Hove (Hortensius, olandese). 20 Bucciantini 2003, 87.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 62 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi
4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier
a Venezia), Jean-Jacques Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma),
Henry Robinson (ingle- se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a
Firenze). Restano alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo d’Au-
stria (Innsbruck), a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati
Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, EN
468-69, di cui parleremo tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di
Lerma (Madrid), a Maarten van den Hove (matematico olandese). Scrivono a
Galileo sia in latino che in italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21
(una missiva privata è in volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin
Engelcke (di Danzica, fu per alcuni an- ni in Italia).22 Gli Stati Generali
delle Province Unite dei Paesi Bassi si rivolgono a Galileo sia in latino che
in francese (Reael traduce per Galileo; una deliberazione dell’assemblea sulla
proposta galileiana del calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael
la tradu- ce in latino per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in
altre occasioni dagli olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il
quadro generale dell’epistolario è dominato dall’italiano, anche perché la
maggioranza degli stranieri aveva vissuto per un periodo abbastanza lungo in
Italia durante gli studi universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri
con una vasta conoscenza personale della Penisola e della sua lingua.23 4.4 Le
lettere latine di Galileo Si esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole
latine di Galileo rima- steci. Della corrispondenza tra Galileo e Kepler, di
importanza capi- tale, restano poche lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da
parte del pi- sano. Non si incontrarono mai di persona. La comunicazione si
svolse sempre in latino e coprì, per quanto è conservato, un arco tempora- le
che va dal 1597 al 1627 (ma le lettere scritte da Kepler non vanno oltre il
1611). I rapporti scientifici e personali tra i due scienziati so- no
illustrati nel dettaglio e nell’ampio quadro culturale del tempo in Bucciantini
(2003), a cui ci rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo del primo contatto
epistolare (1597) nessuno dei due è famoso: Gali- leo è niente più che il
solido matematico dello Studio di Padova; Ke- pler, dopo aver rinunciato alla
carriera teologica e pastorale, è mate- matico a Graz. I due non si conoscono
neppure di nome. Per tramite 21 Su di lui vedi DBI (s.v. «Gaufrido, Jacopo»).
22 Cf. infra in questo capitolo. 23 Cf. Favaro 1983, 1320-2. Una testimonianza
in senso contrario (ovvero scarsa com- petenza dell’italiano da parte di
studenti stranieri a Padova) è riferita da Mikkeli 1999, 81; ci sembra tuttavia
un’eccezione di fronte alle tante altre. Filologie medievali e moderne 23 | 19
63 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia
il suo My- sterium cosmographicum (1596). «Probabilmente fu lo stesso Keple- ro
a suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova,
ovvero di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica
in una delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini 2003, 22). E
Galileo, letta solo la prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la
sua adesione al Copernicanesimo, de- cise di inviare una lettera di
ringraziamento all’autore per tramite dello stesso Homberger che stava per fare
ritorno in Austria.24 È la missiva del 4 agosto 1597 (EN 10, 67), che contiene
l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da parte di Galileo (in
Copernici sententiam multis abhinc annis venerim).25 Importantissima anche in
base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani si
contavano sulle dita (oltre a Kepler e Galileo, erano Bruno, Roth- mann,
Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga)26 e che prima del- le scoperte del
1610 «le copernicianisme était une opinion extrava- gante et ridicule, et donc
non dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée» (Bucciantini 2009, 20). Si
capisce dunque l’entusiasmo di Galileo nell’apprendere che un tale Kepler aveva
le sue stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui,
Galileo, non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva-
zioni in difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Coper- nico,
lodato da pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lette- ra ci sembra
un poco più elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente
subordinazione (soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta
di Kepler, contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e
stilisticamente superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e
interrogative retoriche vivacizzano il det- tato, che è molto fluido e senza
imbarazzi; vi sono finezze umanisti- che, come l’inserzione di una parola in
caratteri greci (αὐτόπιστα). La strategia culturale di Kepler per
l’affermazione del Copernicane- simo prevede innanzitutto il convincimento dei
matematici ed egli si dichiara disponibile a far pubblicare in terra tedesca
gli scritti di Galileo, se questi teme di farlo in Italia. Ma Galileo, non
condividen- do la strategia proposta, non rispose a questa lettera.27 Stupito
del silenzio, Kepler ritentò attraverso Edmund Bruce di avere nuove di Galileo
nel 1599.28 24 Cf. anche Biancarelli Martinelli 2004. 25 Una dichiarazione di
poco precedente (maggio 1597), ma appena accennata e di- messa, diversamente
dalle righe indirizzate a Kepler, è in una lettera a Jacopo Mazzo- ni (EN 2,
197-202; cf. Bucciantini 2003, 29). 26 Bucciantini 2003, 53. 27
Bucciantini 2003, 73. 28 Bucciantini 2003, 103. Filologie medievali e
moderne 23 | 19 64 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino
nel carteggio galileiano Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante
la quale Ke- pler fu il solo grande interlocutore straniero cui Galileo si
rivolse e la cui conferma delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto
a quella degli studiosi del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne
ufficiale con la Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a Ga- lileo una
lettera privata il 9 agosto 1610, chiedendo, in sostanza, altri elementi a
sostegno delle scoperte e del cannocchiale. La risposta di Galileo, datata 19
agosto (EN 10, 421), è significativa. Il nostro è an- cora a Padova, ma ha già
ottenuto il posto alla corte di Toscana e la lettera è pervasa da un’esuberante
soddisfazione del proprio succes- so, «con toni che sfiorano
l’autocelebrazione» (Bucciantini 2003, 190): il racconto delle ricompense e
dello stipendio ricevuto dopo la scoper- ta, la protezione e la garanzia del
Granduca quanto alle scoperte, il ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di
matematico, che Kepler non gli riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per
scrivergli (paucissimae enim supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido
e non più impac- ciato come nella lettera del 1597; la scrittura è più fluida,
c’è più mo- vimento, con interrogative e riferimenti eruditi (seppur
scolastici, co- me oblatrent sicophantae) e quasi con affetto per il suo
alleato lontano che, pur chiedendo chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato.
In par- ticolare è insolita, in Galileo, una conclusione come me, ut soles,
ama. Con la pubblicazione della Dioptrice nel 1611 (Kepler fu il padre
dell’ottica moderna), termina uno scambio frequente tra i due: essi non hanno
più avvertito il bisogno di confrontarsi e collaborare rego- larmente, a causa
sia di progetti e attitudini scientifiche differenti, sia di piccole
incomprensioni (per es. la stima riposta da Kepler in Simon Mayr, che
dispiacque al nostro).29 Certo, Galileo si informerà su co- me stia e che cosa
faccia l’altro e Kepler prenderà posizione nelle po- lemiche legate al
Saggiatore con l’Hyperaspistes (1625), ma non è più in gioco una collaborazione
stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni caso, saltano dal 1611 al 4
settembre 1627 (EN 13, 374-5), al- lorché Galileo raccomanda Giovanni Stefano
Bossi al dotto corrispon- dente perché questi lo accetti come scolaro. La
missiva, non molto in- teressante quanto al contenuto (una raccomandazione),
testimonia il tentativo di riallacciare la relazione. Nel poscritto Galileo
aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem Nicolai Adiunctii,
adolescentis in omni humaniore et severiore literatura excultissi- mi: eam sat
scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice fu- turam ad tuum palatum et
gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae laudibus, uscita a Roma nello
stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti, notevole non solo per 29 I motivi
del distacco sono scandagliati in Bucciantini 2003, 198-205. Filologie medievali
e moderne 23 | 19 65 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 •
Volgare e latino nel carteggio galileiano lo stile latino brillante di cui
l’autore dava prova, ma anche per la celebrazione della matematica come modo di
vedere la realtà (una Geometria nos in rerum notitiam perducit, et sola
complectitur studia universa).30 Dopo di che, morto Kepler nel 1630, il Dialogo
lo accuse- rà, pur «con rispetto» (così la didascalia a margine), di aver
creduto a «predominii della Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simi-
li fanciullezze» (4, 54): come è noto, un attacco che si ritorce contro
Galileo. A rendere incompatibili le posizioni dei due grandi vi erano idee
radicalmente diverse sul cosmo e la posizione dell’uomo in esso.31 Veniamo agli
altri corrispondenti. Johann Georg Brengger (1559- 1630 ca.), medico di
Augsburg, si interessava di problemi scientifici.32 Per tramite di Welser pone
a Galileo alcune questioni sui monti lu- nari, cui Galileo risponde con una
lunga epistola in un latino asciut- to l’8 novembre 1610. A sua volta Brengger
risponderà estesamente in latino. Una delle due lettere composte in latino da
Niccolò Aggiunti su incarico di Galileo si legge in EN 14, 83 (datata febbraio
1630) ed è la risposta a George Fortescue.33 Il 15 ottobre 1629 (EN 14, 47)
que- sti gli aveva indirizzato una pomposa lettera latina annunciandogli la
pubblicazione delle sue Feriae academicae (1630), nelle quali, di- scorrendo di
ottica, catottrica, matematica e astronomia, adduceva nonnulla [...]
experientia comprobata mea. Lettera pomposa in cui gli elogi a Galileo,
iperbolici, sono intessuti di riferimenti eruditi (il mi- to di Cefeo e la
costruzione del faro di Alessandria su progetto di So- strato). La notizia più
saliente che il mittente vuole comunicare è l’a- ver fatto di Galileo un
personaggio del libro annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii
aliorumque, qui, ut sibi in dicendo auctoritatem concilient, inducunt
colloquentes Catones, Crassos, Antonios, similesque palmares homines. [...]
Igitur ignosce, Vir sapientissime, si disputantem in scriptis meis temet repereris,
30 Il passo è riportato in Camerota 2004, 570. Secondo Peterson 2015, 130,
inviando a Kepler il testo di Aggiunti, Galileo inviterebbe il corrispondente a
rivolgere un’‘atten- zione matematica’ non solo ai cieli, ma anche alla realtà
terrestre. 31 «L’abbandono [da parte di Galileo] di ogni visione
antropocentrica è certamente una delle caratteristiche della sua filosofia che
più lo allontana non solo da Keplero ma an- che da Copernico» (Bucciantini
2003, 322). «Il progetto galileiano di fondazione di una scienza copernicana
del moto fu fin dall’inizio antitetico e concorrente alla nuova dina- mica
celeste kepleriana. La forza e la tenacia con cui Galileo proseguì in ogni
momento della sua vita le sue ricerche sul moto inerziale all’interno di una
prospettiva cosmolo- gica gli impedirono di accettare le ‘assurde’ leggi
kepleriane» (Bucciantini 2003, 336). 32 Laureato in medicina a Basilea, ebbe
scambio epistolare con Clavio e Kepler su problemi scientifici (cf. Reeves, van
Helden 2010, 43, 220-1; Keil 2002, 610-11; Buc- ciantini 2003, 230-3). 33
Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Ross Kennedy nell’Oxford Dictionary of
National Biography (2004), con bibliografia; Favaro 1883b, 203-10; Besomi,
Helbing 1998b, 3-4. Filologie medievali e moderne 23 | 19 66 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc sustentant orbem. Alle
pp. 122-59 delle Feriae è allestito un dialogo (con narratore) tra Ga- lileo,
Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile principes – e Ferdinando
Gonzaga. Con la missiva Fortescue ne informa lo scienziato e si scusa per non
avergli chiesto il permesso (Ergo da veniam, serius petenti licet, Vir
spectatissime, quod, inconsulto te, cum tuo egerim nomine). Nella risposta –
che commenteremo – lo scienziato dichiara, con accenti che corrispondono del
tutto ai moduli dello stile encomia- stico, che nostram [...] enim mirifice
incendisti cupiditatem, pregando- lo di inviargli copia del libro non appena
stampato (Cum typographi suam operam absolverint, tuique libri editionem
perfecerint, unum vel alterum exemplar ad nos primo quoque tempore perferendum
cures). Non escludiamo che la parte ‘galileiana’ delle Feriae34 abbia potuto
ispirare Galileo e suggerirgli quell’unicum narrativo che è la sua appa-
rizione come personaggio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (3, 176). In
tale passo, per ribadire la priorità galileiana su Scheiner ri- guardo alla
scoperta della correlazione tra macchie solari e l’inclina- zione dell’asse
solare, Galileo si è servito di un fine stratagemma reto- rico-narrativo, unico
nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una discussione con Galileo e ne
riporta in modo diretto (con due punti e virgolette) le parole. Un intervento
‘diretto’ dell’autore all’interno del Dialogo dei personaggi. Lo stratagemma è
interessante anche perché è un falso creato ad hoc da Galileo, come hanno
acutamente ricostruito Besomi, Helbing (1998b, 720-37) e come era noto a
collaboratori di Ga- lileo: Benedetto Castelli parlò del passo in questione
come «testimonio falso delle macchie del sole» (lettera del 29 maggio 1632 a
Galileo, EN 14, 358). L’influenza di Fortescue su tale episodio è indimostrata,
ma possibile anche in base alla cronologia della composizione del Dialogo.35
Contrariamente alle sue abitudini, Galileo volle rispondere a For- tescue in
latino (questi era stato al Collegio inglese di Roma dal 1609 al 1614; non
sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al corrente), e si affidò per questo al
provetto latinista Niccolò Aggiunti (1600-1635). Allievo di Castelli a Pisa, al
quale succedette nel 1626 sulla cattedra di matematica, Aggiunti fu anche
precettore di corte, dove conobbe e divenne discepolo fidato di Galileo, tanto
che fu tra coloro che du- rante il processo del 1633 asportarono da casa del
maestro le carte giudicate pericolose. Studiò in particolare i fenomeni
capillari. Uni- ca sua opera a stampa è la già menzionata Oratio de
mathematicae 34 Accenni in Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3 e
Camerota 2004, 206. 35 La parte dell’opera sui movimenti delle macchie solari
(3, 172, 10-187) è stata com- posta «probabilmente dopo il settembre del 1631,
dopo che Galileo aveva letto la Rosa Ursina [opera di Scheiner]» (Besomi,
Helbing 1998b, 47). Filologie medievali e moderne 23 | 19 67 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
laudibus (1627), che fu la prolusione al suo insegnamento universi- tario;
restano manoscritti alcuni altri suoi testi.36 Ebbe fama di otti- mo latinista
e per questo Galileo chiese la sua collaborazione. Ciono- nostante difese anche
l’uso del volgare nella trattazione filosofica.37 Il 30 gennaio 1630 Aggiunti
scrisse a Galileo: «Credo che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà così lunga
dilazione, vedendo che io gli pago il debito e in oltre qualche usura: io parlo
della rispo- sta al Sig.r Giorgio [Fortescue], la quale mando a V. S., fatta
con quella maggior accuratezza che ho potuto. Harò caro intender quan- to gli
sodisfaccia. Nella soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro Georgio de
Fortiscuto. Londinum» (EN 14, 71). Della missiva ci resta la copia autografa di
Galileo. In essa, datata da Favaro febbraio 1630, si ringrazia ampollosamente,
anche con richiami eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter
eximios viros e di essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi
galileiani, perché Gali- leo dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum
mundi systema, quod trigesimum iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di-
chiarandone il tema (in hoc opere abditissimas maris aestuum causas [...]
inquiro, et, nisi mei me fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor-
rispondente di inviargli dati sull’osservazione delle maree: Proinde siquid
habes circa hasce alternas aequoris agitationes diligenti nec divulgata
observatione notatum, ad me perscribere ne graveris. L’altra lettera latina
composta da Aggiunti su commissione di Galileo (16 luglio 1634; EN 16,111) è
indirizzata a Matthias Bernegger (1582- 1640), dotto residente a Strasburgo e
traduttore in latino del Dialogo. Alcuni mesi prima egli aveva scritto a
Galileo annunciandogli la tradu- zione (10 ottobre 1633; EN 15, 299).38 Favaro
ricostruisce che probabil- mente tale epistola non fu consegnata allo
scienziato, perché Benjamin Engelcke (1610-1680), che avrebbe dovuto portarla
di persona, la spedì a Galileo ed essa andò perduta (noi leggiamo oggi la
minuta dello scri- vente); l’Engelke scrisse poi a Galileo informandolo della
traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in un latino sicuro e curato, ma
non af- fettato, con la sola iperbole finale di Galileo non Italiae modo tuae,
sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis illustrasti, lucidissimum sidus, che
rispecchia lo stile encomiastico. Per la risposta Galileo volle affidarsi anche
in questa occasione ad Aggiunti, che così scriveva allo scienziato il 12 aprile
1634: «Questa qui alligata è la lettera che, in esecuzione del suo cenno, ho
fatta al Bernechero, del quale non sapendo il nome non ho potuto porvelo. Se le
paresse lunga, potrà scorciarla et acconciarla a modo suo. Io l’ho scritta con
mia gran fatiga, perché il considerare in 36 Su Aggiunti, oltre alla voce del
DBI, si vedano Favaro 1983; Camerota 1998; Ca- merota 2004, 21-2 e passim;
Peterson 2015, 128-36. 37 Cf. Camerota 1998. 38 Commenteremo questa
lettera nei cap. 8. Filologie medievali e moderne 23 | 19 68 Galileo in
Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano nome
di chi io scrivevo mi sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo
comandamento» (EN 16, 82). Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non
ha semplicemente tradotto in latino una risposta re- datta da Galileo in
volgare, ma composto in toto la lettera. Essa sfoggia uno stile brillante, retorico,
erudito. Aggiunti parago- na Bernegger traduttore a un egregius pictor che
abbellisce la figura della persona ritratta: con i latinae elegantiae colores
egli riprodurrà le philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme
retorico-erudita è raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto
di Antigo- no sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di
un occhio – era appunto soprannominato μονόφθαλμος –, il pittore sfruttò i
vantaggi del tre quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo
dell’Institutio oratoria (2, 13, 12): Habet in pictura speciem tota facies:
Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi
deformitas lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintilia- no e inscena una
‘cecità’ di Galileo, non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti
di stile e improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc
pollicetur, ut, citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum
ostendas, et, imitatus Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere
ostendit, ut amissi oculi deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me
mutilum vel deforme offendes, ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È
evidente la soddisfazione e l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera
che tante umiliazioni aveva portato a Galileo, soddisfazione e orgoglio
accresciuti dai dolori fisici e dalla perdita della figlia, man- cata pochi
mesi addietro (ma di ciò non si accenna nella lettera): Ceterum deierare liquido
possum, post tot turbas et corporis animique vexationes, quas mihi pepererunt
primum studia ipsa, quae radices artium amarae sunt, deinde studiorum fructus,
qui multo ipsis radicibus amariores fuerunt, hoc tuo erga me studio nullum mihi
maius solatium contigisse. Passi come questo attestano l’alto livello della
prosa latina di Aggiunti: sottolineamo la naturalezza stilistica con cui
l’immagine degli studi co- me radici delle scienze – radici amare perché
intrise di fatica – si tramu- ti nel paradosso dei frutti più amari delle
radici, paradosso in cui sono adombrate le sofferenze e umiliazioni del
processo e dell’abiura. Alle quali Galileo reagisce con nuovi studi e la
stesura delle Nuove scienze: Non tamen his angustiis eliditur aut contrahitur
animus, quo liberas viroque dignas cogitationes semper agito, et ruris angustam
hanc solitudinem, qua circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 69 Galileo in Europa, 57-70
Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Bernegger fu sbalordito
dall’eleganza di tale lettera e non subodo- rò che non venisse dalla penna di
Galileo; scrisse infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius [Galileo] epistola,
longe tersissima et elegantissima; quam elegantiam cum vel mediocriter assequi
posse desperem, verendum habeo ne magnus ille vir ingenii sui divini foetum in
commodiorem interpretem incidisse velit. Sed iacta est alea (EN 16, 176-7).
Aggiunti morì nel dicembre 1635. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui
dobbiamo occuparci. Il 30 ottobre 1637 il dotto Ismaël Boulliau(d)
(1605-1694)39 inviò a Ga- lileo una copia del suo De natura lucis40
accompagnandola con una lettera latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e
di Diodati (EN 17, 207-8) e in cui annunciava l’imminente pubblicazione del
Philolaus sive Dissertatio de vero Systemate Mundi. È una missiva di ac-
compagnamento, piuttosto breve e spedita quanto a stile. La risposta di Galileo
(1 gennaio 1638; EN 17, 245), pure in latino, ha lo stesso te- nore: con un
dettato puramente comunicativo informava di aver già perso la vista e di non
poter quindi formarsi un giudizio sulle dimo- strazioni del De natura lucis che
contengano figure; ha però apprez- zato ciò che gli è stato letto e si
interessa del Philolaus. Infine si scu- sa per la brevità e sommarietà della
risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo, praestantissime vir: plura enim
scribere me non patitur molesta oculorum valetudo. Quare me velim excusatum
habeas. Una seconda lettera di Boulliau(d) risale al 16 settembre 1639 (EN 18,
103): un puro accompagnamento all’invio del Philolaus, con l’augurio retorico
che utinam Deus, qui alligat contritiones suorum, restituat oculorum lumen tibi
ademptum, nobisque tale damnum resarciat, ut ipse legas libellum, et rationum
seriem sine alienorum oculorum opera dispicias. La risposta latina del nostro, ,
è del tutto analoga alla precedente. Ringrazia il corrispondente e apprezza
quanto gli è stato letto, ma non potendo vedere le figure non può giudicare
bene. È latina, infine, una missiva di Galileo agli Stati generali dei Pae- si
Bassi, in cui chiede che sia esaminata la sua proposta per il calcolo della
longitudine in mare ligure. È una lettera non retorica, per quanto contenga
alcuni elementi topici come l’elogio del destinatario: 39 40
Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia maria et terras celeberrimas suas
peregrinationes et navigationes cum gloria maxima iam instituerunt et quotidie
porro instituunt, et commercia amplissima ubique quotidie dilatant [...] (EN
16, 469). Su di lui vedi Beaulieu 1984, 377) e Hockey et al. L’opera a stampa
reca la data 1638; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia inviato un
esemplare (cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia
manoscritta. Filologie medievali e moderne 23 | 19 70 Galileo in Europa, 57-70Galileo
291. HASDALE a GALILEO in Padova. Praga, 15 aprile 1610. Bibl. Naz. Fir.
Mss. Gal., P. VI, T. VII, car. 120. – Autografa. mor mo Essendo un pezzo che
disegnavo di ritornare in Italia, et particolarmente a Padova et Venetia, più
per godere quella gentilissima conversatione di V. S. che per altro; et tanto
più me ne cresce il desiderio, quanto che veggo nuovi parti del suo felicissimo
et divino ingegno. Delli quali l'ultimo, intitolato Nuntius Sydereus, ha rapito
ultimamente tutta questa Corte in ammiratione et stupore, affaticandosi ogniuno
di questi ambasciatori et baroni di chiamare questi matemathici di qua per
sentire se vi sanno fare alcuna oppositione alle demostrationi di V. S. Però
vanno procurando di havere di quelli occhiali doppiii, per vederne
l'esperienza. re re Io mi truovai, XII giorni fa, a desinare dal Sig.
Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero portò al detto Ambasciatore uno di
questi libbri, mostrandogli molti luoghi notabili di r quello libro. Il Sig.
Ambasciatore mi domandò delle qualità di V. S. Io gli risposi quello che potei,
non già quanto V. S. merita. Mi disse che voleva sentire l'openione del
Kepplero(658) sopra questo libro, sì come credo che habbia fatto chiamarlo. Ma
io questa mattina ho havuta occasione di fare amicitia stretta con il Kepplero,
havendo egli et io mangiato con l'Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo
invitati da quel di Toscana, dove io vado familiarmente di continuo, essendo
quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di
quel libro et di V. S. Mi ha risposto che sono molti anni che ha prattica con
V. S. per via di lettere, et che realmente non conosce maggiore huomo di V. S.
in questa professione, nè manco ha conosciuto; et che con tutto che il Tichone
fosse tenuto per grandissimo, nondimeno che V. S. l'avanzava di gran lunga.
Quanto poi a questo libro, dice che veramente ella ha mostrata la divinità del
suo ingegno; però, che ella viene havere data qualche occasione non solo alla
natione Todesca, ma anco alla propria, non havendo fattone mentione alcuna di quegli autori che le hanno accennato
et porta occasione di investigare quello che hora ha truovato, nominando fra
questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et sè medesimo, professando
di havere accennato simili cose (però senza pruova, come V. S., et senza
demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per mostrar allo
Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch’eramo in questi ragionamenti, è
sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto Ambasciatore, che ha
disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio, ci rivederemo, che
senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V. S., come ha fatto
hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi la morte del Cl.mo
nostro Sig.r Cornaro(661), con mio grandissimo dispiacere, che me mo Vostro
Aff. Fratello lo Michelag. Galilei. De Kepplero non havendo fattione
mentione. Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – Un LORENZO di
CORNARO era morto (Necrologio Nobili, nell'Archivio di 252 r lo scrisse
il S. Ottavio Pamfilio, quale desidero sapere se si truova ancora costì, perchè
gli vorrei scrivere. Et la prego, havendo occasione, di fare un cordialissimo
baciamano al Padre Maestro Paolo et Padre Maestro Fulgentio(662), suo compagno,
et che spero fra alcuni mesi lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che
fine le bacio le mani. Di Praga, Di V.
S. Ecc. ma re mo Serv. Devot. Martino Hasdale. Io mando questa per via
dell'Ambasciatore di Venetia. Mi ricordo degli suoi melloni Turcheschi. mor mo
Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone Oss. r Il Sig. Gallileo Gallilei, Mattematico di
Padova.Galilei. Galilei. Keywords: “the sun rises in the east” “the sun sets in
the west” “you’re the cream in my coffee” ‘disimplicature’ -- esperienza,
observazione, visione, nature, aristotele, filosofia naturale, fisis, natura,
interpretazione, semiotica, segno naturale, il padre di Galileo – Some like
Galileo Galilei, but Vincenzo Galilei is MY man” – Galileo e Bruno. Refs: Luigi
Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa
Grice.
Grice e Galimberti – l’imaginario sessuale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza).
Filosofo. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus,
amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the
seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and
the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism
and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda
lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva
e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma
maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano
a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi
liceali classici, si iscrive al corso di
laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode,
con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia
fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia
con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del
sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo"
vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo"
vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la
forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura?
Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il
reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove,
tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un
‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E
per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di
morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il
filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro
della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più
dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei
mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua
vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla
tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico
greco-romano, evitando mitologie. Il suo maggior contributo consiste nel
porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two
things together so that the recipient may compare them, one becomes the
‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base
primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo
(mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza
generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale.
Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali
(apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del
simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung,
fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante
riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione”
(verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang
for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia
filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una
trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze
naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale,
fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria. Contrario, poi, al
dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo
fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia
filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di
quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al
significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad
abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e
”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale
fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia,
cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera
coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza
e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due
invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi
in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e
sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata
rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi
per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di
questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente
l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza
naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una
risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione
strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un
animale sui generis. Riconosce la cristianità come il carattere di una
scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il
presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo
semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme
occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi
(disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione,
scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a
profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello
scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della
sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha
modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano
endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma,
in fondo, la loro esistenza è preposta a questo. Non si definisce né
"credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma
"greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del
mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda
anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco
arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e
la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra
vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci
te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite. Approfondisce
molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua
indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica
-- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era
associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo
ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è
destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che
l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i
propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei
cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel
ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la
forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon,
l'opera, ciò che è compiuto. Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi
dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e
maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il
dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute
in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza
divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei
vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria
e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare
il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal
greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo
vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi.
Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di
gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria
esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se
l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti
posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli
si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto
dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita
il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e
nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre
l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i
mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento
che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos,
il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno
l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il
tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza
favorevole, e in essa espandere sé stesso. Questo equilibrio tra tempo
naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della
tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad
annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos,
l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul
mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per
portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della
tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato,
determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco
ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è
più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione
di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico. Riflettendo
sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di
‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano
antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma
sema -- mette in contrasto le diverse
modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora
– corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza
lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per
la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come
supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere
per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un
corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica.
L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una
implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo
significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre
assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo
sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria
psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex
di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito.
Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano,
significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i
corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità
o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui
i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa,
ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il
significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione
tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva
infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una
legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma
anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron). In questo modo i corpori conservano la sua
oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi
tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente,
il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito
conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla
restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro
effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì
quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza. Si è sempre
schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi
inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a
volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri
autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli
in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso
che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha
ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò
non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto
un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare
del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su
Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva
l'ammissione da parte di Galimberti dell'indebita appropriazione intellettuale
nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non
tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati
testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione
però, c'è uno scatto di novità". L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha
accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati
copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si
accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi
per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a
farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e
che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli
accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere Galimberti, nel suo
interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a
specificare le sue posizioni.”Nel giugno
la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un
lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è
stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi
scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e
paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse
mosse a Galimberti sono poi diventate un saggio, “La mistificazione
intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da
cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato
al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la
spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle
frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico.
Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati
saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli
altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire
(Milano, Apogeo); Amore. Assisi,
Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare -- Il viandante della filosofia, con Marco
Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,. Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato,
amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.
Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo,
Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from
the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano,
Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi
vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. Umberto
Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato
di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia
della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all'università Ca' Foscari di
Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le
cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere
letterario dei saggi. Sommario: A) Riassunto per capitoli: “Amore e
trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla metafora
dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè che è al
di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla ragione
umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Rimane
un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore
la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi ma solo il nesso
tra amore e trascendenza. I “Amore e sacralità”: La sacralità è dovuta dal
desiderio dell'uomo di immortalità e quindi dal desiderio di conservare
la sopravvivenza dell'individuo e della totalità dell'essere. Oltre al
sacrificio, un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità
è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale, durante il quale l'Io e il Tu
si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla fiducia reciproca. “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa
di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io, aprendolo così alla
crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi
negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che
invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede
ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé.
“Amore e perversione”: La perversione è sempre stata giudicata negativamente,
perché concepita come sinonimo di devianza, degrado, ribrezzo e
ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la sua aspirazione è di
raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di organizzazione,
struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui prende avvio ogni
principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva dalla sessualità, ma
dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è l'incontro con la
morte. “Amore e solitudine”: La mitologia greca aveva divinizzato la
masturbazione, perché era espressione di autosufficienza e indipendenza dagli
altri. Ma questo atto venne condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica
e dall'economia: la prima sosteneva che essa provocava malattie, mentre la
seconda affermava che era uno spreco. Osservando invece il fenomeno della
masturbazione da un'ottica diversa da queste due discipline, questo "vizio
dell'adolescente" non appare come un qualcosa da combattere, ma un
qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente la sessualità.
"Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio di sesso e denaro
che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e che viene
alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie condizioni
economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando un uomo
paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria, arrivando a
considerarla più come un "genere" che come "individuo". "Amore e desiderio": L'amore è
un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento necessita novità, mistero
e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la quotidianità e la
familiarità. infatti, la ricerca della sicurezza e della stabilità
porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non prevede l'avventura,
la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. "Amore e
idealizzazione": La percezione della realtà è una costruzione attiva, dove
l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui l'idealizzazione amorosa è
una figura, intervengono a trasfigurare i dati della realtà. Da ciò si deduce
che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti la convinzione di
conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante illusioni create dalla
passione per evitare la delusione.
"Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza
riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione.
Infatti il desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia
trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo
dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo
corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le
vesti, gli accessori, i gesti, la musica.
"Amore e pudore": L'amore prevede che ad amare e ad essere
amato sia il nostro Io, una delle due soggettività presenti in ogni individuo e
che, contro la sessualità generica, impone la barriera del pudore. Essa
però non limita la sessualità ma la individua, sottraendola a quella genericità
in cui si celebra il piacere senza riconoscere l'individualità. E' importante
sottolineare che il pudore non è un sentimento esclusivamente sessuale, ma ha
anche una valenza sociale che si pone alla difesa dell'individuo contro la
pubblicizzazione del privato.
"Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza
dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è
vista come un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei
singoli. Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva
rinuncia da parte del bambino al possesso esclusivo del padre o della
madre, ma perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la
solitudine e la paura di essere abbandonati, altera la percezione,
l'attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo
su questo potente stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore
dalla ossessività, cioè civilizzarla. "Amore e tradimento": Il
tradimento risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del
sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta
di quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal
tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: 1)la vendetta, che
non emancipa l'anima ma la irrigidisce; 2) la negazione, in cui l'individuo che
ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; 3) il cinismo,
che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; 4) il tradimento di sé,
che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; 5) la scelta
paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella
dell'amore. XIII CAPITOLO "Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile
dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto
dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di
pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e
oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la
persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione
aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a
meno di questa persona. "Amore e
passione": A differenza dell'amore, la passione non segue le regole,
ignora il governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per
questo è possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana.
La passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita,
rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare
e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il
destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per
la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e
dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro
per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta
alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la
tendenza ad escluderla dal mondo. Gli amanti chiamano amore questa reciproca
immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime
solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di
alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita
l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se
stesso. "Amore e possesso": La
passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si
indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in
cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita
sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del
corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata
lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente
identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio
di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione
si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé.
"Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata
dall'individualismo, in cui l'individuo vive in base alla sua personale
idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali.
Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e
religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione",
che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in
generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal
mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione
che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio
impegno. "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare
espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del
linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la
normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso,
l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo
eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce
quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la
totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro.
"Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un
qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una
ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la
psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole
della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica
un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di
fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore: L'amore non può esistere senza un raggio di
trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore.
L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche
la perversione. La masturbazione è segno
di solitudine. Con la prostituzione ciò che si vuole comprare non è il
sesso ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il
bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione).
L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà. La vera seduzione è possibile solo quando il
corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso. Il pudore è quel sentimento che difende
l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. La gelosia è il rovescio della passione,
dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore. Il tradimento è il lato oscuro dell'amore,
che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende
possibile. L'odio è il compagno
inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è
l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole. L'amore non prevede la rinuncia di sé. L'amore come passione è il desiderio di
potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna
buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in
capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della
nostra anima. L'amore è un cedimento
dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate
nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato
molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di
vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno
scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella
banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di
proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi
affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci
riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore
legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema
diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere
in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la
quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo
l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli;
l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta
diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la
lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle
difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è
fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri
occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera
corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a
comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre
più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una
frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella
comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi
sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che
ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono:
ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria,
parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni
relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché
entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il
concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di
questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di
riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione",
che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai
stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In
conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e
soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune
parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro
Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a
significati che, in realtà, non gli appartengono completamente.
Galimberti, attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del
sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non
definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi che gli
vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti
ma solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi
potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte
compenetrata, ma non sovrapposti. Il risultato evidente risulta
essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di
amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene analizzato in
tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione,
denaro, dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al
matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere
da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona
amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una
disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione,
iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze,
talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in
una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina
è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo
sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del
desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio,
per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera"
(Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno
di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda
alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione
dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la
trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal sentimento
che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. Il saggio
risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli
argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere
compreso da diversi tipi di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e
senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a
tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio
questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e
sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le
circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati
banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce
diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la
lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo
l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da
quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è
possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro.
"Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e
quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria,
tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore, 19). conseguenza si tende
ad innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed
idealizzare e a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il
sentimento non è ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la
percezione ed esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare
sul nascere l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia,
nelle sue molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel
tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio
dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la
sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può,
emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può
svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che
questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come
pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non
cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento
poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una
possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e
l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare
e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che,
per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e
veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un
rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi
stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in
relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato
nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne
sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me.
L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede
ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di
esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre
illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M.
Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera
con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato
dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né
completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che
gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e
ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore
delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un
abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più
importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a
tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri
molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di
mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in
ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che
cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La
fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale,
più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire
grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente
non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene
non sempre è il vero bene. Nella Introduzione al suo celebre libro del
1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si
esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se
stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone
come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la
grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora
sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma
pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo
terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe.
Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando
il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione che rimuove
la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi
la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.
Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel
momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che
da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento
dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione
contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la
psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria
corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione
psicologica. Nata con un significato semplicemente classificatorio per
designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di
fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un
significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza
dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il
loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica
è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo
«amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua
tomba. Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra
ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso,
tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa
contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto,
rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice
Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle
antitesi dei valori». A questo punto per la psicologia, pensarsi contro
se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica,
significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo
sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato.
È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo
che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo
errore. Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che
ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare
l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle
scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il
pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle
antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso
psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia. Fattasi
carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica
tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non
può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo
statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come
scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo
che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la
psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare
propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della
separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è
nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva.(…)
Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel
senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra
separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il
rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si
manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo
inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme,
s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come
storicamente s'è pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici
storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a
pensarsi contro se stessa. Questo pensiero che è contro, perché pensa
fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere
immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche
quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di
senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi
significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua
logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello
dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.
Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea
originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per
instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si
rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte
le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé
essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da
interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la
negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come
questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede
a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa
tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio
geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di
irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato
in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle
opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla
«maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione»
cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo
vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro»
nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno
dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo
sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non significa che il corpo si
oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una
pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che
qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché
quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da
un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità,
dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che
dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché
questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il
corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura
metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è
possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere
metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo,
questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco
conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può
sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e
fermarlo per sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è
una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha
individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno,
una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso
ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché
in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di
ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla
costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico
s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione
psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei
segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la
rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso
avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla
comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad
errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica,
della sua nascita come scienza. Si tratta di un errore che non investe
solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla
polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile
su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come
decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una
procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto
principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma
dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.
Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica
rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne
da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo
rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro
senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario,
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche
l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o
l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente
dissolvimento del loro valore accumulato. Per sfuggire a questa
alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di
prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione
preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il
terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole
riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del
sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato.
Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere
razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di
questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per
far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò
che dà ragionedelle molteplici ragioni. Queste ragioni che i saperi
tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai
si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella
falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà
corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche.
Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun
significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di
ogni inizio e continua oltre ogni conclusione. Ne consegue che alla
metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in
Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di
iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni
sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco
dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della
decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro
iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa,
perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è
simbolicamente con-fusa. Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già
iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee»
denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella
violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una
generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni
parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva
che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere. Ma quando
la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola
ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel
gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà
corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione
dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le
maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine
che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende
l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole,
il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla
grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda
privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma
l'ambi-valena della cosa. Fra tutte le numerose
pubblicazioni di Galimberti, questa è, forse, quella che maggiormente gli ha
dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser
della filosofia italiana contemporanea. È anche un'opera caratteristica,
perché in essa Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste
illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e
cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino
in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo
rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto
da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che
quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è
nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone,
percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo
l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche,
divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo, per
Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a
precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non
si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli -
evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita
dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto
vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità
di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei
valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal
falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei
valori è, per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo
il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e
della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce
panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo,
deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo.
E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là,
dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più
razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di
sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del
Diavolo, «colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della
argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo;
dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e
dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.
La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare,
la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e
anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può
essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la
psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché
reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la
lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e
fornisce una immagine distorta dell'uomo. È a partire da questo punto che
il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il
campo ristretto della psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del
corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e
della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo
si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida
contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché
interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il
negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e
situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti
punti di vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante,
dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo)
che esse siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e
Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci
confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un
modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca
d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da
Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un
giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di
pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una
logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere.
Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter
affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica
afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per
poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).
Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in
realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella
dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa
realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà
(immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non
essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa
considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei
valori». Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra
intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che,
quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza,
che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini
alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»;
glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente;
gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a
farsi passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera», in ultima
analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già detto; si
limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano
nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere
in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una
controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che
l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per
affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa
affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove
precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po'
patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla
per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una
razza che si è estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale,
poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale,
da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è
un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene
condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».
Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono
le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque
non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi
sono sempre strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in
piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa
ventitré secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se
fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un
continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. «Queste ragioni che i
saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura
-non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che
la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura
nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come
luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si
tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci
spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato
che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati
a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo:
che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava
sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro
interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale
errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è
posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la
verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una
forma di violenza che i saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA
FILOSOFIA è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per
le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a
colpi di martello (e non è un complimento). Punto terzo: che il corpo sia
il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente,
aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è -
ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure
è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato
il corpo al ruolo di negativo, l'esaltazione del corpo che fa Galimberti sembra
ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene
di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il
negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della
disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente inutile muovere una simile
obiezione a Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni,
che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è
corpo. La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della
corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza
batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV
secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Galimberti e la morale, Arianna.
Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e
restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le
cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse
siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e
quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati,
imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non
discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori
e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice
curare il mal di testa con le decapitazioni. Esistono altri livelli di
esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con
Galimberti -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere,
pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le
cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza. Se non
credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma
rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in
altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo
psicologia, ma anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni
coerenti del ragionamento di Galimberti: per cui, ad essere rigoroso, egli
dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione
radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è
possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere
atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare
ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento? Si badi:
quello che propone Galimberti non è un pensiero complementare, come lo è - ad
esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce
senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un
relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è
fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto,
abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che
entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono
state o lo saranno. Il relativismo è una cattiva filosofia, anzi è
l'impossibilità di fare filosofia. Eppure, questi sono gli
applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti.
Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need
to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo,
sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale
– immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore,
platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Galli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo
italiano. Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused with
Galli.
Grice e Galli – sull’amore -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano.
Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di
Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri, Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il
rigore del metodo negli studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per
le ricerche storiche e le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto
Barzellotti con il massimo dei voti dopo aver discusso “Kant e Rosmini” (Lapi,
Citta di Castello); Insegna a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii
della scuola, con particolare riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio
Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e Torino. Figura centrale della
filosofia italiana, Galli esordisce con una ricerca sullo sviluppo della
filosofia kantiana e quella di Rosmini; temi che non solo non si stanca mai di
ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste indagini sulla storia
della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio, Bruno, Leibniz, e Renouvier. «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino)
certifica la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo
filosofico italiano per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la
reflessivita. Ampie le discussioni, e talora vivacissime, su autori
contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e intransigenza speculativa.
Organo di polemiche e di interventi nella vita della cultura italiana
contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di ambizioni mondane,
sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la conversazione delle
anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida soprattutto nella
scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove volontà, serietà,
cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza divagare e che sappia
attingere costantemente alle fonti del sapere, ama ripetere. Grazie al suo
ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico italiano ha beneficiato di
un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le
scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate. Si dedica all'arte e
alla religione, completando, in questa maniera, il panorama delle sue indagini.
La Scuola media statale di Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di
"Gallo Galli". Altre opere: La
filosofia teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito”
(I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La
dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle
qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge
del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio
(Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La
filosofia di Leibniz: Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi
cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla
coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio,
Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino.
Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed
altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il problema di
Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo, Gheroni,
Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete
al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero ed
esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate
ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone,
Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega
d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo,
Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il
pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di
Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano 1974. Di carattere
pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed
esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Persée. Portail de revues en
sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also
did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula
philologica. Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio
di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato
parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di
Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché,
a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E
dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì ,
alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus
Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse
imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di
ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro,
non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda
«superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi
parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il
discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore.
Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha
comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene
infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E
bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco,
un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e
alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e
utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi
la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura
tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate?
Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che
Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto
tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto
oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me
stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un
discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte
sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri.
Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha
esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene
seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo,
corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse
troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi
poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo
si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha
invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di
declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine
avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu
dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto.
FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come
sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima
che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO:
Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola
per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti
con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella
di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE:
Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello;
ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente
che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente
intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo!
FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di
esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e
andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto
tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto;
tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci
i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a
quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo
sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è
ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se
vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio
da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito
Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque
appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi
vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il
fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea.
2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per
Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se
non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora,
facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle
rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la
voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche
questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero
queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e
impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è
giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi
gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero
di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non
credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa
uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho
proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono
ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13)
quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro
ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità
fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui
volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per
sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è
bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il
luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di
acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle
e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E
se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una
melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di
tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per
distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a
un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una
persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto
da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti
oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE:
Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non
vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che
tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che
conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o
qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri,
sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo
vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu
scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi.
FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che
ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare
parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione,
ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose.
Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa
dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno
che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro
amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa
cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni
trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché,
tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che
pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di
tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al
sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a
rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere
che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si
innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi
faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una
cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto,
potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere
malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi;
di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene
ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il
migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi
quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza
che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo
l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a
sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri
così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione
mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano,
essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso
gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli
amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li
vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro
desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto
ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è
necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se
poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno
fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge
coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto
che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me,
innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente,
ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso,
senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco
e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e
cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia
che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere
amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran
conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici
fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma
da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha
bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori,
ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la
massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è
il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando
te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E
dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel
seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma
dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e
che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi
veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i
Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro
che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da
qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In
qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire
cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me
niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo,
che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un
vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite.
FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi
riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo
proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno
diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime;
quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una
statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei
carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano,
abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza
degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è
necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a
chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la
disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da
lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di
maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a
Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul
serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi
che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto
dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione
per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei
capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti
dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE:
Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi
argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO:
Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di
avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora
non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un
giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano
qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a
questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di
nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere
un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai
tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così
chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me
il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un
desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose
belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama?
Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci
governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato,
è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo
bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo,
talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro.
Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale,
la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori
di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato
dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte
membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a
chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né
meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che
tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro
quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi
che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è
ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato
fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è
assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il
desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è
retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato
vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso
nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23)
Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato
divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che
non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a
lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o
pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo,
danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie
alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina
filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di
essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in
modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa
condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo
danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova
amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve
considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne
diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché
il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta
alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di
secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di
colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle
attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori
discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un
corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i
nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò
questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare
invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri
beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma
soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che
l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe
che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa
d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie
ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto
per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà
cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo,
bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce
assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi
amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto,
Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso.
FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole
per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando
quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei
accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio
mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che
farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi
hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti
sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti,
che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi
si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io,
attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te
a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata
la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata
immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà
più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e
semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante
la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di
persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio
eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E
ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora
non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando
stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino
che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per
fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di
andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa
verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo,
ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò
comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un
che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il
discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo»
nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi
sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7 Platone Fedro
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come
quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e
sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di
questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros
sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice.
SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato
tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un
che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati
ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno
commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio
graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come
se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso
di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro
che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito
purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato
della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da
amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo
discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti
alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato
Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di
loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver
diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo
scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto
dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi
con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello
ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse
innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre
diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono
gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe
l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno
mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui
rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE:
Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros,
desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso
d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile
che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama.
FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio
dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un
altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai
quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il
ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non
conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie
parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu
voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di
prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che
mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque
parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza
di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è
in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda
a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più
grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la
profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da
mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati,
mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla
(30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un
dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone
verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente
di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che
coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole;
altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la
quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò,
quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e
l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella,
secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece
dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra
più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi
bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume
un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé.
Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca
questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è
pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa
del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori
del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo
degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo
dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore
dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura
dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima
che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce
danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta
per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia
visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia
appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è
legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima
generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si
trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del
bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda
si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e
al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato
o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o
degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad
avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà
confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano
dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino,
all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella
di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia
partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una
peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila
anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella
di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli
secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto
per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al
compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono
al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state
giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro
pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il
tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al
millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della
seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche
finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da
bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a
tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto
idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal
pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra
anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che
ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò
giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo,
secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù
delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali
reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di
mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza
con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone
belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto,
ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si
sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo
dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora
videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno
avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé,
ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e
10 Platone Fedro beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non
rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi,
incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al
ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è
parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava
tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo
colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo
più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che
riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza
(poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le
offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore.
Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di
tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è
corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in
sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando
guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e
a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha
timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato
di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza
si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata
per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a
smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno
restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere
colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del
flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato
e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il
frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e
non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri,
fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze
vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e
le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato
e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile
al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede
la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui
si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros,
gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età,
ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo
presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e
non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano
Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si
può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama
è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di
Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome
dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a
lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato,
sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così
ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace,
onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e
vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione
con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il
suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una
specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di
Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto
guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato
e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se
prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi
mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da
soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del
proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo
verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e
tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è
possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono
la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus
come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo
rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito
di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse
cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo
secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e
una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la
persuasione e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad
assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno
senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza,
ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e
con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i
pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con
violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga
li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo
attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto
la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia,
essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono
padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che
l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi
compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente
chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che
in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo
proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è.
FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e
decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero
riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho
sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di
apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla
moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO:
Pare di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso
di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere
peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo
e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una
sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha
costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in
relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente?
Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò
che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per
noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE:
Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al
discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende
le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di
amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del
tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce
in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida
il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare?
SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che
l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte
lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi
indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E
lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia
da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire
grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e
al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le
prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo
da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i
discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO:
Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che
anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come
parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la
ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse
dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59)
FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo
tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle
cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la
povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo
d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi
nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e
potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci
sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni
danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare
per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti
trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere
sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire.
SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena
luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando.
FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo.
SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non
sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE:
Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre
Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da
riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli
vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento
che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare
medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che
direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche
a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura?
SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi
ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che
chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono
di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro
discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna
di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se
fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un
qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e
presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero;
ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente
esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto
campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia
come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un
retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una
di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non
mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco.
FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle
sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché?
SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi
celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di
condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle,
oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi,
credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e
giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per
l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere
dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In
entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e
nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere
la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro?
FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero
sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque
luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o
no... FEDRO: Cosa? 20 Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da
tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo
verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo
spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze.
Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo;
altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non
enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di
dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea,
non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo.
E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il
sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli
uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in
modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli
antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome
della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti
e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli;
quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà
gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato
trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale
danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene.
Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello
che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della
memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri
estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco
non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai
tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte
cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più
le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori
di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità
discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio
caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti
come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una
roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che
parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno
così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
21 Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto
quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e
non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato
ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di
difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole
sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso,
fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura
migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo
te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno
pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli
stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli
crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa,
quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul
serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto,
sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi?
FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli
altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle
cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue
sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente
nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di
difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la
verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a
quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li
scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso
giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa
orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri
giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi,
egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in
ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate,
rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi,
narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così
è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più
bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi
pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di
venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma
abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri
discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la
possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è
molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo
giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo
indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il
rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi,
quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e
ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così
almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE:
Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o
scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che
l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che
non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la
natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e
regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a
un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima
semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con
arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il
discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in
tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o
turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto
giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa...
FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o
scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o
scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande
solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o
meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto,
male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta
la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che
nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco
e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in
versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono
recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a
persuadere), 22 Platone Fedro ma che i migliori di essi siano
realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e
ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati
come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima,
vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che
discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi,
innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi
quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo
nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti
saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io
ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto
ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo
scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi
alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci
ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi
altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a
chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi,
quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può
soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è
in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una
persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome
derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni
dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo
grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome
del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto
fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle
che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo,
incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta
o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci
dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da
parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il
bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è
ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che
cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei
discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò
non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio
grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli
quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse,
ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo
di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io
riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa'
sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche
la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a
questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e
voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che
tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io
consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non
chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di
qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa'
questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo!
23 Platone Fedro NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il
quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il
discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente
fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi
al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca.
3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario
precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il
suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2.
5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso
per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche
nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea
Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7)
Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena
estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di
Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle
battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la
fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era
un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato
dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli
Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà
uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una
di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano
Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva
il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo.
Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da
Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te
stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14)
Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che
emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo
scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820
seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo
portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in
italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio
di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo
"atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel
dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da
mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità
dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione.
Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei
fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281.
17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il
sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi
dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una
quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo,
lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal
tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a
quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento
di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone
avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19)
Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni.
L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata
dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una
critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22)
Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce
melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco
paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri
erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra
"èros" e "róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento
lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena
decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di
invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal
logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon),
nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre,
sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio
dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima
inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di
Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page.
Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi
frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C.
Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un
carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la
'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera
Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa
da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase
cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso
precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva
mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso
santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la
Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. 30) Questo nome
designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era
nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in
Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta
derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei
due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui
il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima
impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione
dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel
Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre
qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale,
come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e
bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a
quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti
opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione
di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella
cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era
immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le
divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34)
L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo
metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità
trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35)
Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione
del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene
qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi,
argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo
della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-",
radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi
nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero.
Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i
due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e
Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'),
probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404;
libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le
cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella
traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo
"dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti
o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede,
bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece
il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota
36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia,
né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno
del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima
analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica,
più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere
nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e
fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta
tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio
legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in
giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di
discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale;
le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di
logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da
essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove
si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44)
L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa
semplice ne è derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata,
Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e
poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato
(594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei
cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485
a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue
è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. 25 Platone Fedro 48) Omero, Iliade libro 2,
verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice
la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i
discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei
guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e
soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe
che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia,
era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il
480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti
della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue
numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco
di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della
Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come
diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del
quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a
Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di
confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i
paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il
leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da
Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche
tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo
da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo,
uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu
maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica
siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della
sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il
celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di
Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei
protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere
di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60)
Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad
Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è
ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una
condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo
è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61)
Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è
rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di
miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è
qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista.
Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il
processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui
ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora
di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come
discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è
l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato
"nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e
il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di
Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli
resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus
Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale
greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci
identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel
tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente
"ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e
non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata
all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo.
Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso
Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta
sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta
da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di
Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro
otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di
Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di
scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di
gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione
orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338
a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di
lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città
greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione
contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste
del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia
e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come
protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la
preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza
della sapienza.Convito Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org Platone Il Convito 1 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org I APOLLODORO Credo
proprio di essere bene informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro
giorno, me ne stavo venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che
conoscevo, vedendomi di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi
fa: «Apollodoro il falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e
quello: «Ti stavo cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere
qualcosa di preciso sui discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti
gli altri, al banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un
tizio che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse
che ne eri al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto.
Raccontami tutto tu, quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i
discorsi del tuo amico. Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella
riunione?» «Si vede proprio che questo tizio ti ha male informato se credi che
quella riunione di cui stai parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi,
vi abbia potuto partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo,
Glaucone? Non sai che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e
che, d'altra parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con
Socrate, che gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che
fa? Prima d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa,
mentre ero l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te,
adesso, che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è
poco da prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa
riunione.» «Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la
sua prima tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli
del coro vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del
tempo! Ma a te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la
stessa persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di
Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché
era un patito di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto
mi riferì costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro
m'aveva raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa
strada che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada
facendo, così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto
in principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a
voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne
parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere
dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i
vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba,
ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate
il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero
diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo
soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre
che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate,
tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a
2 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org
cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non
riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e
te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque,
bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato?
AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e, come
t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E va
bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che incominci
dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. 3
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli mi
riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali
ai piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così
bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la
sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio,
ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello:
lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non
sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E
allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal
buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo
l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti,
mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao,
invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza
essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un
sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un
valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio,
non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da
nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci
porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto
da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la
strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava
Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece
pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui
si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo
giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò
un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i
convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena
Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per
mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto,
lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono
riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,»
continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero
con lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto
benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei
proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo,
non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo,
siediti là, vicino a Eressimaco.» II 4 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Continuò a raccontare così, che
mentre un servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a
dire che quel bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina
e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol
venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo,
insisti.» «Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo
di lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a
un tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che
verrà, ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah,
va bene, va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora
portateci da mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel
capo, se non vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga;
ma oggi, fate conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e
quindi, trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a
mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva.
perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate
fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di
solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava
seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me,
così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta
che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre
scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe
una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a
chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come
l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se
anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco;
sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché,
vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un
sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto
che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in
tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu,
Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di
sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare.»
III 5 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si
sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le
libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti
dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se
ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano?
Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo
pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri
c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un
po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io
mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne Eressimaco,
il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne qualche
altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente bene.»
«Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per
Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere
ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti,
siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo
sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi
pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi
dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come
medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai bere
più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il giorno
prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro, quello
di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da medico; e
farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di giudizio.»
E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per quella volta e
bere ciascuno per quel che gli andava. IV 6 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poiché, ora,» riprese
Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che vuole senza
che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso la
suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto suo
o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a
chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora,
almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre
l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di
Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È
Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza,
Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e
che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non
ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo
i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti
scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse
capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non
faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua
utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che
si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora
trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente:
ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi,
è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso
tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per tutti
noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo
passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da
destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può;
e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è
stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà
contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di
essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania,
figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno
questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti
quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi
diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona
fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti
approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno
disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non
ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e,
perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di
ricordo. V 7 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che
incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso,
tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto,
per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di
essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha
genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci
dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi
per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci
furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi:
Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più
fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è
fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene
maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche
viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei
principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non
gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio
alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di
buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di
grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a
commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di
difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o
chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per
quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da
chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di
innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini
rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi,
messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero
il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il suo
reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla
persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde,
abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non
c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario
coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è
coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice
Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in
quelli che amano.E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli
altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la
figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la
quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre
e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso,
appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al
loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu giudicato
così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur concedendo
solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio di vedersi
restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla il ritorno
alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei apprezzano
moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio
di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla,
mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la quale egli era
sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un debole (suonatore
di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di morire per amore, come
Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco
perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per mano di donne.
Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché
per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso Ettore
sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria e lì
avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per Patroclo,
per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per lui
morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero onori grandissimi,
come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico amato. Eschilo
dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di Patroclo, lui
che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri eroi, imberbe
ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La verità, però, è
che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore, volgono più la loro
ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di chi lo ama, piuttosto
che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di chi si lascia amare,
perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono maggiormente Achille
che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per concludere io affermo
che Amore è il più antico degli dei, il più degno di onori, quello che più può
infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre vivono che dopo la loro
morte.» Questo, presso a poco, a quanto mi riferì Aristodemo, fu il
discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non ricordava molto. E
così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a dire: «Non mi pare
che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo
semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo,
la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e
quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo
errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore
convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che
non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo
stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno anche
gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe madre,
la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane,
figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che
convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste.
Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur
dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo di
caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio: quello
che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso, non è
che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene compiuta:
onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo
stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma solo quello
che spinge a nobilmente amare.«Orbene, l'Amore che convive con la Venere
Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un
po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan
differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il
corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono
dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono
per comportarsi come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore
deriva dalla Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina
e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere
Celeste che anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella
maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica
e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo
Amore, volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò
che, per natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa
passione per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente
infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non
quando questi hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la
prima barba. Io penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a
questa età, lo fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce
intimità e non per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e
sbeffarli, piantandoli poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci
vorrebbe proprio una legge che vietasse di aver relazioni amorose con i
minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica per un esito incerto; con i
ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire, se faranno una buona
riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche che per quelle
morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per i dongiovanni
da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in proposito, così come
abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero rapporti intimi con donne
di condizione libera. Sono questi che han fatto degenerare la cosa a tal punto
che ora c'è gente che afferma che è brutto corrispondere chi ci ama; e lo dice
proprio perché ha davanti agli occhi l'esempio di questi tipi, privi affatto di
buon gusto e di un minimo di pudore, giacché nessuna cosa, se è fatta nei
dovuti limiti e secondo onestà, può giustamente tirarsi dietro un qualche
biasimo. Negli altri Stati, intanto, le leggi sull'amore non sonio di difficile
interpretazione, regolate da principi assai semplici, così come concettosi e
ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide, per esempio o a Sparta o anche in
Beozia, dove la gente non è abituata a far bei discorsi, viene, molto
semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere chi ama e nessuno,
giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa brutta; questo, a
mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di persuadere i
giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia, invece, e in
molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa è ritenuta
vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro regimi
tirannici, anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla ginnastica, è
cosa disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga che sorgano
tra i sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o identità di
vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a far nascere.
E questo l'hanno imparato anche qui da noi i nostri tiranni, come l'amore di
Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio, abbiano distrutto il loro
potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa disonesta corrispondere chi
ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori, dall'arroganza dei
governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la cosa è ritenuta
senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di chi ha fatto la
legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che altrove ma, come
dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si pensi, infatti, che
da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di nascosto, amare,
poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri e
che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che
la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio
intento ed è quasi un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge
accorda all'amante, per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose
addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che se uno facesse con
altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se
uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere
un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti
fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che
bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti
all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi,
cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo
modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli
rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere
e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista
addirittura pregio e la nostra legge glielo consente, senza che su di lui
ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma
quello che è ancora più straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi
ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il
perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che
valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama,
un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi. Tutto questo
autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e corrispondere chi
ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti mettono alle
calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani
dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere
uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani
lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar
bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato
cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece
così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto
per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male.
Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si
concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa
onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui
che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso
com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo,
di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e
belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli
resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le
nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli
uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli
amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando
così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie
appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta
cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza
dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in
secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche
politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si
metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di
far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente:
infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che
da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra
legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e
compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante,
per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è
una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per
oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio
di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo
del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è
vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella
sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o
qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una
cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando l'amante
e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa condotta,
cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi favori e a
servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la volontà di
chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace di dare
senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e d'acquistar, in ogni
modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due direttrici convergono
a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la persona amata conceda i
suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In questo caso essere
ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri casi, ingannati che si
sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane, infatti, in un miraggio
di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi resta ingannato perché
s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane, compie un'azione molto
spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un uomo capace di darsi a chiunque
per sete di denaro e questo non è bello. E per un ragionamento analogo, se lo
stesso giovane, invece, si fosse concesso a persona virtuosa, riconoscendo che
sarebbe divenuto migliore proprio in virtù di quella corrispondenza e poi fosse
stato ingannato perché il suo amante s'è rivelato persona del tutto mediocre,
priva di qualsiasi virtù, ebbene questa delusione è motivo di compatimento;
infatti, egli ha dimostrato di esser pronto a dar tutto se stesso a chiunque,
ma per la virtù e pur di diventar migliore, e questo, certo, è tra tutte, cosa
bellissima. In conclusione, il concedersi per ottenere, in cambio, virtù, è
bello. Questo è l'Amore della dea celeste, celeste egli stesso, degno in tutto
di venerazione da parte dello stato come dei singoli individui, che spinge gli
amanti e le persone amate, ciascuno per quel che gli compete, a preoccuparsi
soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli altri amori, provengono tutti dalla
Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto ho improvvisato, Fedro, così su due
piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa di Pausania (guarda un po' che
giochetti di parole ti sto a fare, che m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a
riferirmi Aristodemo, toccava ad Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di
stomaco, vuoi per qualche altra causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi,
era nell'impossibilità di parlare. Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico,
che gli era seduto accanto: «Cerca di liberarmi da questo singhiozzo,
Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi tu la parola, finoa quando non si
sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro in un modo e nell'altro; parlerò
io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti sarà passato; intanto cerca di
trattenere il respiro per qualche minuto e vedrai che il singhiozzo se ne andrà,
oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei gargarismi e, se persiste, prendi
qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di starnutire e vedrai che, con un
paio di starnuti, per quanto ostinato, ti passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a
parlare,» insistette Aristofane, «intanto io cercherò di fare come tu
dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio avviso, mi par necessario che
cerchi di concludere il discorso che Pausania ha iniziato così bene ma che poi
non ha portato a termine. Che Amore sia duplice, ci sembra distinzione esatta;
ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle belle creature, ma in
tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre forme, negli animali, per
esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature viventi, io credo di
averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì, come Amore sia grande
e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana e divina. Comincerò,
quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico, anche in omaggio a
questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé questo duplice
Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti sanno, due
condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono e non
desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che prova
la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E come Pausania diceva
poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e vergognoso è, invece,
darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per cui è cosa bella, anzi
doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di ciascun organismo (e, in
fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è male, invece, farlo per le
parti malate per le quali occorre agire con intransigenza, se si è veramente
capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina, per dirla in breve, è la scienza
che studia le tendenze affettive dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e
chi sa distinguere in queste tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran
medico; chi, poi, queste tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una
al posto dell'altra o stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece
dovrebbero esservi o, addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui,
allora, sarà proprio un maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di
un organismo che sono tra loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro
reciproca armonia. E gli elementi più incompatibili sono quelli contrari,
freddo e caldo, amaro e dolce, secco e umido e così via; e poiché ad aver
saputo conciliare ed armonizzare tutti questi contrari è stato nostro padre
Asclepio, egli, come dicono questi poeti e come anch'io sono convinto, è il
fondatore di questa nostra scienza. Tutta la medicina, dunque, come vi sto
dicendo, è governata da questo dio, come del resto la ginnastica e
l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un minimo di riflessione perché
tutti comprendano che essa si comporta alla stessa stregua delle altre arti,
come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire, sebbene non si esprima in
termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice, ‹con se stessa s'accorda,
come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è assurdo pensare che l'armonia
sia mancanza di accordi o che nasca da elementi ancora discordanti tra loro.
Egli, forse, voleva dire che essa nasce da elementi prima discordanti, l'acuto
e il grave, per esempio, che si son poi accordati per virtù della musica;
infatti, non è certo possibile che l'armonia risulti da suoni tuttora discordi
tra loro quali l'acuto e il grave. In verità, l'armonia è consonanza e la
consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi sia accordo da cose discordi
finché restino tali, come impossibile è che vi sia armonia quando gli elementi
discordanti non abbiano trovato il loro accordo; così come anche il ritmo, del
resto, che risulta dal veloce e dal lento prima discordi tra loro ma poi armonizzati
insieme. E l'accordo fra tutti gli elementi, come per quelli di prima era dato
dalla medicina, così per questi è dato dalla musica che produce, quindi, tra
loro, reciproca armonia e corrispondenza. La musica, quindi, per quanto
riguarda il ritmo e l'armonia, è scienza d'amore. Non è difficile, poi,
individuare nella stessa costituzione del ritmo e dell'armonia questa sua
peculiarità, in quanto in essa non vi sono le due specie d'amore. Quando però
si compongono ritmi e armonie per la gente (ed è questa, propriamente, ciò che
si chiama composizione musicale) o si eseguono fedelmente melodie e partiture
altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che viene il difficile e occorre un
bravo artista. E qui si torna al discorso di prima, cioè che bisogna compiacere
alle persone per bene o a quelle che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo
e conservarsi il loro amore che è poi quello bello, quello celeste, l'amore di
Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui
bisogna concedersi con prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza
concedere per goderne senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra
scienza è molto importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona
cucina in modo da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica,
nella medicina e in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine,
occorre tener presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque
contenuti entrambi. «E anche le stagioni dell'anno, nella loro
successione, son colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di
cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto
l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente,
allora le stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle
piante e non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro
amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque,
ecco la causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le
piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e
dal disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che,
attraverso il moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi
fenomeni, si chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui
presiede l'arte profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto
tra gli uomini e le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e
salvaguardare l'Amore; ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si
dimostra buona disposizione nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si
fa, lo si tiene nella dovuta stima e lo si onora. Cose, invece, che si
concedono tutte all'altro amore, sia per quel che riguarda i rapporti con i
propri genitori, vivi o morti che siano, sia quelli con gli dei. A queste cose,
appunto, l'arte profetica è destinata, per cui deve sorvegliare gli amori e
apprestarne i rimedi; e la divinazione è all'origine dell'amicizia tra gli dei
e gli uomini in quanto, delle tendenze umane, conosce quelle che si volgono
alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto grande e vasta, anzi, universale è
la forza d'Amore, ma quello che si volge al bene con saggezza e giustizia sia
nei nostri rapporti umani che in quelli degli dei tra loro, ha forza ancora
maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella concordia e nell'amicizia con
tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli dei. Forse anch'io ho
tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio d'Amore; se l'ho fatto,
è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi onorare il dio in altro
modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.» E così, mi riferì
Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse: «Veramente è passato ma
solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come il corpo umano, così ben
fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e solleticamenti, come lo
starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è cessato appena ho starnutito.»
«Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco, «sta un po' attento a quel che
fai; ti metti a far dello spirito proprio ora che devi parlare e così mi
costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola, nel caso ti saltasse in
mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar tranquillamente.» «Hai ragione,
Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi come se non avessi detto nulla.
Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché io ho proprio paura, non tanto
perché, forse, con quello che sto per dire, farò ridere, il che potrebbe essere
anche piacevole e coerente con la mia musa, ma perché mi farò invece deridere.»
«Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci il sasso e poi nascondi la mano;
mettici attenzione, invece, e parla come se dovessi dar conto di quello che
dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti tranquillo.» Per
dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane, «io avrei in mente di fare un
discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io credo, infatti, che di tutta
questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne siano accorti per niente,
altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi, altari, gli farebbero
sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo mentre sarebbe la prima
cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli dei, è amico degli uomini,
viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui guarigione, forse, sarebbe
la più grande felicità del genere umano. Quindi, io cercherò di svelarvi la sua
potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli altri. Per prima cosa, dovete
rendervi conto cosa sia la natura umana e quali siano state le sue vicende; per
il passato, infatti, essa non era quella che è oggi. Nel principio, tre erano i
sessi dell'uomo, non due, il maschio e la femmina, come ora: ce n'era un terzo
che aveva in sé i caratteri degli altri due, ma che oggi è scomparso e del
quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito. Esso, infatti, era un essere a sé
stante che, nell'aspetto esteriore e nel nome, aveva dell'uno e dell'altro,
cioè, del maschio e della femmina; oggi, ripeto, non resta che il nome che, per
di più, ha un significato infamante. Inoltre, la figura di questo essere umano
era arrotondata, dorso e fianchi formavano come un cerchio; aveva quattro mani
e quattro erano pure le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo
anch'esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un
unico cranio; aveva quattro orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto
questo, possiamo immaginarci il resto. Camminavano in posizione eretta, come
noi, volendo potevano spostarsi in qualunque direzione e, quando correvano,
facevano un po' come i nostri saltimbanchi che gettano in aria le gambe e
capriolettano su se stessi: e poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di
essi, procedevano, a ruota, velocemente. I sessi erano tre, perché quello
maschile aveva avuto origine dal sole, quello femminile dalla terra e l'altro,
con i caratteri d'ambedue, dalla luna, dato che quest'ultima partecipa del sole
e della terra insieme: perciò avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando,
perché somigliavano a quei loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza
prodigiosa, nonché un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con
gli dei e quel che dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il
cielo, va riferito a costoro. «E così Giove e gli altri dei si
consigliarono sul da farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di
ucciderli, infatti, come i Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di
fulmine (il che sarebbe stato come far sparire onori e sacrifici agli dei da
parte degli uomini) e del resto non era possibile continuare a sopportare oltre
la loro tracotanza. A furia di pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho
trovato il sistema,› esclamò, ‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso
tempo, divengano più deboli e la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li
taglierò, ciascuno, in due,› continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato
che aumenteranno di numero potranno esserci anche più utili. Cammineranno su
due gambe e, se non si metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li
taglierò ancora e cosi impareranno a camminare su una gamba sola, come nel
gioco degli otri.› Detto fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si
tagliano le sorbe quando si mettono a seccare, o come si divide un uovo col
crine. E via via che tagliava, poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli
rivoltasse il viso e la metà del collo dalla parte del taglio in modo che
l'uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo,
infine, provvedeva a chiudere le altre parti. Girava la faccia e, tirando la
pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per
chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio
in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le
molte rughe e modellava il petto usando un arnese un po' simile a quello che
adoperano i sellai per spianare, sulla forma, le grinze del cuoio: ne lasciava,
però, qualcuna, nei paraggi del ventre e intorno all'ombelico, in ricordo
dell'antico castigo. Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che
ciascuna metà desiderava ricongiungersi all'altra; si abbracciavano, restavano
fortemente avvinti e, nel desiderio di ricongiungersi nuovamente, si lasciavano
morire di fame e di accidia, non volendo far più nulla, divise com'erano, l'una
dall'altra. Quando, poi, una delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se
ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso
femminile (che oggi noi chiamiamo propriamente donna) che una di sesso
maschile; e così, morivano. Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo
espediente: spostò il loro sesso sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla
parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma alla
terra, come le cicale. Dunque, trasferì questi organi sul davanti e, così
facendo, rese possibile la procreazione attraverso l'unione del maschio nella
femmina; lo scopo era quello di far generare e di perpetuare la specie grazie a
un simile accoppiamento tra maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata
fra maschi, dopo un po' sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una
volta separatisi, sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della
vita. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li
riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando,
così, l'umana natura. «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di
un unico contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e
va continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son
derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come
l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì
provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa
origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che
son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei
riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui
sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di
un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto
che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti
abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati
di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli
svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché
sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è
la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e
partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli
e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse
dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei
figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui
nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo
sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua
metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro,
sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore
per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per
dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più
dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia
soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo
che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente
intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto,
con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini,
l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate,
forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di
giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una
stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate
come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere
uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è
questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero
queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno
mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le
parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola
cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è
che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento
per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto,
noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo
stati divisi, un po' come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani.
E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora
tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in
due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a
metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli
dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci
volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei);
perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo
a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a
pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che
io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra
questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in
generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura
in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata,
ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne
consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli
si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se,
dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che
dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci
è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo
riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci
renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su
Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a
canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi
gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.» «E
va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è
proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi
in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che
rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento
sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto
la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella
posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo
bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io
adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio
confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare chissà
cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,» replicò
Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in pochi. Ho
visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio con gli
altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno zeppo,
poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo, Socrate?»
ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una rappresentazione
teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon senso, poche
persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non sarebbe
bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace di un
pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone che tu
ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a un
mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo
anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi
veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi
di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu
la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo
punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a
Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene
importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un
bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di
Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da
ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi
discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente
mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per
discutere.» «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare
il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti
quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto
l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel
dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti
questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di
qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui
si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima
lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io
affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato)
Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello
soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la
prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci
casca addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non
le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i
giovani e ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo
simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto
che Amore sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più
giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli
dei che raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di
Amore, ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state,
infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato
in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna
sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli
manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate,
per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata
(almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che
non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi
pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che
non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello
stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra
e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le
più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha
posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli
dei; non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne
trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli
è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con
le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere
delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è
duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto
nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune,
è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede.
Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza
del suo incarnato ci dice che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta
dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro,
ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del
dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo
delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa
torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce
violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con
prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e
quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine
degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in
sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la
temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun
piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi,
sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui
piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la
forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che
conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e
chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più
forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della
temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua
sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla.
Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha
fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare
tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore,
anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre
la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione
artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né
insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione
di tutti gli esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa
crescere tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo
forse che chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece
non è toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza
nella medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del
desiderio e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio,
come le Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva
per quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e
sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da
quando Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché
delle cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e
orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava
Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne
per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio
che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e
bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così:
pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il
sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un
senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a
feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la
benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità,
benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici,
posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della
Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei
malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è
guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di
tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno
deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col
quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio
discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata
gravità, secondo le mie capacità.» Quando Agatone ebbe finito di
parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti
i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di
lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di
Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse
previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo
e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose
Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone
avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio
non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque
altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in
qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non
sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di
espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire
qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla
vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da
farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè,
che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia,
di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi
diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo
quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un,
esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo
un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che
sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire
la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse
scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero
tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che
conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare,
non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più
sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo
d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente.
Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li
affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un
sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi
non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel
panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli
elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io,
seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora,
statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più
forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo
mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere
dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo
genere e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con
quei termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.»
Ma Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come
volesse. «E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad
Agatone, perché voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,»
commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così:
«Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso
quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore
e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora,
dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura
d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada
che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo
chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi
a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi
risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve
essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare?» «Ah,
certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo
anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa
per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello,
come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello
o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di
Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.»
«Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi,
invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel
che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio
perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose.
«Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è
necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha
una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne
sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben
detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande?
E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è
impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha
già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser
forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser
sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a
casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità,
tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre
in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono
queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le
posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano
voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero
questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già
ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire,
giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po'
se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece,
semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi
già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che
Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci
siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare
quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,»
ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui
ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o
di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?»
«Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto.
Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si
è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che
cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non sbaglio,
tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono grazie
all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo che
hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto opportunamente,
mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore, che altro è se
non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non abbiam detto che si
ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece. «Dunque, l'Amore,
non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi è privo di
bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose stanno
così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate, di
non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai
parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che
è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha
la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di
bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come
tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate,
invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.» «Ma sì,
via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore,
mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e
su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici
che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia
di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo
dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come
posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu
dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e
poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di
seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me.
Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto
Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella
cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati
ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né
buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e
malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse
che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.»
«E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è
sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E quale?» «Avere
un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece
«che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una
spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie
nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo
tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. «E quindi
non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi,
brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di
Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare
che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due
estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente.»
«Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno?»
«Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei,
ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?» «Uno,
intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice. E tu,
infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli? avresti
il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo cielo, io
no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e
bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e
belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un
dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,»
concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.» «Ma,
allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.»
«Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e
l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i
demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello
di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e,
agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel
suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli
altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta
l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i
sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la
magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli
parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il
sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende
d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è
che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo
padre e sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la
racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto
e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di
pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il
banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il
vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e,
mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue
angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si
stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e
ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è,
nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto,
per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa
condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i
più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo,
vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle
strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la
miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e
buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre
pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita
dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista.
Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della
natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così che
Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar
sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla
filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né
ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non
è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente;
naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello
di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli
che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?»
«Ma è chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son
quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra
questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore
ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale,
sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto
questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è
affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu
immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire
dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama.
Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente
bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha
un altro aspetto, quale io ti ho descritto.» Ed io: «E sia,
straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?»
«È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così
è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che
senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi
ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma
questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di
questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose
belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire.
«E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e
che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che
diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A
questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti,
concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e
non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi
pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello
che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un
po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o
pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E,
allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini
amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che
solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi
stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto
un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il
resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è
creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui
qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività
creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,»
continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di
tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano
della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e
poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.»
«È vero,» ammisi. «E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene
e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli
che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i
guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che
sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un
particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare,
amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro
un certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro
metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per
l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si
lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per
loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci
appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti,
gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me
sì,» ammisi. «E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il
bene?» «Sì,» confermai. «Ebbene, non bisogna aggiungere che essi,
questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per
un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci.
«Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che
dici,» feci. «Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che
la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo
perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo
succede? Sai rispondere?» «Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di
meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto
questo.» «E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da
parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,»
azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi
spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro,
nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età,
come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel
brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo
con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo
concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure
ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia,
rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi
la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando
chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno,
atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece,
s'accosta al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto
afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e
ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso
desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo
possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate,» concluse, «Amore non è amore del
bello, come tu credi.» «Ma, allora, cos'è?» «produrre e creare nel bello.» «E
sia,» ammisi. «Sicuro,» confermò lei. «E perché questo generare? Perché
generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una
creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene, almeno
da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del bene;
ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di
immortalità.» Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a
parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate,
sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile
stato son tutti gli animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli
che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti
d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per
l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più
deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame
per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che
facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde
proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere
di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle
questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima,
come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela
tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.»
«Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più
volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima
che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere
immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione,
per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede
anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa;
si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino
fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo,
benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo
sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto
il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini,
modo di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non
resta sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che
è ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e
periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che
riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa
sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio
presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol
dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo
ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso
appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che
è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è
divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo
posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate,» concluse, «in che modo tutto ciò
che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare
dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se
ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in
tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio
dell'immortalità.» Ed io sentendola parlare così, tutto stupito,
le chiesi: «Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella
con un fare tipicamente cattedratico: «Persuaditi pure, Socrate, che è proprio
così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se
tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia,
considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar
gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre
tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare
fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe
morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il
regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la
loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo
che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e
questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così
quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro
modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro,
immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece,
che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non
lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma
quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti
sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori;
la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento
dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza
e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da
giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta,
desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello
in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è,
sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte,
figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si
rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà
tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene
debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso
che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia
alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le
stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è
nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più
profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato
che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli
simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri
grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale
essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria
eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta, a
salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è
onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini,
sia in Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e
belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già
stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di
carne e di ossa.» «Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che
anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più
alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi
stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto.
Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca,
intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario,
prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane,
avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige
bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi;
successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo
di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi
se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe
sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto
di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle
sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona,
riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere
che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo
che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non
florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri
sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani,
per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni
umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come
la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga
alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale
ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un
sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube
inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e
contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri
concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e
arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la
stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi
attenzione. «Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni
d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al
termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa
bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente fatica,
una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né
si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che
a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né
bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa
bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa
riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né
come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi,
per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per
sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella
partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in
meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose terrene, in
virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a scorgere
questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti questo è
il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le questioni
d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come fine
ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da uno a
due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e poi
alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro è
scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così,
alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di
Mantinea, «è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la
pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una
volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro
o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non
senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile,
rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre
contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora,» continuava a
dire, «se uno riuscisse a vedere la Bellezza in sé, in tutta la sua adamantina
purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre
vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé,
divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che
fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con
esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con
quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di
virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato,
ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del
resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente
alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale,
se mai altro uomo lo è stato?» Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi
ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di
persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che
l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che
ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue
discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la
potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo
discorso giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo
pure come meglio ti piace.» Quando Socrate ebbe concluso, continuò
a riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane
stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto
un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un
tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come
di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi,
non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela
pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo
riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco
fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo
conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla
suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati,
incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di
nastri. «Salve, amici,» esclamò, «lo volete con voi, a bere, un uomo già
completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa
ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non
mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa,
per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente
e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure,
tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me,
o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di
prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti
sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di
incoronarlo senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al
punto che, quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette
scostarsi per fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad
abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande. «Ragazzi,» veniva, intanto,
dicendo Agatone, «slacciate i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia
terzo tra noi due.» «Benissimo,» approvò Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e
così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: «Santi
numi,» esclamò, «ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi
ancora qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me
l'aspetto. Che sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad
Aristofane o a qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto
che ti sei piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi
tu, Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da
quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare una persona di
bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e
invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi
metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una
delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol
farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue
manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade,
«fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora
tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui,
questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto
te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre,
non una volta sola, come te, ieri.» E così dicendo prese dei
nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo. «E allora
signori,» esclamò quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli
astemi; non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo.
Fino a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti,
Agatone, fa portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è
bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne
aveva, infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti.
Dopo esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per
Socrate, soggiungendo: «Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare:
più gli se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi.» Infatti,
appena il servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. «Ma
così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano,
senza dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come
tanti assetati?» «Salve, mio caro Eressimaco,» esclamò allora Alcibiade,
«ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose
Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per
obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti. Perciò,
comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima
che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse
un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già
tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora
tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua
volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.»
«Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi
mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è
mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un
momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi
metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per
il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la
vuoi piantare?» fece Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è
inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E
allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate.» «Come dici?»
fece Alcibiade. «Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e
mi vendichi davanti a voi?» «Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di
prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la
verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi
voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa
una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto
mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel
riferire i fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è
certo facile, nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di
tutte le tue stranezze.» «Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a
lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar nello scherzo
e invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non per scherzare.
Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle
botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo
che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo
anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio,
almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci
somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i
testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come
assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare
gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol
suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia,
che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un
flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a
commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono e di
iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza
strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando
ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo,
di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di
niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i
tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o
giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non
temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento,
quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare.
Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello
dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli
altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando
invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che
anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo
l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma
per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se
non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che
tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi
di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli,
inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò,
invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E
così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene
e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti
a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di
vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la
forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena
mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore
popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le
cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe
addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so
benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un
uomo simile, non so proprio come fare. «E così, questi sono gli
effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar
fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel
resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha.
Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere
io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi
dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi
che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo
non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di
quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate,
commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene
importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne
avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato
un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi
siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la
vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa
sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le
bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine,
così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a
fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla
mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia
se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che
sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste
intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui,
senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi
solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se
dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui
ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito
un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto
contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la
sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme
a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche
lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso
senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel
niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con
un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar
perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la
faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando
vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo
qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene
subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai
andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di
mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e
così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto
tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto
accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito
tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei
continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo punto, io non
vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci
pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe
proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate,
passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo,
ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si
dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi
morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e
tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato
punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o
all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici
che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano
l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque
cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un
Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e
tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per la filosofia... Eh,
sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per
quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e
quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime porte le
orecchie. «Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi
se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma
di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli
chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?»
«Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a
dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non
esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno,
dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più
a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far
meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle
persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla
gente ignorante se gli cedessi.» E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col
suo solito fare un po' ironico: «Mio caro Alcibiade,» rispose, «può darsi
proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che
tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare
migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran
lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con
me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così
concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma,
di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi
proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione,
ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il
fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce
quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo.» Ed io dopo averlo ascoltato:
«Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di
diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio
per te e per me.» «Così va bene,» mi rispose. «In seguito vedremo e faremo
quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e
anche per il resto.» Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo
udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo
già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di
più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno)
ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia
(sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la
notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è
vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi
disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di
non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di
Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo
aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con
mio padre o con mio fratello maggiore. «Dopo tutto questo, ve lo
immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato,
dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la
sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non
avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a
pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a
trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era
niente da fare: era più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora
anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo
così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun
altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di
Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa.
Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti
gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso
in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli
altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza,
lui era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché
ci fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario
è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete
anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il
gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta,
durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se
qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con
panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito
mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai
meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in
cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare. «E a questo
proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne
quest'uomo animoso,› laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali
pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino
presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a
restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati
cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate,
pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col
calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori,
all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al
fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto
immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino
e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E in
battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna riconoscergli.
Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una ricompensa al
valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle lasciarmi lì ferito
ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io, Socrate, in
quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te (neanche in
questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E poiché i
generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa, tu fosti
più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E non è
finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro
esercito fu rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a
piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque,
egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido
di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella
occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a
cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo
superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me
quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli
camminava come qui, ‹tutto altero gettando occhiate di traverso›, tenendo
sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza,
che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso
strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio
vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano,
mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte
straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre
qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è
meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del
nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual
modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con
Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero
far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi
discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né
tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare,
appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo
a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di
precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono.
«Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli
sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori,
da termini e da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non
fa altro che parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e
sembra che dica sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è
uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e
di guardarvi dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti,
ad avere un loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di
ogni virtù possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve
tener presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da
dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già
mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato
così solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e
con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha
ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che
furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te,
Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle
nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare,
da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio.» Appena
Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo
franco di parlare, anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora
innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio
bevuto per niente,» esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti
rigirata tanto abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e
alludendovi solo alla fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non
fosse stato per seminar zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io
debba amare solo te e nessun altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli
altri niente. Ma non t'è andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di
sileni è apparsa evidente. Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada
tu che, tra me e te, nessuno venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di
rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio ragione. Ora capisco perché s'è
venuto a piazzare tra me e te, proprio per dividerci. Ma sta fresco, anzi,
eccomi qua che ti torno vicino.» «Oh, benissimo,» fece Socrate, mettiti qua, al
mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò Alcibiade, «quante me ne fa passare
quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma, almeno, mio straordinario amico,
lascia che Agatone resti tra noi due.» «Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu
hai fatto, in questo momento, le mie lodi ed ora tocca a me farle a quello che
mi sta a destra. Quindi, se Agatone se ne viene vicino a te, non può mica
mettersi a fare il mio elogio prima che io non abbia fatto il suo, ti pare?
Piantala, quindi, tesoro, e non essere geloso se elogerò questo giovane: io
desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh, iuh, Alcibiade,» si mise a fare
Agatone, «non è proprio il caso che io me ne resti qui, anzi, mi alzo subito
perché le lodi di Socrate io le voglio avere.» «Eh, già,» commentò Alcibiade,
«la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare con i belli. Guarda un
po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente la sua ragione, in modo
che costui gli si strofini al fianco.» E così Agatone si alzò per
mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di
buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era
uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il
suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto
che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro
se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo; quanto a lui fu vinto dal
sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò
ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli
altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e
Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da
sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che
non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal
principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in
conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può
comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta
tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza
capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per
primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide
addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo
seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della
giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare. Educazione
guerriera Il filosofo Gallo Galli, voce narrate dell'educazione fascista
scriveva: "La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente
alla coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. …E non c'è
dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache
educazione guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la
piu nuova e significative – che la scuola italiana e andata gradatamente
acquistando e che sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision
delle idee direttive e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera.
Nel dominio dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da
cui insieme trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi,
quell’attuarsi categorico della coscienza nazionale, che e la missione del
Fascismo nella storia d’Italia … La coscienza militare, lo spirito guerreiero,
non e qualcosa di diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con
questa un duplice aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene
proprio particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice
aspetto in quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce
nelle sue forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed
eterna … Al dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una
organizzazione che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi
sociali-nazionale e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un
armónico equilibrio. … La possibilita, la necessita della lotta armata e
immanente alla coscienza nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la
coscienza di essa e la preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo
quasi, una seconda facia della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione
veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma
non basta. Il compito specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla
lotta armata, ha un suo proprio carattere – in connessione con la natura e le
esigenze di tale lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi,
l’ombra dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su
essa reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e
integrando, inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione
alla lotta armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al
proprio io particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il
massimo dei beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea
e quale mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita
spirituale, mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e
nulla v’ha di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire.
Fornisce quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche
e forza muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali.
Non solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si
rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo –
essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un
contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello
dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se.
Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino
virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se
stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo
sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione
fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione;
poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio
di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine
all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a
quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in
cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe
non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche,
rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica
dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore,
sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato –
Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno,
ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica
dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa,
dorio, guerriero, sacrifizio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library.
Gallio – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio
Gallio – An orator with a reputation for his knowledge of philosophy. He
adopted Lucio Anneo Novato, the elder brother of Seneca.
Grice e Galluppi – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Tropea).
Filosofo. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his
philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a
Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e
della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi,
una delle antiche famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della
lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del
Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile
della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto
Conforti. Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto
maschi e sei femmine. Trascorreva le giornate di libertà nella residenza
privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria,
frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblicò a Napoli “Sull'analisi
e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma
costituzionale dello Stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo
degli Austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna Filosofia a Napoli. Membro
dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, dell'Accademia
degli Affatigati di Tropea, di quella del Crotalo di Catanzaro e della
Florimentana di Monteleone. Il suo merito maggiore consiste nell'avere
introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche furono definite il primo
saggio in Italia di una storia della filosofia. A Pasquale Galluppi sono
dedicati il Convitto nazionale, il Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo
Classico di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il Centro
studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione
dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei
fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un
certo spessore culturale. Periodicamente, il Centro organizza il
Congresso degli Studi Galluppiani, importante appuntamento di respiro
nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia.
L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre personalità di notevole
importanza nella storia del Centro studi Galluppiani sono stati Pugliese e Cane,
filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera
dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita.
Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far
conoscere il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione dell'opera inedita
"La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo ha visto anche
quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in
quotidiani e riviste specializzate. Altre opere: “Memoria apologetica”
(Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi”
(Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano,
con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e
della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina,
Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente
a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina,
Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La
volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera
compresa in nove capitoli a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico
Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio.
Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”
(Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col
Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario
Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli
("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione
di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico
degli italiani. Quella specie di deduzione con cui da una causa, che
cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i sensi non cade,
o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa,
che sotto i sensi non cade, quando la connessione
fra la causa e l'effeto non si presenta a
noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le cause simli producono o
son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili suppongono
cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i
fatti,
che immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di analogia. Si argomenta dunque per analogia,
quando dair osservazione di soggetti simili
si deducono qualità simili, e
quando da cause simili si deducono effetti simili,
o da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze,
che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie
tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho
ancorabevuto, e
che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora sperimentato in questo caso
particolare la qualità di cui parlo; pure è
essa un oggetto di esperienza, poiché
posso di fatto sperimentarla, bevendo l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve,
io la deduco dalla vicinanza del fuoco; pure questa liquefazione può colpire i
miei sensi, ed essere un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi,
in cui l’esistenze che si deducono, non possono divenire oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi
ove non è, per esempio,
che il suo amico soggiorna alla campagna, o viaggia per la Francia,
egli vi darà per ragione un altro fatto:
allegherà una lettera che ha da lui ricevuto,
alcune risoluzioni che gli vide prendere, alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni,
si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà
dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno spirito
simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e
le modificazioni inieinc di esso, non
possono giammai divenire un oggetto di esperienza:
noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima sua,
e ciò che in essa acca(k;
noi dunque qui argomentiamo da una esistenza,
che è un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza,
che per noi non può giammai divenire un oggetto
di esperienza. Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico,
che fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre,
che questi moti furono l’effetto della
sua
volontà. Ora questa volontà io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce i
sensi miei ad una causa,
che non può giammai divenire un oggetto di esperienza.
Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è
afflitto, ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per ne;
io dunque deduco qui da ciò che sperimento
una causa, che non posso sperimentare.
Ora si domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi moti simili a
quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude,
che I moti del corpo che vedo suppongono una causa
simile a quella, che ho sperimentato, vale a
dire uno spirito,
che vuole tali moti. Pare dunque, che questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra,
cioè alla deduzione di una causa simile da un effetto
simile. Ma vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli effetti simili, ma anche le cause simili,
vale a dire, ho veduta molti orologi fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici di orologi, fra I
quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade,quando da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio, da cui questo corpo è
animato. Io non ho giammai sperimentato un altro spirito,all’infuori del mio,
quindi non lio giammai sperimentato la similitudine delle cause,
da cui derivano gli effetti
de' quali si parla, io dunque esco qui fuori deirespcnenia:
se avessi erimontato piìi volte che alcuni moti di altri corpi simili
al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia,
la quale mi autorizza a
dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato,
cause simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono racchiuso nella sola osservazione di una causa
sola: ho sperimentato in me solo che alcuni dati moti procedono
da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato in altri,nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a
concludere da un caso solo una legge costante, ed universaledella natura? Nell'argomento di analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in tutti gli altri ,
che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco
posto in vicinanza della neve la liquefa,
nè mi è occorso alcun caso, in cui non abbia ciò sperimentato: vedendo
del fuoco posto in vicinanza della neve concludo,
per questo caso particolare, ciò che ho
sperimentato costantemente nella moltitudine degli altri casi.
Ma quando al veder muovere gli altri uomini giudico,
che sono animati da uno spirito simile al mio,
procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso,
vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri. Questa obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi
dei motivi de’nostri giudizi
è1’oggetto della logica. Io ho camminato un numero incalcolabile di volte,
per varie direzioni, ed in vari luoghi:
ho sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere:
ho sperimentato fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una similitudine fra l’atto di volere di una volta e
quello di un altra: ho dunque qui sperimentato, che effetti simili procedono da cause simili, vale a
dire, che il camminare consiste in moti volontari ;
quando dunque veggo camminare un altro uomo io concludo per questo caso
particolare quello che ho sperimentato nella moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso;
non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda molli ad uno. È
nondimeno incontrastabile , che l'illazione non può giammai
divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo', che io deduco dal'
vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di esperiaiza come può divenirlo questa illazione:il fuoco che vedo liquefarà la neve a
cui è vicino: Ma ciò mi sembra,che non tolga alcuna
forza alla deduzione, che
esaminiamo. Quando dal vedere il
fuoco posto in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa,
io giudico prima dell'esperienza;
ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire
un giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione: l’illazione è
vera per me per la sua connessione colle premesse;
non già perchè è un giudizio, il quale
può confermarsi coll’esperienza. Similmente l’illazione
di analogia, con cui giudico che gli altri corpi umani,
fuori del mio, sono animati da uno spirito simile al mio,
è vera in forza della sua connessione colle premesse,
e
l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire immediatamente sperimentale;
non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui conviene aggiugnere
qualche cosa molto importante. Che I moti chiamati volontari,
e che scorgo ne’corpi umani,
non dipendano da una causa meccanica, ma da una causa intelligente,
mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle verità necessarie,
che esprimono le leggi del moto,
di cui abbiamo di sopra parlato. Se io sono ricco
o potate, e deadcro d'innalzare un edifìzio,
mille braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto impressione sul corpo
de’travagliatori, se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione suflìciente a
muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli,
che eseguono gli ordini miei; la mia voce dunque
non produce l’effetto come causa meccanica; bisogna perciò che un principio diverso dall’agitazione dell'aria,
o dalla mia parola abbia prodotto questo moto ne’corpi,
e che la mia parola abbia determinato
questo princijiio a produrre i moti,
che chiamiamo voloiitai. Non si può riguardar la mia parola,
se non che o come un molo eccitato nell’aria,
o come l’espressione della mia volontà; la mia parola non ha potuto come causa meccanica produrre imoti,
de’ quali parliamo,
perchè ciò come abbiamo veduto,è contrario alla legge del moto,
che un piccolo moto ne produca uno maggiore;
al che si aggiunga ,
che la mia parola non avrebbe
prodotto moto alcuno nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio
diverso dal mio: per la sola espressione
della mia volontà ha dunque potuto la mia parola
determinare ad agire il principio del moto de’corpi die mi
hanno ubbidito. Questo principio è perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole.
La proposizione dunque:
vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente,
mi sembra di verità necessaria. La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo i
quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio,
e per conseguenza tali corpi tono animati come il mio,
è di verità contingente, e poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono spesso
cause, (M non
possono divenir giammai un oggetto di esperienza,
sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano.
2.°
Vi tono nondimeno alcune deduzioni di esistenze, che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie in risultamento. Questa seconda parte,della conclusione enunciata,si conferma
da quello che abbiamo detto nell’
Ideologia circa resistenza dell’assoluto. Questo non può certamente divenire un oggetto
di esperienza, intanto la sua esistenza è il risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è
una verità sperimentale. Noi diciamo; se vi è il condizionale,
et dee essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un giudizio
analitico, e necessario: vi e il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale;
vi è dunque r assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirisnto ci riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali;nè ci permette di passare da ciò,che cade immediatamente sotto 1’esperienza,
a ciò che sotto la stessa immediatamente non cade.
Io vi ho fatto vedere il contrario; vi
ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento
di analogia è fondato sul rapporto d’ identità ;
ma l’identità può fra due cose essere maggiore
o minore. L’identità fra il mio
corpo ed il corpo di un altro individuo,
che io chiamo uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un cavallo.
Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è
un argomento valevole, cioè un argomento certo ì È questo un problema
di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque 1'esistenza degli altri
q)ìriti simili al nostro. L’esperienza c’insa,
che alcuni motivolontari in noi nascono, o sono accompagnati da alcune
affezioni interne del nostro spirito;
vedendo in conseguenza
moti siniili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti
animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo
sperimentato in noi.
Allora che sono affetto dal sentimento della
sete, corro a bevere ad una fontana, che a me si presenta. Se dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana,
e bevere, giudico, appoggiato sull’analogia,
che egli sia modificato dal sentimento della sete,
e che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dovete osservare ciò che vi ho detto circa 1'aspettazione del futuro simile al
passato, ili bisogna distinguere
il sentimento della deduzione meditativa.
La dottrina generale che ivi vi ho spigato,
può applicarsi all’oggetto che ci occupava. Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime alla nostra simile:
noi
facciamo tali sup^izioni in forza della I^gc
della nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini,
che abbiamo sviluppato. Io suppongo l’incontro di due uomini,
privi sino a questo momento di ogni commercio,ancora cògli animali;
ridotti per conseguenza al circolo stretto de’ propri s/entimenti,
e delle proprie operazioni: ciascuno di essi vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose,che presenta le stesse forme,
possiede gli stessi organi,ne fa un simile uso;
egli crede dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo, che un di questi uomini vegga I'altro camminare,questa percezione risveglia i
fantasmi simili del proprio corpo camminante in varie volte,
e perciò anche i fantasmi del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni: queste riproduzioni si fanno con somma rapidità
in modo che non posson essere fissate dall'attenzione, esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si
s«n avute,intanto la percezione del corpo simile al proprio detemùna
l’attenzione non solamente ad essa sola,
m’ancora alla percezione simultanea del
proprio me, e lascia fuire le percezioni successive
simili del proprio corpo camminante
in varie volte; la piercezione del
me riprodotta si lega perciò a
quella del corpo presente del mio simile, invece di legarsi
a quella riprodotta del proprio corpo camminante , che si è
obbliata, e questo legame costituisce il
sentimento interno di questa specie di
credenza. L' obblio delle percezioni riprodotte
del proprio corpo camminante in varie
volte, neH’atto che rimane quella
riprodotta del proprio me, fa si, che
questa ultima si associi a quella presente del corpo simile.
La percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpocamminante
e quella del proprio me son legati naturalmente
in una comune attenzione; essendo associate
dalla natura stessa; qnella riprodotta del
corpo camminante si ccclissa, perchè quella
del corpo simile camminante richiama l’
attenzione. Lo spirito trasporta dunque fuor di lui col pcnsiere
l’idea del proprio me,che egli immagina,e che stabilisce nel seno di quelle
forme, che colpiscono I suoi sguardi, ed a traverso delle quali il suo
sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo
simile, 1’anima della vita che respira
in se stesso, e concepisce 1’esistenza di un altro uomo. Tale mi
sembra la spiegazione del sentimento della credenza. Che esaminiamo. Risulta dalla stessa, che noi concependo ciò che pensano gli altri uomini,non
usciamo mica da noi stessi. Nel' le
nostre proprie idee noi vediamo le
loro maniere di essere, la loro
stessa esistenza. Da ciò avviene, che
1’uomo misura dal proprio spirito quello degli altri, dal che
nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo stato dei fanciulli;
e conoscere perciò l’epoca in cui hanno luògo leloro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile,
che queste abitudini si formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni.
I fanciulli percepiscono negli altri nomini de’ corpi
simili al proprio: &si sperimentano alcuni moti spontanei
del loro corpo ed altri simili ne
percepiscono nei corpi degli altri nomini;
queste similitudini , ed altre, che si
manifestano piìi tardi, determinano le associazioni di cui ho
parlato. Ma non solamente i moti volontari
che osserviamo negli altri , ci menano a
supporre nel loro spirito alcune medin-
cazioni; ma ancora certi moti e cambiamenti
necessari, che son gli stessi el Tetti meccanici i quali
accompagnano i sentimenti interni dell' anima, come
il tremore e la pallidezza nello spavento,
le grida, e le lagrime nel dolore, il riso,
e il tripudio nella allegrezza. Questi si
manifestano incontanen- te da se medesimi , anche
ne’ fanciulli appena nati, principalmente i gridi ed il lamento,
che accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi poniamo
per mezzo di alcuni cambiamenti,
che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a
conoscere ciò che accade nel loro spirito.
Questa conoscenza può essere meccanica o sia il
risultamenlo del sentimento prodotto da
alcune rapide associazioni, e può essere
ancora V illazione di un raziocinio legittimo di
analogìa. Possiamo dir la stessa cosa in modo breve; questa conoscenza può
essere o istintiva o ragionata. Da ciò si vede, che non è necessaria una
prima convenzione fra gli uomini acciò s’incomincino a intendere fra loro. La
natura ha reso gli uomini tali,che conversando insieme essi
s’iiit elidono naturalmente anche senza
l’istituzione del linguaggio. Seguiamo la
supposizione de’
due'solitari. Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro,non
tì è ancora un linguaggio propriamente detto;perchè non si parla,
se non quando si cerca di farsi intendere
,ese 1’ uno de’ due individui ha
penetrato il pensiero dell’ altro ciò è
accaduto senza che questi cercasse a farglielo conoscere.!due
individui di cui parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi,ed allora
cercano di farsi comprendere , e nascerà cosi il primo linguaggio.
Sviluppiamo questa dottrina. Abbiamo veduto,
che il corpo degli altri uomini ci
presenta alcuni avvenimenti, la percezione de’quali ci fa conoscere
ciò che accade nel loro spirito. Ciò la cui idea eccita l’ idea di un’altra
cosa chiamasi segno. Nel corpo di un altro nomo vi sono dunque de’segni delle
interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome tali
segni son tali per la costituzione della nostranatura, cosi si
chiamano segni nor turali. Vi sono,
in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o
modi di essere dello spirito degli altri
uomini. Ma non solamente vi sono
di questi segni naturali de’pensieri altrui;
ma 1’uomo può conoscere , che vi sono, cioè può
conoscere,che con alcuni dati mezzi si può manifestare altrui ciò che si
sperimenta internamente nello spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due
nomini supposti pianga, gridi, si lamenti, senza avere l’ intenzione dì
manifestare all’altro il dolore, che egli sente; intanto 1’altro sapendo, che
questi gridi, e questi lamenti sono soliti ad accompagnare il dolore,
conoscerà da questi segni il dolor dell’altro, ed accorrerà al soccorso di lui, questi perciò comprenderà
da tutto questo, che egli è stato compreso; e se avviene altra volta,
che si trovi affetto dal dolore,
ed in bisogno del soccorso dell’ altro,
piangerà e griderà coll’intenzione di manifestare
all’altro il proprio dolore. Così gli
uomini incominciano dal comprendersi scambievolmente ;
in seguito conoscono , che sono stati
compresi, e finalmente si determinano a farsi compren-
dere. Cosi si osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi
gridano, e si lamentano costretti unicamente dalla forza del dolore, senz’aver
l’intenzione di manifestarlo con questi segni agli altri,anzi senza sapere
neppure,che cosa alcuna si possa esprimere col pianto, e
colle grida; ma appresso avendo imparato,che con tali segni si ottiene 1’altrui soccorso, cominciano a
valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore,
e ricevere il soccorso che bramano. Ciò
di cui gli uomini si servono, per
manifestare agli altri i pro- pri pensieri ,
chiamasi ugno artificiale. 1 segni naturali
divengono dunque naturalmente segni artificiali. Qui
ha termine T educazione della natura per
le nostre scambievoli comunicazicmi. La natura ha
insegnato all’ uomo, che egli può farsi
intendere ; e l’ uomo può non solamente servirsi
de’mezzi, che la natura gli ha mostrato per la comunicazione
de’propri pensieri; ma può ancora ritrovarne degli
altri simili. Il primo e più semplice mezzo di comunicazione
che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con
riflessione ciò eh’egli fece dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè
di riprodurre quelle azioni, per mezzo delle quali^li si è fatto comprendere.
Così si formerà un primo linguaggio, che può chiamarsi
linguaggio della natura, poiché esso non
si compone se non che de’si naturali,
vale a dire di quei segni di cui
la natura aveva già senza di noi
rivestito i nostri pensieri spreti, per renderli
sensibili agli altri. Il linguagio della natura è
insufficiente per manifestare agli altri tutt’i nostri pensieri.
Noi abbiamo al presente il linguaggio de’suoni
articolari. I filosofi disputano sull’origine di esso. La quistione si
versa sull’esistenza, e su la possibilità,
cioè si cerca;
gli uomini hanno esH da se stessi istituito il linguaggio.
Questa ricerca suppone quest’altra: gli uomini abbandonati austusi potevano
istituire il linguaggio. l nostri sacri libri c’insegnano, che Adamo, ed Èva furono
creati da Dio in uno stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere, e
di comunicarsi I loro pensieri. Iddio ù
maqiiestò all’ uomo innocente ne’ primi
istanti della creazione. Iddio è dunque l’
autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo', dice Condillac, che qualche tempo dopo il diluvio due bambini dell’uno, e
dell’altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti che conoscessero 1’ aso de’
vocaboli. A fare questa supposizione,
egli dice, io sono spinto dal fatto del
giovane di Chartres
rapportato nelle memorie dell’accademia delle
scienze, anno 1703. Era questi del’età di 23 a 24
anni sordo c muto di nascita: cominciò con gran sorpresa di tutta la
città tutto ad un colpo a parlare. Si seppe da
lui; che tre o quattro mesi prima
egli aveva udito il suono delle
campane, ed era stato estremamente sorpreso
da questa sen- sazione novella ed incognita. In seguito gli
era sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra, ed aveva acquistato
l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiegò tre o quattro mesi ad
ascoltare senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere sotto
voce le parole, ch’ali udiva, ed
esercitandosi nella pronunciazione, e nelle idee
legate a’ vocaboli. Io non so come questo fatto possa
autorizzare il filosofo francese, a fare la supposizione di
cui parla, se non perché ciò mena a
poter supporre, che due giovani di sesso diverso sordi e
muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o
ne’boschi, indi incontrarsi, e dopo l’
incontro ricever tutti e due rudito.
Questa supposizione non ha niente di assurdo; ed è perciò
lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizioneq uesti due giovani
possano istituire una società, ed un linguaggio. A ciò si può aggiungere, che si
rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati ne’boschi; uno ne fu
sorpreso nell’Asia l’anno 1334 in compagnia de’ lupi, un altro dell’età di
circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 fu scontrato fra una torma di pecore selvatiche nell’Irlanda, verso alla metà del passato secolo, un altro di nove fra gli orsi nelle selve della Lituania nel 1662:in questo secolo medesimo
uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia,
una fanciulla presso a Lwlla nella provincia di Utrecht,
ed un’altra fu arrotata presso Chalons nel 1731.
Io per altro non comprendo,
come questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati
abbandonati, o perduti prima di potersi alimentar da se stessi, ed in
conseguenza prima di avere una lingua. Si potrebbe supporre, che avevano
principiato a parlare, quando si smarrirono;
ma che poi nella solitudine avevano interamente obliato quanto avevano imparato. Or si domanda:se due di questi di sesso diverso, si fossero
per avventura incontrati nella stessa foresta,
che sarebbe egli avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche,
domandasi: avrebbero essi istituito una lingua. Tralitsciando dunque,
sull’origine del linguaggio, la quistione di
fatto, è egli lecito di esaminare quella
della possibili- tà , o di cercare se gli
nomini abbandonati a loro stessi avrebbero potuto
istituire una lingua?
L’esame di una tal quistione è molto utile, per ben conoscere, e
misurare le forze dello spirito umano, e
queste ricerche ipotetiche ci menano ancora a risultamenti,
che hanno luogo nel fatto reale.
Io aggiungo dippiìi,
che alcuni autori anche su l’autorità de’nostri libri divini,
hanno creduto, che le lingue attuali sieno state istituite dagli uomini coll’uso delle loro forze naturali:
ecco come può essere accaduta la cosa. Nel famoso
avvenimento della
costruzione della torre di Babele, per forza
miracolosa, fu cancellata dalla mente degli
uomini la memoria
intera del primitivo linguaggio:
in seguito di un tale miracolo,
gli uomini si divisero a torme secondo i
rapporti di parentela e di amicizia, e si
stabilirono hi diverse parti della terra :
furono dunque abbandonati a se stessi, per istituirsi un
linguaggio; e così perduto interamente il
linguaggio primitivo , dì cui era stato autore Iddio
stesso,le nuove lingue,che nacquero sulla terra, furono un prodotto dello
spirito umano. In questo modo si spiega come gli uomini perduto,
per forza del miracolo, il primitivo
linguaggio, non si sieno più scambievolmente
intesi ne’ linguaggi rispettivi. Questa opinione
ammette un solo miracolo, quale è quello
della memoria perduta del linguaggio primitivo ,
lad- dove nell’opinione contraria bisogna
supporre una gran moltitudine di miracoli,
l’uno in forza del quale gli uomini abbianop
erduto la memoria del linguaggio primitivo, e gli altri
con cui Iddio abbia istituito i diversi
linguaggi, che ebbero luogo dopo dell’avvenimento;
ora si potrebbe dire, non e verisimile, che
Iddio moltiplicasse inutilmente i miracoli.
Checché ne sia di tale opinione,
noi esamineremo qui la quistione della possibilifb. il
rispetto che il filosofo debbe alla religione divina,
che c’illumina, mi ha condotto a questa digressione.
Per esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra,e
partiamo dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.°
che gli uomini per natura si comprendono scambievolmente.
2.° che conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno
naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della
natura. Vale ad ire che fanno uso de’segni naturali, per manifestare agli altri
I propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gli uomini,
a migliorare ,
cioè ad acrescere questo linguaggio della natura,
ritrovando de’segni analoghi? N pianto ed i gemiti
manifestano agli altri il dolore da
cui un individuo è affetto;
ma non manifestano lyica la causa del dolore.
Ora gli uomini hanno spesso bisogno,
per essere soccorsi, dì manifestare agli altri la
causa del loro dolore: per tale oggetto alcune volte bastano le circostanze:
uno de’due suppposti solitari cade in
una fos.«a egli
non può senza l’al trui soccorso cavarsene fuora: egli
grida -- 1’altro accorre, e si avvede della causa del dolore del suo
simile. Parimente se uno de’ due è inseguito da una bestia feroce,
e grida: l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del
compagno. Spesso nondimeno la causa del dolore non apparisce dalle circostanze.
Tutti generalmente acquistiamo l’abito, allorché
ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sentirà dolore
in qualche parte ; egli griderà, c
la mano correrà naturalmente alla
parte addolorata :
l'altro accorrendo alle grida, e spingendo per
avventura lo sguardo là,dove è corsa la mano dell’altro conoscerà il luogo del dolore e
se la causa del dolore fosse una ferita, o una contusione,
o qualche altra cosa visible; allora conoscerà chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano Tuno per darla,el’
altro per prenderla. Questi moti della
mano potranno da s^i naturali divenire
segni artificiali, così si potrà indicare
la causa del dolore recando la mano su la parte
addolorata;e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che non è
vicino qualche cosa;e non volendo o non potendo muoversi,stendere la mano con
entro la cosa che gli vuol porgere. L’altro similmente se cosa alcuna bramerà
aver dal compagno, porgerà la mano vòta per prendere ciò che desidera. Fin qui non
si esce ancora dal linguaggio della natura;ma già siamo al termine di un altro linguaggio,
a cui il primo ci mena. Vi sono due specie di cose,
di cui gli nomini hanno bisogno di eccitare le idee negli
altri: alcune possono nel momento stesso colpire i
sensi tanto di colui che vuol parlare,
quanto di colui a
cui si vuol parlare; altre sono lontane o
almeno invisibili, e non esistono nel momento, se non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere: riguardo
alle prime basta,che colui che vuol parlare, cioè che vuol farsi comprendere ecciti
l’attenzione del suo compagno, e la diriga su
1’ oggetto che gli vuol mostrare. Abbiamo
veduto , che il gesto può esser
naturale e divenire un segno
artificiale ;ma alcune volte non è cosi:supponiamo,che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto
lontano ma che può esser veduto ; egli
avvertirà il suo compagno per un grido, ed
allora che questi volgerà a lui gli sguardi
, il primo dirigerà Io sguardo su l'
oggetto, che vuole mostrare all’altro, e farà uso del dito,per meglio
mostrargli la direzione,che prende lo sguardo suo:l’altro r imiterà, el a
sua curiosità lo porterà ad osservare ciò che occupa il suo compagno. Questi
gridi, questi gesti, formano una prima spezie di segni
istituiti, che si possono chiamare segni
indicatori. Osservate , che i segni , di cui parlo
, non sono segni naturali, perchè il
grido è naturale nel
dolore e nel piacere:
esso diviene da naturale artificiale per denotare il dolore,
o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato,
che 1’altro,
quando egli manda fuori il grido,diriga al ui
il proprio sguardo, fa uso del grido
per obbligare il compagno a fissare su
di lui lo sgiiardo: cos) il grido
si estende a denotare ciò che denota questa
proposizione:volgiti a me: inoltre lo stendere il dito verso l’oggetto
che si vuol mostrare non è un segno naturale, ma un segno analogico, poiché vi
ha una similitudine fra il moto che fa il dito,
ed il moto che far dovrebbe il
proprio corpo per ginngerc all’ oggetto,
che si vuol mostrare; questi due moti
avendo la stessa direzione, o pure, la direzione
del dito è identica colla direzione,
che prende lo sguardo.
Per tal ragione io credo, che il gesto, di
cui parlo, dovrebbe riguardarsi piuttosto come un
segno imitativo, poiché il moto del
dito imita nella direzione il moto
che far dovrebbe
il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto,
che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo;
ma servendo tal gesto ad indicare un
(^etto, che può nello stesso momento colpire I sensi de' due solitari,
gli si pùò dare il nome di segno indicatore. Questi due segni indicatori ,
di cui parliamo, equivalgono; a queste diK proposizioni :volgiti a
me e guarda là. Vi ha inoltre de'segni imitativi,
i quali servono a denotare alcune cose future,
od altre
cose che nel momento non possono colpire i sensi di tutti e
due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in A,
1'altro sia icmtano ma a vista del primo in B, che
l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C;
inoltre cl» il primo non potendo muoversi per andare io C
voglia manifestare all’altro che vada in C, e
che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a
lui in A; ecco come io immagino,
che la cosa potrà farsi: il primo con un
grido ecciterà 1'attenzione del compagno:
indi stenderà il dito nella direzione della linea fra A
e B:
poi la muoverà nella direzione di una linea parallela a
quella fra B e C: con questo moto egli dirà al compagno che vada da B
in C, e questo moto sarà un segno imitativo del moto che
il compagno dee fare , per secondare il desiderio dell’altro'io
A: questo moto, che il compagno dee fare, è una cosa futura, che non
può nel momento colpire i sensi de’ due solitari:
ecco dunque come con de’segni imitativi si possono denotare gli oggetti assenti. Supponiamo inoltre, che l'individuo
posto in B si conduca in C: l’altro che si trova in A stenderà il suo braccio da A
verso C in posizione orizzontale, indi
farà un moto col braccio,
imitativo di quello che dee fare il compagno per prendere l’oggetto posto in
C: dopo di ciò ritornando a mettere il braccio nella stessa posizione orizzontale, lo ritrarrà a
se con un moto contrario a quello, con cui rha steso,
e che sarà imitativo di quello, che dee fare il
compagno per venire da C in A. Con I segni imitative
dunque si pò^no denotare le cose invisibili nel momento. Questi segni
imitativi si possono eseguire in vari modi. Così per denotare una serpe si può
su l’arena designare la sua forma, o il suo moto tortuoso.Abbiamo veduto, che vi sono de’segni naturali delle nostre
interne modificazioni, e che questi segni possono
divenire artificiali , e così costituire un primo linguaggio, che abbiamo chimato linguaggio della natura.
Abbiamo detto inoltre nell’antecedente, che 1’uomo può con altri segni
accrescere
questo linguaggio della natura; ed abbiamo chiamato I
segni,
che accrescono il linguaggio della natura, segni indicatori,
e segni imitativi. Ora qual principio può guidare
l’uomo a ritrovare le ultiqie specie di segni?
Nella logica pura lo spirito è
naenato nel passare analiticamente da una
proposizione ad un’altra, ad una certa similitudine che passa
fra l’una e l’altra; il princìpio della similitudine è
dunque un principio d’invenzione, e questo
principio ha condotto gli uomini, partendo dal linguaggio della natura, a
ritrovare i segni indicatori, ed i segni
imitativi, queste due specie di segni possono perciò chiamarsi
segni analogici. Difatto fra il moto del miodito,
con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che dovrei fare col mio corpo,
per arrivare, pel cammino più breve, all’oggetto, vi si osserva una
similitudine: una certa similitudine si osserva
eziandio tra i segni imitativi e ciò di cui sono
l'imitazione. Le interne modìficazioni dello spirito
possono manifestarsi
per mezzo de’ moti del corpo. Il desiderio,
il rifiuto, l’avversione,
il disostosi esprimono per mezzo
de’moti del braccio, della testa, e per mezzo di quelli
del corpo intero, moti piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo
verso di un oggetto, o ce ne allontaniamo. Tutti i
sentimenti dell’anima
possono esser espressi dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile
l’indifferenza, l’incertezza, l’attenzione, e
le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste azioni, e
posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono ad affezioni presenti,
allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo
stati affetti. L’analògia acquista spesso una
grande estensione. Cosi, per esempio,
quando voglio attendere ad un oggetto,
die colpisce i miei occhi, dirigo
lo sguardo verso di esso: questa
direzione è segno dell’attenzione dello spirito; ma io posso
ancora rivolgere la mia attenzione ad oggetti invisibili :se dunque per denotare
questa ultima attenzione, mi servo della direzione
dello sguardo; questo segno si estende al di là di ciò, che naturalmente denota.
Allora che io peso un corpo,
lo paragono ad un altro; pesare è dunque
paragonare; ma paragonare non è sempre pesare;
perciò quando per
esprimere l’azione intellettuale che paragona, io prendo nelle due mani de’corpi,come fo quando viglio pesarli,
questa azione è trasportata a denotare più
di quello che denotava in origine.
Questa terza specie di segni, che
l’analogìa somministra agli nomini, si possono
chiamare segni figurali. L’ unione de’ segni
indicatori, imitativi, o figurati costituisce il linguaggio
analogico. Cosi i segni naturali, divenendo artificiali,costitoiscono il linguaggio della natura:
gli uomini guidati dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura,
inventano il linguaggio analogico.
Ma fa d’uopo considerare l’ultimo linguaggio,
di cui abbìam parlato, in
colui che per parlarlo lo trova: ed in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine
guida la meditazione a produrre nuove idee;
nel secondo il principio della similitudine riproduce alcune
idee simili a quelle, che modificano attualmente lo spirito. Quando colui che vuol parlare fa usoil primo di alcuni gesti,
per denotare alcuni dati pensieri, li,
guidato dall’analogia, inventa questi segni, e questi segni,
e questa invenzione è un prodotto della meditazione;
ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i
principi particolari compresi sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine:
in forza di questo principio il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo intero,e
questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi intendere èattivo:quegli che intende il linguaggio btituito èpassivo. I
gesti, I moti del corpo, ed i
suoni inarticolati costitubeono il linguaggio chiamato
da Condillac linguaggio di aziona. Su di esso debba fare ancora due osservazioni. 1..° un tal linguaggio esiste ancora
e esso accompagna quello de’suoni articolati ;
un oratore parla eziandio coi gesti,
colla posizione del corpo, co’ moti del corpo, e principalmente co’moti degli occhi.
Ciò che si chbma mimica consiste appunto nell’arte di far concordare il linguaggio
di azione con quello de’suoni articolati. 2.° col solo linguaggio di azione,
anche dopo l’istituzione di quello de’ suoni articolati,alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. Presso
I Romani I pantomimi rappresentavano de’pezzi interi,
senza proferire una parola, li bisognava dunque, che i
pantomimi, partendo dal linguaggio della natura prendessero l’analogb
per guida, e così poterono pervenire a farsi intendere.
La scrittura santa ci somministra ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.
Così, per darne un esempio, ad ogetto di denotare
che la Giudea ch’era imita con Dio,
sarebbe poi stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria,
il profeta Geremia, per l’ordine di Dio,
si cinge con una cintura di lino I lombi,
indi si toglie questa cintura,e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la nasconde:
dopo molti giorni ritorna aprendere la nascosta cintura,
e la trova infracidita in modo,
cf)’ era inutile per qualunque uso. Nella profezia di Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.Se i
moti del nostro corpo da segni naturali divengono segni artificiali,e
se questo linguaggio può essere accresciuto
dall’analogia, quello de’suoni che da naturali sono ancora divenuti
segni artificiali, non potrà similmente essere accrescinto dall’analogia stessa.
Se il selvaggio, per denotare il moto che dee fare,
secondo il suo desiderio, il suo compagno,
può servirsi del moto simile del suo dito,
perchè per denotare il muggito del bove ,
il belare delle pecore, il rumore del tuono,
non potrà egli adoperare un suono simile.
L'analogia che
1’ha menato all’invenzione dei primi segni,
dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di denotare questi suoni degli oggetti sonori,
mena il sdvaggio a produrre fuori de’ suoni
imitativi, e così nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni articolati.
Questi suoni non poterono essere dapprincipio se non che monosillabi,come lo prova l’esempio de’ fanciulli.
Ma l’analogia non fu il solo principio del linguaggio de’suoni
alticolati, poiché non
sempre si debbono denotare suoni, o cose sonore. Per denotare dunque le cose che non mandano suono,l'analogia fece però conoscere agli uomini,che potevano
servirà de’suoni articolati, per farà comprendere.
Ciò posto se il selvaggio si trovò
nel bisogno di farsi comprendere , se non
trovò altro mezzo per ottenere il suo
fine, se non quello dei suoni, perchè non
potè egli produrre un suono arbitrario ,
il quale poi compreso dall’altro divenne un segno comune.Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo ,
che ì due solitari immaginati siensi perduti di fbta,e
che l’uno voglia ritrovar 1’altro,
egli conoscerà certamente,
che non potrà far comprendere all’altro questa sua volontà,
se non che per mezzo di un suono. Egli manderà dunque fuori un grido;
questo grido da principio non sarà, come ognun vede,
se non che un puro effetto naturale. Se
il dolore è
natiiralinente sonito da un suono inarticolato,
dal pianto e dal gemito; perchè il bisogno
di spiegarsi, e di mandar fuori un suono ,
non potrà esser seguito da un suono
quale che siasi? Noi non poliamo determinar la ragione,
per cui il,
selvaggio manda fuori un tal suono piuttosto che un altro,come volendo camminare non possiamo conoscere la ragione,
perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che il sinistro,
o questo anzi che quello. Questa ragione può consistere,
almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro cervello,
e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma
saniamo lo sviluppa della nostih ipotesi.
L’altro selvaggio sentendo il grido, di cui si
parla,accorrea ritrovare il suo compagno, e come amendue avranno
osservato, che un tal grido ha la forza di far che l’uno ritorni all’altro,
I due solitari se ne serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso significato
del verbo “vieni.” Può dunque l’uomo ritrovare dei suoni articolati non imitativi,
per denotare agli altri le sue interne modificazioni. Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono:da un tal bisogno
nasce la volontà di mandar fuori un suono. Questa volontà
avrà il suo effetto, ed un suono sarà da
lui mandato fuori; questo suono sarà tale e non altro,
perchè tale e non altro è
lo stato fisico del corpo, che produce il suono ,
e lo stato morale ancora dello spirito animatore di questo corpo.Ecco
spigata la nascita
de’suoni arbitrari. Ciò che ho detto è provato coll’esempio de’ fanciulli: eglino innanzi che abbiano appreso a
parlare, quando bramano alcuna cosa ardentemente,
nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e
co’ movimenti del corpo, per lo più
proferiscono insieme una qualche voce;
poiché lo spirito quando, si trova in qualchegr
ave bisogno mette ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune
alle bestie ancora. Anzi i sordi muti medesimi, benché nemmeno sappiano
di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento meccanico,
mentre s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti, principalmente
quando si trattadi cose ,che molto l’interessano, e che
non possono facilmente farsi comprendere ,
mandano anch’essi quando una, e
quando un’ altra voce. Gli uomini possono dunque istituire de’ suoni
articolati analogici, e possono istituire ancora de’
suoni articolati arbitrari. Io li chiamo
arbitrari, non già perchè son pro- dotti
senza una ragion sufficiente; ma perchè
non sono imi- tativi, o analogici. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono “cielo,”
ed il complesso delle sensazioni visuali,
che ci desta in una notte tranquilla il firmamento
7£ perchè la costituzione fisica emorale,
in cui si son trovati gl’inventori delle lingue,allora che furono ndl
bisogno, di denotare con un suono uno stesso oggetto, è
stata varia non solamente per la natura ,
eper gli abiti contratti,ma eziandio per I climi, ed I
siti; perciò in diversi luoghi di questo
globo terraqueo nacquero diversi suoni primitivi,
come è provato per le radici di tutte
le lingue cognite. n fatto de’ fanciulli
prova senza replica , che gli uomini
possono arrivare a comprendere il linguaggio
arbitrario. E meditando attentamente su di questo
fatto st può intendere come ciò possa
avvenire. Supponiamo che un fanciul- lo'
abbia appreso il significato del vocabolo gallina, il che può accadere
unendosi da alcuno alla prouunciazionc del vocabolo gallina l’indicazione del
volatile dal vocabolo denotato: supponiamo inoltre, che il fanciullo abbia
veduto una gallina morta e che il giorno seguente ascolti da uno della famiglia
questa proposizione: la gallina jeri morì, si accorgerà che si vuole denotare
l’avvenimento, del la morte della gallina, accaduto, il
giorno innanzi.
Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina
jeri mori” siasi udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua memoria
; « che avendo veduto ima cagna
partorita il giorno avanti, e sapendo il signifìcato del
vocabolo tagm, ascolti la seguente proposizione :“La cagna jeri
partorì.” ecco la serie de’ fatti
intellettuali che in tal caso avranno luogo nello
spirito del fanciullo: l.° egli intenderà
che colla proposizone, la cagna jeri
partorì, si denota il parto della
cagna da lui il giorno antecedente
osservato: 2.o. la pronunciazione del vocabolo jeri, per
la le dell’associazione delle idee, riprodurrà nelsuo spirito l’altra
proposizione, “la gallina jeri mori.” 3.° volendo
intendere il significato di ciascun
vocabolo delle due proposizioni, il
fanciullo dirigerà la meditazione su le
stes-se. 4.paragonando le due proposizioni fra di esse,
e coi fatti dalle stesse denotate, non
meno che i fatti stessi fra di loro ,
il fanciullo vede che le due
proposizioni sono identi- che nel vocabolo
jeri] e che i due fatti significati sono
identici nella circostanza del tempo in cui sono accaduti;
essendo tutti e due accaduti nel giorno precedente
a quello in cui si parla. 5.° con questi paragoni il fanciullo intenderà il significato
del vocabolo “jeri” isolatamente considerato. 6.° dopo di ciò comprenderà eziandio il significato isolato de’ vocaboli mori «partorì;
poiché avendo compreso il significato in
confuso delle due proposizioni, ed indi
il significato distinto del vocabolo “jeri,” e
sapendo dall’ altra parte il significato
distinto de’ vocaboli gallina, e cagna, conoscerà ,
che i vocaboli mo- ri e partorì sono
destinati a denotare i due avvenimenti, e ne
apprenderà perciò il loro distinto
significato. Questo esempio fa vedere
che i fanciulli meditano prima di apprendere il linguaggio più di quello che comunemente si crede;ech
e le nozioni soggettive d’identità,e dì diversità sono antecedenti alla conoscenza della propria lìngua, eservono
ai fanciulli per farla loro apprendere. I vocaboli
o denotano gli oggetti de’ nostri pensieri, o l’ azione dello
spirito su di questi oggetti: Pietro è con Paolo, i vocaboli
Pietro e Paolo denotano gli oggetti de'
nostri pensieri ; i vocaboli, con denotano l'azione
dello spirito su dì questi oggetti. Ma ciò
richiede ancora una maggiore
spiegazione. Il vocabolo significa l’azione dello spirito ,
che attribuisce a Paolo il rap- porto di
compagnia con Pietro. Ma acciocché lo
spirito avesse la nozione soggettiva di
tal rapporto, è necessaria la com- parazione di
Pietro con Paolo' riguardo alla loro
esistenza in un certo tempo , ed in
un certo spazio ; questa comparazione aggiunge all'idea assoluta
diPaolo il rapporto di compagnia con Pietro:
la voce con esprime un tal rapporto , e per
questa ragione un tal vocabolo può
riguardarsi eziandio come segno dell’
azione dello spirito che compara. Pur
tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare all’atto del giudizio,
pare che sia maggior esattezza il distinguere i vocaboli,
che denotano l’azione dello irito,in vocaboli di giudizio ed in vocaboli di rapporto.
£questa distinzione si trova in un opuscolo di Mariano Gigli, intitulato
Metafisica del linguaggio. Secondo questa
osservazione i vocaboli si distinguono in
vocabbli di cosa, in vocaboli di
giudizio ed in vocaboli di rapporto.
Così nella proposizione, “Pietro è con Paolo,” i
vocaboli “Pietro” e “Paolo” son vocaboli di cosa, il vocabolo
i, esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di giudizio,
ed il vocabolo “con” è vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa,
ed il rapporto di questa azione.
Secondo la grammatica generale e ragionata
di Portoreale, i vocaboli si distii^cno in
due classi, alcuni significano gli oggetti
de’ nostri pensieri , altri significano la
forma , e la maniera de’ nostri pensieri di
cui la principale è il giudizio. Questa
distinzione mi sembra giusta , cd in
seguito di ciò che abbiamo detto è chiara.
I vocaboli materialmente considerati sono o radicali, o derivati,
0 toHituiti. Radicali,o primitivi son quelli,
che non nasc<mo da altra voce conosciuta ed usata nella medesima lingua,
come tote, dolce, fuggire ec.
Derivati son quelli, che provengono da voci conosciute
, ed usate, nella medesima lingua , come talare,
dolcezza, fuggitivo ee. Sostituiti son quelli,
che per maggiore chiarezza , e per brevità
si pongono in luo- go di altre voci
conosciute , ed usate nella medesima lingua, come
mio pensante ec. per di me, che
pensa ec. È facile a eomprendei si , che
ritrovati i vocaboli radicali r analogia ha
menato gli uomini a ritrovare i vocal>oti
deri- vati, e sostituiti, e cosi ad accrescere notabilmente il
linguaggio. Difatti quanti nomi sostantivi non si
possono trarre dagli aggettivi, quanti aggettivi
da' sostantivi, quanti nomi da'verbi,
quanti verbi da' nomi ? I sostantivi nerezza,
bianchezza, lunghezza ec. tutti vengono da
nero, bianco, lungo; gli ag- gettivi
celeste, terrestre, marmo ec. derivano da cielo, terra, mare; I
nomi speranza,amore,dolore, volontà
ec. derivano dai verbi sperare, amare, dolere, volere. 1wirbi velare, vestire
ec. nascono da velo, veste. Inoltre
quante parole formar non
si possono dall’unione di due o più altre? I
latini unendo il verbo “esse” a varie proposizioni,
ne facevano adesse, ab- esse, obesse ,
inesse , processe, prodesse, subesse; superesse,
interesse. Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri
composti facessero i greci e gli ebrei, e
quanti ne facciano i cinesi, e tutti gli
orientali, è abbastanza noto agli eru- diti.
Tutte le lingue originali, che diconsi lingue madri,
hanno pochissime radici primitive,per mezzo delle varie combinazioni
di queste compongono un gran numero di vocaboli.
Gli uomini dunque,
per manifestare agli altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoniarticolati.
Questa invenzione è la causa principale, che
ha condotto il geqere umano a quel
grado di coltura e di per- fezione,
in cui oggi lo vediamo. Il linguaggio fa l’analisi del pensiere,
e come sia un valevole soccorso per la meditazione.
Ma indipendentemente dalla influenza che ha pel progresso delle nòstre
conoscenze, considerato riguardo all’ individuo
che se ne serve,
ne ha una notabilissima considerato riguardo alla
società, e relativamente all’individuo, che ascolta e
riceve le altrui conoscenze.
Il linguaggio può essere considerato come un mezzo,
che fa progredire lo spirito nella propria meditazione;
ed ancora come un mezzo di comunicazione
scambievole de’ pensieri degli uomini: nel primo caso serve d’istrumento
all’azione meditativa, per ritrovare la verità;
nel secondo presenta allo spirito de’
nuovi materiali per le sue conoscenze.
Gli uomini non potendo esistere in tutti i luoghi nè
in tutti i tempi; segue che non tutti
possono osservare tutti i fatti; un uomo può perciò aver osservato de’
fatti, che un altro non ha osservato. Se dunque il primo comunica al secondo le
sue osservazioni, questi conoscerà de’ fatti che non ha osservato; equest a
conoscenza avrà per motivo 1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che
si chiama certezza morale^ Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale
non sia mai uscito di questa città,perche egli creda l’ esistenza di tante
altre città , di Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra ec.; vi
addurrà per motivo la testimonianza di altri uomini, che hanno veduto le città
nominate, ed egli sarà tanto certo dell’esistenza di queste, quanto lo sarebbe,
se le vedes» co’propri occhi. Non basta,
che un uomo conosca un fatto, che un altro ignora,
è necessario
che abbia la volontà di narrare il vero, afllnchè l’altro non fosse dalla testimonianza del primo ingannato.
Per disgrazia dell’ umanità la volontà d’
ingannare i propri simili si trova
non poche volte negli uomini; e non poche volte ancora accade,
che gli uomini ingannino non già perchè
vogliono ingannare; ma perchè o
non hanno conosciuta esattamente il vero, o sono
stati da altri ingannati. Da.ciò lo scetticismo ha preso il motivo di combattere la certezza morale.Ma dicano quello che vogliono gli scettici, l’esperienza
ci manifesta queste due verità, l,°un
uomo può aver conosciuto de’ fatti, che
un altro, o non ha potuto conoscere, o non ha conosciuto.
2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’ quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza
di coloro, che gli hanno osservati. Non si è
trovatagiammai fallace la testimonianza di coloro che sono stati in Napoli
, nello assicurarmi dell’ esistenza di
questa città ; r esperienza stessa me ne ha assicurato,
poiché essendo io stato in Napoli, ho
ammirato io stesso co’ miei occhi questa
magnifica città, ed ho così trovata verace l’altrui testimonianza:
la stessa esperienza ho ripetuto circa molti altrifatti.
È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce,
essere la concorde testimonianza di altri uomini, circa alcuni
fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi
Vi sono, è vero,
degli uomini che narrano de' fatti,
de’ quali non sono stati testimoni
oculari, e su de’quali sono stati da altri ingannati ;
e vi sono ancora di quelli,che volontariamente
mentiscono. Ma vi sono eziandìo de’ testimoni non solamente
oculari di alcuni fatti; ma testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare
della loro veracità. È
questa una verità che la propria giornaliera
esperienza ci manifesta. Chiunque non ha
veduto Napoleone Bonaparte,è sicuro nulla
dì meno, per la testimonianza di altri ,
che vi sia stato un uomo così
chiamato , il quale ha esercitato il sommo
potere nella Francia, ha perduto poi il
trono, ed è morto prigioniero nell’Isola di S. Siena.
A suo luogo parleremo de’limiti della
certezza morale: qui mi son ristretto a stabilire
la sua esistenza: per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi
princìpi. Ho fatto vedere, che un uomo, può
intendere un altro, che l’uomo può voler essere inteso;
e che da ciò nasce il primo linguaggio chiamato linguaggio della natura; che l’analogia può accrescere un tale linguaggio,
e far nascere
ancora alcuni vocaboli radicali analogici;
che il bisogno può menare poi gli uomini a stabilire altri vocaboli radicali
arbitrari; e che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperioiza m’insegna,
che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano,
nè si propongono d’ ingannarmi. Da ciò
concludo, che l’altrui testimonianza ,
cioè il linguaggio volontario degli altri nomini, può
in molti casi, circa ì fatti ,
essere un motivo legittimo de’ nostri giudizi.
Io non posso coesistere a tutte le generazioni,
ed a tutti i luoghi. La mia durata è breve:
il mio luogo è quasi un punto nello spazio. Intanto vi sono moltissime cose,die m’importa di conoscere,e
che sono accadute prima della mìa nascita,o che accadono in luoghi più o
meno lontani da quello ove io mi trovo.
La testimonianza altrui mi è
dunque necessaria per l’ acquisto di tali
conoscenze. Il linguaggio de’suoni è un linguaggio passeggierò e
limitato ad alcuni luoghi. Un uomo, che per
mezzo delle parole comunica agli altri i
suoi pensieri, non può farlo, se non che nel tempo in cui egli parla,
e
ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue parole.
Un gran problema presentai al genere umano:
il problema consiste a trovare il mezzo
di estendere a tutti i tempi , ed a tutti i
luoghi , il linguaggo limitato della parola.
Voi già comprendete l'importanza del problema enunciato,
e
che la soluzione di esso dee formare la seconda epoca,
del progresso delle umane conoscenze
ponendo la prima nella nascita del linguaggio
parlato. I fatti ovvi e ripetuti incessantemente
sogliono destar poco l’attenzione del volgo degli uomini,
e perciò non gli recano sorpresa. Vi ho fatto sopra osservare
quale studio fanno i fanciulli per
apprendere, sin da’ loro primi anni, ill inguaggio della parola;
intanto si crede forse , che essi non meditino
affatto;
appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i
fanciulli apprendano tal linguaggio. E un errore il credere,
che le cose sieno state in tutti itempi,
come sono in un certo tempo; e qui è
il luogo di fare uso di questa
importante osservazione. La
nostra educazione letteraria incomincia, dal
fare apprendere a’ fanciulli le lettere dell’alfabeto; ma v’ingannereste
credendo,che la scrittura,vale a dire,l’arte di dipingere
la parola e di parlare agli occhi, sia stata conosciuta nella prima
fanciullezza del genere umano : noscorsi de’ secoli prima che siensi trovate le
lettere dell'alfabeto: la scrittura non è stata conosciuta che molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di conoscenze ,cosi è necessario,dopo di aver cercato l’origine del linguaggio parlato, di cercar quella del linguaggio scritto.Qual mezzo si può
presentare agli uomini,per perpotuafc la memoria de’ fatti accaduti
?In
primo luogo si può osservare un tal mezznello
stesso linguaggio parlato. La propagazione
del genere umano si fa in modo,
che gl’indi' vidui di una età vivono
insieme per qualche tempo coi loro antenati , e
coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare
alla sua fìgliuolanza tanto quello che
egli stesso ha veduto,
quanto quello che c^Ii ha udito da suo padre, da suo avo, ed
a tutti coloro, che sono stati testimoni oculari de’fatti accaduti prima della sua
nascita, e
del tempo in cui egli avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce il secondo anello della testimonianza; gli
altri che ascoltano il fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto
ec. Così si forma una serie non interrotta di testimoni oculari,
e costituisce ciò che chiamasi tradizione orale.
La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi,
per osservare la tradizione orale, era quella di comporre una specie di ode o
di cantico.Cotesta sorte di poesia racchiudeva le principali circostanze degli
avvenimenti , che volevano alla posterità
tramandarsi.
Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte
le nazioni, tanto dell’antico, che del nuovo continente.
Dopo la sommersione dell’esercito di Faraone nel mare rosso,
Moisè, e gli Istraditi composero un cantico di lode, e
di ringraziamento al Signore, nel quale cantico era espresso
questo memorabile avvenimento, come si legge nel capo XV. dell’esodo. Al mezzo della tradizione orale,per conservare la memoria
degli avvenimenti passati,si è aggiunto quello di alcuni grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli era di piantare un bosco,
d’innalzare un altare, o un monte di pietre,di stabilue delle feste,e
di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti
riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi ove erano accaduti de’fatti memorabili,
un nome relativo ai fatti ed alle circostanze.
L’istoria di tutte le nazioni somministra molte prove,
ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i
patriarchi innalzare un altare nei luoghi,
ove era loro apparso il Signore,
piantare de’boschi, fare dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c
dare a’ luoghi,
ove erano accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si consultano gli scrittori profani,questi attestano lo stesso. Ne’contorni di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano essere i
monumenti della spedizione di Ercole
nella Spagna.Tutte queste differenti pratiche
hanno servito a
rinfrescare la memoria de’fatti memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione suppliva allora alla mancanza della scrittura;
I padri spiegavano a’loro figliuoli l’origine di questi
monumenti,e gl’istruivano de’ fatti, i quali ne erano stati la cagione. Io chiamo tradizione tanto la tradizione orale,
quanto l’unione della tradizione orale coi monumenti. Fra lo spezie dei
monumenti composti dagli uomini, ad oggetto
di perpetuare la memoria de’fatti passati,
untt. delle principali,
che siasi presentata al loro spirito, è stata la rappresentazione degli oggetti corporali.
I primi uomini pensarono naturalmente,
d’impiegar questo mezzo, per rendere i loro pensieri sensibili alla vista,
e cominciarono dal presentare agli occhi il ritratto degli oggetti,dei quali volevano parlare. Per fare conoscere,per cagione di
esempio, che un uomo aveva ucciso un altro,
eglino
disegnavano una figura umana stesa per terra, ed.
una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per fare intendere, che alcuno era abbordato per mare in un paese, rappresentavano un uomo assiso sopra una barca,
e così del resto. Da quello,che degli antichi monumenti è
rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte dello scrivere consisteva ili una rappresentazione informe e
grossolana degli oggetti corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la gente portata a
ricopiare gli oggetti che le si presentano.Le nazioni più selvagge, o
quello le quali hanno minor relazione e commercio con
I popoli colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte
del disegnare, vale a dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gli oggetti della natura. L’onir brache produce ogni corpo sopra una superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della Ince, ha somministrate le prime idee del disegno. Tirando su
i limiti dell’ ombra alcune linee, allora che l'ombra
sparisce, la figura descritta con queste linee sarà simile alla
figura del corpo che getta l’ombra. Dopo le prime esperienze i
primi popoli avranno tentato di rappresentare, e
di copiare gli oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Avranno a
poco a poco avvezzata la mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a
seguire le proporzioni suggeritele dalla vista. Il disegno nella sua origine
consisteva solamente nella circoscrizione del contorno esteriorede
gli oggetti. Si tentò dopo di esprimere le parti interiori,che
l’ombra non disegnava , come per cagione di esempio una testa,gli occhi,
il naso ec. Il
carbone, la creta ec. avranno potuto somministrare a’ primi
uomini la maniera di disegnare sopra il legno, sopra la pietra
ec. come ancora si saranno eglino esercitati in ciò su la sabbia, su la terra molle ec. Avranno in seguito con l’
ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti procurato d’imprimere desegni
sopra le materie solide. La forma che prendono i
corpi molli insinuati ne’ corpi duri, e l’impronta che lasciano i
corpi duri applicati a’corpi molli,
avranno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare.
Questa avrà a poco a poco prodotta quella dell’intagliare nel
legno, nella pietra, e
nel marmo. In questa maniera il disegno, la scoltura, l’intaglio avranno avuto la loro origine; queste
arti, a mio credere,
hanno preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degli oggetti corporali servito per molto tempo
invece della scrittura propriamente detta. Io
chiamo la rappresentazione degli oggetti
corporali, della quale ho parlato, scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiedeva molto tempo; si pensò perciò di renderla più semplice,ed invece di disegnare per intero a
cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si disegnavano le parti principali che li facevano conoscere; come per esempio la testa, la mano ec. Ma questa scrittura fìgurativa non poteva essere suffìcieute per esprimere tutti I
pensieri degli uomini. Vi sono molte cose,
che non si possono dipingere,
come sono lo spirito, le sue facoltà,
le sue modificazioni. È impossibile di parlare delle cose materiali,
senza unirvi delle idee die non sono capaci d’immagini
; come per esempio,
descrivere l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’ uopo dunque inventare
I segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guidò gli uomini a
trovarli. Si concepì una certa similitudine fra alcune qualità,
che si osservano negli uomini, e
quelle che si osservano negli animali, e
per esprimere, che un uomo è
in queste qualità
simile ad un certo animale,
si disse più brevemente, che il tale uomo è
un tale animale; cosi per dire di un uomo, che li
è prudente, che li è astuto, che è fiero e crudele, si dice, che è
un serpente, una volpe, una tigre; disegnando dunque l’immagine di questi tali
animali si disegnano mediatamente le immagini delle qualità
spirituali, di cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che
chiamasi geroglifico. I Cinesi per cagion di esempio,
per denotare che FoAt, primo fondatore del loro impero, era dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo disegnano col capo umano unito ad un corpo di serpente.
Il successore di FoA» di nome Xino, ad oggetto di
denotare, che egli si applicò all’agricoltura, ed incominciò
a porre i bovi sotto il giogo,lo disegnano col capo di bove unito al corpo umano. Gli antichi denotarono la giustizia, dipingendo
uvergine cogli occhi bendati, tenendo in una delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada.
La vergine figura la giustizia;
la bilancia denota che la giustizia consiste a
dare a ciascuno il suo dritto,
la spada significa,
che la giustizia dee infligger la paia dovuta
a’delinguenti, gli occhi bendati finalmente denotano,
che la giustizia non dee
avere alcun riguardo alle persone,
ma deve agire conformemente alla legge,
senza esser mossa da motivi estrinseci.
Si vede qui che la similitudine concepita fra
alcuni modi de’corpi, e
le qualità dello spirito, dettò questo geroglifico. La giustizia è
una nozione astratta, e le nozioni astratte sussistono sole nello spirito;
passa perciò una certa similitudine fra l’astrazione e
la personificazione, una vergine non è macchiata
da alcuna impurità corporale, e ia giustizia
dee
esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una quantità
di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli
ciò che gli appartiene.
Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo,
e quelle dell’animo si deducono da ciò,
che le prime sono i segni naturali delle seconde. Denotando le prime si denotano mediatamente le
seconde ; e siccome le prime son capaci d’immagini corporali; così lo sono
mediatamente anche le seconde ;e questa rappresentazione mediate costituisce il
geroglifico. Da ciò si vede, che la scrittura geroglifica si è unita alle volte
alla scrittura figurativa, come si vede ne’due esempi di Fohi,e di Xino.
Alle volte è stata impiegata solq come nell’
esempio recato della giustizia. Si
vede inoltre, come questo modo di
scrivere fa le veci delle proposizioni
verbali. Cosi, per cagion di esempio, i
geroglifici rapportati valgono pel significato
quanto queste proposizioni verbali: F(M fu
dotalo di sagacità. Xino pronwtse ¥ agricoltura , e
pose « bovi sotto il giogo,
fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto,
infligge la pena dovuta a'delinguenti,
né si lascia muovere da molivi estrinseci. Osservate,
che ne’ geroglifici enunciati si trovano I segni relativi al sogetto,
al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate. Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della
proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la segacità, e
l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico,
il corpo di figura umana denota il
soggetto della proposizione cioè Xino ,
il capo bovino denota il
predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura, e
l’aver posto i bovi sotto il giogo;
l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione
del predicato al soggetto,
espressa dal verbo
promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto della proposizione è
significato dalla vergine; la bilancia, la spada,
la benda denotano I predicati della proposizione, e
l’unione di queste cose al corpo della vergine denota
l’unione de’ predicati al
soggetto. Da ciò segue, che un geroglifico può esprimere diverse proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si
vede chiaramente
nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che un certo Comenio,volendo formare il geroglifico
dell’anima, dispose de'punti in modo da
formare una figura simile a quella , che
presenta 1’ombra , prodotta dal corpo umano
su di un piano perpendicolare all'orizzonte,ed opposto
direttamente al corpo umano, ed al lume. I punti, secondo i geometri,
essendo privi di estensione, denotano la semplicità dell’anima. La figura del
corpo umano costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna
linea, denota la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente
dalcorpo. I
punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del corpo umano, denotano l’unione dell'anima
col corpo, la quale unione si forma dall’autore della natura,
indipendentemente dalla volontà dell’anima.
Finalmente questi punti, essendo dispersi in tutta la
figura del corpo umano, denotano la dottrina degli scolastici,
cioè che r anima è tutta in tutto il
corpo e tutta in ciascuna parte. ir
geroglifico comcniano equivale perciò alle
scienti proposizioni. l.° l’anima è
semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’ anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo.
4.” 1' anima esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte.Dopol’invenzione della scrittura geroglifica portata
al più alto grado di perfezione,
di cui era capace, restava ancora agli uomini di farp
l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri alfabetici,
che sono i segni del suono non già
d(^li oggetti. Vi sono stati in ogni
tempo degli spiriti sublimi,
i quali colle loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera
delle umane cognizioni, ed hanno spinto
velocemente il genere umano verso quel
grado di coltura, in cui (^gi
te vediamo. Un vocabolo è un suono o
composto, o semplice: per rendere
durevole questo segno basta dunque stabilire de’
segni permanenti de’ suoni semplici,
che compongono i vocaboli; e per tale oggetto
basta stabilire per segni de’suoni semplici alcune
Ggnre, e la scrittura alfabetica è trovata. Ma
(pianto tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si
presentasse allo spirito de’padri nostrii. Si voleva
render permanente il linguaggio passaggiero della parola; e
non si pensò di decomporre i suoni
articolari, e di stabilire de’ segni permanenti de’ suoni semplici che
compongono I vocaboli. Lo spirito intraprese de’cammini lunghi
e tortuosi, per tramandare alla posterità la somma delle sue conoscenze.
La scrittura fu prima
figurativa perfetta indi figurativa imperfetta.
poiché si designarono prima gli oggetti interi, indi le loro parti principali:in seguito divenne geroglifica,
indi sillabica,e finalmente
alfabetica, lo dico prima sillabica,
e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e
delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica
furono trovati i segni de’ suoni delle sillabe de’vocaboli
,prima che si trovassero i segni de’ suoni semplici che compongono i
suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere,
la quale chiamasi scrittura sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere
ciascuna sillaba, di cui vien composta una
parola. Non si esprimono allora né vocaboli, né consonanti. Noi, per esempio,
per iscrivere la voce pane impieghiamo
quattro lettere; nella scrittura sillabica
non vi bisognano se non che due
caratteri. Ora supponiamo che la
pronuuciazione del vocabolo pane risvegli r
idea del suono “cane,” e
questo quella del suono sa- ne, e
che lo spirito mediti,e
paragoni fra di essi questi suoni:
egli li decompone in sillabe, e trova,
che la sillaba ne è la stessa in tutti e tre questi suoni,
il che gli viene ancora insegnato dalla
stessa scrittura sillabica, poiché Io stesso carattere indica il suono della sillaba ne in tutti e tre i
vocaboli enunciati.
Questa identità conosciuta mena lo spirito a notare la diversità de’ suoni pa, ea, sa, che
sono le prime sillabe di questi vocaboli ;
ma in questa diversità lo spirito trova
ancora una identità nella desinenza:
tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”:ciò
conduce lo spirito a separare nelle sillabe pa,
ca, sa, il suono “a” dagli altri
suoni che vi si uniscono; e siccome egli ha trovato I
caratteri de’suoni pa, ea, sa, così troverà il carattere del suono
a, e quelli de’ suoni p, c, s, e la
scrittura alfabetica è già trovata.
Ecco dunque i passi, che ha dovuto
fare lo spirito per ritrovare la
scrittura alfabetica,
l.° egli ha conosciuto che la maggior parte de' vocaboli erano de’suoni composti,
e che potevano perciò decomporsi in altri snoni. 2.°
egli ha conosciuto,
che poteva stabilire segni di segni, e segni permanenti
di segni passaggieri; 3.° egli ha
stabilito de' caratteri, che fossero segni
permanenti del suono delle diverse sillabe, e
così nacque la scrittura sillabica. 4.° ^li ha conosciuto che la maggior parte
delle sillabe erano de’ suoni composti ancora,e siccome ha trovato de’ caratteri, che fossero segni delle sillabe, ha trovato
ugualmente de' caratteri, che fossero segni
de’ suoni semplici; c così è nata la
scrittura alfabetica. Alcuni eruditi, frai
quali il citato Goguet, pretendono che i
caratteri alfabetici sieno derivati da' segni geroglìGci, eche questi ultimi
abbiano a poco a poco introdotto il metodo brève delle lettere alfabetiche.
Questa opinione è falsa sotto un certo
riguardo, sebbene possa esser vera sotto di
un altro. Per presentacela quistione sotto un
aspetto filosofico, può cercarsi: l.°: Lo spirito
umano poteva, senza passare per la scrittura figurativa, e geroglifica, passare
immediatamente dal linguaggio della parola al linguaggio
permanente della scrittura alfabetica? È certo, che
poteva, poiché fra i passi,
che egli doveva fare,
partendo dalla considerazione della parola,
per giungere alla scrittura alfabetica, e che
abbiamo di sopra sviluppato,
non vi sono certamente quelli della scrittura figurativa e
geroglifica. Si può cercare S.'': La scrittura figurativa e
geroglifica doveva condurre naturalmente lo spirito alla serittura
alfabetica. La scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna con le lettere dell’alfabeto,
e per
tal ragione non hanno potuto condurre lo spirito a
ritrovare la scrittura alfabetica. Ma hanno sotto
un altro riguardo potuto influire a questa invenzione;
queste due scritture, come or ora vedremo ,
sono imperfette assai, e complicate;lo spirito accorgendosi della
loro imperfezione e difficoltà, ha potato da ciò rivolgere la meditazione a
rendere più semplice, c facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare 3.° La
figura de’segni geroglifici Jta potuto server allo spirito, per concepir la figura de' primi caratteri alfabetici.
Le ragioni addotte da Goguet provano, che lo ha potuto.
Paragonando,egli dice, con attenzione quello, che
a noi rimane dei caratteri egiziani, con
le
figure geroglifiche intagliate sopra gli obelischi,
e gli altri monumenti, si ricava che le lettere egiziane tirano da’geroglifici
la loro origine. Nell’alfabeto degli etiopi, e nelle lettere majuscole degli
armeni si trovano I vestigi assai chiari della scrittura antica
geroglifica. A queste ragioni se ne può aggiungere un’altra. Col progresso
del tempo il rapporto di similitudine tra il geroglifico e
la idea da esso significata,non si è piu
ravvisato. Ciò è accaduto perdue ragioni
l.° alcuni rapporti di similitudine erano
troppo lontani; si esprimeva,per esempio,l’impudenza per una mosca,la scienza per una formica.
2.° allorché furono moltiplicati I volumi, si cercò il modo di abbreviare,e
perciò invece del geroglifico primitivo si fece uso di un altro carattere, che noi possiamo chiamare la scritturacorrente de’geroglifici:
esso rassomigliava a’caratteri cinesi; dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno
della figura, divenne in stanilo una sorta
di nota, hi questo stato il
geroglifico poteva riguardarsi come il
segno del vocabolo. Tosto che si ebbero da’segni permanenti de’vocaboli,poteva
pensarsi di dare de’ segni permanenti alle
sillabe , ed indi a’ suoni semplici di
cui è composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri
alfabetici si è l’essere isolatamente considerati, segni
solamente di suoni, non già di idee: i caratteri,
per esempio ,a,e,i,o, u,b,c, ec., isolatamente
considerati nuli’ altro significano , se
non che alcuni suoni. I caratteri poi della scrittura fìgurativa,
e geroglifica, non denotano suoni
ma idee, l’immagine di un serpente denota l’idea del serpente, quella
della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono
ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle stesse
idee. Questa differenza è della massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si possono scrivere tutti i
vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni,
il numero di questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli;
il che rende il numero de’caratteri molto
grande, e perciò esige uno studio lungo, e
difficile, per apprendere a leggere,e scrivere, come è
provato per l’esempio de’Cinesi. È questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza:
La gente di studio è obbligata a sottrarre il tempo necessario,
per apprendere le scienze, ed impiegarlo a saper leggere e
scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche persone,
il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica,
poiché il numero de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è
di gran lunga maggiore di quello, che è
necessario per denotare I suoni semplici, di cui il suono di ciascuna sillaba è
composto. Così, per cagion di esempio con questi tre caratteri alfabetici, a, b
,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba,
ac, ca, bac, cab. In questo
esempio il numero dei caratteri sillabaci è doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se supponete quattro caratteri ahabetici,
a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi due a
due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac,
ca, ae, eb, be, ec. Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica su le altre
scritture si è il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno
la prima scrittura. È vero,
che le nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime,
mentre con dieci caratteri possono scriversi tutti i
numeri possibili, ma un tal vantaggio lo debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate;
poiché queste idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è
quella dell’unità. Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è
l’incertezza del significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose
molto diverse fra di esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza,
e ’universo: l’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e
la timidità. L’invenzione del linguaggio della parola,
el’invenzione della scrittura alfabetica,
che rende permanente il primo linguaggio di sua natura
passeggierò, fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutti
i luoghi, ed in tutti I tempi. L’esperienza c’ins^a,
che gli uomini possono, per mezzo della scrittura trasmetterci dei fatti che son veri e
che la concorde testimonianza degli
scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le gazzette dell’Europa all’ epoca,
in cui Napoleone Bonaparte
scese al trono della Francia annunciarono questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del sommo
Pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi
avrebbo potuto assicurare colui, che avesse dubitato,
della veritàdi tali fatti. I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli scritti,
che li contengono,
trasmettersi alle future generazioni. È questa eziandio
una verità di esperienza. Vi sono dunque de’fatti accaduti in tempi lontani,
de’ quali fatti noi possiamo conoscere
la verità.
Il linguaggio passaggiero della parola; quello
permanente della scrittura alfabetica, e quello dei monumenti,
possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei nostri giudizi.
Tutti questi motivi concorrono a stabilire la certezza morale. Credo utile di addurvi un altro
esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto,poi seguito
da altri, cagionò dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina.
Gliabitanti dei paesi danneggiati furon
obbligati di uscire fuori dalle loro
abitazioni, e dì costruirsi delle baracche per
abitarvi; alcuni le hanno costruite in
lontananza dei paesi diruti quali rimasero
perciò deserti. Cosi accadde, per esempio, a Briatico, che fu
costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo
spettatore I segni delle sue mine: altri hanno costruite le nuove abitazioni in
un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde a
Tropea, le cui nuore abitazioni furono costruite lungo ed all'intorno della strada detta
dell’Annunciata. Molti , che sono stati testimoni
oculari dell’avvenimento, vivono ancora molti
altri appartengono alle seguenti generazioni: i primi
narrano ai secondi l’orìgine delle mine che
colpiscono i loro occhi , non meno che
l’orìgine delle nuove abitazioni, ciascuno
testimone oculare è istruito dalla esperienza,
che tanto egli, che gli altri testimoni oculari
narrano il vero, e che coloro i qualinarrano il fatto
ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il
vero. L'esperienza dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di
cui testimonianza è verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle generazioni future i
&tti accaduti ne’tempi da queste generazioni
lontani. La memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti,
i quali ancora rimangono, ed icui autori più non sono. La propria
esperienza istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante
verità: che per mezzo de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può conservare
la conoscenza di alcuni fatti passati. Intorno
alle idee politiche del Galluppi ’, e più sulla condotta da lui tenuta
nell’alterna vicenda degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di
Napoli nel periodo della sua virilità, non si può dire davvero che
abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la luce desiderabile
gli studi consacrati a questo lato della biografia galluppiana dal
Tulelli, dal Guardione e ultimamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha
scritto in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬ gere
a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è
in aperto contrasto coi docu¬ menti più sicuri da noi posseduti. Anche il
Galluppi, secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino! Della
sua dottrina liberale e del suo atteggiamento risoluto in favore delle
pubbliche libertà e contro 1 in¬ tervento austriaco nel 1820-1821 non è
possibile che dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’
suoi Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque
1 P. E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P.
G., notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti
della li. Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli, voi. I (1865), pp-
101-21, F. Guardione, Due opuscoli di P. Galluppi, prec. dallo studio
critico Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella
rivoluzione del 1820, Messina, D'Amico, 1906; a proposito di questo
opuscolo, G. Gentile nella Critica, V (1907), pp. 229 sgg.; N. Arnone, P.
G. Giacobino, negli Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniv.
della sua laurea, Napoli, Perrella, 1912, pp. 129-52. forma di governo, e i due opuscoli
Della libertà di coscienza e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli,
ristampati dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo
c’è un bel tratto. Né i documenti dell’Amone riscoperti 1
nell'Archivio provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da
questi documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi
chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬ dere ad alcuni
di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬ dere dal Segretario di
grazia e giustizia al Preside di Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe
accordato il passa¬ porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo
». Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al
Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose: « Quantunque
apparentemente il suddetto sembri un giovane morigeratissimo, e studioso
anche di materie teologiche, pure non gode buona fama, perché si
pre¬ tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana
filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma, e ne’ pochi
giorni della falsa assunta Repubblica fu im¬ piegato a far traduzioni, per
cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si
andiede in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi
in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬ glio sarebbe
andarvi il padre don Vincenzo [il padre del Galluppi], mentre non debbo
io, né V. S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze nelle
quali siamo ». Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto
an- ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬
blicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere 1 Gli è
sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano Capasso, nel 1896,
alla Riv. Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi ora, per un'altra
denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il
Giacobinismo in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor, sic., 1922, pp.
327-28]. PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 113 del
Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo, e uh comitato di
cittadini era andato incontro, il 24 feb¬ braio 1799, al Ruffo a Mileto,
a prestargli ubbidienza. Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che
fece tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che
per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna condanna. Aveva,
secondo il vescovo sanfedista ', tradotto qualche documento francese,
forse qualche proclama o decreto dello Championnet; ma la stessa voce
raccolta dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega
molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini della piccola
città, dove forse era solo a conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva
né pur lui molto) * e quando costoro tenevano il campo, non potesse
esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬
blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì
nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza,
governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a
trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui il
19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e timorate
di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don Saverio
Polito, il teologo don Michele Grillo, il penitenziere don Vinc. M.
Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il par¬
roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro
estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬ vano, rilevai
che il don Pasquale Galluppi è un giovane onesto, probo, e di morigerati
costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa
vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada, se
non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso, 1 Su lui vedi
la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134. 5 Vedi la mia pref. al voi.
del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬ luppi, Napoli, 1902, p. ix, n.
1. ”4 e da
bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli
stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬ getto per cui si volesse
portare in detta città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione,
perché da ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre
don Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole
spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio : ma non posso
fame a meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice,
il detto don Gal- luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal
sig. Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e
poi fu liberato senza veruna pena ». Il Preside di Catanzaro si
attenne al Consiglio del prudente vescovo, e propose al Segretario di
Stato che il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato. Ma
lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo, che l’ebbe. Segno
che a Palermo avevano realmente bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per
loro interessi di famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi,
reduce da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,
di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che
questi documenti catanzaresi bastino a farci annoverare il filosofo
calabrese nella nu¬ merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo
nei Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio
della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli ha parole
forti contro coloro che dimenticano lo spirito del Vangelo e «non hanno
ritegno di tramutare la reli¬ gione nell’ istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti
del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e del popolo di
questo bel regno avesse conosciuto il vero spirito del cristianesimo e la
purità delle massime del Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale
comandare delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando
vessillo della Croce per segno dell’assassinio e d’ogni sorta di
iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore tanti preti e frati alla testa
delle masnade degli uomini i più infami e più scellerati » Ma quando il
Galluppi scriveva di queste parole — che pur dimostrano bensì il
liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati i francesi con
Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel 1806 J , gli aveva conferito 1’
ufficio di controllore delle contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo
il Murat. Tutt’altro che giacobino era apparso a me qualche
anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬ nale di Tropea 3
dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬ fatti diceva: Della
Patria il dolore, il lutto, il pianto. La rea sorte fatai veder non
voglio. Di Marte, di Bellona il fier orgoglio.
L’augusto trono di Minerva infranto, — Spesso sedendo al bel
Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fier cordoglio, Pria
che de' Franchi vacillasse il soglio. Dico nel mio pensiere, e
piango intanto. Un ferro io prendo. — Occhi miei, non piangete,
— Grido nel mio furore; — io corro or ora Sollecito a varcar l'onda
di Lete. — Ma già l’Angiol divin, che accanto giace. Di
man mi toglie il ferro, e grid’allora: — Verrà Fernando : tornerà
la pace ! Il primo editore faceva precedere al sonetto le
seguenti notizie : « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-
1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in. * Arnone, p. 141.
3 L’ Eco di Tropea, a. II, n. 35, 30 agosto 1902. 4 E da me
ristampato con qualche correzione di punteggiatura, per renderlo un po'
meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, 1903, pp.
218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia d. filos. ital.
dal Genovesi al Galluppi, Milano, 1930; ora in Opere complete di G.
Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, XVIII-XIX, Firenze, Sansoni, voi.
II, p. 31). simo fu letto alla nostra Accademia degli
Affatigati (assorta allora ad altissima fama), alla quale il
Galluppi apparteneva col distintivo il Furioso, e apparisce dedi¬
cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto all’Accademia
anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla parte opposta ove è scritto il
sonetto, si legge: ‘ Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’
impetuoso turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a
salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. —
Ferdi¬ nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è ter¬
minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati il Furioso. Siegue
dietro il sonetto dello stesso Accademico. Riproducendo il curioso
documento, mi parve che di¬ scorso e sonetto si potessero riferire alla
reazione del 1799; e, dietro a me, anche il De Cesare ritenne che il
sonetto alludesse alla restaurazione di quell’anno *. Ma non tutto
a quella prima impressione mi restava chiaro degli accenni contenuti nel
sonetto; e le difficoltà ora oppo¬ stemi dall’Arnone mi persuadono che
sonetto e discorso vanno spostati di sedici anni. « Prescindendo »,
dice l’Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea, al
quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integral¬ mente riportate
mi pare che tolgano ogni dubbio intorno alla paternità del discorso e del
sonetto, « prescindendo dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il
sonetto e il brano del discorso accademico non possono mai rife¬
rirsi alla reazione del 1799. Infatti, nel sonetto stesso si J R.
De Cesare, Taranto nel 1799 e mons. Capecelatro, Martina Franca, 1910 testr.
dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu solo a non aver fede
nella durata della Repubblica. Se egli non andò a Napoli, non vi andò
neppure Melchiorre Delfico, chiamato a far parte della Giunta del
Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure aveva da giovane principii
liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati di Tropea, un brutto
sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : tor¬ nerà la pace ».
trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché, col verso
Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore, stanco del fier
orgoglio di Marte e di Bellona, deve asso¬ lutamente alludere alla
prossima caduta del trono di Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al
settimo verso del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua
atten¬ zione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso sedendo
al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una determinazione
cronologica non trascurabile. E poiché era noto che il Galluppi fu a
studiare a Napoli dal 1788 al 1794, pensai che per soglio dei Franchi si
dovesse in¬ tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI,
che cadde quando il Galluppi dimorava al bel Sebeto accanto. E vedevo nel
sonetto un’enfatica e grottesca rievocazione delle ansie, da cui l’animo
dell'autore sarebbe stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti
che la Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non tutto,
di certo, restava chiaro, come non tutto precisa- mente diventa chiaro se
s’intende, come propone ora l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore
designi il trono del Murat. Ma vien colmato il grande intervallo
che rimaneva, secondo la mia ipotesi, tra il 1789 e il luglio del ’99,
quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso
avrebbe celebrato. Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi
vacillasse il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re
Gioac¬ chino, — e ne argomento in conseguenza che tra la fine di
marzo 1815, quando il Murat dichiarò la guerra al¬ l’Austria, e il 3
maggio (battaglia di Tolentino) il Galluppi dovette essere a Napoli — non
capisco perché l'Arnone soggiunga : « A me parrebbe che il discorso
accademico potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I
Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto 1 Op. cit., p.
139. il8
l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dal-
l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi recitava il suo discorso
accademico è chiaro che Ferdinando non era più lontano, ma già tornato a
Napoli (« Ferdinando viene, Napoli è salvo ») ; e l’accademia celebra la
ristau- razione. È vero che il Galluppi nel '21 trepidò per l’in¬
dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco a Napoli; ma nel
’2i gli austriaci eran chiamati da Ferdi¬ nando, che non avrebbe potuto
perciò essere cantato come il salvatore dell’indipendenza; laddove nel
'15 il Murat alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori
del Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dina¬
stie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza >; e al
Galluppi, già murattiano, i disastri dell’esercito napoletano e l’entrata
degli austriaci nel Regno dovettero realmente parere la più pericolosa
minaccia alla indi- pendenza di questo, finché non si ripresentò
Ferdinando, a riavere, dopo il trattato di Casalanza (20 maggio),
dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo Stato due volte
abbandonate. E le preoccupazioni che il Galluppi, come quanti altri
avevano servito il governo francese, dovette, prima di quel trattato,
nutrire gra¬ vissime e angosciose per la propria sorte, o almeno
per l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spie¬ garci la
disperazione da cui nel sonetto dice d’essere stato preso per l’imminente
crollo di quel governo. E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di
Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di
tutti 1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne;
reputando che più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto
dei soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto
dell’amore dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i
migliori in¬ gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi
avvenimenti, acqui¬ stata da noi piena indipendenza politica, era suo
debito riordinare il regno senza o soggezione, o somiglianza,, o
gratitudine ad altro stato, così adombrando le tollerate catene per nove
anni»: P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, §
68. i funzionari del
passato regime, era pel controllore delle contribuzioni dirette nella
Provincia di Calabria ulteriore l’espressione d'un sentimento sincero l 2
. Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale e
patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico della
tradizione paesana di Napoli e della posteriore storia italiana.
Del suo patriottismo e liberalismo son documento bastevole gli
opuscoli politici che il Galluppi scrisse nel 1820-1821 in cui ripigliava
le idee dei Pensieri filosofici, rimasti inediti, e scendeva in campo a
difesa della libertà e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la
lettura di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti e
qualche anno fa ristampati dal Guardione, induce piuttosto a ricollegare
il Galluppi alla tradizione del Giannone, del Tanucci, del Vico e del
Filangieri, anzi che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del
giacobinismo rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui
si conoscono soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva
già 1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma
all’anno seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu
letto, dopo il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, «
riunivasi raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel
1816, nella Chiesa dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine »
(forse il 2 agosto quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli,
Discorso storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle
Notizie archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano,
1891, p. 132. Ma le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime.
Infatti, secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata
nella reazione del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove
nel gennaio 1831 vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che
qui appresso si pubblica. 2 Opuscoli filosofici della libertà
individuale: Della libertà di coscienza e delle conseguenze che ne derivano
riguardo al matrimonio, dell’Autore del Saggio filosofico sulla critica
della conoscenza, Messina, 1820, presso Antonino D’Amico Arena; Lo
sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea, in
Messina, presso G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati
ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui
servito. aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri
aveva propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,
aveva detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal
considerare lo stato di natura come anteriore allo stato politico, se non
in ordine di tempo, almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono
per natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò che
gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli
altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un
altro che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or
questo dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil
società è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬
dice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ».
Movendo da questo principio, a differenza del Rousseau, il Galluppi
separa nettamente il dominio giuridico-politico da quello della
religione. Riconosce che « la potestà politica dee curare che i cittadini
sieno vir¬ tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione
del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che promuovono la virtù
ed arrestare i progressi del vizio »; e però può parere che abbia bisogno
del soccorso della religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù.
« Le leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬
minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative al
cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo. Ma se le leggi
arrestano il braccio e la religione regola il cuore, dico io, dunque, che
la depravazione del cuore non dee punirsi che dalla sola religione, vai
quanto dire, dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea
alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative che al cittadino,
e la religione s’impadronisce dell’uomo, le leggi devono dunque
contentarsi della sola virtù civile e lasciare alla religione le virtù
dell’uomo.... Egli bisogna distinguere l’uomo giusto agli occhi
dell’eterno, che tutto vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto
innanzi a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole che
si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser giusto civilmente,
senza esserlo, naturalmente, secondo la religione ». Le
opinioni religiose pertanto non cadono sotto la san¬ zione delle leggi, e
l’irreligiosità non può esser punita Ogni maniera di persecuzione del
resto è contraria allo spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il
Galluppi scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite
dalla sua penna. « Questa religione divina », egli dice, « annuncia agli
uomini una morale che perfeziona la natura. Lo spirito del Vangelo non è
che imo spirito di fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito
di persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬ tati,
dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle vostre scarpe e
partite. I primi banditori del Vangelo non impiegarono altre armi per la
sua propagazione, che la forza della parola. La religione deve avere la
sua sede nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬
braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli riceve, e trattandosi
di religione, a proporzione della grazia celeste che il Padre de’ lumi
gli dispensa. Le pri¬ gioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano
certa¬ mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser
tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬ menti più
crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra della pace e della
pubblica tranquillità divenne col pro¬ gresso del tempo in mano del
superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage. Questo mutamento di condotta, non della
reli¬ gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi
ministri, fu sorgente d’incredulità ». Nell’opuscolo del 1820 sulla
Libertà di coscienza la stessa questione è ripresa e approfondita sì dal
rispetto 9 - Gentile, Albori. I. speculativo e sì da quello
politico. Vi ritroviamo quella morale kantiana, che è professata negli
Elementi, nelle Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà :
«La regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme alla
legge»: legge puramente formale anche pel Galluppi. Il quale infatti
soggiunge : « Si può agir male seguendo una coscienza erronea, ma si
agirà male ancora facendo il bene in contraddizione dei dettami di una
coscienza erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬
trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione del diritto del
matrimonio civile abolito nel Regno dal codice del 1819: il quale aveva
stabilito non potersi celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla
Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già
nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà del pensiero è il
primo diritto inalienabile dell’uomo»; e che tale libertà è illimitata.
Ora, se questa libertà è illimitata, se la moralità consiste nella
conformità della coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla
legge della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle azioni,
le quali debbono essere necessariamente in armonia col pensiero, non
possono giammai essere forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del
privato cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto
religioso esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno
non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino ad un culto
contrario alla propria credenza, bensì per permettere un dato culto e
impedire quindi che venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ».
Ma deve 10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il
Montesquieu contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei
culti, 11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di
proposito 1’ « importante questione », poiché egli si occupa
piuttosto della libertà individuale, e però della sola libertà di
co¬ scienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo
sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi,
ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene
conveniente che si possa « per ragioni politiche non permettere
l’esercizio pubblico di un culto diverso da quello stabilito ».
Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico, esso rientra
nella sfera di attività del potere politico: che « ha il diritto di far
leggi positive sul matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto
naturale, determinino ciò che la natura non determina, e che ha influenza
su la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le
condizioni per la validità del matrimonio come con¬ tratto civile, e
lasciare alla libertà del cittadino, se vuole al contratto unire la forma
religiosa, che T innalza a sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser
lesa la libertà di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che
il Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale. Tale
principio a Napoli fu riconosciuto dal codice francese durante il
decennio; e certo quella legislazione, « tranne il mormorio di qualche
fanatico, che osava chia¬ marsi teologo, non produsse fra noi il menomo
disordine ». Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono
la sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio
ecclesiastico. E « si fece dippiù », dice il Galluppi: «il Concordato
diede alla Chiesa il potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee
esercitarsi in conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità
temporale rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti
sul matrimonio ». Il Galluppi, nelle cui parole è agevole sentire
l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più
libera tuta per l’ottenuta costitu¬ zione, parla in nome della filosofia
(«la filosofia non dee oggi temere di alzar la voce contro di questi
abusi ») ; e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato
contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.
stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che trattino di
religione. Il secondo opuscolo, assai più importante per la
cono¬ scenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso
sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere anteriore ai
primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto che « un’armata austriaca si
fa vedere in volto minac¬ cioso nella bella Italia » 1 2 ; con accenno
evidente, se non erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont (4
feb¬ braio 1821), di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0 il 20
di quel mese In quei giorni un altro filosofo napoletano,
Pasquale Borrelli, componeva un inno di guerra, che, messo in
musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del 21 febbraio. La
seconda strofa diceva: O straniero, che guerra ci porti,
Chi ti offese ? quell’ ira perché ? Va, rispetta la terra de'
forti.... Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade, Ha di
sangue nell’occhio il desir. Cittadini, tocchiamo le spade:
Qui si giuri svenarlo o morir ! Il Galluppi dal fondo delle
Calabrie rivolge all’ Europa (ma fin dove sarà giunto ?) il suo
opuscoletto, enfatico nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per
scon¬ giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione
delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi che ricordano
l’alta intelligenza storica di Vincenzo Cuoco, la storia di Napoli dal
1789 in poi, a conferma del principio, che oppone alle prepotenti pretese
del- 1 Rist. cit., p. 47. 2 Vedi De Nicola, Diario
napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252 253 (in calce all'Arch. slor.
napol., 1905, fase. 3). l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da
sé, e inter¬ romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento
non è durevole. Tutto, egli dice, « cangia incessantemente
nel mondo ; ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬
rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme
». I grandi avvenimenti, che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo
stato di un popolo, in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al
quale l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde
hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come
dai patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? Il Galluppi
studia brevemente questo problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la
conse¬ guenza degli errori commessi dal governo borbonico (il
Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794; quando, dopo aver
favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse e alimentate dalla
filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione francese, che
intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬
razione politica, esso volle violentemente arre¬ starsi, e tornare
indietro, e dichiarò guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la
nazione nella barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che
fece rovi¬ nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga
pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬ bini del 1799,
che s’appigliarono alla massima della perfetta imitazione dei francesi,
senza chiedersi se Napoli fosse preparata alla democrazia, e alla
democrazia fran¬ cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di
Giunone, abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo quello
di un giacobino. Successe la reazione; e il governo, anzi che
mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco,
feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio
d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia sulle
cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Giuseppe Bonaparte
e Gioacchino, che non sono più i francesi del '99, ma i correttori e
moderatori dispotici della libertà, i quali compiono l’abolizione del
feudalismo nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza
civile della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già matura
per la Costituzione: la cui richiesta per altro è affrettata dagli errori
che toma sempre a commettere il Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il
Galluppi non manca di ricordare il « concordato ignominioso, che
annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore di Ferdinando
fino al suo ritorno fra noi ». Mostrata la necessità storica della
rivoluzione del 1820 e della costituzione che Napoli s’era con essa
conqui¬ stata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,
e minacciosamente esclama : « Un’ invasione è ella facile nelle attuali
circostanze della nostra nazione? Il '99, il 1815 sono gli stessi tempi
per noi del 1820 ? Si è mai veduto in altri tempi, allorché il nemico ci
minacciava, l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso
doman¬ dare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere
il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della costituzione e
del trono ? ». Siamo così abituati a rappresentarci il Galluppi,
attra¬ verso i suoi libri meramente speculativi, dove non spunta
mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o un’allusione
personale, e attraverso le memorie di quel suo insegnamento
universitario, tutto chiuso, tra il '31 e il '46 (periodo di puro
raccoglimento spirituale per Napoli), nella speculazione sopramondana.:
che questa specie di Galluppi inedito, agitato dalle preoccupazioni
politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di uno strano
sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne viene aggiunta una linea
caratteristica e simpatica alla figura del nostro vecchio e caro
scrittore; che viene ad occupare anche lui il suo posto non pur nella
storia del liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pen¬
satori improntati della più schietta italianità, i quali, rifacendosi
direttamente o indirettamente dal Vico, si opposero all’ astrattismo
antistorico e rivoluzionario di Francia. Lungi, dunque,
dall'apparirci un giacobino, il Galluppi, pel suo modo d’intendere e
giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si presenta come un liberale
del se¬ colo XIX, penetrato del senso della realtà e razionalità
della storia. Né questa figura viene menomamente turbata dal
nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste note: un altro suo
discorso accademico, letto a Tropea (nella solita Accademia degli
Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al
trono Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e
trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può suscitare né
meraviglia, né rammarico in nessuno che ricordi con quali lieti auspicii
salisse al trono il nipote di quel Ferdinando, a cui il Galluppi aveva
inneggiato nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso
Set¬ tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di
luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la nazione a
novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬ cordanze: «Quando re
Ferdinando II, nel novembre del 1830, saliva sul trono delle Sicilie,
cominciò bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a
venti armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In
un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le piaghe che da più anni
affliggevano il Regno, ristorare la giustizia, riordinare le finanze,
promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni
dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per
la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬
gionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi
dicevano che egli aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma
gli davano lode perché scacciò parecchi ministri e servitori, che durante
il regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché
restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle vivere con
certa semplicità e parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a
tutti cortese perché dava udienza a tutti, domandava, rispondeva,
provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta
veduti ». Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni, esso Settembrini
tra giovani suoi amici e maggiori d’età: anche « Nerone cominciò col quam
mallem nescire scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate
che s’usi, e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ». E
gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile dispotismo
» — scriveva Nicola Nisco nell’accingersi alla storia del suo regno, — «
e che ne porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con
civile orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali
sono andati confusi con quelli che seguirono, massime dopo il
quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬ standosi ampiamente in
lui, lo menò a divenire l’avver¬ sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ».
E ricordando la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo
re, raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i
prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo della sperata
redenzione, sventuratamente poi tradita, vennero fuori giovani ed uomini
egregi, fra i quali Gia¬ como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli
Dalbono, il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬
minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando 1 Ricord., c.
V. il 18 dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo
derivante da colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi,
abi¬ litò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed i
militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai detenuti in
carcere, espatriati, esiliati e condannati napo¬ letani e siciliani alle
galere e all’ergastolo di ritornare nelle loro famiglie, Saverio
Baldacchini il chiamò in un suo inno, Padre a tutti, che il
gaudio Del perdonar provò; e dall’animo purissimo della
giovane Guacci si elevò quella nobilissima esclamazione Oh !
lieto il sire, Che nell’amor dei popoli riposa » Al
coro delle lodi si unì adunque nel gennaio 1831 anche il filosofo di
Tropea, tuttavia controllore delle con¬ tribuzioni, col seguente
discorso; in cui l’adulazione del suddito par s’indirizzi all’ idea
dell’ottimo sovrano piut¬ tosto che alla persona del giovine monarca ;
onde si direbbe che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi
che del panegirico. — Alcuni accenni di dottrine filosofiche, che
vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del bello e del sublime,
dimostrano il già sessantenne filosofo incapace di distrarre la mente
dalle sue astratte medi¬ tazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in
cui gh ac¬ cadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere il
suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei. 1914.
1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,
Morano, 1889, II, pp. i, 8. Pel felice avvenimento al
Trono delle Due Sicilie di FERDINANDO II Discorso
Accademico di P. Galluppi Di letizia ripiena, Accademia
illustre, io ti rimiro. Con la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra
riprender ti vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al
canto, espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti ac¬
cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende sul trono di
Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri cuori, sparisce: in tutti i
volti degli abitatori delle Due Sicilie, con vivi ed espressivi colori,
la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.
Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del giovine Re
sul trono ha universalmente prodotto ne’ nostri cuori. Un vivo sentimento
di ammirazione e di devozione verso la sacra persona di lui, si è
immanti¬ nente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdi¬
nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non sola¬ mente quel
sentimento fa nascere, che, in una ridente primavera, l’aspetto d’una
deliziosa campagna, negli animi sensibili alle bellezze della natura e
dell’arte, suole produrre; ma quel sentimento eziandio produsse,
che in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del cielo,
in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬ vatore attento a
contemplar l’universo. Ferdinando II è dunque un oggetto non
solamente bello, ma sublime. Come bello, la sua PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? I3I comparsa sul Trono ha inondato di letizia
il cuore de’ suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di
devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono diverse
affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬ costanze fa pianger di
tenerezza. L’altro l’ammirazione e la devozione produce. Nondimeno,
quando il sublime si riguarda come una causa, che su la nostra felicità
influisce, all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la
confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i soldati di
un’armata, quando sanno che il loro generale è uno Scipione, un
Alessandro, un Camillo ; e tale appunto è quello che in noi produce la
vista di Ferdinando II sul trono delle Due Sicilie. Se il
bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e della poesia, se
senza un oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità fornito, il genio
dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che
è l’og¬ getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬
l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬ sesso illustre
della città di Alcide *, di estro animato ti veggo, per fare oggetto de’
tuoi canti l’augusto prin¬ cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,
cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore son
fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro la dipintura
dell’alto personaggio, che verso di lui attira i nostri sguardi. Tu
brami, che i motivi io ti esponga, che dalla velocità incalcolabile del
pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di
devo¬ zione ne’ nostri cuori producono. Ferdinando II è
bello: nel suo volto dipinto si vede la candidezza deH’anima sua, ed una
certa misteriosa espressione del buon senso, del buon umore, del
brio, 1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola
Scrugli, Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17.
della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili
disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue belle maniere,
la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma non è questo il punto di
veduta, sotto di cui io mi pro¬ pongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha
colpiti di ammi¬ razione e di devozione, ed a questi sentimenti è
successa la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto
sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,
grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬ mirare in lui ? Sarà
forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che
in questi gravi capi¬ tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì
nel nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬ mente
ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬ dezza guerriera può
trovarsi negli uomini i più nefandi. Siila non era insieme un gran
capitano, ed mi mostro di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché
conosce i doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri
di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima
Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un pensiere che,
nella sua espressione la più semplice, com¬ prende tutti i pensieri
particolari, che vi si rapportano, è un pensiere grande; e l’anima, che
lo sente in sé, spe¬ rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento
della grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui che
possiede una verità generale, sente che ha in suo potere tutte le verità
particolari che vi son comprese. Egli è simile a colui che, posto su la
cima di un alto monte, comprende, con un semplice sguardo, un vasto e
variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci
rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie dicendo : «
Allora che poteva servirsi della vittoria, amò meglio goderne ». Una
consimil grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci dà di tutta la
guerra di Macedonia, quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno
spirito sublime racchiude le verità particolari in una che sia la
più generale, e per conseguenza la più semplice. Ferdinando II,
asceso sul trono de’ suoi antenati, vede, con un colpo d’occhio, tutti i
doveri di un Re: egli li racchiude in un principio generale. Il suo
pensiere è grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.
La prima parte del mio discorso accademico è terminata. È terminata
? Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio breve
parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse sperimentato un
sentimento dispiacevole, simile a quello che sperimentar suole uno
spettatore di un’azione tea¬ trale, allora che una causa improvvisa lo
chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in
te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità incalcolabile
del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un vasto spazio.
Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo scotimento prodotto
nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il
suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬ siasmo
piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬ dere, con uno sguardo, una
moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua
ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili,
lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero
universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui.
L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬
cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed
adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i
mezzi e la legge di vivere nella civil società. La società civile non può
sussistere senza un essere morale, dotato del potere legislativo ed
esecutivo. Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il
sovrano è il Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società
su la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della
sovranità, come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio
per la felicità degli uomini. Queste sem¬ plici riflessioni ci menano
infallibilmente alla conoscenza del principio generale della morale de’
Re. La desti¬ nazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è
loro possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e
sublime, che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi
forse questa sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle
Due Sicilie, nel primo momento del suo avvenimento al trono,
dall’augusto Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in
quel- l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’am¬
mirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che di vera gioia
gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello scorso anno 1830 Ferdinando
II ascese sul trono, ed in quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi
sudditi : « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’
nostri augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬
spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-
l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio, nell’
investirci della sua autorità, non intende che resti inutile nelle nostre
mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole che il nostro Regno sia
un Regno di giustizia, di vigilanza, e di saviezza, e che adempiamo verso
i nostri sudditi alle cure paterne della sua Provvidenza « *.
1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de'
decreti reali del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli,
Stamp. Reale, 1830, pp. 143-.45. A voi, gran Dio, che avete nella
vostra mano il cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà
sempre santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra
misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del vostro giusto
sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili della vostra misericordia, voi ci
avete inviato a reggere i nostri destini il giovane eroe, che ci
sorprende colla sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee
punto abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che è suo
sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia, e che egli sia il
felice istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza su di noi.
Ciò è lo stesso che riconoscere esser egli destinato da voi a
render felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare il principio
generale della mo¬ rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’
suoi popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che
ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato
di un’anima grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’
popoli delle Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire
il pen¬ siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re; ed
un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta dallo splendore del
Trono, specialmente in un’età gio¬ vanile, concentrar tutta se stessa
nell’espressione de’ propri doveri, ed esserne profondamente
penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non
sola¬ mente conosce la sua augusta destinazione nel governo de’
suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che debbono fargli
conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le illazioni. Egli
vede, in primo luogo, che gli uomini non possono esser febei, senza esser
virtuosi: egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù e
la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla virtù, come la
virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in
soccorso della pub¬ blica autorità, e per estendere la sanzione delle
leggi, e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e per
evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere ad impedire; ed egli
conclude, che dee proteggere la divina Religione, che c’ illumina. « I
grandi », dice il celebre Massillon, « non son grandi se non perché
eglino sono le immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬ tari
della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere gl’ interessi di Dio,
di cui rappresentano la maestà, e rispettare la Religione, che sola rende
rispettabili loro stessi ». Dalla Religione volge il nostro
gran Re lo sguardo alla giustizia. Egli vede che la felicità de’
cittadini richiede una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce
che questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario. Egli
è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere, e nell’elezione
de’ membri, che debbono comporlo, deve porre la maggiore attenzione che
gli sia possibile. Il cit¬ tadino dee, sotto la protezione della legge, e
del pubblico potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i
suoi diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà
consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente legislatore.
Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli occhi della
legge '. I tribunali debbono essere un santuario, che la corruzione, la
prepotenza, T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i giudici
debbono essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬
bono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione
estranea al loro potere. L’impero della legge dee essere
universale. 1 « Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri
tribunali siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati
dagl' in¬ trighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano
riguardo o interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono
uguali, e procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia
». I cittadini non possono
essere felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre
politico, non si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché
ogni cit¬ tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬
damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un
lavoro assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I
dazj eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj
debbono essere eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato
pre¬ senta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si mostra
allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re, su i
palagi de’ Grandi, ma lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e
degl’ infelici. Al suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo
doloroso della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo.
La sua grande anima ne è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le
grandi passioni innalzano l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti
incogniti agli uomini ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento
stesso il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di
ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali finanze, è
tosto nella gran mente del Principe magnammo già delineata. La felicità
de’ cittadini richiede ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di
fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,
valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Fer¬ dinando II si
fece già ammirar da capitano, prima di farsi ammirare da Re.
Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da primi anni la mia
vita, se non ho avuto altro scopo ne miei scritti, che di annunciare la
verità al genere umano, se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da
te non si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬
lisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato il mio
linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei 10 - Gentile,
Albori. I. pensieri, per formarmi un prototipo di mia
immagi¬ nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama
gli esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo
cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II è grande perché egli
conosce i doveri di un Re. Parte Seconda
Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo, in cui 1 ’
Eroe di questo discorso regna su di noi, non è ancora di tre mesi; ed
egli ha tali e tante cose operato, che con ragione i sudditi suoi, nella
sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per
Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ per¬
sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’ secoli. I
loro passi sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi degli uomini
ordinar] sembrano de’ pro¬ digi- Eglino, quando anche la loro vita fosse
molto corta, formano l’epoche della storia; perché producono quei
memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’ popoli, e fanno a
questi percorrere un cammino diverso. I loro nomi resistono al furore del
tempo, che tutto di¬ strugge. Ferdinando II ascende al trono de’ suoi
antenati, nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe
stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe sdegnato le penose
cure del governo di un Regno; egli sarebbe stato colpito dal fasto de’
grandi. Il giovin Eroe chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono,
ed attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non vuol
assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ in¬ felici. Una
serie d’infausti avvenimenti produce torrenti di mali, ed immerge nel
dolore e nel pianto gli abitatori di queste belle contrade. Un muro di
separazione s’in¬ nalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi.
Quelli della parte sinistra son privi della vita civile,
nell’atto che la necessità ne chiama degli altri, che sono insuffi¬
cienti, alle pubbliche cariche >. Il potere giudiziario perde
tanti ragguardevoli magi¬ strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj
ammini¬ stratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio, chi
riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de buoni e virtuosi
cittadini di questo bel Regno: la vostra voce finalmente dal Cielo si è
udita. Popoli delle Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri
cuori si aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul
Trono: egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a
nuova vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è
commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de sudditi suoi. Egli
sente, nella sua clemenza, che, essendo l’immagine di Dio e del Redentore
divino su la Terra, dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol
prodigo. Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di
mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla ces¬ sare. Egli
conosce, che i Re debbano regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il
memorando decreto del 18 dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di
separazione è rove¬ sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale
». Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la
sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora
citato è una finzione ? Che esso non avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima
eroica di Ferdi¬ nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti
del dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- 1
A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica fa
traviare dal retto cammino anche i migliori talenti ». 1 L’atto
sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore dei condannati
come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche si trovavano
esclusi dagli impieghi civili e militari. 3 Allude ai due decreti
nn. 104 e 106, emanati con quella data da Ferdinando II, col primo dei
quali si cercava di curare le piaghe 140
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i
cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli,
perché vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre. DalTuna
all’altra estremità delle Due Sicilie una sola voce si ascolta : Viva
l’Eroe! Viva Ferdi¬ nando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti
a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù
non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe, in buona filosofìa, un
distruggerla il riguardarla qual mezzo per la felicità. Ma è essa una
verità incontrasta¬ bile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso
infelice. Quale spettacolo più commovente per l’anima di Fer¬
dinando II di quello che gli presentò la capitale ne' giorni ix, 12 e 13
di gennajo, e la relazione, che certa¬ mente gli pervenne, della letizia
universale innalzata sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il
piacere di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi
adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe magnanimo
intese nel suo cuore, che egli ha tanti sol¬ dati, quanti sudditi conta
il suo regno. Egli vide il suo Trono immobile, la sua gloria
immortale. La grand’opera della rassicurazione delle reali
finanze la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro Eroe.
La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde che erano
nelle finanze del Regno, sopra tutto dei do¬ mimi continentali, per « le
conseguenze fatali della straniera usurpa¬ zione: gli avvenimenti
disgraziati del 1820#; si esponeva con leale franchezza il deficit della
tesoreria generale di Napoli, che am¬ montava a 4 345 251 ducati; per
colmare gradualmente il quale si annunziava una serie di lodevoli
economie nella milizia e nei ministeri, oltre straordinari rilasci della
cassa privata del Re e dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del
cumulo degli stipendi; l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni
superiori a 25 ducati mensili; e in compenso pel « sollievo della parte
più bisognosa del popolo » si dimi¬ nuiva della metà il dazio sul macino.
Con l’altro decreto veniva pre¬ scritta « una generale economia nelle
spese a carico dei comuni di qua del Faro per invertirla nella
diminuzione de’ più gravosi dazi comunali». Vedi Collezione cit., a.
1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20. PASQUALE GALLUPPI
GIACOBINO ? I4I del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un
carat¬ tere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea di
grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero delle
idee associate sul cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù, quando si
scorge nelle azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno
adorni, rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da
questo sublime pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile
impresa. Que’ insti spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto
restituiti al¬ l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese
relative alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un
rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto
dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata
ad imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto
del di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a
colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di
Ferdinando II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un
lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la
restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il
passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà
tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su
le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta
latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova
progenies caelo demìititur alto. 1 « Con la pubblicazione del suo
proclama il Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per
l’abolizione delle cacce »: N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame
di Napoli, voi. II, p. 67. . 1. Il Galluppi è stato detto a ragione
gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno
illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto
è neces sario al disegno di questo lavoro . Nacque a Tropca, in Calabria , il 2
aprile 1770 ( lo stesso anno di Hegel) dal barone Vincenzo e da Lucrezia
Galluppi, una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii
primi studi di latino, tredicenne fu mandato a scuola di filosofia e ma
tematica da « un abile maestro » ( 1 ) , tal Giuseppe Antonio Ruffa, che gli
pose in mano la Logica del Genovesi e la Geometria di Euclide; e l'innamorò
talmente di questi autori e di queste disci pline, che il Galluppi , anche
innanzi negli anni , non rivedeva quei libri senza una certa commozione. Ma non
si fermò al Ge novesi ; perchè alcuni suoi compagni l'indussero a leggere la
Teodicea del grande avversario di Bayle. E il Galluppi ne fu in vogliato a
studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla
teologia , poichè nella scuola « si era in trodotto, scrive egli stesso , un
certo misticismo » . 2. Studi teologici e metafisici continuò a coltivare a Na
poli , dove si recò nel 1788 , da Palermo, ove il padre qualche anno prima
aveva condotto la famiglia . Frequentò le lezioni di teologia di Francesco
Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Pasquale Baffi ; entrambi
vittime gloríose del 1799. Studiò la Bibbia, la storia antica ,
l'ecclesiastica, la patristica, ( 1 ) Vedi il brano autobiografico pubblicato
dal prof. F. PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di E. Morselli,
&. 1887, e ripubblicato da CARLO TORALDO nel suo Saggio sulla filos. del
Galluppi e le sue relazioni col kantismo, Napoli , Morano , 1902, p. 29 ( dove
per una gvista è stampato amabile per abile ) .
specialmente s . Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello
Ansaldo, dovette nel 1794 rimpatriare per attendere all'azienda do mestica ; e
sposò Barbara d'Aquino di Cosenza , dalla quale ebbe quattordici figli ! Negli
Elementi di psicologia ( 1 ) egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza,
che nella sua casa non grande gli avrebbe impedito co'suoi strepiti infantili
di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per
questi studi. Persistetti, egli dice, e « l'esercizio mi pose in istato , che
io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le
grida de ' ragazzi > ( 2 ) . Nel 1795 , per rispondere alle censure che
certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni , pubblicò una
Memoria apologetica (3) Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : «
ma i libri filosofici che leggeva, com'egli c’informa, erano tutti della scuola
cartesiana » . Intorno al 1800 lesse Condillac, e « qui cominciò la seconda
epoca della sua vita filosofica . Le opere di questo filosofo fecero cambiare
la direzione dei suoi studi nella filosofia » , « lo compresi , - ci dichiara
il Galluppi, – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su
l'universo , bisognava esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre
una base solida alla filosofia ; che bisognava perciò risalire all'origine
delle nostre co noscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento » ( 4)
. 3. Così egli scriveva nel 1822 , quando era molto progredito nella critica
della conoscenza , e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la
prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe
da queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo,
l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna,
facendolo ritornare sul Saggio del Locke. E primo frutto di questi nuovi studi
fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi ( 5 ) ; le due ( 1) § LVI ;
2.a ed. , Firenze, Pagani, 1832, p. 103 . ( 2) Anche il Vico nella sua vita
ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o
scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. ( 3 ) In
Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola . ( 4 ) Autobiografia citata.
(5) Napoli, Giuseppe Verriento , 1807. Tirato in pochi esemplari non messi in
vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla
Biblioteca Univer sitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. I facoltà che occuperanno un posto primario
nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e
senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero » ,
come immaginava in un suo affettuoso elogio Luigi La Vista, non si sarà rivolto
« alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello
nella vita e nella sapienza del divino Pita gora » ( 1 ) ; certo avrà seguito
gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli ,
com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at
tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Su la libertà com patibile con
ogni forma di governo, rimasto inedito . E nel 1809 da re Gioacchino fu
nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro ( 2) .
Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un
opuscolo stampato nel 1820, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in
difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai
bach, e contro l'intervento straniero . E altri due opuscoli avrebbe
indirizzati al Parlamento napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e
l'altro Sulla libertà della stampa ( 3) ; opuscoli ora irrepe ribili, ma che
non dovevano contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà
compatibile con ogni forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono
pubblicati nel 1865 ; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni
libertà (4) , 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi il Gal
luppi ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. «
La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione
dei miei studi ; io continuai le mie appli ( 1 ) Memorie e scritti di L. LA VISTA,
Firenze, Le Monnier, 1863, pag. 257. ( 2) Vedi quel che no dice P. E. TULELLI
in un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar
. P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti
della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I ( 1865 ), 201 e sgg. Il
TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G.
negli stessi Atti del 1867, III, 81 e sgg. ( 3) Vedi l'opuscolo più sotto
citato di F. S. BISOGNI, Omaggio , p. 9. (4) Vedi la prima delle due memorie
del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione del '99 il Galluppi , che allora
trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un
amico della libertà . Nell'Eco di Tropea del agosto 1902 II , n. 35 ) il prof.
C. TORALDO , al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia del Gal
luppi con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo
sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città :
cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo
di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia
critica , sebbene trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato .
Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica , elevarono molto più
alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza
dell'intendi mento umano » ( 1 ) . E vedremo infatti quanta parte del
criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della co
noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli nel 1819 ( 2 )
, Questa prima conoscenza di Kant provenne al Galluppi dalle esposizioni nè
complete nè esatte del Villers ( 3 ) e del Kinker ( 4 ) e Della Patria il
dolore , il lutto , il pianto , La rea sorte fatal veder non voglio , Di Marto,
di Bellona il fler orgoglio , L'augusto trono di Minerva infranto , Spesso
sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio , Pria
che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel mio pensiere, e piango intanto.
Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro
or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto . Ma già l'Angiol divin , che accanto
giace, Di man mi toglie il ferro , e grid'allora Verrà Fernando : tornerà la
paco ! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte
opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico : «
Ferdinando augusto , principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia
l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son
legati alla tua esistenza . Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso
accademico è terminato » . E poi : « Pasquale Galluppi fra gli Af fatigati il
Furioso . Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico » A me pare che
discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione del 1799 . ( 1 ) Le frasi in
corsivo di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà
più innanzi del pensiero galluppiano. ( 2) Pei torchi di Domenico Sangiacomo.
Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo , 1822 ; poi un 5.° e un 6. ° , per
cui l'opera fu compiuta, nel 1832 , presso lo stesso Pappalardo. Nel 1833 in
Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta . ( 3) Philos.
de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. (
4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du
l'ol landais par. J. le F. , 1801; vedi su questi e gli altri primi scritti
francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en
France de 1773 à 1814 , proposta alla sua trad. della Critica della Ragion
pratica (Paris, Alcan, 1888 ). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici (
1803) del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco ( 1 ) , nè mai conobbe la
traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born (
1796-98 ) ; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece
della Critica della ragion pura ( 1820-26) , e che sarà poi la sua fonte principale.
5. Nel 1820 pubblico i primi due volumetti di Elementi di filo sofia contenenti
la Logica pura e la Psicologia , e prometteva l'Ideologia , La logica mista ,
la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri tre volumetti nel 1826 ( 2)
, e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto
volumetto annunziava non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore « su
l'oggetto intra presa un'opera estesa » ( 3) . E questi libri , i migliori
testi di filo sofia per le scuole che si siano avuti finora in Italia , per i
loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza , si divulgarono presto
per tutta Italia , procacciando molta fama al benemerito autore . Intorno al
1821 scrisse alcune lettere sulla storia della fi losofia moderna, indirizzate
al canonico don Goffredo Fazzari, che nel seminario vescovile di Tropea
insegnava gli Elementi di lui e desiderava da lui stesso di essere orientato in
mezzo al « caos delle opinioni , che al presente scrive il Galluppi nella prima
lettera — agitano il mondo filosofico » , e di essere sovrattutto informato
della filosofia critica. E queste lettere l'autore nel 1827 raccoglieva in un
bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della
filosofia in Italia ( + ) , il quale diede ( 1 ) Nè soppe tanto di francose da
tradurre da questa lingua sonza errori di senso . Vodi per un esempio
curiosissimo la mia prefazione al Saggio citato del prof. C. TO RALDO , p. IX,
n . 1 . ( 2) Aggiunse più tardi gli Elementi di teologia naturale. Nel 1835 si
fece a Firenzo una edizione di tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte
dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore
; ristampata a Bologna nel 1837. ( 3) Di questa Storia della filosofia non fu pubblicato
poi che il primo volume conte nento il primo dei duo libri di Archeologia
filosofica , che l'autore intendeva premettere al l'opera. Ne conosco solo
l'odizione di Milano, Silvestri, 1847, nella quale precode l'Elogio funebre
scritto da ENRICO PESSINA . ( 4) Lellere filosofiche sulle vicende della
filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a
Kant inclusicamente , Messina, Pappalardo, 1827. Le let tere in questa edizione
erano tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli, 1838) , con
un Discorso di LUIGI BLANCH per venire fino al Cousin e al Rosmini. E questa 2.
edizione fu riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli, 1842 , che noi
citeremo. occasione al Romagnosi ( 1 ) di scrivere una Esposizione storico -cri
tica del kantismo e delle consecutive dottrine ( 2) . E altre cinque Lettere
sull’ontologia indirizzd a un amico tra il 1820 e il 1822 , dove si adoperò a
mettere in chiaro, da un punto di vista kan tiano, la futilità dell'ontologia
wolfiana ( 3) . Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente . 6.
Per tutti gli scritti già divulgati il Galluppi s'era reso noto per tutta
Italia ; e il giovane Rosmini l'11 novembre 1827 , ap pena stampato il primo
volume de' suoi Opuscoli filosofici, glielo inviava da Milano, dichiarandoglisi
obbligato se egli , che aveva « arricchita la filosofia , quella scienza
avvilita e profanata nei no stri tempi, anzi distrutta » , avesse voluto
aggradire l'opera e comunicargli « qualche lume relativo alle materie che sono
in esse contenute » . E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai
istruttivo per chi voglia conoscere le relazioni storiche delle ri spettive
loro dottrine ( 4 ) . Varie accademie fin da prima del 1822 l'avevano aggregato
a’loro soci ; fra esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi il Galluppi
tornò il maggio del 1831 ; e subito vi pubblicò una traduzione dei Frammenti
del Cousin , con una prefazione e una « Dissertazione del traduttore , in cui
si confuta il domma del l'unità della sostanza » , ove però son comprese le
osservazioni del Galluppi intorno alle altre dottrine del Cousin non accettate
( 5 ) . « Avendo meditato su di questo sistema filosofico, ho creduto di
trovare in esso delle vedute sublimi, ed insieme un errore pe ( 1 ) Che ne
aveva scritto prima una recensiono nella Biblioteca Italiana , di Milano, vol.
L, p. 163 e ss . ( 2 ) Nella stessa Biblioteca , LIII, 180 e ss . Vedi Opp.
filos . ed . e ined . , di G. D. R. con annotazioni di A. DE GIORGI, Milano,
1842, pp. 575-605. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in G. D.
Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. italiana , an . 1887,
vol . II . ( 3) Vedi ciò che ne ho detto nella prefazione al citato Saggio del
Toraldo. Dovo que ste lettere sono stato tutte cinquo pubblicato per la prima
volta . Solo le prime due erano state edito da F. PIETROPAOLO , Scritti inediti
di P. Gall. nella Riv, filos. scient., VII ( 1888 ), 128-44. ( 4) Vedi il
nostro Rosmini e Gioberti, pp. 75-82 ( Pisa , Nistri , 1898 ). ( 5) La
filosofia di V. Cousin , trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. Galluppi
, a spese del N. Gabinetto lotterario, 1831 , vol. I. Il vol. II è del 1832. A
pag. 197 del vol. I si incontra anche una postilla del tradut tore relativa ad
alcune massime morali del Cousin ,
ricoloso » . Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis
sertazione, ei credeva di porre « il lettore filosofo in istato di conoscere
non solo la filosofia del sig . Cousin , ma di giudicarla » . Il libro frutto
presto molto favore all'eclettismo francese a Na poli , e specialmente al suo
capo , che dal canto suo fece conoscere il Galluppi in Francia ( 1 ) , e anche
fuori per mezzo dell'amico Ha milton, che in un giornale filosofico di
Edimburgo scrisse un ar ticolo sul Nostro . 7. A Napoli nello stesso anno 1831
fu persuaso da amici a chiedere la cattedra di logica e metafisica vacante
nell'Univer sità . Presentato al ministro degli interni marchese di Pietraca
tella, questi , udito il suo desiderio , l'invito a cimentarsi a un esame. Ma
egli con sdegnosa semplicità calabrese rispose : E chi c'è a Napoli che possa
esaminare Pasquale Galluppi? – L'amico che l'aveva presentato , rimase
sconcertato . Ma il 4 ottobre 1831 il nostro filosofo aveva il suo decreto di
nomina ( 2 ) . « Con che festa noi giovani , narrava il Settembrini con quanta
calca tutte le colte persone si andò a udire la sua prolusione, e poi le
lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con l'accento tagliente del
suo dialetto ! Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo
barbaro nel par lare, ma in quel parlare era una forza di verità nuova , ma
l'in gegno cra grande, e il cuore quanto l'ingegno » ( 3 ) . Quell'anno stesso
aveva dato una novella prova delle sue atti tudini didattiche dando alle stampe
un'opericciuola : Introduzione allo studio della filosofia per uso dei
fanciulli. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento , coi primi due
volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi
e --- ( 1 ) Si conservano nella biblioteca del Cousin , appartenente alla
Ropubblica, le lettere a lui del Galluppi. Vedi l'art. da me pubblicato su V.
Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter. ital. del 1898, VI ,
213. Il Cousin fece tradurre in francese dal Peisse suo discepolo le lettere
del Galluppi ; o questi da F. Trinchera le Lezioni del Cousin Sulla filosofia
di Kant, aggiungendovi cgli delle note, come sarà notato a suo luogo .
Un'affettuosa commemorazione del Galluppi fece il Cousin nel 1847 all'Accademia
di Francia , o pubblicò nel Journal des Économistes del febbraio 1847,
riportato nell'Omnibus di Napoli del 29 maggio 1847, dove il Galluppi aveva
scritto sul Cousin, anno III ( 1835) , pag. 225 . ( 2 ) Vedi FIORENTINO, Man .
di storia della filos., Napoli, 1887, pag. 609 ; L. SETTEM BRINI, Ricordanze ,
Napoli , 1898 , I , 75, e il Discorso cit . del BORRELLI, p . 6 . ( 3) Op. cit
. , vol. I , pag. 76. ammontati a
quattro , già composti a Tropea, cominciò a puh blicare le Lezioni di logica e
metafisica, dettate all'Università , vero modello di quel lucidus ordo tanto
raccomandato dal Veno sino . Nel 1834 ne compì la stampa in tre volumi ; di cui
fece nel '40 una seconda edizione e una terza nel 1846 ; ristampata nel 1853
dal Tramater ; e questa stampa noi citeremo. 8. A proposta del Cousin il 30
dicembre 1838 , in concorrenza coll'Hamilton che ebbe un solo voto , veniva
nominato socio cor rispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E il 28
aprile 1841 , a proposta del Guizot , Luigi Filippo lo insigniva della croce
della Legion d'onore (1) Ei se ne sdebitava con le sue Considerazioni
filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte ,
memoria presentata il 1839 all'Istituto di Francia , accademia delle scienze
morali e politiche ( 2) ; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno
scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente
negli Atti dell'Accademia. Nel 1842 pubblico il primo volume della Storia della
filosofia , annunziata fin dal '26 . Vi si tratta della filosofia greca , non
però secondo la successione delle scuole , sibbene « considerando e cri ticando
le diverse opinioni dell'Antichità » su l'origine dell'uni verso e del genere
umano fino ai neo-platonici . « Una siffatta opera, dice in un elogio funebre
dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria
italiana , se a nostra disavventura la vecchiezza , le malattie , le sciagure
non avessero di tale infievolito l'animo di lui , ch'ei non potè vederla
compiuta, ed a perfezione condotta » (3) 9. Infatti gli ultimi anni della vita
del nostro filosofo furono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte
. Già uno dei figli maschi era caduto , com'ei narra , « vittima del furore
d'un giovane sconsigliato » . Ed egli ne aveva scritto e stampato (Mes sina,
1818) l'elogio . Nel 1834 poi gli era morta la moglie . Ora, nel 1844 in una
insurrezione scoppiata a Cosenza perdeva la vita un altro suo figlio, Vincenzo,
che era capitano . Il vegliardo ( 1) Vedi la lettera del Guizot in LASTRUCCI,
P. G. studio critico , Firenze, Barbèra , 1890 , p. 112. ( 2) Stampate in
italiano nel 1841 , da' torchi del Tramater ; un vol. di p. 159 in 4.° Negli
Atti dell'Accademia francese furono pubblicato come la successiva memoria in
francese. (3) Elogio funebre di P. G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII.
ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse :
« Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta » Morì il 13
dicembre 1846. P. Borrelli , come sopra s'è visto , ne disse degnamente le lodi
presso al letto funebre, il 14, fra una folla di giovani discepoli , che
recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e il giorno 21
gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia , in cui
recitò un'ora zione il gesuita Carlo Maria Curci . Giuseppe Campagna piangeva
la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si
partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume ( 1 ) . Il 14 marzo 1867
dall'Accademia delle scienze morali e politiche al Galluppi veniva eretto un
busto nella Università degli studi, da lui onorata con molti altri spiriti
magni . 10. Molti scritti aveva ancora in animo di pubblicare , oltre i ricordati,
e molti manoscritti di lui ci son rimasti , ora in depo sito presso la
Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimo nianza della larga
estensione degli studi fatti da lui in teologia , storia dell'antica e moderna
filosofia , filologia greca e latina, sto ria , matematica, astronomia ( 2 ) .
Meno vita modesta e di grande raccoglimento : assorto negli studi, visse
veramente per la scienza , in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando
la filosofia italiana . Egli infatti fu il solo dei filosofi napoletani da noi
studiati, dopo il Genovesi, che esercitasse una influenza molto notevole al di
fuori del regno , su tutti gli studi filosofici nazionali ( 3 ) , ( 1 )
Pubblicato nel Museo di scienza e lett., X, 348 ; v. DE SANCTIS, La letter .
ital. nel sec. XIX , Napoli, Morano , 1897, p. 96 , e nota del CROCE, p. 208 .
( 2) Oltre la memoria ricordata del Tulelli , vedi l'olenco dei mss.
galluppiani nel l'opuscolo citato dell'avv. Pietropaolo . ( 3 ) Per la
biografia v. anche L. PALMIERI, Elogio stor . del bar. P. G. con alcuni poe
tici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di L. Palmieri in
Napoli il di 10 del 1847 , di pp. 32. V'è oltre l'elogio un sonetto del
Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine di D. Anzelmi, un'ode
latina di Quintino Guanciali e un so netto « improvvisato dall’egregio poeta
sig . Giuseppe Regaldi che per una congiuntura si trovò presente alla nostra
adunanza » , - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di C. CORRENTI, pubbl.
nella Rivista europea del decembro 1846 , ristamp. in Scritti scelti , ed.
Massarani, Roma, tip . Sonato, 1891 , I , 481-83. L'articolo dell'ab. ANTONIO
RACIOPPI, Il Bar, P. G. , nel Poliorama pittoresco, an. XI ( 1847 , 13 marzo e
20 marzo) , n. 32 e 33 ; l'opu scolo di F. S. BISOGNI , Omaggio alla memoria
del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una
statua all'illustre filosofo , Napoli, Morano, 1877 ( in 11. Nella
quattordicesima delle Lettere filosofiche il Galluppi, vo lendo determinare le
relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo
kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il
suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto
come fino circa ai trent'anni ( al 1800) suoi autori fossero Leibniz, S.
Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio ; e si può dire che egli fosse
in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase poi sempre nel fondo del
suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche
Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente
dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità
assolute » ( 1 ) ; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli fece
intendere , che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni
metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi
risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare, egli dice ,
l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi
studi . Segue perciò dal 1800 fino circa al 1810, quando venne a cono scenza
del Villers e del Degerando, un periodo prekantiano di revisione della
conoscenza ; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi,
12. In questo egli concedeva al Locke e ai suoi seguaci, che « tutte le nostre
idee hanno origine da' sensi » , che pertanto « tutte le nozioni universali
vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari , e ... che le
cognizioni particolari ci menano alle no zioni universali , e non già viceversa
» ( 2) . Ma si proponeva la questione « se lo spirito , tosto che ha for mate
le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi
applicare questa cognizione universale alle idee parti colari , racchiuse
nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato
uno scrittorello inedito del GALLUPPI Sulla semplice appren sione, pag . 17 e
segg. ) . Uno studio biografico ha pure dato in luce il sig. F. PIETROPAOLO,
nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro , an. I , 1899, fasc . 6, 7 e 8. Non
c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio,
1841, n. 1 (citata dal Palmieri) scritta da P. E. TULELLI « sopra note
comunicatemi questi diceva, accennando molto probabilmente a questa biografia
dall'autore medesimo > ; Atti della R. Accad . d. scienze morali e polit .,
1865, I , 203. ( 1 ) Letl . filos. , p. 342 . ( 2) Sull'analisi, p. 20 .
15 altre » ( 1 ) . Per es . , delle due
proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è
grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e
il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe
rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di affermare
l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame necessario, che
non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque , conchiudeva il
Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle verità particolari
(sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle idee universali,
ch'egli si ha formato » ; e v'ha poi verità generali che derivano dalla
cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce l'esperienza. Le
une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le altre le conoscenze
a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana litici, in quanto si
devono all'analisi delle idee“ generali già ac quisite per l'esperienza ;
laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità particolari, non
altrimenti che le idee universali . 13. Sicchè già nell'opuscolo del 1807 il
Galluppi era arrivato a quella forza analitica e forza sintetica di cui farà
nel Saggio ( lib . I , § 18 , 34) il fondamento di ogni giudizio,
distinguendolo net tamente dalla sensibilità . In quell'opuscolo si poteva egli
dire an cora puro empirista ? Certo, egli faceva ancora, come il Locke ,
derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri mentale
faceva ancora la materia delle conoscenze a priori . Giac chè le idee generali
, fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse stesse
sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra cognizione
deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi , che,
elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e alle
cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze
indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui
il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era
accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra
conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta
dal Galluppi quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi
analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli
allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel
quarto ( 1 ) Ivi , ibid . dei quali
ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose
di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della
mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant ( 1 ) . 14. Nel
1819 , nel libro I del suo Saggio, la posizione del Gal luppi si determina
assai più chiaramente. Egli , bene o male, ha già studiato Kant, e combatte
l'empirismo di Condillac, di Elvezio , di Destutt - Tracy ; di quel Tracy , che
ancora nel 1827 a Firenze , al dire d'un arguto scolaro del Cousin, rappresentava
le chef et maitre, celui qui l'a dit ( 2 ) ; e dichiarava che la geometria, «
questa scienza pura , razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la
macchina debole dell'empirismo » (S 36 ) ; e che, infine, « non è vero
esattamente » ciò che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto,
nell'opuscolo del 1807 : derivare cioè tutte le idee universali dal paragone
delle particolari (S 40) . 15. Parve a lui che la critica di Kant fosse una
vera rivolu zione . « La rivoluzione kantiana , scrisse nella prefazione del
Sag gio (3 ), merita , più di quel che si crede , l'attenzione dei pensa tori »
. Asseriva bensì , che il criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto
il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella dell'origine
delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano tuttavia le
seguenti : « L'oggetto di quest'opera è la Critica della conoscenza , o l'esame
della realtà della scienza dell'uomo . Che cosa posso io sapere ?... Son io ca
pace di conoscenze reali ? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze ?
Quali sono i limiti prescritti al mio spirito , limiti che non gli è permesso
di oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le
ricerche sublimi ed importanti che mi occuperanno » ( 4) . Ora queste sublimi
ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che
se è una rivoluzione, sarà cer tamente una novità. ( 1) Vedi D. JAJA , Saggi
filosofici , Napoli, Morano, 1886 , pag . 189 e sgg. E a quel saggio di Hame fu
il Galluppi ricondotto dal Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per
spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da D. Hume, perchè
la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi ( p. 171 )
, ricordando la distin zione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non
ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. ( 2 ) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, pag . 14. ( 3) Tom . I , p. 9. Cfr. lib . III , § 76
; tom . III , p. 268. ( 4) Cfr. lib. IV , $ 1 .
Se non che, a giudizio del Galluppi , la critica di Kant , « lungi dallo
stabilire la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla » ;
che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina
della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica .
Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque ? 16.
Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie del Gal luppi e le critiche
delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio
filosofico la sua dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico
delle opere , possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti
caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. 17. Il Galluppi,
come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello
spirito ; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna . Questa è
la facoltà per la quale lo spirito percepisce , sente se stesso , il me, la cui
esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate
dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensarono Cartesio e
Leibniz . Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre
modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle
modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto . Non v'ha
sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del
proprio essere ; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il
dolore, ma il me dolente . Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna
ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende
, è la percezione immediata. 18. Qui il Galluppi, ritornando alla posizione
cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico,
che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione
dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente , e il far
consistere quindi la norma della verità nella conformità della nostra
rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo
scetticismo. « Se gli oggetti , se la re gione dell'esistenza son separati
dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza ,
all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo
spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo
spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste immagini cogli
originali, e la verità andrà sempre lungi da lui » ( 1 ) . Me ( 1) Saggio , lib
. I , 8 15 ( I , 37) . morabili parole , per cui il Galluppi non solo non è un
prekan tiano , come credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ;
del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale ,
notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione
volgare dell'oggetto rispetto al sog getto , presunta dalla definizione
dell'idea testé riferita . 19. L'idea del me, a proposito della quale l'autore
fa queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga
il termine percepito opposto al soggetto percipiente : « L'Io ed i suoi modi
non sono separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti . La
coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli
oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa
percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita » (§ 16)
. E le intuizioni, secondo il Galluppi , « son vere , non perchè son di accordo
cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono immediatamente sugli oggetti , e li
prendono » ( 1 ) . Nè bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se
n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria
coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il principio da cui parte il
Galluppi, è questa immediata coscienza di sè , che egli dice percezione o in
tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero,
come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della
coscienza di se stesso » ( Saggio, lib . IV, § 3) . 20. Sicchè la filosofia del
Galluppi è un vero soggettivismo , come si può vedere anche dal suo concetto
della filosofia . « Che cosa è mai la filosofia ? Ella è , rispondono alcuni
filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo
, del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a
conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima
esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli
saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una
conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose . Da ciò segue che la filosofia
pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle cose , o come la
scienza della scienza umana . Considerata sotto il primo aspetto , ella può
chiamarsi scienza oggettiva ; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi
scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee
contenere la legislazione di tutte le ( 1 ) Li investono, dice più innanzi.
altre scienze , voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo
aspetto . A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io
dunque la riguarderò come scienza sogget tiva » ( 1 ) . E « scienza della
scienza » la definisce già negli Ele menti di ideologia (S III). Negli Elementi
di filosofia morale (SI) la dice : la scienza del pensiere umano,
distinguendola in teoretica e in pratica , secondo che studia l'intelletto o la
volontà . Egli ha insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal
suo principio : che è la coscienza di sè . 21. Ma come, partendo da tale
principio, egli costruisce la realtà conoscitiva ? E qual carattere dà al suo
soggettivismo la sua costruzione ? Prima di tutto , avverte giustamente il
Galluppi , bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze
dall'ordine scientifico ( 2) , Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda
mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di
riflessione ( 3 ) . Vale a dire , c'è di fatto questa co scienza che è il Primo
scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore ,
molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si
rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo
esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza , laddove
ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia
da una percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle
modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo
spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che
compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone , divide questo
oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro (
1 ) Lett. filos., lett . I ; ediz . cit. , p. 37-8 . Questo stesso concetto è
svolto nella Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di
metafisica del bar . P. G. , Napoli, Ga binetto bibliografico e tipografico ,
1831, di pp. 30 in-8. ° (ristampata in fronte alle Le zioni di logica e di
melafisica , vol. I) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo
articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie del 1838
(rivista diretta al lora da Lorenzo Riola , P. S. Mancini e Luigi Curion , più
tardi dal solo Mancini), pp. 9-11. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero
Giorn . di scienze morali, legislat. ed econom. , 1842, fasc . I e II , pp.
7-14, è un altro scritterello del GALLUPPI: Sul panteismo del signor Lamennais.
( 2) Saggio filos., lib. I , § 22 ; tom . I , p. 49. (3) Ivi, $ 20 ; I , 45 .
dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa ( 1 ) . Sic chè
bisogna ammettere nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna
o coscienza, ed esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di
me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo
coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure
sensazione, corri sponde , come bene osservò lo Spaventa, alla coscienza
sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed
oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col
me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è
riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito ,
io allora giudico » ( 2 ) ( Saggio, lib . I , § 18) . Ora, se conoscere è
questo distinguere e unire , è chiaro che conoscere pel Galluppi non è sentire
( percepire) , ma giudicare . Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla
dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come
giudicare importi necessariamente un rapporto , e come non sia possibile
indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la
conoscenza del rapporto ( 3) . La forza analitica e la forza sintetica dello spirito
sono distinte dalla sensibilità (4) ; come già aveva sostenuto nell'opuscolo
del 1807 . 23. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale del
conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi , ne cessaria
a tutti i nostri giudizi . Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è
sentito , dice il Galluppi , come un molteplice del quale ciascuna parte è
distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio
sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto
dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare
senza il moto di un altro e di tutto l'albero ( 5 ) . Questa molteplicità si
raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso , sia che ( 1
) Saggio filos. , lib . I , § 18, ed Elem . di Psicologia , & VIII . ( 2)
Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol., 8 VIII in fine. ( 3) Saggio, lib. I
, § 32 ; I , 69. II Galluppi riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di
Rousseau ( lib . IV) sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela
che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg . ( 4) Ivi, 8 34 ; I , 73.
(5) Elem . d'Ideologia , 8 XXIV , ediz . cit ., p. 56 . ragioni, che giudichi, o che percepisca ;
talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una
unità logica ( 1 ) che gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza
nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda
unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza
sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva
insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è
ammessa dal Gal luppi ( 2 ) . 24. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io
che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me,
suppone percið l'unità metafisica del me stesso che « è la semplicità o spi
ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la
scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si
compone ; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione
di questi pensieri senza un centro di unione ? Ove si incontrerebbero i diversi
raggi del sapere ?... L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i
materiali della costruzione » . « L’io di Newton , ripete qui il Galluppi, che
ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha ap appreso la numerazione
aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità
sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe
possibile alcuna scienza per l'uomo ( 3) . Questa unità sintetica della
coscienza originaria ha una intrin seca parentela , come ognun vede,
coll'appercezione originaria di Kant. Col quale il Galluppi s'accorda nel
ritenere che « l'essenza particolare specifica dello spirito umano > ci è
ignota affatto ( 4 ) . 25. Ma data questa coscienza originaria, che forza
analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano , secondo
il Galluppi , dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife
rendosi allo scritto del 1807, scrive : « Io suppongo in tale opu scolo che
tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è
vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive > (8 40) . La tesi
degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi
oggettivi, è insostenibile . ( 1 ) Elem . d'Ideol., ivi. ( 2 ) Lettora ad A.
Rosmini, Tropea , 23 aprile 1830, nella Sapienza, rivista di filos. e lettere ,
fasc . del 15 marzo 1885, p. 165. Cfr. il mio Rosmini e Gioberti, p. 79. ( 3 )
Elem . d'Ideol., & XXV, pp. 61-2 ; cfr . Saggio, lib . III , SS 50-1 . ( 4)
Saggio, llb. IV , 8 98 , V, 418. ma In
quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere
filosofiche il Galluppi dice, che il problema della sua filosofia
dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua
azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli
non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse
esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo
stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse
e la fecondasse ( 1 ) ? 26. Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà
del Gal luppi contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività
scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme
dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea
dell'Ente indeterminato ( 2) . Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle
categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del
resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel
primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti
il principio ne gli Elementi di ideologia (8 XXIII) . Egli distingue idee
accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini
possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono
il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a
nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le
idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e « se per idee
innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione
(analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma,
« se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta
costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di
meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho
chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi
sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee
hanno la loro origine ne' sentimenti : conveniamo ancora, che tutte le idee
sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e
di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta
costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono
nello spirito si sviluppano le idee essen ( 1 ) Op. cit . , p. 343. ( 2) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si
ritrovano in tutte le lingue » . Donde è chiaro che il Galluppi tiene per
innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste
idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio, causa,
unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione di
queste e altre simili idee dalle sensazioni. 27. Ma, quali sono queste
sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se
ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali
costitutivi dello spi rito . Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come
potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione
di idee essenziali all'intelletto ( facoltà conoscitiva in generale) ? Il
Galluppi dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in
qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano » ( 1
) . Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può
concepire senza di essi . Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi
compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra
loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la
filosofia . « Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i
luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo
fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento » ( 2 ) .
Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione
feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli
sono essenziali ( 3) . Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti
sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura
coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se
non per questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito
, delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc.
, di cui ha in sé i germi indefettibili. 28. Intorno al valore di questo
virtuale a priori del Galluppi si può esser tratti in inganno da certe sue
espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così
spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile,
come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore
della sensibilità nella teoria del Galluppi . La sua sen sibilità è coscienza ,
è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che
egli concepisce come Primo attivo e ( 1 ) Saggio , lib. III , § 49. Ivi. ( 3)
Ivi. produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget
tività del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli
non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di
determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del
senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute
virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale
portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora
o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle
virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente
sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come
tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto
in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della
filosofia del Galluppi non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza ( 1
) . La idea essenziale del Galluppi corrisponde preci samente all ' acquisitio
originaria , con cui Kant definiva il suo a priori nella famosa lettera
all'Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa . Sono idee
acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le
acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo
al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria , il Galluppi ha ragione
di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che
non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee
essenziali all'intendimento , ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi
fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed
indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee
naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o
virtualità naturale » ( 2) . E poichè così viene a dire il medesimo del Kant
bene inteso , a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque
credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su
la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che
naturalmente il Galluppi non poteva riconoscere , di avere operato siffatta
conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo . ( 1 ) Il meglio
che se ne sia detto sono le tre pagine dello SPAVENTA, nella sua mo moria Kant
e l'empirismo ( 1880) , rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano, 1900, pp
. 81-114. (2) Saggio , lib. III , 8 86 ; tom . III , pag. 303. Per fare
intendere meglio la propria dottrina il Galluppi la raffronta a quella del
Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito
non è tabula rasa ; « che vi sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo
del proprio essere , meditando (1) sul sentimento di se stesso » ; non solo gli
accorda che sono in noi queste disposizioni e virtualità naturali, ma am mette
certe modificazioni passive o sia i sentimenti, che contengono i materiali o le
condizioni di tutte le idee naturali ( 2) . E, dichia rando meglio la dottrina
del Leibniz , ripete che riconosce con lui esservi « molte idee essenziali
all'intendimento , che l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de
' sensi esterni, ma che può ricavare dal proprio fondo » ( 3) . Le idee sono
innate come attitudini o virtualità naturali. E questo ritiene anche il Gal
luppi. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie
espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per
alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i
sentimenti necessari a for marsi tali idee ; 2. ° questi sentimenti sono i
materiali delle idee , o le condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima
ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali
idee ; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione, che pone in
esercizio le facoltà elementari della meditazione » ( 4 ) . 31. Data questa
dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola
di Locke , s'intende agevolmente perchè il Galluppi continui sempre , in tutte
le opere sue , a com battere l'a - priori kantiano , inteso come parte di
conoscenza già formata avanti all'esperienza ; esperienza , che era per lui ,
come vedremo, la sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano . La
filosofia è essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui
significava scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo,
anteriore ad ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di
Kant, tutta la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive , che
ammise come costitutive della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá
realtà di essa . Quali sono cotali idee ? 32. Per rispondere a questa domanda
bisogna dare un cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi . Queste
due facoltà non sono soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio
, ma ( 1 ) Meditazione dice il Galluppi l'analisi e la sintesi insieme. ( 2)
Ivi, pp. 305-6 . ( 3) Ivi, p. 309. (4) Ivi, pag . 812. il fondamento anche di
ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli
elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la
sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi
precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten
zione propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo
degli oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come
attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero
oggetto , che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito
separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel
caso inverso (1), 33. La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo
spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la
relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto
( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale
oggettiva, quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale
soggettiva , quando scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni
logiche tra idee nostre , non imme diatamente forniteci dall'esperienza ( 2) ;
cioè le relazioni tra le idee generali . 34. La siņtesi non può riunire se non
per rapporti , le cui no zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di
categorie . E alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di
rapporti , le quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura
tutte soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza
; idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le
quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3) . 35. Rapporto, come aveva
notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della
comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione ,
dice il Galluppi, è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è
un'idea che non ( 1 ) Elementi di psicologia , $ 25 ; Saggio , lib. II , capo ,
$ 139 . ( 2) Saggio , lib. II , cap . XI, $ 147. Il Galluppi distingue ancora
la sintesi immagi nativa come « la facoltà di riuscire in una percezione
complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse
percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale combinazione
( Saggio , ivi, $ 148, e Psicologia , $ 35) . Ma s'intende cho questa sintesi
non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . ( 3 )
Saggio, lib. III , § 46. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto , «
sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti risulta da
un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi
sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della
sintesi » ( 1 ) . Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici
dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di
rapporto , al para gone , che è un'azione dello spirito . « Pel paragone non
basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a
zione che riferisce l'una all'altra » ( 2 ) . Parrebbe adunque, che le idee dei
rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività sintetica,
non differissero punto dalle categorie kantiane . Ma l'autore afferma
recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol
fondare una vera filosofia dell'esperienza , e afferma come una delle esigenze
ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze , per cui è
possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito , bensì un
dato dell'esperien za ( 3 ) ; cioè del senso , che per lui , come vedremo, è
norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico , gli
elementi soggettivi ammessi dal Galluppi son sempre determinati da qualche cosa
di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico , Galluppi no (
4 ) . 36. Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa connes sione
deve essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti
che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli
elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente
riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora
tanto l'io che le sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son
cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è
dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla
distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose,
ed è per cid che io la chiamo sintesi reale » ( 5) . 37. Or dunque, queste idee
di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto ?
Qui , s'è detto , havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto,
secondo il Galluppi è un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze
, che è un rapporto necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si deve . «
Se fosse creata da noi cotestà connessione , scrive il Fioren ( 1 ) Saggio,
lib. III , § 47. ( 2) Saggio , lib. II , 8 147. ( 3) Saggio, lib. II , &
74. ( 4) LASTRUCCI, Op. cit . , p. 213. ( 5) Saggio , lib . II , § 146 ; cfr .
Psicologia , & XXXI. tino (1), la
realtà della scienza sfumerebbe ; e Galluppi , impaurito delle conseguenze,
contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e le sue
sensazioni , tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è
sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice : è dato » . La questione è
importante e merita ogni più seria considerazione . 38. Prima di tutto bisogna
distinguere , come fa il Galluppi , le due nozioni di causa e di sostanza , da
quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale ,
le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici
rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo
spirito , nascono per l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla
fuori di queste idee ( 2) . Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve
dal di fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma
li ricava dal proprio essere » ( 3) , cioè li produce . Esse corrispondono
appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto ( 4)
, che anche questi rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i
termini , fra cui intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto
altrove, cioè prima del rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che
dell'esperienza il Galluppi ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste
, secondo lui , « nel giudizio , il quale vede un rap porto fra i nostri
sentimenti » ( 5) . 39. Il solo errore del criticismo , che ha de ' semi
preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti
i modi di connessione fra le nostre percezioni come soggettivi » , negando la
sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà
luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e comparata , che è produzione
soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione del Galluppi stesso ( 6)
, egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale , come
attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto , identità e
diversità , all'occasione delle sensazioni , che ne sono condizione indispen
sabile . ( 1 ) La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano , 1876, p . 195. (
2) Psicologia, 8 32. ( 3) Saggio, libro III , § 77. ( 4) LASTRUCCI, p. 213. Il
GALLUPPI ( lib. III , $ 77 del Saggio) non parla di esperienza , ma di
sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle
idee d'identità e diversità . (5) Saggio , III, 76. ( 6) Vedi anche Lettere
filosof ., XIV , p. 347. Soggettive pur
sono le idee di causa e di sostanza . Ma il Galluppi distingue fra soggettivo e
soggettivo . V'ha, egli dice , il soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il
soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la
questione dell'origine delle conoscenze , altra è la questione della realtà
loro . « Io dichiaro , scrive l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che
nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo
ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore . Questi due vocaboli si
prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze
: l'og gettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui
corisponde una realtà in sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde
nessuna realtà » ( 1 ) . Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive
per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni
reali , laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive , e per
l'origine e pel valore , e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però
resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto
dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il
senso è inca pace di darcele . Se non che esse, invece di avere un semplice
valore logico , hanno una corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la
sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto . 41. Ma il Galluppi dice che il
rapporto della sintesi reale ( sia di causa , sia di sostanza ) è dato
dall'esperienza . Si , ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà
oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo del Galluppi , che pur
bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo oggettivo
(rispetto al valore). 42. La difficoltà vera è la seguente : come ciò che è
soggettivo rispetto all'origine , può essere oggettivo rispetto al valore ? Que
sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata dal Gal luppi ; ma
è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse
sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune
definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a
soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe
avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi , circa la
soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe
concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. ( 1 ) Saggio, lib . III ,
$ 46 ; tom . III , p. 159-60 . 43. Di quell'osservazione fondamentale si
ricorda certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni,
quando af ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto , e sog giunge :
« Per non far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo
intuizione la percezione immediata dell'og getto , in modo che l'esistenza
della percezione supponga neces sariamente quella dell'oggetto . Se ogni
sensazione è di sua na tura la percezione di un oggetto esterno al principio
sensitivo ( 1 ) , se quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è
dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto
sentito mi è data dall'atto della coscienza ; il quale mi . dà la realtà della
sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità primitive di fatto ;
ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica della conoscenza » (
Saggio, lib . II , § 71 ) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere
si può dire adun que, che il Galluppi confermi ciò che aveva detto fin dal
primo capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima ,
conoscenza del me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in
un'intuizione immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti
percepiti non v'ha alcun intervallo » . Pare che per tutta la sfera della
conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a
proposito della comune definizione delle idee in generale: « Se gli oggetti, se
la regione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per
passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? » - Argomento insolubile,
com'egli dice , ai filosofi dommatici. 44. Senso ed oggetto , sia che si tratti
di senso intimo o di senso esterno , non si possono scompagnare. Il senso è la
misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi
venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si
perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce , per le idee e i giudizi
cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme ( 1 ) Il Galluppi non ammette
l'incosciente : « La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si
ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri, co'
quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia
coscienza ... Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza
perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la
porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se
la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che
non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite ) . Elem
. di psicologia , 8 XVII. 16 diata ( 1 )
; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta imme diatamente nella
intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata
o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi
portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore
puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per
og getto gl'individui . Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete .
Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si
possono generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria ,
fondamento delle scienze , se con le impressioni sensibili , coi dati oggettivi
non si combinano quegli elementi soggettivi , che sono le due vedute
dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale : l'acqua
estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie
acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto una nozione generale
tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete ; il che significa
che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti
particolari e fra le loro particolari qualità ( 2) ; rapporto d'identità che il
senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole
acque. 45. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione
soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. Il
Galluppi, in verità , non può attribuire altro valore che questo , che è il
kantiano , alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita
dalla scienza , anch'egli deve dire.col Kant, che lo spirito , legando gli
sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il gran libro dalla natura .
Eppure.egli ritiuta ( Saggio , III , S 83) una tal soluzione. « La distinzione
delle due esperienze, egli dice , è della più alta importanza, per determi nare
il valore delle nostre conoscenze » ( $ 78) . È della più alta importanza,
perchè se i rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi
, quelli di sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi;
in questa esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne
è spettatore , e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è
anche data : egli dee conoscerla , non ispiegarla o comprenderla » (S 83) . Ma
questa distinzione non tocca punto la soggettività della scienza , in quanto
prodotto della sintesi ideale ; anzi la conferma. Il Gal ( 1 ) Saggio , lib.
III , $ 78, tom . III , p. 275 . ( 2) Soggio, loc . cit. luppi nella
epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne dica , tale è la sua
dottrina. 46. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto
sperimentalismo. La scienza , la parte più certa della cono scenza, è
soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva ; che , per
lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo , laddove
l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali
, che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente
logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe
dovuto condurre il Galluppi al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre
conoscenze veramente oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari
dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista il
Galluppi certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di
taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali
, asse rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini
generali , vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice il Galluppi , al ve dere un
uomo che non abbiamo giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo
un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo ?
L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla
intima coscienza , che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia
contra stata » ( Saggio, $ 27 , lib . I ) . Nè anche il Locke , secondo il Gal
luppi ( 1 ) , nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista .
Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha sì un valore , ma
un valore logico . 47. E al Rosmini , che gli dichiarava in una sua lettera di
non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità
delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può
produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha
luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano » , da
non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio
di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione dell'anima nostra , me
ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini , che la necessità
logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in
questo punto è tutta la novità, non pic ( 1 ) Cita il lib. III , cap. 3. ° del
Saggio , dove il Locke spiega la gonesi delle idee universali . cola , – del Rosmini verso il Galluppi) : «
Io non suppongo mica, replicava il Galluppi, che vi sia una necessità
metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto quei
filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica , come una
necessità metafisica , che trasformano la prima nella seconda..... L'origine di
tal necessità ( logica ) mi sembra già determinata ; essa è nella natura del
soggetto ..... noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci
alla causa formale di tal neces sità » ( 1 ) . La sua scienza , perciò abbiamo
detto altra volta , come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile
del fe nomeno ; sicchè egli riesce , per la scienza, a quel criticismo che
voleva correggere . 48. Gli sarebbe bastato estendere la - sua teoria della
sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria .
Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e
così s'è messo in disaccordo con se stesso , accoppiando al criticismo puro
dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in
lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua
filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine della
nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o come
causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo
delle medesime non può essere e non è infatti nel Galluppi, che una semplice
affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con
le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il
principio della nostra filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la
percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra
la causa e l'effetto , il che vale quanto dire , che in questo fatto primitivo
ci è data la base della filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze » ( 2 )
. Su per giù , è sempre questa la dimostra zione data dal Galluppi della realtà
delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni
sono reali, perchè il me, termine reale della coscienza è soggetto (sostanza )
di modifi cazioni, e queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione
del mondo esterno . Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i
termini in quanto connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non
applicando ad essi quelle nozioni di rap ( 1 ) Rosmini e Gioberti, pp. 77-80 .
( 2 ) Saggio , lib . II , 8 74 ; tom . II , p . 161-2. porto , onde già
dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste
nostre vedute, di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti ,
abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso
ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento
inso lubile ? Il dommatismo è evidente . 50. C'è un passo, nel terzo libro ( 1
) del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale
considerazione. « Il filosofo di cui parliamo, – scrive il Galluppi, ha confuso
l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto
fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della
relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio
efficiente che pone un termine rapportato. Lo spi rito nel termine rapportato
vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto ,
che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il
giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva che il termine della
relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità
sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione , il
rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo »
. - Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico
a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto
con quella prima operazione dell'attività sintetica , che consiste nel
rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo
dei rapporti accennato qui dall'autore ; ma vi apparisce pure evidente falso
concetto che ei s'è formato dell'oggetto . Ter mine e termine rapportato son
cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il prodotto di quel
principio efficiente, che è la sintesi . Ma il termine è termine in quanto è
termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto , rità ,
dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se
il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo
spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No ,
non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo
venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto
nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione ,
senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di con ( 1 ) $ 81 ; tom. III ,
pag. 283. creto fuori dei termini ai
quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui parla il Galluppi,
accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui
già criticata come punto di partenza donde non sia dato arrivare a una
conoscenza certa . 51. Sicché , anche per le nozioni di identità e diversità (
alle quali , s'intende , egli si riferisce nel passo ora citato) il Galluppi si
di batte nelle strette della soggettività , come qualcosa di differente e
assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era proposto di fondare
contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre
in quel principio fondamentale della co scienza di sè , preso dalla filosofia
di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui nel suo
primo periodo speculativo . E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti
i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria,
razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed
ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la
base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa
base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla » ( 1
) . E così nella chiusa delle Lettere filosofiche: « Io ho poggiato – dichiara
l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri
mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di
conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità
della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere
segue necessariamente . Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è nella
coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano » ( 2) . 52. Ma se si
ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, il
Galluppi non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal
soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ;
e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una
giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si
potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla
sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti,
rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e
falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni ( 1 ) Saygio, lib . IV, § 3 ;
tom . V , p. 58 . ( 2) Ediz . cit. , p. 348 .
soggettive , nè più nè meno di quel senso del tatto , in cui Con dillac
indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della
soggettività, « convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto
esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo
soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse
qualità degli oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di
questi oggetti con noi » ( 1 ) ; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la
natura de ' corpi , è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel
modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità
relative » , talchè il pensiero bensì è una realtà in sè ( 2) , « ma
l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno » ( 3 ) e
addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica
> ( 4 ) . E però il Galluppi non può parlare se non di un oggetto soggettivo
, di un oggetto termine essenziale del soggetto . 53. Ma allora perchè
contrapporre oggetto a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale ? Siamo
sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà
luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e
l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se ? 54. Per metter
d'accordo Galluppi con se stesso dovremmo dire , che quello che ei dice sintesi
reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva,
qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che lo Spa
venta e il Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire , bisognerebbe anche la
sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva
quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza ,
questo ultimo motivo , questa. norma suprema della verità , attribuisce al
mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore
logico . La sintesi reale coglie, diciamo così , i rapporti degli individui ,
in cui , secondo il Galluppi, consiste la realtà ; la sintesi ideale co glie ,
invece , i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la
forza analitica e sintetica dello spirito . Di modo che la materia della
sintesi reale è oggettiva, nel senso che di ( 1 ) Elem , di Psicologia , S XVII
, pp. 27-28 . ( 2) Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero , dice il
GALLUPPI, Saggio, lib . IV , § 4 ; tom . V, p. 63. ( 3) Iri. ( 4) Saggio , lib.
IV , S 100 ; tom . V, p. 420. cemmo poter avere pel Galluppi l'oggetto ; e la
materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da
es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra
verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si
scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti
reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è
attestato dalla coscienza) ; e i rapporti che dalla stessa attività sintetica
si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore
logico , perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo del
Galluppi non sono reali . Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali
appariscono i termini che essi connettono ; fra termini oggettivi , rapporti
reali; fra termini astratti e soggettivi , rap porti ideali . I termini infatti
non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi
quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. 55. Ma allora non
bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della
sensibilità ( o coscienza ), come fa il Galluppi ; perchè la sensibilità come
tale non potrà mai percepire un rapporto , come bene ha avvertito il Galluppi
stesso . Allora bisogna andare molto più addentro , che questi non sia andato ,
nel concetto dell'unità del me. 56. Certo è che il Galluppi, mosso a scrivere
il suo Saggio, che è la sua opera capitale , dal bisogno di assodare la realtà
del cono scere contro la Critica di Kant , non riesce a distrigarsi dal sog
gettivismo nella epistemologia ; e nella gnoseologia vi riesce solo
contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto , che non è tale se non per un
dommatismo preso dalla coscienza volgare , e che non può non metter capo nella
tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica
( 1 ) . La sua stessa critica perpetua al Kant, e quell'oscillare continuo tra
le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano
l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol ( 1 ) Il
Rosmini il 3 giugno 1840 scriveva al p. Giacomo Maso & Roma : « Pare a lei
che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto
in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima ;
parlo solo della sua filo sofia ; di questa dubito , o piuttosto non dubito ;
perocchè agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto
-uomo, e nel soggetto -uomo non vi ha nulla d’immu tabilo : manca il punto
fermo a cui appoggiare la leva » . Vedi La Sapienza del 1883, vol. VIII , p.
402. levato dal Kant , e insieme la sua
impotenza ad uscire da quel cer chio sconfortante segnato dal filosofo di
Koenigsberg attorno allo spirito umano ; l'impotenza in cui rimase per non
essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il Primo della
sua costruzione filosofica . E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche
contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa « se siano filosofi che
ragionano , oppure frenetici che delirano » ( 1 ) , il Saggio filosofico
finisce anch'esso nella tristezza del mistero : « La scienza umana è limitata .
Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi
limiti » . Non fu più reciso l'ignorabimus del Du Bois Reymond ( 2) . 57. E il
primo limite dello spirito umano , secondo il Galluppi, è questo : « noi
abbiamo una nozione generale della sostanza , ma noi non conosciamo affatto la
natura , o come suol dirsi , l'es senza di ciascuna sostanza in particolare ( 3
) . E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite : « ignorando le prime sostanze,
ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti ; e
l'efficienza è per noi un mistero » . Dunque nè anche nel ritener soggettivo il
rapporto di causalità aveva poi un gran torto Kant! ( - ) . Ma « tutto quello ,
che è incomprensibile, non è mica assurdo » , avverte il Galluppi ; e questo basta
a salvare la crea zione. Terzo limite : « noi ignoriamo affatto le qualità
assolute de ' primi componenti de'corpi ; noi conosciamo alcune qualità rela
tive di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia ... I corpi non
sono tali quali a noi si manifestano » ( $ 100 ). E que sto , in verità, è un
po ' più di quel che sostiene Kant : pel quale, se il noumeno va distinto dal
fenomeno, appunto perchè ignoto , non si può dire che differisca dal fenomeno
stesso . Differirà ? Non differirà ? Se a queste domande si desse una risposta,
non si avrebbe più un noumeno . Qui , dunque, Galluppi è più kantiano di Kant.
Quarto limite : la conoscenza importa successione, processo , passare da un
principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne ( 1 ) Passo del Saggio che il
prof. CREDARO raccomanda « a coloro che fanno del Gal luppi un kantiano » ; ni
kantismo in G. D. Romagnosi, in Riv. ital. di filos . del 1887, vol . II , p.
59, n. 2. ( 2) Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss,
Lipsia , 1872 ; e LANGE, Gesch . d . Materialismus, 3." ediz ., Iserlohn ,
1876 , pp . 148 sogg. ( 3 ) Saggio , lib . IV , cap. X ed ultimo, & 98 ;
tom . V, p . 418. ( 4) Saggio , ivi, $ 99. 250
lui > gazione assoluta di ogni successione : « in questo essere
infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra ; perciò la sua natura ci è
perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si
credono tutti incapaci di comprendere la natura Divina > ; ma uno di essi ,
e de' più moderati, il Genovesi , avendo tentato, per esempio , di concepire in
che modo questo mondo fosse architettato da Dio , non è riuscito che a una
spiegazione contraddit toria . « Il volere spiegare l'atto creatore
intelligente è una con traddizione ; poichè è un supporre qualche cosa
antecedente a (come il Genovesi era costretto a porre in Dio prima l'essere e
poi il conoscere , prima il conoscere e poi il volere o l'ope rare) . Questo è
incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua
gloria Proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della Dialettica
trascendentale, ma che riescono , mi pare , al medesimo risultato . Che più ?
Kant riconosce come tutti i filosofi moderni il grande valore delle
matematiche; ma anche in esse il Galluppi trova dei limiti. Noi conosciamo
esattamente, egli dice , le relazioni logiche tra le nostre idee astratte ; e
ne son prova l'aritmetica e la geo metria . « Ma noi non conosciamo tutte
queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di queste
relazioni non si estende quanto le nostre idee » « La nostra scienza è percið
molto limitata sotto tutti i riguardi » ( 1 ) egli conclude : ed è la
conclusione del Saggio intero , vale a dire della sua filosofia sperimentale .
58. Questo mi pare criticismo schietto , sufficiente di certo a fare ascrivere
il Galluppi alla direzione kantiana , pur con tutte le sue più o meno
ragionevoli invettive contro il soggettivismo del Kant ; se anche Alfonso Testa
, che altri disse « l'unico kantiano, che abbia avuto l'Italia » ( 2) , era pur
persuaso che il Kant , distrug gendo il sensismo, non fosse riuscito a
sostituirvi altro che « un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace »
( 3) . 59. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano , e ben più
che le sue dichiarazioni e le sue proteste , che non ( 1 ) Vedi il capo X ed
ultimo del lib. IV del Saygio . ( 2) L. CREDARO, A. Testa e i primordii del
kantismo in Italia , in Rendic. Acc. Lin cei, 1886, S IV, III , p. 241. Vedi
dello stesso CREDARO Il kantismo in G. D. Romagnosi ( in Riv . it. d. filos.,
1887, vol. II, p. 59 n. ) , dove si oppone a chi fa del Galluppi un kan tiano,
uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. ( 3) Come scrisse
nel suo ultimo libro La mente dell'ab. G. Taverna , Genova , 1851 , p. 82.
hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico -,
alcune speciali dottrine , che basta accennare bre vemente. 60. E in primo
luogo : rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori , che è come dire il
nocciolo sostanziale del kantismo . « La distinzione , che la scuola
trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici (a priori)
è assurda » . Queste son parole del Galluppi . E qui non si tratta di una
semplice afferma zione. C'è anche la prova. « Se le due idee A e B non hanno
alcuna identità fra di esse , lo spirito non può riguardarle che come distinte,
e senz'alcun legame fra di loro : è impossibile , dun que, ch'egli vi
percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse : dire in
conseguenza che lo spirito dee percepire neces sariamente un rapporto di
convenienza fra due idee diverse , è affermare, che lo spirito pud pronunciare
una contraddizione evi dente... Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima
analisi , risol versi nel principio di contraddizione : essi son dunque tutti
ana litici , ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii.
Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione ,
è un assurdo manifesto . Se lo spirito non vede alcuna contraddizione
nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come
necessario . I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere » ( 1 ) .
Somiglia non po ' , a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico
restio agl'inviti di Galileo di guardare attraverso il cannocchiale ; ma è il
ragio namento del Galluppi ; e questo basta allo storico, il quale dirà che il
filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo
apriorismo delle sue regole , non poteva ammettere e non ammise il risultato
principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. « In effetto , –
egli dice negli Elementi di logica pura (S XV) , – un principio sintetico, puro
, a priori come Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen
tali di una sana logica » . Infatti, egli soggiunge , prescindendo
dall'esperienza , nella sfera delle mie idee , io non posso unire B con A, se
non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte . Che se B eccedesse
realmente A in estensione , in valore , come potrei attribuire ad A, come sua
proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A ? ( 1 ) Saggio , lib. I ,
cap . IV , s 116 ; tom . I , p. 241-2. Così la critica del Saggio è confermata
negli Elementi con esplicito appello alle leggi della logica formale, per la
quale cer tamente non è possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'iden
tità non è conciliabile con la differenza, e se la necessità richiede
l'identità , rifugge dalla differenza ( 1 ) . 62. È inutile mostrare il valore
della critica galluppiana , fon data come quella del Degerando con cui va
raffrontata , e quella stessa del Rosmini, sopra l'intelligenza della sintesi a
priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella
2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che
la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a
soggetti, onde siano già belli e formati i concetti ; bensi nella formazione
medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto il Galluppi, a
proposito di Kant , ma riprodusse, del resto , e risolvette egual mente nella
sua teoria dell'analisi e della sintesi , che , munite dei rapporti soggettivi
dell'identità e diversità , servono anzi tutto alla formazione delle idee , e
nella sua teoria del giudizio, essen zialmente distinto dal sentire, e
necessario alla percezione di qualsiasi rapporto . 63. Questa della sintesi a
priori è uno dei motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine
del Kant, e ricorre spesso nei libri del Galluppi ( 2 ) . Ma non è la sola
teoria kantiana che egli ( 1 ) Ma, so sintesi a priori e logica formale sono
assolutamente inconciliabili , non biso gna conchiudore : dunque, aut aut : o
si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale . Su questo
punto si fa , secondo me, molta confusione. Vi tornerò su in un mio prossimo
lavoro ; qui voglio solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a
priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze ; laddove la
logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle
conoscenze in sè ; e notare, che se il pon siero non ha da essere un quissimile
del vano lavoro delle Danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento
delle conoscenze , ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. ( 2) Un
anonimo già nel 1832 notava in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il
nuovo professore dell'Università, che le belle ed acute riflessioni, con cui il
Galluppi combatte nel § XVII degli Elementi della logica pura il giudizio
sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. , p. I , 1. 3
e 5. Vedi : Degli Elementi e della Introd . allo studio della filos. del
celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli , De
Bonis, 1832, 8 37 , p. 42. · L'opuscolo reca la data di Napoli, 14 di cembre
1831. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprovera al
Galluppi l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e dall'algebra
, l'ignoranza in ge nerale delle scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna
cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta
nella Critica della ragion pura che venga risparmiata nel lib . III del Saggio
gal luppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono . Lo spa zio, il
tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascen dentale gli offrono
materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la
confutazione del Kant. Aggiungi le fre quenti proteste contro il
trascendentalismo e l'idealismo, che pel Galluppi equivalgono allo scetticismo,
proteste nelle quali il Gal luppi unisce al Kant il Fichte e lo Schelling ( 1 )
, per quel poco che ne poteva conoscere da traduzioni o esposizioni francesi ;
cd è evidente , che il lettore sbadato e il critico ottuso non potes sero e non
possano vedere il filosofo di Tropea che agli antipodi di quello di
Koenigsberg. 64. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di
questo , il primo incontrava insormontabili difficoltà nei limiti della sua
cultura ; la quale non si estendeva oltre la letteratura filosofica italiana e
francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che
c'erano in queste lingue delle opere tedesche. Quello che poteva intravvederne
indirettamente, era na turale che gli dovesse riuscire oscurissimo, e restargli
innanzi con tali lacune, che s'egli ne avesse avuto coscienza, non sareb besi
certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrit tore
chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza , manifesta mente soffriva
nello studio che poteva fare di quegli scrittori. Nella critica del Fichte,
sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia , la leggerezza
nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del
metodo analitico imitato dagli ideologi, e perfino i barbarismi e le im
proprietà di espressione. L'opuscolo pare facesse una certa impressione. Il
Galluppi ri spose col silenzio ; ma i suoi scolari con due opuscoli : Di un
giudizio dato da ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G.
appella VINCENZIO MORENO , Napoli, Trani, 1832 ; Al giudizio dato da un anonimo
su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di GIUSEPPE PISANELLI, Napoli,
Ruberto o Lotti, 1833. Curioso l'opuscolo del Pisanelli nella parte in cui
difende il Galluppi scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il
purismo ( pp. 28-36 ). Per questa parte invece il Moreno riconosceva che il G.
non fosse puro elegante e gentil dicitore ( p. 17) ; il che non toglieva ch'ei
fosse, alla sua volta , pessimo scrittore . ( 1 ) Vodi le Considerazioni
filosofiche su l'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto ( Napoli
, 1841 ). Di Schelling non pare che conoscosse nulla di originale , all'infuori
della trad . francese del Bruno. Del Fichte cita la trad . francese della
Bestimmung des Menschen . cato della costui dottrina dell'Io puro, dichiarava
ai colleghi del l'Accademia francese : Qui l'oscurità alemanna comincia ad
affliggermi; io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e
la precisione , son qui circondato dalle più dense te nebre » ( 1) . E
terminava la sua memoria invocando le regole wol fiane De stylo philosophico, e
domandando agli amici della verità e del progresso della filosofia , se « lo
scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello , in cui è
scritta la Teogonia di Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o
pure verso l'errore » (2) 65. Altri più recentemente si son lagnati
dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del
bello stile . Ma, come nel caso del Galluppi , molto spesso l'oscurità che si
vede negli autori , non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza
nostra a intenderli ; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non
procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere . Comunque, la dottrina del
Galluppi è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua
critica del Kant ; e della prima è indubitabile che s'ispira al Kant e non
riesce a risul tati essenzialmente differenti ( 3 ) . 66. In sostanza egli è
più kantiano di Kant. Questi , criticata la ragion pura , nega il valore
scientifico , oggettivo, della meta fisica , ma le riconosce un ufficio regolativo
, e scrive una meta fisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma il
Gal luppi si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola
giobertiana ; e , pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza,
tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana ; e alla metafisica
sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale era di logica e metafisica ;
ma egli nella Prolusione an nunzia che tratterà della filosofia teoretica,
ossia della scienza dell'umana scienza , e darà pertanto la legislazione
suprema di tutte le scienze ( 4 ) . « La metafisica tratta , egli dice , delle
idee essenziali all'umana ragione » ). Nella prima lezione rifiuta la
definizione della filosofia data dal Wolf, sostenendo che egli volle una ( 1 )
Op. cit . , pag. 23. ( 2) lvi , pag. 133. ( 3 ) Ricordo per semplice curiosità
che sostenne il kantismo del Galluppi CARLO Ro DRIQUEZ , Lett. su la filos .
sogg . ed oggettiva del bar . Galluppi, Messina , 1833, p. 22 ; cui rispose
ONOFRIO SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc . ( Napoli ), Fernandes
(1834 ), p. 31 e sgg. ( 4) Lezioni di log . e metafsira , p. XI. ( 5) Iri, p .
XIV . definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enun ciato che
Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il
difetto ascrittole appunto dal Kant, di confondere la cosa con l'idea della
cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come
scienza del « pen siere umano ne' suoi elementi , nelle sue funzioni e nelle
sue leggi » ; nozione , fa notare , della più alta importanza . 67. Prevede la
possibile osservazione : ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia ? E
la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale , la fisica ? — Queste
scienze, risponde il Galluppi , in parte si riducono alla ideologia, scienza
del pensiero , e in parte escono fuori dal campo della filosofia . L'ontologia
studia « alcune nozioni universali , essenziali all'umano intendimento » ; e la
dottrina delle nozioni , delle idee non appartiene forse alla scienza del
pensiero ? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sic chè
il Galluppi conchiude : « Tutte le parti dunque della meta fisica appartengono
alla scienza del pensiere umano » . Quanto alla fisica , in parte è filosofia (
psicologia, per le relazioni che que sta scienza studia tra i fatti fisici
quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi , e teologia) ; e in
parte , quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore
alla scienza del pensiero , « è nondimeno una scienza che le è contigua , e che
serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellet tuale » . Sicché
la metafisica, nel sistema del Galluppi, è bella e ita assolutamente. E se la
filosofia per lui si divide com'è detto nella 3.4 lezione – in filosofia
speculativa o teoretica , che studia l'anima ( soggetto del pensiero) in quanto
conosce , e in filosofia pratica , che studia l'anima in quanto vuole , è
chiaro che nè an che questa potrà essere fondata su alcun principio metafisico.
Il Kant non era arrivato a questo punto. Ma prima di accennare i principii del
Galluppi nella filosofia pratica , bisogna fare un'altra osservazione generale,
che ci pare di non poca importanza . 68. Nella Prolusione il Galluppi , vantando
le ragioni del me todo sperimentale , avvertiva che non bisogna però mutilarlo
; anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne ' suoi risultamenti ; ne
confonderlo con l'empirismo ; giacchè la filosofia intellettuale, co me egli
chiama quella che dovrà insegnare , < non ammette so lamente quelle
esistenze , che cadono immediatamente sotto l'espe rienza ; ma quelle ancora ,
che le esperienze sperimentali suppon gono necessarie . Quindi ella deduce
tanto dall'esistenza del mondo materiale , che da quella del mondo
intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna di un ' Intelligenza
creatrice . E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia , partendo dal
cielo em pirico , pone un cielo razionale » ( 1 ) . Il cielo razionale sarebbe
il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del cal colo, della
geometria e del raziocinio , onde si « sbalza dal cen tro del planetario
sistema la terra , e vi si pone il sole ; si tra sforma in masse di
meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi , che sembrano tanti chiodi
affissi nel firmamento, si determina le distanze , le orbite ed i tempi delle
rivoluzioni de' pianeti » ( 2 ) . 69. Sicché, pel Galluppi, anche la filosofia
intellettuale, la ideologia , la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi
limiti , ha il suo cielo razionale ; come l'ha del resto il criticismo con la
sua cosa in sé . Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui
s'afferma l'essere non il come ; che si afferma, non si conosce; laddove il
Galluppi dedica tutta la seconda parte della sua Ideologia, che intitola
Teologia naturale , allo studio dell'Asso luto e de ' suoi attributi , come se
Kant non fosse mai esistito . Il nome di questo qui non ricorre se non nelle
ultime pagine, dove è detto insensato il suo « impegno di contrastarci la
possibilità di una Teologia naturale e filosofica » ( 3 ) , 70. Ma tutta questa
parte evidentemente è non solo in con traddizione con la Critica kantiana, ma
anche con lo stesso Sag gio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella
dottrina dei limiti della scienza che sopra vedemmo. Che dire adunque del vero
pensiero del Galluppi ? È vero , come è detto nel Saggio, che lo scrutatore
della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria ? O è vera la teologia
delle Lezioni ? Le due dottrine sono certa mente inconciliabili. E io non
dubito d’asserire , che se il Galluppi non avesse scritto le Lezioni per i
giovani dell'Università in uno de ' periodi di più cupa servitù intellettuale
che abbia attraversato il pensiero italiano, la seconda parte della Ideologia
non sarebbe stata scritta . 7i . « Questa opera , diceva l'autore nella
prefazione delle Le zioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di
filosofia pub blicati in cinque volumi, nè di altra mia opera antecedente » . E
notava altresì che « serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo
ricevere delle variazioni accidentali » . Intendeva egli alludere alla teologia
naturale, di cui trattava per la prima volta ( 1 ) Op. cit . , p. XIX . ( 2)
Ivi , p, XVII . ( 3) Op . cit . , III , 306 . . in queste Lezioni ? ( 1 ) . Si
noti che non parlava di nuovi svolgi menti del suo pensiero , ma di variazioni
di metodo; onde non poteva accennare a parti ora per la prima volta trattate
della sua filosofia che non importassero alcuna modificazione di principii . Si
noti anche, che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima.
Solo alla fine della 108. lezione (1. della Ideologia ) l'autore dice : «
L'essere è o finito o infinito ; io divido perciò l'ideologia in due parti ,
nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito » E in questa distinzione
così accennata è tutta la ra gione della teologia naturale o ideologia
dell'infinito , cui son de dicate le ultime dieci lezioni del corso
universitario . Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi
principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore ; e questi le fa sempre
sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti , rispetto a quella
filosofia dell'esperienza, onde il Galluppi si proclamo sempre assertore le fa
sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine per l'innanzi professate, le
pone, bene o male , in ac cordo con esse , per rimanere esso stesso d'accordo
con sè mede simo. Nell'opera del Galluppi nulla di tutto questo . 72. Io
propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle Lezioni
nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le dettasse e le
pubblicasse contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza
filosofica . Egli pensava certamente quanto scrisse e insegno degli attributi
divini ; ma quella parte del suo pensiero non era stata da lui elaborata
filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione . Chi ha insegnato e
non s'è trovato nel caso del nostro filosofo , di esser costretto da un
programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha ma turato e fatto suo
, e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà , e in cui è pur
bene che sia offerto all'intel letto dei discepoli ? Chi non si trova a dover insegnare
qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere ,
o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso ? Chi oltre a ciò che, per sè
e per altrui , deduce chiaramente da ' propri principii non ha insegnato
qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui
nè per sè ? Il Galluppi non aveva per sè una teologia più filosofica di quella
che è esposta nelle ( 1 ) Della religione tratta anche negli Elementi di filos.
morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo , che non ha nessuna pretensione
filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto
della religione cristiana. sue Lezioni;
in questa fermavasi il suo pensiero ; ma stimo che non vi s'acquetasse ; perchè
una consapevole o inconscia insoddi sfazione doveva fargli sentire che nella
sua filosofia dell'esperienza non c'era posto per quella teologia . 73. S'è
accennato che sulla fine della teologia naturale l’au tore si ricorda
dell'impegno insensato del Kant di contrastare la possibilità di una teologia.
E che fa egli per combattere l'assunto kantiano ? Scrive così : « Kant insegna
che i giudizii su cui ella ( teologia naturale e filosofica ) poggia, sono
sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le
verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma
sintetiche ; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni
privi della realtà noumenica ed assoluta, indipen dente dal nostro modo di
vedere. Io , nella mia Critica della co noscenza ( 1 ) ho seguito passo passo
la dialettica kantiana ; e vo lendo parlar con giustizia , non può negarmisi,
che l'ho invinci bilmente distrutta. Io ho mostrato, che i giudizii sintetici a
priori sono assurdi ; ho mostrato eziandio , che le verità sperimentali ci
danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate » ( 2) . Questo
è tutto. Ora, poniamo che sia esatta l'esposizione del pen siero del Kant . Ma
la critica della sintesi a priori non giustifica , tutto al più , che la
posizione dell'assoluto, come avviene per l'ap punto nel Saggio dello stesso
Galluppi ( lib . III , cap. XII) ; dove partendo dalla pretesa impossibilità
dei giudizii sintetici a priori , si dice , contro Kant, che non è tale neppure
il principio : dato il condizionale, si deve dare l'assoluto ; e si conchiude
quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé , non fenomenico, e
che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto ( 3 ) . E nel Sag gio
tutto finisce li . E la conclusione dell'opera è quella che ab ( 1 ) Acoopna al
Saggio filosofico . ( 2) Lez ., III , 306. Quindi accenna alle critiche che
alla sua confutazione della sin tesi a priori aveva mosse il MAMJANI nol
Rinnovamento e lo ribatte. ( 3 ) Un'ottima osservazione contro questa deduzione
fa col suo solito acume il Tesia , il quale crede come il Rosmini che il
Galluppi non mova un passo fuori del soggetti vismo. È falsa , egli dice, la
premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine
dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le
sensazioni non sono il condizionale ? - Si , sono, ma non ci sono date come
tali dall'esperienza . La qualità d'essere condizionale è una veduta dello
spirito , non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi
Le ricerche apolog. del crist, del popolo dall'ab. G. Bignami esaminate,
Lugano, 1841, p. 33 e seg . biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati
incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè
kan tiana . Ma nelle Lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del
l'assoluto ; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad
affermare che « mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e
dell'assoluto , il criticismo è rovesciato , e la realtà della conoscenza è
stabilita » . Sono le ultime parole delle Lezioni; ma potrebbero essere a
miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle s'era cercato di provare
qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'as
soluto. 74. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente del Gal luppi la
stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la
sua etica non avrebbe mancato di esservi su bordinata. Invece ne è
assolutamente indipendente . Anzi, pure inspirandosi , come si vedrà ,
all'idealismo kantiano , non tiene af fatto conto delle esigenze sentite dal
Kant nella Critica della ra gion pratica e nella Fondazione della metafisica
dei costumi. Forse egli non conobbe nulla direttamente di queste opere , e
della mo rale kantiana non dovette avere che l'indiretta notizia fornitagli
dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con certi critici
, che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà « non contengono
nulla di nuovo, anzi , di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la specula zione
contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vec chio rancidume
metafisico e teologico » . Chi giudica così , non deve avere grande familiarità
con questo rancidume, e certo è asso lutamente falsa la sua sentenza, che la
morale galluppiana sia ispi rata all'idealità patristica e scolastica ( 1 ) .
Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale. 75. Basta
una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto osservare ,
che il Galluppi insegnava nell'Università, come s'è visto , filosofia teoretica
o , com'egli dice , intellettuale ; e non v'ebbe quindi occasione di trattar
mai la morale. Ma egli aveva pubblicato nel '26 , nel quinto volumetto del suo
ma nuale scolastico , gli Elementi della filosofia morale ; e prima d'as sumere
l'insegnamento aveva scritto La filosofia della volontà , ( 1 ) Vedi l'art. La
speculazione di P. G. , nella Rivista di filos, e sc. affini di Bolo gna , an.
III , vol . V (ottobre 1901), p. 276 .
in quattro volumi, che cominciò a pubblicare nel 1832 ( 1 ) . In essa ,
secondo che egli dichiara nella Prefazione , si proponeva di trat tare in
un'opera estesa lo stesso argomento di quegli Elementi, ma col metodo stesso
del Saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine
relative ad ogni materia . Ma non do veva aver compiuto il lavoro prima di
salire la cattedra di logica e metafisica ; e non pare che vi sia potuto più
tornare ; sicchè non tutte le parti del volumetto degli Elementi vi sono
riprese e no vellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore
s'era proposta. E il disegno di essa , delineato sulla traccia degli Elementi,
gli rimase colorito meno che a metà . 76. Nella Filosofia della volontà
comincia dal distinguere nel l'uomo l'agente fisico della natura , « disposto o
mosso ad operare pel fine della propria felicità , >> e l'agente morale,
disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere » . Distingue
anche i movimenti « che nel corpo umano si osservano » , in mec canici, che non
dipendono dalla volontà , e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi
agente. Chiama quindi filosofia della vo lontà « quella scienza che fa conoscer
l'uomo considerato come un agente » ; e divide questa scienza in quattro parti
: « nella prima, dice , esamino l'uomo considerato generalmente come un agente
; nella seconda l’esamino sotto l'aspetto di agente morale ; nella terza sotto
l'aspetto di agente fisico ; e nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla
sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte ; e ciò in
conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi » ( 2) . Questo il disegno. Ma
delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo
del quarto trattano solo la prima ; gli ultimi due capitoli di questo quarto
volume e del l'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta
negli Elementi; e della terza e della quarta non c'è nulla ; laddove negli Elementi
l'una ( intitolata De' mezzi per esser felice, cap . VI) è trattata con
relativa larghezza , e dell'altra c'è pure un cenno col titolo : Della
religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua Filosofia della
volontà col Saggio filosofico, come l'opera con tenente la sua filosofia
pratica accanto a quella contenente la ( 1 ) I primi due volumi , pp. 338 0
452, nel 1832 presso C. L. Giachetti in Napoli ; il 3. ° vol , di pp. 388 nel
1839 presso la stamperia Tramater in Napoli; e il 4.° di pp. 361 nel 1840 ivi .
La dedica del 1. ° vol. , a S. E D. Giuseppe Cova Grimaldi, marchese di Pie
tracatella , reca la data di Napoli 30 aprile 1832. ( 2) Ed. cit. , I , 6-7 . a
sua filosofia teoretica ; è evidente, che se la Filosofia della volontà presenta
discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negli Elementi, di
questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle
teorie pratiche gal luppiane ; e in essi deve principalmente attingere quella
parte di coteste teorie , che spetta più propriamente alla morale. 77. Dal
disegno stesso dell'opera maggiore si scorge un pre gio non comune in questo
ramo della filosofia del Nostro : voglio dire la pienezza del suo concetto
dello spirito pratico . Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni,
non vede tra la felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si
dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce
ine vitabilmente, secondo l'uno o l'altro pensatore , o con la nega zione
dell'uno o con la negazione dell'altro principio , o nel con cetto puramente
utilitario o in quello del puro disinteresse . Il Gal luppi vede che sono due i
fini dell'umano volere : due fini però conciliabili tra loro , sì che uno non
importi la negazione dell'altro . L’uomo infatti è agente fisico e agente
morale insieme ; e per es sere agente fisico non cessa di essere agente morale
; e viceversa : segno manifesto , che tra i due fini non c'è opposizione
assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo dal punto di vista etico
sta in questo concetto , che il Galluppi vide nettamente, come apparrà meglio
dalla notizia che ora ne daremo. 78. Tutta la prima parte della sua filosofia
pratica s'aggira adunque intorno all'attività in generale dell'uomo : è, come
noi diremmo, una semplice psicologia pratica. Parla quindi del desi derio,
della volontà, dell'influenza della volontà sull ' intelletto, e viceversa, e
in generale dei principii motori della volontà , e della libertà umana . Questa
è la trattazione più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo
volume della Filosofia della volontà ; non avendo voluto il Galluppi lasciare
senza risposta nessuno degli argomenti che sono stati addotti contro
l'esistenza del libero volere . 79. Della volontà il Nostro dice che non può
definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì , che « le diverse facoltà , che
concepiamo nel nostro spirito , non sono certamente tanti agenti diversi : esse
non sono che lo spirito stesso considerato relativa mente ad una determinata
specie di modificazioni, che avvengono in lui » ( 1 ) (I , 15-16) . Si potrebbe
intendere per volontà la facoltà ( 1 ) Quindi, secondo l'autore, è volontà « il
nostro spirito stesso considerato relativa 262 CAPITOLO VII di volere ; ma
questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti
avere la nozione che « dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che
abbiamo di questo atto » , ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La
volontà senza gli atti di volere è indeterminata come volontà ; è lo spirito
stesso in generale . La determinazione della volontà è la produzione de '
voleri particolari ; e siccome, dice Galluppi stesso, lo spirito è il principio
efficiente de ' voleri , così può dirsi tanto che lo spi rito determina se
stesso , quanto che la volontà determina se stessa ( I , 51 ) . 80. La volontà,
come notò gia Locke, va ben distinta dal de siderio. Un idropico , malgrado il
desiderio di bere , si astiene dall'acqua . Egli dunque desidera di bere , ma
non vuol bere . In tali casi vi sono desiderii opposti , fra i quali la volontà
si deter mina. Pel Galluppi tra desiderio e volere c'è una recisa differenza .
Quello non è , come ordinariamente si crede , un fatto d'attività dello spirito
, ma, come oggi si direbbe , un fatto puramente emo tivo ; quel misto di
piacevole e di spiacevole onde lo spirito è af fetto per la percezione d'una
sensazione in se stessa piacevole , ma assente , e però causa d'un dispiacere
tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà
provata ( 1 ) , Quando, come fa il Wolff ( 2) , si vede nel desiderio uno
sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o
si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto.
Sforzo, tendenza, inclinazione , allontanamento son tutti vocaboli, che
applicati all'anima non presentano alcun senso ( 8) . ( I , 65) . 81. Come dal
desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto ; sicchè può parlarsi di
un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto , come di un'influenza
esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima , il Galluppi vede
un potere della vo lontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito « può
esporre o pure sottrarre i propri sensi all'azione de ' corpi esterni ; e
quindi procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni » ( 4) . Quindi mente a
quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri » ( I, 24 ).
Insomma, gli atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito ; o
questo quid è la volontà . ( 1) Filos. d. vol., I , 63 e ss . (2) Psych , emp.,
SS 279 e 281. ( 3) Filos. d . vol. , I , 65 . ( 4) I , 112. L'autore s'accorge
che questo potere della volontà si esercita indiretta ci parla di sensazioni
volontarie e sensazioni involontarie ; e come i desiderii sono un effetto delle
sensazioni , trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e
come anche i fan tasmi seguono le sensazioni , anche tra i fantasmi pone la
stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. 82. Quando si passa dalla
sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi , non si tratta più di un
potere indiretto , ma im mediato della volontà sull'intelletto ; e dicesi
attenzione ; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza ,
che fan degne quelle pagine di esser lette ancora , pur dopo tanto progresso
nella conoscenza dei fenomeni psicologici . E come l'analisi e la sintesi sono
le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero
su di esse vale l'impero su tutto il co noscere . 83. Che più ? L'associazione
è anch'essa volontaria e involon taria. L'abito , questa seconda natura morale
, può dirsi anch'esso volontario , quando consta della ripetizione volontaria
di atti vo lontari ; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsa
bile , poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè
volontari ; in essi l'attenzione si volge a fantasmi , cui non dovrebbe
rivolgersi , e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva ,
confondendo l'immaginare col giudicare. Infine , da questo impero della volontà
sull’intelletto la distin zione dei moralisti di ignoranza vincibile e
invincibile ( 1 ) . 84. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà ,
è chiaro : che la vita dello spirito , come nota il Galluppi , comincia dalle
sensazioni . Ora queste , secondo che sono piacevoli o no , deter minano lo
sviluppo dell'attività dell'anima ( 1 ) ; suscitano i desiderii che influiscono
sulla volontà. Quindi nasce il problema : in quanti modi l'intelletto influisce
sulla volontà ? E se ciò che nel no stro spirito dispone o eccita la volontà
all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda : quanti
sono i prin cipii attivi della volontà ? E non sono riducibili tutti ad un solo
principio , come sue varie modificazioni ? 85. Elvezio concentrò tutti i
principii dello spirito nella fi sica sensibilità . Ma, « annientata così tutta
l'attività dell'anima, e mente ; ma non vede che pertanto in questi casi
trattasi d'un impero del volere sul corpo , e non propriamente sull'intelletto
. ( 1) Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è
anche negli Elem . , capp. II-VII. l’uomo riguardato come solamente sensitivo
ed animale , la virtù negli scritti di Elvezio scomparve dall'universo, e vi fu
rimpiaz zata da un grossolano egoismo » ( 1 ) . L'uomo per Elvezio è tutto ciò
che le cause esterne lo fanno essere . Egli ricava le conse guenze logiche più
rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e
per la religione, ma non ragionò coerentemente al suo principio della
sensazione trasformata . Elvezio parte dallo stesso principio , e ne deduce
illazioni che fanno or rore (2 ) 86. Ma, come è falso nella filosofia
intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi , com'è falso
ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo
della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla
passività del senso l'attività e la libertà della volontà , e non ri conoscere
l'origine soggettiva del dovere ( 3) . 87. Non è vero che tutto lo spirito sia
sensibilità ; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento . Non è
vero che i piaceri e i dolori che agiscono sul volere , sieno in ultima ana
lisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni ; è
incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti
da pensieri ( 4) . Quindi una prima divisione dei prin cipii motori della volontà
o motivi : desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo , e
principii riflessi, in cui lo spirito è at tivo. I primi si possono dire anche
semplicemente desiderii, gli altri , ragioni ( 5) . I principii irriflessi si
possono ridurre a sette ; appetito fisico ( fame, sete , amor fisico ),
desiderio della propria ec cellenza, curiosità , sociabilità, desiderio della
gloria , emulazione e potere, affezioni. 88. La ragione è principio di atti
volitivi come principio eco nomico e come principio morale ; o , come il
Galluppi dice , in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità , fa il
cal colo dei beni e dei mali , e dirige le nostre azioni a produrre un certo
stato dell'anima ; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene
e il male morale , e ci comanda di far l'uno e non far l'altro ; e allora può
dirsi ragione legislatrice della nostra volontà (6) 89. I principii della
prudenza sono quattro : un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male ;
un piacere che ci pro ( 1 ) Op. cit . , I , 175. ( 2) I , 193. ( 3) I , 194. (
4) I , 238 . ( 5) I , 286-7. ( 6) I , 318.
duce maggiori dolori , è un male ; un dolore che ci libera da mag giori
dolori , è un bene ; un dolore che ci produce maggiori pia ceri , è un bene ( 1
) . 90. A questo punto l'autore si propone la questione della li bertà , alla
quale , come s'è detto , dedica la maggior parte del l'opera sua , ma della
quale noi ci sbrigheremo in poche parole . Questa è la parte più vecchia della
sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua
speculazione . In essa egli sentì la forza del pregiudizio come impedimento
insormonta bile alla visione della verità più evidente ; e ci si vede la soprav
vivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'orga nismo del nuovo
pensiero ; anzi vi rimane aggiunta e giustap posta come membro morto che
l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo . 91. Dal
suo concetto dell'unità metafisica dell'Io, dal suo con cetto delle facoltà come
semplici principii costitutivi della natura dello spirito , il Galluppi avrebbe
dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non
sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e
d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità , intelletto
e volontà, di cui fa tre facoltà distinte , ma pur facendole scatu rire
dall'unico Io , non giunge a scorgerne la recondita unità . E veramente ,
separato l'intelletto dalla volontà, da cid che v'ha di umano, di spirituale
nella volontà , non è possibile altro con cetto di questa , all'infuori di quel
vuoto volere , che è il fonda mento della libertà bilaterale. 92. Questa è la
libertà a cui giunge il Galluppi : la libertà per cui nell'atto stesso che
vogliamo , potremmo non volere ; quel po tere, che non si esercita , e la cui
essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo ( 2) .
Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la
necessità del sillogismo . La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di
tirare o non da due premesse quella data conclusione , laddove ci attesta il
contrario rispetto ai singoli atti del volere . E siccome ( 1 ) I , 318. Nella
Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi.
Negli Elementi invece, come si disse, tutto il capitolo VI è dedicato ai Mezzi
per esser felice ( pp. 210-292). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera
il piacere estetico ; e quindi i 88 71-85 contengono una breve trattazione di
estetica. ( 2) Elem . , V, 123. « La libertà , io dico, è il potere di volere,
o di non volere un og getto percepito ; Filos. d. vol. , II , 811. la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui
il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la
realtà della libertà ( 1 ) . Tutti gli argomenti contrari non reggono alla
critica 93. Ma negli Elementi il Galluppi , prima di appellarsi al te stimonio
della coscienza, ricorre a un argomento , che rivela su bito la paternità kantiana.
Nella coscienza del dovere e del pre mio o delle pene che spettano alle azioni
si comprende , egli dice, la coscienza della nostra libertà . « Non si
comandano le azioni necessarie , come non si comanda ad un sasso il cadere se
non è sostenuto . Le azioni necessarie non sono riguardate come meri tevoli nè
di premio, nè di pena.... La coscienza della legge in teriore contiene la
coscienza della propria libertà . Il comando suppone in colui , a cui è diretto
, il potere di eseguirlo e di non eseguirlo » . Devi ; dunque , puoi, aveva
detto Kant . 94. Non bisogna , del resto , porre il Galluppi fra le anticaglie
pel suo concetto della libertà . L'indeterminismo anzi è una delle con cezioni
oggi alla moda ; e non manca in Italia di rappresentanti ; i quali si sforzano
di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degli atti del
volere , ponendo nello spirito un irri conciliabile dualismo, che lacera
internamente l'unità dell'indi viduo umano, e sta quasi condizione necessaria,
se non sufficiente , della libertà morale ( 2) . E ancora uno dei più acuti
psicologi che abbia l'Italia , afferma che il concetto del volere libero , «
cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (li
bertas a necessitate) è una verità , la quale, sebbene accanitamente combattuta
da molti e sotto molti rispetti , resterà sempre incon cussa per chi , scevro
da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali , non si lascia smuovere da'
sofismi ne turbare dalle difficoltà » ( 3) . Il vero è , che una questione mal
posta non può aver mai la sua vera soluzione ; e potrà sempre far accettare or
l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata
ap punto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del volere
, su cui si fondava. Giacchè, se si determina rigoro samente il volere, è
impossibile escluderne la ragione , e non vedere quindi , che se han torto
gl’indeterministi a difendere la libertas ( 1) Filos., II , 21 , 329 e passim ;
cfr. gli Elem ., V, 123. ( 2) Vedi la lodata opera del prof. IGINO PETRONE, I
limiti del determinismo scienti rico , Modena, 1900, pp. 105-6 ; 2.a ed .,
Roma, 1903, pp. 110-111; cfr . BOUTROUX, De la con lingence des lois de la
nature, Paris, 1895 , pp . 123 e sgg. ( 8) BONATELLI, Elem . di Psicologia e
logica , Padova, 1895 , p. 210. a
necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a
coactione : gli uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto
, gli altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è
mantato chi ponesse bene la questione , e le desse quindi una soluzione da
soddisfare le oppo ste esigenze e dissipare tutte le difficoltà ! 95. Stabilita
, comunque , l'esistenza della libertà morale, si tratta pel Galluppi di
risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale ? E ne chiede la
soluzione , anche questa volta, alla coscienza . L'esistenza del bene e del
male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità
primitiva attestataci dalla nostra coscienza ( 1 ) . Darne una dimostrazione è
impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi , al pari di chi vo lesse
provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro cono scere . La
coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed
originaria che si dice dovere : indipendente dalla legge positiva , come
dall'opinione altrui , valida nel segreto dell'anima nostra . Donde viene a noi
la nozione di essa ? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non
ucci dere un uomo, di rendergli il deposito , che mi ha confidato ? È la mia
ragione , la quale comanda alla mia volontà . « Son io che comando
interiormente a me stesso . Questo comando non mi viene dunque dal di fuori ;
ma dall'interno del mio essere » . Il predi cato dei giudizii morali è l'idea
del dovere ; e questa idea viene da noi , dice il nostro filosofo , non dagli
oggetti. « La nozione del dovere , egli dice anche esplicitamente , è una
nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione » ( 2) . Meglio non si
potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica !
Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pro
nunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo . Sog gettivo il dovere
, ma anche essenziale : questa è la giusta defini zione non solo del vero
soggettivo, ma anche del vero oggettivo , dopo Kant, quando bene s'intenda . E
nella morale il Galluppi riproduce Kant bene inteso , senza esitazioni e senza
limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di
sincerità commovente : « È questa una verità per me evidente , e credo che tale
sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede » ( 3) . ( 1 ) Filos. d. vol .,
IV , 38. ( 2) IV, 41 . Il corsivo è dello stesso Galluppi. ( 3) Ivi . Tutto ciò
trovasi anche negli Elementi, V, 91 .
96. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa
(tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e
perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale ,
ossia i singoli doveri . Non uccidere : se questo precetto fosse innato ,
dovrebbe esser tale anche l'idea di omicidio, la quale ci viene invece
dall'esperienza. « L'uomo è però costituito di tal natura , che la nozione del
do vere sorte, nelle occasioni , dal suo proprio fondo » ( 1 ) . Insomma, quel
che vi ha di a priori in Galluppi, come in Kant , è la forma del giudizio
pratico ; e la materia è data dall'esperienza . In che consista il dovere, non
è determinato in quella nozione sogget tiva ed essenziale , che costituisce la
Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti
etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali : cioè
appunto la forma. Soggettivista come Kant, Galluppi è del pari formalista nella
morale . 97. « La nozione del dovere, egli dice , sorte dall'interno di noi
medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito
costituisce quei giudizii, che sono precetti o comandi » ( 2) . « Questi precetti,
in conseguenza, son proposizioni sintetiche; poi chè essi sono un prodotto
necessario della sintesi della ragione, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi
l'elemento del dovere... Questi giudizii , sebbene suppongano alcuni dati
sperimentali, non sono però sperimentali; essi possono, in conseguenza,
riguardarsi come giudizii a priori » ( 3) , - Questa dottrina non ha bisogno di
commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la
verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella Morale , che
fu Kant ( 4) , « In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella
Filosofia della volontà ( 5) , io ho mo strato l'assurdità de' giudizii
sintetici a priori , ammessi dalla scuola di Kant ; ma i giudizii sintetici di
cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii
teoretici , non già giudizii pratici » . E negli Elementi di morale, al $ 37 :
« I giu dizii sintetici a priori teoretici mi sembrano assurdi . Ma dal l'esame
profondo della nostra facoltà di volere son forzato di am mettere i giudizii
sintetici a priori pratici, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo
stabilire altrimenti la moralità delle azioni » . ( 1 ) Elem ., V, 92. (2) Ivi,
ibid. (3) Filos. della vol. , IV , 46 ; Elem . , V, 120. ( 4) Elem ., V, 75. (
5) IV, 46 . 98. Fuori di questo soggettivismo morale il Galluppi , come il
Kant, non vede altro che eudemonismo, o morale dell'interesse, come egli dice ;
e questa gli pare soltanto una morale apparente (1). Quando s'intende la giustizia
come un interesse bene inteso, si fi nisce necessariamente col sommettere la
giustizia a qualche cosa che non è la giustizia . Distinguendo l'interesse bene
inteso dal male inteso , « non si pongono in opposizione due interessi diffe
renti ; al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un in teresse unico ,
che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egual mente in veduta ; e che fra
essi non vi ha che questa differenza , che l'uomo giusto è un uomo accorto , e
l'ingiusto un imbecille » ( 2) . 99. Ora contro questa concezione morale
militano tre argo menti. 1. ° « La volontà dell'uomo virtuoso differisce
intrinseca mente da quella dell'uomo vizioso » . Laddove nella morale del
l'interesse la volontà di entrambi è unica ; perchè entrambi vo gliono la cosa
stessa : il proprio utile . 2. ° La virtù vera è una dote del volere ; e nella
morale dell'interesse, invece , sta tutta nell'accortezza dell'operare ; poichè
col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile ( 3 ) . 3. ° La legge
morale dee essere asso luta ed universale . Invece la morale utilitaria « è
fondata su la situazione ipotica dell'uomo , la quale, cambiandosi, cambia pari
menti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio , il vizio
virtù » . Sicché la morale utilitaria è falsa , distruggi trice di ogni vera
virtù si privata che pubblica ( 4 ) . La virtù è causa della felicità ; poichè
, se diviene mezzo, cessa di essere virtù ( 5) . 100. La morale è
essenzialmente disinteressata : la virtù è amabile per se stessa, indipendentemente
dal premio, che la segue. Ma « la coscienza di averla praticata dev'essere un
piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio , ed indipendente da
questo » ( 6) . Nella Filosofia della volontà ( 7 ) l'autore sostiene che se il
principio dell'utile non può produrre la virtù , nondimeno può concorrere col
principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di notare che tale
concorrenza « non impedisce, che l'azione sia prodotta dal principio
disinteressato del dovere; poichè il princi ( 1 ) Filos. d. vol., IV , 104. (
2) Op. cit . , IV , 105 . ( 3) Il Galluppi non ammetto che dall'utile proprio
possa nascere l'utile altrui , che l'egoismo, come ora si direbbe, possa
generare l'altruismo . « L'uomo nulla può amare fuori di se stosso se non per
se stesso » . Fil. d . vol ., IV, 105 . ( 4) Op. cit . , IV, 107-9 ; Elementi,
V, 8 32, pp. 98-103. ( 5) IV , 113. ( 6) IV , 147. ( 7 ) IV, 164. 270 CAPITOLO
VII pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gli ostacoli
all'esercizio della virtù » ( 1 ) . Sicché , insomma, non è una vera e propria
concorrenza : l'azione morale è effetto unicamente del principio del dovere
assoluto e universale, categorico. Pare che il Galluppi si opponga alla
rigidezza razionalistica della morale del Kant ; ma in realtà sono d'accordo
nella medesima dottrina. 101. Negli Elementi l'autore pare accenni veramente al
Kant, dove dice ( § 33) : « Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che
l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per
la legge , senza alcuna specie di piacere , nè di amore. Una tal dottrina è
falsa , e contraria alla testimonianza irrefraga bile della coscienza » . Ma
egli spiega così il suo pensiero : « Non si dee esser giusto e benefico , per
esser felice ; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di
felicità , non si do vrebbe abbandonare . Ma più la virtù sarà pura e
disinteressata, più vivo sarà il piacere , che risulta dalla coscienza di
averla praticata ..... Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere di
spone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole..... Ma non
bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso .... L'uomo
virtuoso vuole il dovere per se stesso : e questo è il fine ultimo della sua
volontà ; egli , in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere ; ma il
piacere non lascia di accompa gnare la pratica del dovere » . Ora questa
dottrina è in opposi zione a un kantismo mal inteso : al kantismo cui s'allude
dallo Schiller nel famoso epigramma sullo Scrupolo di coscienza . Ma il Kant,
in verità, non ammetteva meno del Galluppi quel piacere che consiste nella
soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adem piuto il proprio dovere; ma
come il Galluppi teneva a distinguere questo piacere morale consecutivo
all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione
non virtuosa (2) ; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non
principio ( 1 ) IV , 165. ( 2) P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive
: « Ich habe an einem Orte ( der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied
der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die
einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich , welche vor der
Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist
pathologisch , und das Verhalten folgt der Naturordnung ; diejenige abor , vor
welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der
sittlichen Ordnung » . Werke ( ed . Rosenkr. ), IX , 221; cfr . Krit. pr. Vern .
, in Werke, VIII , 152-3. della moralità
. Il Kant bensì osservava che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il
rimorso per il delitto presuppone che si sappia apprezzare il valore del dovere
e l'autorità della legge mo rale'; ond’è che la legge morale è il fondamento di
questi senti menti, non viceversa. Si deve essere , dice il Kant , almeno per
metà di già galantuomini per potersi fare un’idea di tali sentimenti .
Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie di eudemonismo. Sicché,
anche per questo rispetto, la morale del Galluppi riproduce quella del Kant.
102. Nella morale Galluppi si attiene al criticismo del saggio filosofico. La
sua morale, come quella di KANT, è indipendente dall'esistenza di Dio.
All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza
del bene e del male morale, in dipendentemente dalla considerazione dell'utile.
Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non
può non riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giu sto e
benefico . Giacchè il dovere si conosce per se stesso , è un elemento semplice
di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi stessi. Le difficoltà
da altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la
legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di
questa natura ; cui si attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il
principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana non vi può
essere altro principio razionale di azione che quello della pro pria felicità ;
ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a generare il
dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità pratica? Anzi,
secondo Galluppi, l'idea del divino non è sufficiente a spiegarci l'origine del
do vere : perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un
principio pratico. 103. Ma, diceva il Genovesi, la ragione umana è fallibile :
è spesso traviata dal personale interesse. Eppero i suoi dettami non possono
essere norma delle nostre azioni . E il Galluppi replica , che questo scoglio
non si evita certo con la tesi dell'origine di Cfr. del resto questo passo del
GALLUPPI: « I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso
come motivi, che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero ; ma noi
sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovore per se stesso
, indipendentemente dagli effetti che seguono dalla pratica della virtù e da
quelli del vizio. Filos. vina della morale. Perchè la legge morale bisogna
sempre che sia conosciuta dagli uomini ; e conosciuta , naturalmente, per mezzo
della loro ragione . Nè maggior valore ha l'argomento a cui ar restavasi il
Tamburini : che non si può concepire legge senza legislatore. Il legislatore,
dice Galluppi, è essa la ragione, in quanto ragione pratica. Un ultimo punto
d'incontro del Galluppi col Kant è il seguente . Secondo il filosofo italiano è
un principio essenziale della ragion pratica che la virtù è degna di premio ,
il vizio è degno di pena: giudizio sintetico a priori. Ora, se noi crediamo a
questo principio , dobbiamo pure credere all'immortalità del nostro spirito ;
perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè sempre
sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è indimostrabile,
come che la virtù debb’esser premiata. E indimostrabile, perchè è un giudizio
sintetico . Ma è legge inalte rabilmente impressa nella realtà del mio essere ;
è la voce di quella ragion pratica, che è la legislatrice delle nostre azioni ,
e che non ci pud ingannare, se la virtù non è nome vano . Uno stato è necessario
in cui quel principio abbia il suo valore reale , la sua piena esecuzione .
Inoltre , io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una ricompensa
della virtù e d’una punizione del vi zio ; vi trovo pertanto la necessità di un
giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita , assoluta , che
si manifesta a tutti gli esseri intelligenti . Questo supremo legislatore e giu
dice è Dio. È, comesi vede , su per giù , la teoria kantiana dei postulati
della ragion pratica. 105. Ma Galluppi sente la difficoltà che s'oppone a una
deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda : possiamo noi su la
semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degli
oggetti di esse ? Anche al Kant si affacciava un problema simile ; e fa escogitare
quella teoria del primato della ragion pratica sulla ragion teoretica, che è
una vera rinun zia a ogni diritto di vero e proprio filosofare , e perciò a
ogni fondamento filosofico della stessa morale. Il Galluppi non fa motto di
questa teorica , forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per
distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo
persuadano bene. Giacchè , infine, Elem . Vedi le ottime osservazioni di MATURI
, Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità
dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità .
Se pure que sta può dirsi dimostrazione. 106. Egli dice in sostanza, dopo
qualche esitazione : l'esperienza ci mostra che gli oggetti delle nostre
affezioni sono reali. Ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla
immortalità ; dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere che in
gene rale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro oggetto .
Una di queste tendenze è la curiosità . E non possiamo noi forse, dice Galluppi,
spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo spesso , veramente , guasta, e
non poco , l'argomentazione dell’autore ; il quale si contenta di constatare
con l'esperienza : « non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non
possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende. Qualche volta! Dunque
l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico : è meramente
problematica . Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che « il domma
dell'immortalità » im porti alla filosofia morale come il più fermo sostegno
della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio » ; ma chiuso
nel suo sperimentalismo, ignaro degli espedienti mal fidi del Kant, non sa
fondare teoricamente il suo principio , non sa darne una giustificazione filosofica
; più filosofo nella sua impo tenza degli odierni prammatisti, che con la
maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale,
quasi che lo spirito avesse fine più degno del vero. Quasi che il bene potesse
fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i suoi principii
generali della morale, che , come s'è notato , sono principii essenzialmente
formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare al Galluppi
ch'egli ne deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT,
la cui Dottrina della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi,
per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo , è in assoluta
contraddizione col principio for male da cui si vuol derivare. Il formalista
così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di
dare un con. tenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali,
dello spirito. Certo , con tutti i suoi difetti , che non sono solamente suoi,
anche nella morale il Galluppi rappresenta un progresso immenso Elem . della
filos. morale, cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue
ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la moderna gno
seologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello
spiritualismo dommatico ; e inizia in ITALIA un nuovo periodo speculativo ; nel
quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia
tedesca. si solleva col SERBATTI e col Gio berti a un'altezza non più toccata
da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento.Galluppi.
Pasquale Galluppi. “Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio
dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that
since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con
questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno
figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar
paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than
Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact
that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls
‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when
he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls
il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture –
with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being
communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione
that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the
‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the
artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells
on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And
he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this.
So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or
‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned
about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used
in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative
(different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ –
when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the
arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so
since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you –
where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly
thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto,
grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno
naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua),
segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato,
segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare,
sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana –
Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per
Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Grice e Galvano – arte naturale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Galvano; he has
philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism, citing
Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati. Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf.
Arte Astratta – Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degli
Italiani. FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA CARLO
LEVI Pino Mantovani Luca Motto
Albino Galvano Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m
dz de 2zpA—A_t} PA "o Scritti di PINO
MANTOVANI LUCA MOTTO ALESSANDRO BOTTA ADRIANO OLIVIERI
ALBINO GALVANO Fare, pensare, vivere la pittura
Aver puntato il senso della propria vita sui segni e sui colori
sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non
insincera | [ALBINO GALVANO, 1980] FONDAZIONE GIORGIO
AMENDOLA AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI
MOSTRA D'ARTE TRENTENNALE DI ALBINO GALVANO Torino,
marzo-giugno 2021 presso la Sala Mostre dell’Associazione Lucana Carlo
Levi e della Fondazione Giorgio Amendola Con il Patrocinio di Con
la collaborazione di REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA | NE }
CITTA DI TORINO olii MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen DEL
PIEMONTE Il 2020-21 è stato un biennio segnato dalle notevoli
difficoltà imposte dalla pandemia da Covid-19. Alla luce delle molte
restrizioni, la Fondazione Giorgio Amendola ha cercato, nel limite del
possibile, di proseguire con le proprie attività di divulgazione e promozione
culturale adattando spazi e metodologie alle esigenze del periodo,
rispondendo all'emergenza coronavirus con iniziative dinamiche e
creative, passando per la fruizione digitale per permettere agli utenti di
restare a casa, come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei
contenuti culturali. Sotto questa prospettiva e, nonostante le
molteplici difficoltà, il lavoro svolto per ricordare, a trent'anni dalla
sua scomparsa, l'artista torinese Galvano è stato importante. La
Fondazione Giorgio Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla città di Torino
e non solo, la possibilità di accedere gratuitamente all'incontro con
l’opera artistica e intellettuale di una delle figure di spicco del
panorama artistico italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di
rilievo nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di
tutta Italia che hanno collaborato con Galvano e che tuttora ricoprono un
ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese.Prospero
Cerabona Presidente della Fondazione Giorgio Amendola Studi,
Convegni, Ricerche della Fondazione Giorgio Amendola e
dell’Associazione Lucana Carlo Levi 54 Presidente Fotografie
delle opere PROSPERO CERABONA MARCO CORONGI Curatore mostra e
catalogo Direttore Responsabile PINO MANTOVANI PROSPERO CERABONA
Scritti di Redazione PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, ALESSANDRO BOTTA,
ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, MARIA SOFIA FERRARI Progetto
ed allestimento PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, EDITRICE IL
RINNOVAMENTO —” Fotocomposizione © EDITRICE IL
RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Giorgio Amendola
VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione Lucana in
Piemonte Carlo Levi VIA TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle
opere e la collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte
Contemporanea Filippo Scroppo (Torre Pellice), Stefania e Stefano Testa,
Liliana Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che
hanno preferito restare ano- nimi. Si ringrazia Francesca Barzan per la
realizzazione delle docu-interviste. Sommario Albino
Galvano e la pittura Pino Mantovani Albino Galvano: la fedeltà alla
pittura Luca Motto Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice
Casorati Alessandro Botta Gli occhi fervidi e il sapore di
cenere. Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Adriano
Olivieri Opere esposte ARTE DI VENEZIA
1954 GATMAZH TEAOZ GANATOZ XXVI: ESPOSIZIONE
INTERNAZIONALE D GALVANO ALBINO BIENNALE
(267) Foto Giacomelli - Venezia FOTOTECA ASA. Albino
Galvano e la pittura Pino Mantovani Da pittore, Albino
Galvano pone tre livelli d’inda- gine; come qualsiasi artista
intelligente, se non fosse che, nel caso suo e di non molti altri, i tre
livelli si presentano specialmente complessi e coltivati con con-
sapevole separatezza e problematica interconnessione: Il primo
livello comporta chiedersi che pittore Galvano sia stato e, ovviamente,
interrogarsi sulla specie e sulla qualità della pittura (delle pitture)
che ha messo in opera nel lungo percorso, sicuro e tortuo- so, che
lo ha impegnato pressoché ininterrottamente dalla fine degli anni Venti
(era nato nel 1907) fino alla morte, nel 1990. Il secondo
livello comporta mettere a fuoco la concezione (le concezioni) ch'egli ha
elaborato della pittura, in quanto da critico (e autocritico: nella
sua scrittura, l’autoritrattoè un vero e proprio genere!) si è
occupato dell’arte, in particolare della pittura, conuna intensità, una
pervicacia, una curiosità sempre sveglia, direi aggressiva, in un'epoca
provocatoria e insieme minacciata dalla condiscendente
banalizzazione. Ma, forse, il nodo più difficile da sciogliere
è quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (‘[...] è questa
l’arte — scrive di sé nel ‘46 — della quale ab- biamo, bene o male, una
qualche esperienza vissuta e [...] non crediamo se non ai discorsi che
nascono da questa esperienza”, dove si radica anche la mi- litanza
del critico) e il teorico che usa gli strumenti del filosofo,
dell’antropologo, dello psicanalista, dello storico (da competente,
eppure mai imprigionato dallo specialismo? e anche meno dall’appartenenza'*)
1 Sipuòdaffermare che ogni suo scritto è occasione per una
au- toanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai
cro- naca contingente, invece occasione per andare oltre la
cosiddetta evidenza dei fatti, per indagarne radici e proiezioni.
2 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza”
n.1, Torino, ripubblicato in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il
sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante, Torino 1988; in A.
Galvano, Diagnosi del moderno, a cura di A. Ruffino, Aragno editore
Torino, 2018. 3. G. Gallino, in Attraverso il Novecento:
Albino Galvano, Atti del Convegno, Torino 1997 a cura di M. Pinottini.
Bulzoni editore, Roma 2004, pag. 45: "Se ... l’eclettismo diventa
una condizio- ne dell'esercizio dell’arte, è anche la qualificazione
dello status dell’intellettuale, che, in ogni specifico ambito
d'indagine, è sol- lecitato a non perdere di vista la visione d'insieme
dei problemi. La polemica di Galvano contro la specializzazione, quale
esclusiva procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica.
In- dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una
partico- lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone
l'esigenza del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue
interpretazioni”. A. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a
Diagnosi del mo- derno, cit., pagg. XIII-XIV: “Contro lo specialismo, ...
Galvano ha sferrato una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul
pia- no pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso
quella pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà
della posa il rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in
partito preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso
illi- mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace
di suscitare creazioni vive”. 4 Interessato “da una parte
all'eredità del tardo romantici- A. G. con Mariacarla
e Pino Mantovani, Racconigi, 1980. per affrontare la pittura, alla
quale riconosce una singolare centralità. Tutti questi temi
mi hanno per decenni accom- pagnato e sollecitato. I miei primi
interventi su Galvano pittore risalgono, infatti, all’inizio degli
Ottanta: data 30 novembre 1980, la presentazione ad una personale presso
la Galleria Maggiorotto di Cavallermaggiore, seconda di una serie
dedi- cata ai protagonisti del MAC torinese; ma già nel marzo dello
stesso anno avevo tracciato, con la collaborazione dei miei allievi in
Accademia, un quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino
nel Museo Civico di Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla falsariga delle
indicazioni che Galvano aveva for- nito a T. Sauvage? per una storia
ancora regionale dell’arte italiana nel Dopoguerra; e nel 1983 sul
catalogo della mostra Arte a Torino, 1945-1953” nel
smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi
della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla severità
dello storicismo crociano e all'esempio del rigoroso metodo cri- tico
negli studi di storia dell’arte [...] Lettore di Klages, di Jung o di
Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel” (A. Galvano, Perché non
possiamo non dirci crociani, in “Numero”, n. 3, 1953. At- tento a Freud
come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello spazio, pronto a
coglierne, nella comune umanità, le differenze e le istruttive
potenzialità. 5 PitturaaTorinoneglianni cinquanta, a cura di G.
Mantovani, cata- logo della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo
1980. 6 T. Sauvage (pseudonimo di A. Schwarz) Pittura italiana
del Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano 1957, il testo fu ripubblicato
con integrazioni e il titolo La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, in
“Let- teratura”, n. 1, Torino 1960, successivamente in A. Galvano,
La pittura..., cit. pag. 135 segg; e A. Galvano, Diagnosi..., cit.,
pagg. 393 segg. 7 Arte a Torino, 1945-1953, a cura di M.
Bandini, G. Mantovani, F. Poli, catalogo della mostra, Torino 1983
salone d’onore dell’Accademia Albertina, dedicavo a Galvano il mio
intervento, anche oltre gli anni definiti nel titolo. Mi troverò,
pertanto, a incro- ciare in queste pagine scritti pubblicati in un
arco di tempo di circa quarant'anni, con il proposito, spero non
solo narcisistico, di organizzare in di- scorso unitario contributi
sparpagliati e spesso di non facile reperimento. Proprio
dalla presentazione Maggiorotto — poi variamente elaborata per occasioni
ulteriori dedicate appunto al MAC, come il catalogo per la
esposizione del MAC torinese sempre curata dalla galleria Mag-
giorotto alla Expo Arte — Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di
Bari (1982), la presentazione del catalogo Albino Galvano, Proferio
Grossi, Luiso Sturla, Artecentro, Milano 1994, fino al saggio sul
movimen- to torinese nel volume per la mostra MAC/ESPACE
TORINO È VIa S. GIULIA 12 TORINO 370 ‘
Pre. A. PARISOT |F. SCROPPO
Bollettino «Arte Concreta» n. 9, 1952 e n. 12, 1953. all’Acquario
di Roma, 1999°—mi parlogico cominciare, non tanto perché uno dei primi
approcci al tema — allora potevo anche contare sul rapporto diretto
con Galvano, ma devo dire che la sua disponibilità non era invasiva
e tanto meno arcigna rispetto alle inter- pretazioni che venissero
proposte del suo impegno — quanto perché vi si pongono i fondamenti del
mio interesse per l'artista /critico / filosofo. L'incipit che
sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore possibile; non mio,
intendiamoci, invece proprio di Albino che 8. Loscrittosarà
rielaborato come prefazione a A. Galvano, La pittura, lo spirito e il
sangue, cit. 9 P. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in
MAC-ESPACE - Arte concreta in Italia e in Francia, 1948-1958, a cura di
L. Berni Canani e G. Di Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano,
Roma, ed Bora, Bologna 1999, pagg.60 e segg.
così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte Concreta”,
n.12, 195310 ; “E scopriremo che è un programma [quello del
MAC le cui premesse erano già nei romanzi dei tempi della nonna? Tanto
meglio, almeno avremo evitato l'equivoco più antipatico che grava
sull'arte astratta: che si tratti di cosa moderna 0, peggio,
d'avanguardia”. Una fulminante risposta al nemico Leonardo Borgese
che sul Corriere della Sera, aveva definito A’ rebours di Huysmans, “un
vecchio romanzo dell’800”, fonte peraltro “di tuttele velleità estetiste
dell'avanguardia”: fornendo unovvio spunto polemico — non saprei
quan- to consapevole, nel caso addirittura masochistico — a chi da
anni si occupava del rapporto tra le cosiddette “avanguardie” ela linea
dal Romanticismo al Simboli- smo; ma anche agli amici di Milano che si
riconoscevano nel programma di Sintesi delle Arti pubblicato nello
H | FIL sintesi allo studio b 24
dal 21-2 al i: se ? i fi 5
5! È s7 A. G. riproduzione di
Verso Occidente, Biennale di Venezia 1952. stesso Bollettino, che
prevedeva “il diretto concorso di tecnici e artisti, sul piano della
stretta collabora- zione, per il raggiungimento finale d’un concreto
il quale aderisca alla funzione in armonia di colleganza fra il
mondo della forma, lo spazio e l'applicazione pratica dell’opera
collettiva”! viva il design, la grafica e l'estetico diffuso, dunque.
Come non bastasse, Gal- vano conclude l'asterisco citato rigettando
qualsiasi attualismo:” Che bel giorno quello in cui potremo
lavorare in pace al compito che la storia ci ha affidato, certi che nonè
sulla misura della contingente attualità 10
L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto marginale è il
contributo che Galvano sceglie per intervenire criticamente liberamente
sui Bollettini del MAC (e altrove). 11 E Passoni, Le arti e la
tecnica, “Arte Concreta” 12, 1953, pag. 65, ried. anastatica, a cura
della galleria Spriano, Omegna, 1981. , ,
che il nostro lavoro verrà giudicato!”. Il fatto è che Galvano non
intende escludere tutta la complessità di rimandi e proiezioni,
soggettivi ed oggettivi, che i linguaggi dell'immagine — specialmente
quando non siano troppo condizionati da tecniche o ideologiche
motivazioni — si portano dietro e dentro, e che, del resto, la cultura
moderna indaga con particolare impegno e analizza con rinnovata
strumentazione, mentre altri linguaggi dell’immaginario—la poesia,
la narrativa, lamusica — stanno sperimentando a tentoni forme
“nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere “originarie”!).
Neppure, d'altra parte, egli intende abbandonare la pittura come
linguaggio specifico, proprio quella tradizionale (tela, carta o
qualunque supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar
figure !4); per quanto metta in conto uno spostamento dall’iconico
all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo, dall’allusivo
all’emblematico, dal geometrico al rit- mico al gestuale; ciò che non
precluderebbe peraltro “la possibilità di uno scambio e di una
penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una lettura
figurativa per elementi — segno, colore, movimento, materia ecc.
12. “Confessiamo di essere segretamente d'accordo con Bor- gese
[quando invita a rileggere A’ rebours]. Perché... l'essere agli antipodi
[delle scelte di Huysmans e delle preferenze in pittura del suo eroe Des
Esseintes] è troppo vitalmente legato a ciò che rifiuta per non
riprenderlo su di un piano meno esterno: e le cita- zioni dalla Blavatzky
e da Steiner del Kandinsky della ‘Geistige’, l'appartenenza a circoli
teosofici di Mondrian giovane, il fatto che uno dei primi scritti
italiani sull'arte astratta sia di J. Evola sono ben significativi di un
rapporto ambivalente — di rifiuto per la ca- rica letteraria, moralistica
o immoralistica, del simbolismo speso alla spicciola nell’allusività
delle immagini e della messa in scena, e insieme di accettazione di quel
gusto di allusioni e suggestioni, di segrete corrispondenze tra immagini
e speculazioni — che — nel- le sue due facce: sensualmente umbratile
l'una, simbolicamente intellettuale l’altra — tra il 1890 e questa metà
del nuovo secolo hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia
pure af- fidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa
alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di Gal-
vano in “Arte concreta” 12, 1953. 13. Azzardo un'ipotesi (certo
suggestionato dal recente catalogo della mostra La regione delle Madri. I
paesaggi di Osvaldo Licini, Elec- ta, Milano, 2020, in particolare dal
saggio di S. Bracalente, Licini oltre la geometria: una primordiale
genesi del mondo): che Galvano non abbia ignorato “Valori primordiali”, e
in particolare l’opera di F. Celiberti, anche lui proveniente da studi di
storia delle religioni, tanto importante per Licini proiettato dalla fine
degli anni Trenta oltre la geometria, specialmente nell’incrocio tra
teosofia, esisten- zialismo e fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni
interessi per Spengler, Klages, Guénon ... e per l'alta poesia
romantica. 14 “Dipingere con colori e pennelli ... è stata una
costante del mio lavoro nei suoi vari cicli, anche quando come spettatore
ho pregiato e difeso esperienze varie e opposte. Ma è certo che, se
tra il '75 e il ’78 ero venuto via via recuperando alla mia pittura
quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che confessa- vo
in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse hanno perso ogni
ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan- te: in bocca è
solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita in ciò che non
ha vita o non l’ha più”. A. Galvano, Autopresenta- zione della Personale,
Piemonte Artistico Culturale, Torino 1985). Libretto
di iscrizione a magistero. — non diversi da quelli che consentono
la valutazione di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste
ragioni” concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di un
gioco alquanto provocatorio, portando il discorso dal livello tecnico a
quello culturale ed etico, di una eticità sempre esposta, in un certo
senso negativa (“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice
inevitabilmente cristiana anche nella più spinta laicità). Già l’anno
precedente, nelnovembre del ’52, firmando con Biglione, Parisot e Scroppo
quello che a ragione o a torto è considerato il manifesto del
movimento torinese, Galvano aggira gli ottimistici programmi dei
milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del Macchinismo,
del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’ che sanno ancora tanto di
Futurismo, e dichiara che carattere essenziale nella scelta dei nuovi
adepti è la “responsabilità liberamente assunta sul limite più
impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e pigrizia
intellettuale” nel campo della pittura come in diversa applicazione
estetica e pratica, senza com- promessi e “senza pudore”. Il fatto è che
Galvano (e A. Galvano, presentazione della collettiva,
Bordoni, Galva- no, Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano
1954. 16 Cfr. “Arte Concreta n. 10. “L'unico
atteggiamento ragionevole è quello di lavorare at- tendendo colla
sincerità di chi sa che lo spirito ama le posizioni estreme ed attive ,
non i compromessi”. (A. Galvano, L'evasione, in “Il Selvaggio”, 15
gennaio 1940, ripubblicato in A. Galvano, Dia- gnosi del moderno (a cura
di A. Ruffino), cit., pag. 28. con lui i pressoché coetanei
Adriano Parisot, Filippo Scroppo, Paola Levi Montalcinie i più giovani
Anniba- le Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi che
aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro le spalle una ventina
abbondante d’anni di lavoro non ovviamente mirato allo sbocco astratto.
Basta pensare alla frequenza orgogliosamente esibita fino all'ultimo
della scuola di Felice Casorati (sul quale elabora una
piccolamaimportantemonografia che punta non poco sulla stagione
simbolista — sull'argomento si rimanda all'intervento in questo catalogo
di Alessandro Botta), al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in
va- riante espressionista; al fatto che egli medita, continua a
meditare sul significato e sul valore della scelta “moderna”, essenziale,
inevitabile, ma problematica nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi;
infine, che ha una formazione teorica e storica — aggiungerei una
struttura psicologica ed una educazione — che non gli consentono di
utilizzare a cuor leggero la strategia del manifesto, di ascendenza
futurista, e in genere le dichiarazioni programmatiche!8: una questione
di carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura. Del
resto, Albino Galvano aveva già affrontato il tema in testi antecedenti
di alcuni anni, ne utilizzo uno in particolare:” La pittura, lo spirito e
il sangue”, che uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della
rivista “Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori
responsabili — lo stesso Galvano e Pippo Oriani — Ri- vista mensile di
Arti figurative!. Certo esistono di Galvano saggi più importanti come
quelli che elenco innota?°, dove il tema è affrontato con
argomentazioni analitiche e storicamente complesse, ma continuo a
trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il brevesaggio citato.
Anche la data è importante, a guer- Il dubbio, lo scetticismo,
l'ambiguità come tensione fra op- posti sono fondamenti del suo metodo,
che non è irrazionale, in- vece di un razionalismo critico che mai cede
allo schema ideolo- gico o alla rigida consequenzialità. 19
Nonacaso ho scelto il titolo del saggio come titolo per la citata
Antologia di A. Galvano, edita dal Quadrante, Torino 1988. 20 Diversi
saggi di grande respiro, Galvano pubblica negli anni immediatamente
successivi alla seconda Guerra mondiale. Elen- co in ordine cronologico
quelli ripubblicati sull’Antologia citata, consenziente l’autore: Aspetti
del problema estetico dell’esistenziali- smo, Atti del Congresso
internazionale di Filosofia, Castellani e C ed., vol II, Roma, 1946;
L'esistenzialismo, a cura di E Castelli, Mi- lano 1948; Storicità e
significato dell’arte “astratta”, in “Archivio di filosofia”, vol. I,
Milano 1953, “Galleria di Lettere ed Arti”, n. 4-5, 1953; Medioevo e
Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma in alcune ricerche di
estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In- ternazionale di
Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti- ca”, Torino 1957;
Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo, Studi
in onore di L. Venturi, vol. II, Roma 1956. All'elenco si aggiungono i
saggi pubblicati in successive occasioni: in partico- lare sul catalogo
della Antologica postuma: Omaggio a Albino Galva- no, a cura di P.
Fossati, F. Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della mostra, Circolo
degli Artisti, Torino 1992 e, con scelta assai più am- pia ma ancora
lontana dalla completezza, sulla recente antologia: A. Galvano, Diagnosi
del moderno, cit. ra appena finita; come significative le
collaborazioni, che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà
dei contributi, intesi a coprire in tutta la loro estensione le cosiddette
Arti figurative: C. Mollino e U. Mastro- ianni, Monumento ai Caduti per
la liberazione d'Italia; R. Chicco, ... et le tableau quittè nous
tourmente et nous suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A.
Dra- gone, Disegni, acqueforti e acquerelli di Cino Bozzetti; P.
Oriani, Franco Costa; C. Mollino, Gusto dell’Architettura organica; O.
Navarro Il messaggio della cultura; ancora A. Galvano, Woyzeck di Georg
Biùchner, P. Oriani, Breve discorso su due films di Cocteau. Aggiungo — e
non è un dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi di
Pippo Oriani “che proviene dall'esperienza futuri- sta” e dello stesso
Albino “che proviene dal purismo casoratiano e dal neoimpressionismo
venturiano”, dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma
l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione) la gratuità
dell'atto creativo rispetto alla riflessione critica, e l'autonomia del
giudizio critico rispetto alle generalizzazioni dell'estetica, in un
tempo storico che minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine
del regime politico e culturale comportasse il recupero pieno della
libertà e la sua pratica esplosiva. L'avvio del saggio è forte, al solito
compromesso, e ancora una volta lo propongo: “L'appello della pit-
‘LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE L'appello della pittura
risuona dal profondu del nostro sangue — ancora con quell’urgenza —
come nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti impegnati
sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o
i presentimenti sessuuli. Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano
lo sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al- l’innocenza
d'allora, che vi riscatti la sin troppv chiara coscienza del carattere composito
e compro. messo di ogni atto umano che non sia di rinunzia: il
peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni l'estetica crociana, non
per nulla irritata con il « fanciullino » pascoliano troppo
chiaramente preanunciante le scoperte freudiane {e contro Freud i erociani
si armeranno della più ipocrita in- comprensione) cerca di riprendere e
di legittimare, con la sterilizzata convinzione del carattere «
teore. tico» dell’arte, il troppo scoperto « alibi » kan- tiano del
« bello come simbolo del bene morale ». Credo siu venuto il momento di confessare
schiet- tamente che il bello, proprio questo bello artistico che ci
brucia sin dalla giovinezza ogni possibilità di rassegnazione e di
conformismo, è piuttosto il « sim. bolo del male morale ». Tanto, anche
eticamente. dla questa franchezza non perderemo nulla.
Soltanto Nietsche ha insistito con sufficiente chia- rezza su
questo carattere, profondamente « vitale » e perciò profondamente «
immorale » dell'attività artistica: contro il quale assai poco mi paiono
va- lere le due obiezioni che implicitamente o esplici- tamente
vengono mosse dagli idealisti e dagli spiri. tualisti. Se per i crociani
— ma credo che in Gen- tile l'implicita ammissione, inevitabile data
l’iden- tificazione di arte e sentimento e l’inseparabilità
dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto, fosse più che sospettata
dall'autore anche se la reto. rica di cui sempre fu ammalato gli impedì
di am- metterlo in termini chiari; che tuttavia non man- cano nei
più diversi fra i suoi seguaci o avversari- seguaci: dal primissimo
Abbagnano disciogliente tatto il reale in irrazionalità, appunto con una
re- ducetio ad absurdum dell’attualismo, all'Evola, al più recente
Spîrito — se per i crociani, si diceva, la scappatoia di ridurre l’arte a
pura conoscenza, giocando sul doppio ruolo confuso insieme del- l’«
intuizione » permette di evitare lo spinoso prò- blema, i recenti
spiritualisti — ma anche fra di. loro lo Stefanini, ad esempio,
ammettendo una.« in- sufficienza dell’arte alla vita» — pur nella auto-
ì enza in ordine al proprio valore peculiare, finisce collo svalutare
moralmente l’arte — candi- damente invece sermoneggiano sulle comuni
radici del bello e del buono (nel secolo scorso queste niaiseries
di solito avvenivano su di uno sfondo ontologistico vagamente
giobertiano, oggi lo gnoseo- logismo idealistico generalmente è
rispettato anche dagli spiritualisti che dell’idealismo dovrebbero
es- ser avversari) e ci avvertono che il tormento del-
l'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il fan- tasma che
sempre gli sfugge è profondamente mo- rale! ; Dio volesse che
fosse veramente così. E che si potesse sul serio sperare che all'artista,
dopo la conquista su cui ha tutto giocato, della propria immagine,
fosse anche riservato per soprappiù il paradiso delle religioni e delle
etiche! Sarà meglio invece guardarci chiaramente in fac- cia
e chiederci se veramente per il puradiso provvi. sorio della bellezza non
giochiamo la salvezza della nostra anima — ammesso che «questa espressione
abbia un senso: quello cristiano, + quello di una etica « laica » (ma
generalmente è cripto-eristiana anch'essa) — riconoscere per che cosa
abbiamo scommesso; chè le conseguenze del nostro « pari » atiche se
lo avremo perduto non diventerunno duv- vero peggiori per quest’atto di
franchezza. Rimane inteso che su questa rivista, che non è
dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che sotto l'angolo della
pittura; ma poichè è questa arte della quale abbiamo, bene 0 male. una
qual che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non crediamo se
non ai discorsi che nascono da questa specie d'esperienza, la cosa non
sarà fuori posto. La coscienza rimane inquieta. E poichè
sente che tutto nel problema implica la discussione delle
CAROL RAMA Disegno - 1944 Da «Tendenza», 1946,
disegno di Carol Rama. tura risuona dal profondo del nostro sangue
— ancora con quell’urgenza — come nei quindici anni quando
sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre- me ragioni della
possibile azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuali”.
Geniale, perché collega direttamente, intimamente la pittura (ma in
genere i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,
affermando “il carattere profondamente immorale dell'attività artistica”
già sostenuto da Nietzsche, negato o perlomeno arginato invece da
Idealisti e Spiritualisti; e insistendo sulla “presenza di una
volontà — non risolta nella pura contemplazione, né risolvibile, dato
ilsuo orientamento verso l’immagine [...] La cosaè particolarmente
evidente nelle arti figu- rative e la multiforme e aperta a direzioni
divergenti attività [...] ne è il paradigma [...] Ed è appunto ciò
che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa distinzione [...]
di teoretico e di pratico, come al confu- sionismo attualistico che
confinando l’arte nella sfera dell’immediato sentimento cade di fatto in
un troppo semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica e
pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo atto spirituale
nella sua integrità, ché la vita spirituale presenta questi due aspetti
come facce sempre distinte, sì, ma sempre inseparabili”.
Conclude Galvano (e in questa direzione trova sostegno nella
fenomenologia di Alain?!, ne “L'Imma- culée Conception” dei surrealisti e
in Breton, più che nella poetica di Valery, almeno quando troppo
insiste sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-
zione dell’opera): ‘Qui [...] bisogna pensare [...] ad una volontà tutta
inconscia, individuante e non ancora individuata (come[...] Schopenhauer
presentiva) e ad unopposto momento rappresentativo che solo
giustifi- ca il valore estetico dell'immagine raggiunta negando nel
sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico”. Con un salto di
parecchi anni, dal 1946 de La pittura, lo spirito e il sangue ad una
autopresentazione Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno scritto
ine- dito di A. Galvano, riportata da F. Garimoldi Albino Galvano:
pro- getto di una nuova cultura, in Omaggio a Albino Galvano, cit., nota
12: “[in Alain ovvero Emile Chartier] l'accento cadrà ... molto più
che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su quello del
conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come condizio- ne
positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico, fanta- sma che
non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori ad una materiale
estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme all'atto di esecuzione
e che soltanto a posteriori rispetto a que- sto avrà la sua concretezza “
... “L'opera non nasce nella testa o nel cuore, nell’intelletto o nel
sentimento, per poi essere realizzata nella pietra o sulla tela, ma,
direi, nel vivo pulsare del sangue al polso quando questo gioca le
resistenze e le tensioni, gli scatti e le flessioni del pollice e della
mano nell’urto con il resistente ma- teriale. La scultura e la pittura
sono meno la realizzazione visiva di un'immagine mentale che la materiale
traccia lasciata da un gioco di ritmi fisiologici”. Sarà in particolare
Merleau-Ponty a sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a
Cézanne. lino Vieeate colla (o crlize pus (olenda,
cuni (aza sr net&uk' a fr suina und la gut rin % NAM (dA Pene
più 0 me0 Ara la rr tn he Ut forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA
Les al caso TU fi e fa dii Lo val poco comi pila
est; ua dn AA Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano
Villata, 1980. del 1980 — scritta a mano “quasi si trattasse di
una lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”,
gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare come l'umore o la
nostalgia suggeriscono” —, Galvano ritorna sul rapporto fra il concepire
e il fare, tra il fare e il decodificare il senso in più o meno
risolutive lettere; ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza
alcuna intenzione di assumere valore esemplare o chiedere scusa 0
simpatia, esponendosi in tutto lo spessore di sensibilità e intelligenza,
di impossibilità (a meno che non si scelga o si accetti la rinuncia) di
sottrarsi all'impulso profondo. E anche senza compiacimento
narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione ma per darne
testimonianza e, per quanto possibile, esporla a sé e ad una analisi non
priva di crudeltà, comunque oggettiva. È interessante seguire il
filo del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è meno
teso del solito. Prima motivazione del movimento pendolare
tra pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia dei
colleghi dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza “ad una generazione
[quella di Cremona, di Maccari, di Mollino, per restare tra amici] e ad
un ambiente Ripubblicata in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il
sangue, cit., pag. 29 e segg.; e in A. Galvano, Diagnosi del moderno,
cit. , All'inaugurazione di una sua personale, inizio anni ‘70.
in cui questo male, se male, era quasi una ragione di orgoglio”.
Era la generazione dei nati all’inizio del secolo, che raccoglieva dai
protagonisti del rinno- vamento dell’arte (secessionista o
avanguardistico, rappresentato per Albino, in primo luogo e per
sempre, dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non meno
di esperienza materiale che di elaborazione intellettuale, un atteggiamento
aperto, anzi tentato da molteplici contraddittorie curiosità e
linguaggi espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di qual-
che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai predecessori, forse
anche per il confronto inevitabile con una generazione successiva che
tornerà a proporre arroccamenti specialistici). Seconda
motivazione: ‘[...] Tutto quantohai odiato o amato nei giochi e nella
noia dell'infanzia alimenterà peruna vita quanto produrrai, buono o meno
chesial....] I nutrimenti terreni avranno un bel essere
filtrati in parole, in segni e colori, in note, in spettacolo, il
loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne sei stato scelto, e tu
sei quello che essi ti hanno fatto, la tua libertà non può consistere che
nell'essere loro fedele sino alla fine, libertà di adesione non di
ripudio, e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento e il
tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo assecondamento
della sorte che essi ti hanno assegnato, in obbiettivazione in cui il
loro oscuro sgorgo, la loro inconscia matrice, si chiarisce nell'opera,
nel segno formato e consegnato all'oggetto che ti rivela agli altri
e in cui assumi responsabilità di confessione e di 10
proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal fare al pensare e dal
pensare al fare che definisce una identità intuita come destino e
accettata come scelta. Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i
nutri- menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è anche
vero che “una immagine retrospettiva di sé è sempre un’interpretazione
che porta il peso della mutata identità dell’interrogante, del penoso
carico di nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi [...] e ogni
interpretazione, specialmente nell'impegno auto- biografico, è anche una
falsificazione”, per quanto cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica
quanto la “disgustosa e mimetica” confessione personale.
Giusto nel mezzo, fra le due citazioni del 1946 e del 1980, nel
1960 (è il caso di ricordare che è il tempo della svolta neodada e pop
che mette in crisi e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più
con- vinti), Galvano mostra d’avere di questo destino ironica e
malinconica ma anche dura consapevolezza. Del fallimento egli tesse un
sistema, secondo i miti di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni”
dal Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae? [...] Il
punto si identifica [...] con questo estremo di coscienza contraddetta e
irritata: la certezza che la via senza uscita dell’arte oggi non ha [...]
nemmeno l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma
soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a un impegno
individuale, quasi di una scommessa con la propria intelligenza e con la
possibilità e i limiti del nostro stesso temperamento!”. Diventano
così esemplari l’ultima e penultima produzione di Galvano pittore, alla
quale viene dedi- cata in questa mostra una intera sezione, iniziata
verso la fine degli anni ’70 con i ciottoli le foglie i frutti, i
relitti, proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi,
le macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di
archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi, generi e
maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi comuni!). Ma già muovevano
nella stessa direzione ireos e cespugli d'inizio ‘70 — tracce che
regrediscono attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare —
e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella seconda metà dei
‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così via: tutte figure emblematiche,
primarie e coltissime, che niente hanno a che fare con la
semplificazione, la banalizzazione pop. La pittura ivi
coincide con la costruzione delle im- magininominabili (nona caso
varianti dell'icona della cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi
contesto, su un fondo bianco che è il segno di una definitiva
separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la pittura è
automatismo oggettivo, registrazione fredda della emozione costruttiva
(se non creativa): infatti presentata tipicamente come nodo, descrizione
dell’a- 23 A. Galvano, La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi,
cit. »m®) da cor. 4 È "ut me rematori) E ua
Br su : Pa ù LE a Con Gorza a
Palazzo Te, Mantova zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare,
0 dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine
scattata, credo, alla galleria Martano). Ma è tutta la vicenda di
Galvano pittore e critico che val la pena di ripercorrere in mostra, sia
pure per cenni e con discutibili tagli. Danotarel’uso ch'egli
fa dell’insegnamento casora- tiano: del maestro, Galvano non assume
passivamente il “platonismo”, consapevole che il rapporto di Felice
con la pittura è dal principio e resta nel tempo un rapporto “decadente”,
che diventa eticamente “sano” e formalmente “classico” solo per un atto
di volontà tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire
critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la scelta di
Galvano. Che il travestimentosia storicamente giustificato su un modello
rispettabilissimo come quello gobettiano, non vuol dire che la sua
sostanza più vera non debba essere riconosciuta nonostante,
attraverso la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo profondo,
’malato”ma straordinariamente vitale. 11 Del Galvano
degli anni’30-inizio ‘40, sarebbe da approfondire l’espressionismo — che
del resto condivi- de con altri della sua generazione: Nella
Marchesini, Paola Levi Montalcini, Piero Martina, Italo Cremona,
Carol Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che peso abbia avuto,
localmente, Spazzapan che esaltava l'ispirazione e deprecava l'istinto
(viene in mente la teoria di Klages, che insiste sulla attrazione
magnetica traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima ispirata e
creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla volontà decidente e
dotata di facoltà riflessiva che è dello spirito”); e anche Carlo Levi,
l’unico dei Sei che partecipi intimamente all’espressionismo europeo,
e, fuori sede, i romani, Scipione in particolare al quale Albino
dedicò una bellissima recensione nel ‘40, che è lo stesso anno della
prima edizione del Casorati. In un saggio intitolato Perché non
possiamo non dirci crociani, in “Numero”, 3, 1953, Albino Galvano
sottolinea che la sua generazione “decadente” deve a Croce specialmente
questo: d'essere stata messa nella condizione di “accettare senza
malafede e senza rimorsi i dati di quella cultura di tardo
romanticismo che, così feconda quanto a ricchezza e sottile
sensibi- lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata inca-
pace di una sistemazione totale... [insomma di poter essere] decadente
malgrado Croce, grazie proprio al riscatto che il metodo crociano
offriva”. Che è un modo ottimo anche per comprendere come coerenza
di sistema e incoerenza pragmatica siano in Galvano strettamente
congiunte in dialettica tensione: la co- erenza consistendo nella
allarmata coscienza critica, nella responsabilità che non può consentirsi
“nessuna comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni scelta
un esito che, per quanto imperfetto, è sempre compromesso e
rappresentativo. Come a dire che la vitalità della ricerca costituisce un
valore, non meno che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente
rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà di essere identici
al proprio destino”. Perciò Galvano non intende, tanto meno come pittore,
tagliare i ponti col passato (il suo passato, oltre che la storia);
invece semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi dire
fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento il cammino sia
ripercorribile o almeno riconoscibile, ma anche sostituibile. Egli, in
effetti, sa che nulla va distrutto e non consuma sacrifici liberatori.
Per lui in particolare (adatto il titolo di un importante saggio
del ’63), La sublimazione astrattista non liquida l'erotismo del Liberty,
semmai ne prende le distanze, per poterlo rimettere in circolo, come in
un processo alchemico in perenne rinnovamento. Così Galvano
passa necessariamente da un con- cretismo geometrizzante, che di fatto
ironizza — ma non banalizza - la geometria come privilegiata ma-
24 A. Galvano, Per un'armatura, Lattes, Torino 1960, pag.
87. nifestazione della razionalità e della chiarezza, ad un
concretismo informale che libera la possibilità di una pittura scritta
usando il campo come tabula rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può
scorrere ed intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il
suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla scoperta di una
ritmica, di una metrica essenziale. Come adire che è nella pittura
(nell'arte) chesi realizza, assumendo evidenza di mito visivo — feticcio
laico — l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste e
moralismi ideologici. Un momento certamente fondamentale,
sarei tentato di dire il perno sul quale ruota il resto è quello
attorno al’60: quando la “natura” del gesto s'incontra felicemente conlo
schema, generando una concrezione araldica, l'intenzione simbolica con il
simbolo ricono- sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante
della tradizione dell’ornato, raccolta e riavviata dal Liberty: insieme
puro gesto e automatismo assolu- tamente impuro. In questa mostra, il
momento avrà adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano si
guarda bene dal protrarre artificiosamente quel momento (diciamolo pure,
straordinario, quasi senza confronto in Italia), tanto che si prenderà
negli anni immediatamente successivi, dal ‘62 al ‘65 circa, una
pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi teorici che
culminano in Artemis Efesia, per riprendere il filo (la matassa) della
pittura con proposte (in appa- renza) assai differenti: le bandiere, i
nastri, 1 padiglioni, gli anelli di Moebius. Che cos'è la
pittura per Galvano, allora? Scrive di lui nel 1974 l’amico /
avversario Giulio Carlo Argan, che ha scommesso sul progetto
ideolo- gico, vincente almeno per un certo periodo storico: “Egli
non risponde una volta per sempre, con una definizione filosofica:
infatti ciò che vuol sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa
condizione della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale
sia il suo grado di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in
uno spazio ogni giorno più ristretto”. Non gli si potrebbe dar
torto, se non fosse che proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera
come atto critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e
anche la sua testimonianza sapienziale, che trascrivo da una
autopresentazione del 19822: “Dunque [la pittura], una meditazione
sulla morte imminente [...] o il recupero della gioia ottica nello
spazio ripercorso in termini di colore e di luce, sia pure della luce
irreale della memoria e del sogno? O la scenografia di ambigue emersioni
dall’inconscio? Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi
le domande. Forse anche soltanto la monotona iterazione
25. G.C. Argan, in catalogo della personale, Galleria Unimedia,
Genova Galvano, Autopresentazione, in catalogo della mostra, Piemonte
Artistico Culturale, Torino 1982. 12 di una passione
per il dipingere, che ripercorre con insistenza sigle che non è più
capace di vivificare colla curiosità e il gusto avventuroso della
giovinezza”. Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere
presenza di pittura e non illustrazione di concetti. Pittore concettoso,
a volte, mai concettuale nel senso di illustratore di concetti :
aggiungo,nel segno di una ine- ludibile, per quanto mascherata vocazione
poetica.” Devo citare, almeno una volta, Edoardo Sangui-
neti, allievo e amico, grande estimatore di Galvano: “Mi trovo [...]
forzato a pensare che, alle radici del lavoro di Galvano, come artista e
come studioso, stia un'immagine — è la parola giusta — che accenna
all'uomo come animale che è capace di immagine. E dunque un’antropologia
fondata sopra la facoltà della visione”, In formula perfetta,
a conclusione di Storicità e significato dell’arte astratta (1953), Galvano
aveva già precisato:“L'opposizione affermata da Mallarmé tra la
concretezza della vue e l’allusività delle visions, l'affermazione di
Alain che il poeta è l'opposto del visionario perché sa di non vedere
sino a che la mano non abbia realmente costruito nello spazio
l'oggetto che la passione progettava, sono divenute nella co-
scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta tra il peso della
memoria e la libertà pericolosa di una iniziativa tutta affidata al
risultato”. F. Garimoldi, nel saggio più volte citato”, sottolinea che
Galvano pone come centro dell’arte “l’insoluto rapporto fra
espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente collocato sulla linea
romanticismo-simbolismo come la vede Albino?), citando una
autopresentazione del La seconda parte di questo scritto
elabora liberamente tre miei testi: in ordine cronologico, Témoignage de
notre dignité, in Fi- gure d'Arte, artisti a Torino dagli anni ‘50, a
cura di A. Balzola, R. Cavallo, E. Ghinassi, P. Mantovani, Alberti ed.,
Pescara 1991; A proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il
Novecento. Albi- no Galvano, 1907-1990, a cura di M. Pinottini, Bulzoni
ed., Roma 2004; Albino Galvano pittore, catalogo della mostra, Galleria
del Ponte, Torino, 2010. 28 E. Sanguineti, Contro la ragione,
“La Stampa”, 10 marzo 1990. Un libro singolare, dove Sanguineti è figura
nodale nella messa in circolo della “linea liberty” ancora nella seconda
metà del ‘900; li- nea che Casorati, Cremona, Mollino e Galvano avevano
mantenu- ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è
L'altra faccia della luna — Origini del neoliberty a Torino di Elvio
Manganaro, Libria ed., Melfi 2018. Al libro citato devo la conoscenza di
un te- sto di Galvano: Processo alla pittura in “Il Selvaggio”, 15
novembre 1938, che dà originale contributo alla interpretazione della
vicenda artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio
che separa le Uova del 1914 da quelle del 1920, o tra l’”Icaro senza ali
e le ali senza volo del Sogno...”, di Casorati naturalmente, perché
proprio Casorati era “appartenuto paradigmaticamente ai due mondi [...]
quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque”... (E.
Manganaro, L'altra faccia della luna, cit., pagg. 168-170). 29 A.
Galvano, Storicità... cit., 1953. 30 EF Garimoldi, A. G. Progetto
di una nuova cultura, in Omag- gio..., cit., pag. 15.
‘77%:"Si dà arte solo quando il non differente operare a fini
strumentali o di puro edonismo è impedito e stravolto dai sedimenti di
una vicenda individuale che s'insinuano e dominano dove pretendeva
condurre il gioco la razionalità del progetto decisionale. A que-
sta condizione in ogni tempo si è cercato di opporre la dignità
dell’autocontrollo [...], certo vanamente, ma anche proficuamente perché
[...] la possibilità di coinvolgere gli altri [...] non consiste se non
nel pun- tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale
traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante in cui
l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed emblema”.
Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, 1988. Nota
bibliografica La discutibile scelta di privilegiare la
pittura come via di accesso alle molteplici attività di Albino
Galvano, obbliga a segnalare gli autori che hanno af- frontato il caso
con particolare intelligenza e puntuale cultura filosofica.
E. Sanguineti, in catalogo Antologica, 1979; R. Tessari, nello
stesso catalogo, e Galvano e il mito, in Figure d'Arte, cit. 1991; G.
Carchia, Prefazione a Arte- mis Efesia, nella riedizione del 1989, cit.;
P. Fossati, F. 31 Autopresentazione, mostra personale, Galleria
Weber, Tori- no 1977. 13
Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della mostra al Circolo
degli Artisti, cit. 1992; A. Balzola, Galvano e D'Adda: l'immagine
matrice, in Figure d'Arte, cit. 1991; G. Gallino, pagg. 27-46 e F. Salza,
Albino Galvano e Jung, in“ Attraverso il Novecento”, cit. 2004; A.
Ruffino, Introduzione in Albino Galvano — Diagnosi del moderno, cit.
2018. A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Paolo Fos-
sati, con riferimento prevalente agli anni Sessanta e Settanta,
presentando Omaggio a Albino Galvano nel 1992; e le memorie che in circa
trent'anni di colloqui — non di rado centrati su Casorati, Cremona e
Galvano — ho potuto raccogliere da Gino Gorza, l'unico artista di
generazione successiva che per cultura e gusto potesse essere accostato a
Galvano. Fu proprio Gino a volere una mostra comune — con il
significativo titolo di Sincronie — a Mantova in Palazzo Te, nel 1988;
riannodando il filo della presentazione che Albino gli aveva
dedicato dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo.
Ricordo all’inaugurazione del 1988 la presenza di Francesco Bartoli,
documentata anchein una fotografia dove il geniale interprete di Licini
sembra inchinarsi al geniale interprete di Artaud. Più recentemente,
sempre al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata
anche l'occasione per rievocare la figura di Galvano con Roberto Tessari.
Anche Tessari è mancato. Prova di ritratto Uomoriservatissimo,
comea volte chi non si neghi alla mondanità, anzi se la imponga come
esercizio. La leggendaria disponibilità (senza ombra di
debolezza) realizza una delle forme più aristocratiche dell'etica (per
discrezione in maschera di rigore pro- fessionale). Essenziale un fondo
di malinconia, come misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia
per una totalità irreversibilmente frantumata. Tra distacco
soggettivo e oggettiva commozione scorre l’impurità di un continuare a
vivere, si scrive in tracce stenografiche il diario di un sedotto ... e
di un seduttore per forza (di un gentiluomo piemontese).
Sensualissimo lettore; scrittore capace di costruire macchine
logiche come trebbie di tortura, e di avvolgere in sontuose inestricabili
ragnatele (costante una specie di dolcezza, cui tanto meno resistono
rigidi baluardi): trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione
è ignobile, specialmente d'incapace. Come un dovere coltiva
il diletto: su questo piano potrebbe essere magistrale se non fosse
troppo fine e pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la
pittura rappresenta il “concreto”. Distratto semmai da irridu-
cibile curiosità, non è mai astratto. Ireos, sassi e conchiglie
sigillano una storia so- stanzialmente coerente, perché osano confronto
con il principio e la fine: così su una pietra tombale si posano
cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo.
Omaggio a Albino Galvano Catalogo mostra antologica,
Palazzo Chiablese, Torino, 1979. Catalogo mostra antologica, Circolo
degli Artisti, Torino, 1992. Atti del convegno, a cura di M. Pinottini,
Torino, 1997. Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino,
Aragno editore, 2018. Electa Piemonte
ATTRAVERSO IL NOVECENTO: ALBINO GALVANO (1907-1990)
a cura di Marzio Pinottini BIBLIOTECA DI
CULTURA / 657 BULZONI Galvano: la fedeltà alla pittura
Luca Motto Il magistero casoratiano e la prima
figurazione Galvano nacque a Torino l’anno d'esecuzione delle Demoiselles
d'Avignon di Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle
avanguardie: « che nel bene e nel male problematico
[...]dovevanocaratterizzare, inconcomitanza concrisi umane, politiche e
sociali ben più gravi, ilnostro secolo sino a porre oggi il problema
della “morte dell’arte” qualunque cosa si intenda sottolineare con
questo termine apocalittico»!. Galvano pur muovendosi nel solco
della modernità, affondava le sue radici in una meditata e personalissima
assimilazione di riferimenti pittorici dell'Ottocento e del primo
Novecento, ben lontano dalla reazione e dall’inattualità.
Apparteneva all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il
centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclu- de — la cosa è
molto torinese — rapporti amichevoli o per lo meno corretti con gli
avversari»?. Nel decennio 1918-1928 venne segnata la tempe-
rie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di seguito enunciata
in pochi assunti utili a comprendere l’ambiente artistico nel quale il
giovane Galvano s'in- trodusse: la comparsa di Felice Casorati alla
Promotrice del 1919 come artista rivoluzionario e di rottura; la
«breve esistenza » di Piero Gobetti e il suo cenacolo antifascista; le
polemiche e la reazione dell'ambiente cittadino alle scelte di «gusto»
antinovecentiste di Lionello Venturi rivolte all'arte di nuovi
«primitivi», gli impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei
Sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e Venturi)che rinunciarono
a «Roma madre» per «Parigi amica»; e la vitalistica apertura culturale
europea del finanziere, collezionista e mecenate Riccardo Gualino.
Dopo un precoce apprendistato con il pittore Giovanni Pisano e il
maestro di disegno Vannini, l'educazione di Galvano all'arte
contemporanea si svi- luppò suriviste di settore (in
particolare”“Emporium” e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione
delle Biennali veneziane. Alla rassegna del 1928 Galvano poté
osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati che rappresentò «la
scoperta del mondo nuovo e spre- giudicato che si apriva alla nostra
cultura: l'ingresso del mondo “moderno”»*. Al termine del
1928 si iscrisse alla Scuola Libera di Pittura di Casorati (sorta a
Torino nel 1921 e struttu- ratasi maggiormente dal 1927 nella nuova sede
di via Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino) e la
frequentò fino al 1930. Il suo magistero, lontano da
1. A. Galvano, Autobiografia, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura
di), Albino Galvano, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Re- gione
Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi futuristi», in A. Galvano,
Dia- gnosi del moderno. Scritti scelti 1934 - 1985, a cura di A.
Ruffino, Nino Aragno editore, Torino 2018, p. 344. Albino
Galvano (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri)
Filippo Scroppo, Daphne Maugham, Rina Galvano, Danila Cremo- na, Felice
Casorati, Carol Rama, Leopoldo Bertolè, Valpellice 1949. «Ogni
sistematicità d'accademia»°, non fu solamente estetico ma anche pregno
dell'eredità etica e politica gobettiana: un debito verso quel «fanciullo
puro» che esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto
fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par- tecipe di un
ambiente che lo salvò «tanto dal rischio di un'adesione acritica al regime
imperante [...] e da quello ben più grave [...] di un'immersione o
som- mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che amava in
pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento del «platonico» Casorati, pervaso
«d’una signorile severità», verteva su l’«insieme» e il «tono».
Dalla monografia Felice Casorati di Galvano (1940, editore Hoepli,
Milano) si legge che il Maestro consigliava agli allievi di «imparare a
vedere il più semplicemente possibile [...] la forma di quella
determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto» [...]. La forma serve qui
a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*. Il clima
della scuola di via Galliari fu efficacemente narrato da Lalla Romano ne
Una giovinezza inventata: «Verso sera venivano sovente visite: Alberto
Rossi, Mario Soldati, Carlo Levi. Levi ridacchiava — con noi —
sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gli allievi più ambiziosi
preparavano un bozzetto per il quadro. Rideva ma affettuosamente. C'era
una base culturale comune: il disprezzo per il fascismo».I nomi
citati sono solo una parte delle personalità con cui Galvano, all’inizio
degli anni Trenta, instaurò un duraturo rapporto amicale sulla via del
confronto artistico, tra gli altri: Paola Levi Montalcini, Sergio
Bonfantini, Riccardo Chicco, Italo Cremona, i Sei e 5
P. Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo”, 27 dicembre
1921. 6 F. Casorati, in “Il Mondo”, Galvano, Autobiografia Galvano,
Felice Casorati, cit. pp. 369, 371. O) L. Romano, Una giovinezza
inventata (1979), Einaudi, Torino Argan, ma anche Carlo Mollino,
Massimo Mila, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli. La pittura
postimpressionista di Galvano del decennio Trenta e fino al 1945 si
orientava in un «con- traddittorio intento di tenere insieme i valor
plastici di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato «pesante e
impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista stesso!°. Anche una
certa l’arte d'oltralpe praticata da stranieri fascinò Galvano (Maurice
de Vlaminck, Ko- stia Terechkovitch, Christian Krog), mentre i
rimandi nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai
tonalisti romani. «Quei loro mezzi [...] misi sfasciava- no ed
intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele d’accatto o esperimenti di
lettura, ed enorme riusciva la dispersione e la perdita di
tempo»"!. Un repertorio antinovecentista di temi
iconogra- fici ricorrenti segnò quel periodo: «pesci, molluschi,
conchiglie, vecchi libri accartocciati, crocefissi e acquasantiere barocchi,
nudi tortili come molluschi e paesaggi incerti tra quegli andamenti
sinuosi e un modesto cezannismo che era nell’aria»!“. Galvano
s’inserì nel circuito espositivo nel 1929, anno in cui le arti si
avviavano verso la loro fasci- stizzazione di forma con l'istituzione del
Sindacato Fascista a cui venne affidato il compito di gestire le
manifestazioni espositive periodiche sul territorio nazionale. Il
rapporto con la società artistica di un Novecento sarfattiano (a un passo
dallo smantella- mento definitivo) e della retorica celebrativa di
Stato era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento. A
Torino Galvano esordì nell'alveo casoratiano in due mostre della scuola
nel 1929 e nel 1930. Dal 1930 al 1942 furono regolari le sue presenze
alle espo- sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più
sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte (1931, 1932,
1934). Il critico Emilio Zanzi, in una recensione riguar-
dante un'esposizione di vendita torinese del 1934, sagomava i tratti
pittorici del giovane Galvano: «[...] sfuggito anzitempo alla disciplina
rigorosa della scuola di Casorati. Il Galvano in certe composizioni
di nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente pittura del
Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della pennellatona agile ed abile,
cara passione di qualche post-impressionista»". Alle
rassegne di carattere nazionale Galvano prese parte alla I e alla Il
Quadriennale romana (1931 e 1935) dove vi fu una discreta rappresentanza
torine- se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato
(Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio Bonfantini, Emilio
Sobrero), Daphne Maugham, A. Galvano, Autobiografia cit., p.18.
11 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Giostra, Asti
1952. 12. Ibid. 13 E. Zanzi, in “La Gazzetta del
popolo”, 1934 16 Albino Galvano e
Filippo Scroppo alla I Mostra Internazionale dell'Art Club, Palazzo
Carignano, Torino 1949. parte dei Sei (Carlo Levi, Francesco
Menzio, Enrico Paulucci), Giulio Da Milano, Umberto Mastroianni,
Italo Cremona. Alla Biennale di Venezia del 1930 Galvano presenziò con
un’opera nella stessa sala di Casorati e allievi, mentre nell'edizione
1936 espose isolato (a Gigi Chessa scomparso nel 1935 venne
dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e Paulucci comparivano
attigui). In questo periodo sono da indagare infine le par-
tecipazioni alle quattro edizioni del Premio Bergamo (1939-1942). Fuuna
manifestazione, insieme al Premio Cremona, che svelò la dialettica artistica
italiana: due componenti antitetiche dello stesso volto del regime.
Il primo (promosso da Giuseppe Bottai), più elitario, «si riallacciava a
un versante dell’arte italiana colto, internazionale e
post-impressionista»!* suscitando polemiche nell’ala più intransigente
del fascismo; il secondo (voluto da Roberto Farinacci) era
sintonizzato sull'onda delle mostre hitleriane. AII Premio
Bergamo del 1939 (in giuria Casorati, Funi, Longhi e Argan) il terzo
riconoscimento venne suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava
la presenza romana di Giuseppe Capogrossi e quella piemontese con
Menzio, Paulucci, Galvano e Piero Martina (era presente anche Nicola
Galante, non premiato). Al secondo Premio Bergamo del 1940 Galvano
ricevette una particolare menzione e il suo dipinto fu acquistato dal
Ministero dell'Educazione Nazionale. Galvano espose anche alla terza
(1941) e alla quarta edizione (1942, vincitore l’intimista Menzio),
la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso, reinterprete drammatico
e rabbioso di un’iconografia mutuata dal sacro: anticipazione in chiave
cubista della militanza postbellica. Il ventennio
Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo:
arte in I talia intorno agli anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo,
Electa, Milano 1993, p. 58. tre il compimento della
formazione intellettuale di Galvano che si laureò nel 1938 (con Angiolo
Gambaro e Nicola Abbagnano) con una tesi sulla pedagogia della
religione: primo atto dell’approfondito con- fronto con le tematiche
spiritualiste, antropologiche e filosofiche (in primis l'influenza di
Benedetto Croce e Henri Bergson). Tra le sue prime prove di
critica d’arte si possono menzionare il breve scritto del 1932 su Armando
Spa- dini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio del 1934 su
Luigi Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il periodico milanese
“Le arti plastiche (1933) e la reda- zione delle cronache d’arte torinese
per “Emporium” (1938-1942). Si ricordano inoltre i volumi del 1938
(per l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica, L'arte
dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia orientale; la
monografia Felice Casorati edita da Hoepli (nel 1947 uscirà una seconda
edizione) e Tre nature morte: Casorati, Menzio, Paulucci pubblicato a
Torino nel 1942. Fu assistente alla Cattedra di pittura di
Paulucci all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino nel 1942 e
da quell’anno, fino al 1978, insegnò storia e filosofia negli istituti
liceali. Tra inumerosissimi allievi con i quali mantenne profondi legami
si ricorda in particolare Edoardo Sanguineti. Dalla fase
espressionista verso l'astrattismo 1945-1951 AI termine del
conflitto bellico per Galvano e gli artisti della sua generazione
s'impose il confronto con l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna
non è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo, ma
quella che di voler essere moderna ha program- matica intenzione! [...]
Che assume come categoria predicativa l'affermazione di “novità” rispetto
ad una situazione di cultura storicamente conclusa. [...] Il
concetto di moderno si chiarisce, così come un concetto “etico” [...] per
cui l'avversario non è un modesto o nullo artista, ma il traditore di una
causa totale, il reazionario che non merita pietà e al quale non
giova la buona fede». Queste lucide affermazioni di Galvano aiutano a
delineare un settore della sua linea di pensiero che contribuì ad animare
il vivace dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel
compatto blocco culturale che, tra il 1945 e il 1947 tentò una
ricostruzione «morale e civile» della società. La posizione politica di
Galvano dopo la Liberazione fu abbastanza distante dall’ideologia
estetica del fronte comunista. L'urto «non era tanto fra tradizione
e innovazione, anche meno tra astratto (o concreto) e figurativo
[...] ma tra militanza “costruttiva” ed autonomia “critica” [...]»!9.
15 A. Galvano, Moderno, in Enciclopedia Universale
dell'Arte, vol. IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia 1963. 16 G.
Mantovani, Il malessere dell'arte, in A. Galvano, La pittura, lo spirito
e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante edizioni,
E; Negli anni postbellici il complesso confronto- scontro
con Croce era ineludibile e la posizione di Galvano (sviluppata in anni
più tardi nel fondamen- tale scritto Perché non possiamo non dirci
crociani, 1953) merita qui qualche breve accenno. L'intuizione
pura, come atto teoretico astorico, non poteva prescindere dalla
soggettività dell’«opera manuale». La polarità non sussisteva tra il
bello crociano, simbolo del bene morale e il suo opposto, quanto tra lo
«spirito» (il momento razionale - contemplativo) e il «sangue» (il
principio vitale inconscio che in ultimo concretizza l’opera con il
linguaggio scelto). Scriveva Galvano nel numero unico del periodico
“Tendenza” (1946, coideato con Pippo Oriani): «Questo bisogno del sangue
che ignora l’astratto spirito e gli anatemi e le accuse di “naturalismo”
degli idealisti o quelle di “immoralità” degli spiritualisti è essenziale
all'opera di pittura. Essa cade o sussiste con il sangue non con
lospirito»!. L'attività di critico d’arte seguitò in quegli anni anche su
quotidiani come “La Nuova Stampa” (nel 1946) e “Mondo Nuovo” (nel 1947 e
1948). Tra il 1945 e il 1949 la pittura di Galvano si aprì ad
una fase espressionista slargandosi e semplifi- candosi in campiture
bidimensionali dai contorni lineari marcati e attraverso l’uso di un
cromatismo timbrico. In un testo di autopresentazione del 1952
l'artista esplicò: «Così quando, intorno al 1941, Guttuso guardando a
Picasso, Birolli e quelli di “Corrente” sbirciando l’espressionismo,
diedero altro indirizzo alla pittura italiana, mi trovai in ritardo
rispetto a quei coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me,
e con un bilancio piuttosto negativo. [...] Tentavo così una
soluzione in un breve periodo di esasperazione “espressionistica” del
segno, dove l’“illusivo” si tra- sformava in “allusivo” a quelle immagini
che potevo considerare mie». Galvano puntualizzava inoltre di
essere stato tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-
ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che allora fu aspramente
rimproverato da certi critici (A. Podestà) come incomprensibilmente
anacronistico ma che almeno come recupero critico, rappresentava
un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di moda un ventennio
più tardi». Nella Torino della Ricostruzione gli spazi
esposi- tivi erano esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi con
una libreria come per esempio la Galleria Faber, dove Galvano nel 1945
partecipò ad una Antologica di Maestri contemporanei. Alla personale di
Galvano del 1946 presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di
fronte ad un artista dalle varie esperienze», denotava
Torino Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in
“Tendenza”, n.1, 1946. 18. A. Galvano, Galleria la Giostra
cit. 19 A. Galvano, Autobiografia Gatto su “L'Unità”, e proseguiva:
«riesce spesso a lievitare le acquisizioni culturali ed a tradurle
in efficienti risultati creativi». Il molteplice approccio stilistico,
confessato dallo stesso Galvano nell’auto- presentazione del 1979, è qui
confermato: «leggero impressionismo, decorativismo un po’
orientale, [...] motivi che tendono a risolversi in figurazioni
quasi astratte». La fase pittorica più recente, concludeva Gatto,
«pare indirizzarsi verso una pittura dominata da una volontà ed un’ansia
di sintetismo formale»?. Alla Biennale di Venezia del 1948 (la
prima edi- zione al termine del ventennio fascista nella quale
emersero le linee essenziali degli sviluppi dell’arte moderna europea)
Galvano partecipò su invito con cinque opere (nudi e nature morte del
1947-48) in sala con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu
parecchio vasta la partecipazione di artisti torinesi sulla via
dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico, Franco Garelli, Gino Gorza,
Paola Levi Montalcini, Umberto Mastroianni, Mattia Moreni, Adriano
Parisot, Carol Rama, Filippo Scroppo. All’edizione del 1950, nuova-
mente su invito, Galvano fu presente con tre opere (in sala con Birolli,
Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato, Vedova, Zigaina). Nel
quadriennio 1948-1951 si registrarono nume- rose partecipazioni
dell'artista a rassegne nazionali di verifica diretta degli sviluppi
artistici contemporanei, tra cui la Quadriennale romana del 1948 e la
mostra collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio-
nale d’arte moderna di Roma nel 1951(il comitato ese- cutivo era composto
da Joseph Jarema, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan). Il testo di
Galvano in catalogo analizzava la ricerca concretista propria e dei
torinesi verso una direzione lontana dal «formalismo astratto» insenso
stretto e intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle strutture
dell'oggetto stesso di una carica emotiva, che asua volta presuppone la
totalità spirituale dell'artista impegnato, ed impegnato
“responsabilmente”, in una prospettiva, in una scelta, in una
“Weltanshaung”, cioè in ultima analisi in un punto di vista etico e
metafisico [...]. Non può perciò stupire che anche a Torino siano
proprio gli artisti più responsabili di fronte a un loro mondo interiore
a volgersi a questa pittura. Superfluo cercar nel dato estrinseco del
gusto un’unità “munici- pale” o di gruppo: se mai l’unità “torinese” di
questi pittori è nella condizione di cultura cui lo stesso schivo
etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città in cui essi
lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate, propizia»”!.
Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali del 1951. In
occasione della mostra nizzarda, Peintres de Turin, Galvano definì forme
e colori delle sue com- 20 S.Gatto, Mostra d’arte.
Galvano al Bosco, in “L'Unità”, 31 mag- gio 1946. 21 A.
Galvano, in Arte astratta e concreta, catalogo della mostra, Galleria
Nazionale d’arte moderna, Roma 1951. Con Enrico Paulucci, Albino Galvano
e Filippo Scroppo. Confe- renza al Circolo degli Artisti, Torino
1967. posizioni come «feticci laici», «costanti di
sentimenti e impulsi» che non necessitavano di riportarlo «a una
rappresentazione esteriore e imitativa». «La topografia spirituale di questo
mondo che non è né meccanica né architettonica, ma piuttosto organica e
determinata soprattutto dalla tensione tra le forze elementarie
vitali pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o me-
tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle nello spirito
delle tradizioni filosofiche e religiose alle quali nei miei quadri
faccio a volte allusione anche attraverso i titoli stessi».
Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina d'Ampezzo) il critico
Luigi Carluccio seguitava di rimando: «[...] L'artista si è portato
sempre su posi- zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il
dialogo fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni. [...] Il
temine “feticcio laico” [...] annota con felice incidenza che all'origine
degli impulsi e dei sentimenti è sempre vivo lo stesso dibattito tra la
pressione vitale di forze elementari, naturali, e l'aspirazione ad
ordinarle in una ragione metafisica»?3. Il rivolgersi
all'arte d'oltralpe (già a partire dalla mostra Arte francese d'oggi,
Roma e Torino 1947) ebbe degli echi a Torino con le sei edizioni della
rassegna Pittori d'Oggi Francia- Italia (1951-1961) promosse da
Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima (1951) e alla terza
(1953), così come figurava ai due Premi Saint Vincent (1948-1949) messi
in piedi dalla fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-Carluccio,
in Mostra Nazionale del Premio Parigi 1951, cata- logo della mostra,
Cortina d'Ampezzo 1951 e Parigi Con Chessa e Matteis.
azione al Premio Torino del 1947, troppo polarizzato a sinistra
secondo il critico. È di vitale importanza ricordare infine il
ruolo di Galvano come animatore culturale nel clima di fermento
postbellico, dapprima impegnato attivamente come promotore dell’Unione
Culturale (sorta nel 1945, raccolse intellettuali antifascisti tra
cui Giulio Einaudi, Massimo Mila, Franco Antonicelli, Lionello
Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio, Levi) e nel 1949 come
propugnatore di due rassegne artistiche: la I Mostra Internazionale
dell'Art Club a Torino e la Mostra d’arte contemporanea di Torre
Pel- lice. La prima — con presidente Casorati e segretario Scroppo,
organizzata dalla sede torinese dell'Art Club, un'associazione apartitica
internazionale — mirava a presentare le nuove voci artistiche
italiane e di diversi stati esteri. La seconda, aveva sede a Torre
Pellice, che «pur nella modestia delle proprie possibilità, possiede,
come centro delle Valli Valde- si, una secolare tradizione di cultura che
ha i suoi particolari caratteri di pensiero e di ispirazione»”4.
Era stata ideata insieme a Filippo Scroppo, artista e critico valdese,
(nativo della Sicilia ma inseritosi dalla metà degli anni Trenta
nell'ambiente cittadino) e da Leopoldo Bertolè notaio e illuminato
collezio- nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea —
appuntamento estivo annuale protrattosi per un 24 Mostra d'arte
italiana contemporanea, catalogo della mostra, Collegio Valdese, Torre
Pellice 1949. 19 quarantennio al quale Galvano
espose assiduamente—trasformòla cittadina della provincia torinese
in un polo culturale aggiornatissimo sulle ricerche artistiche nazionali
e con qualche non rara puntata internazionale. Il Movimento Arte
Concreta 1952-1955 Il «confuso ribollire di tendenze
astratteggianti»?, che imperava tra il 1947 e il 1951, andò
delineandosi verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in
favore del concretismo. Una lucida definizione della corrente venne
offerta da Gillo Dorfles in uno scritto del 1951, il così detto manifesto
del Movimento Arte Concreta, (MAC) fondato a Milano nel 1948
insieme a Bruno Munari, Gianni Monnet e Atanasio Soldati. Dorfles
precisava il concetto di concreto «che non cer- cava di creare delle
opere d’arte togliendo lo spunto o il pretesto dal mondo esterno e
astraendone una successiva immagine pittorica, ma che anzi andava
alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base del
dipinto senza che la loro possibile analogia con alcunché di naturale
avesse la minima importanza»”. L'adesione formale al MAC di Galvano
eun gruppo di giovani torinesi — Annibale Biglione, Adriano
Parisot, Filippo Scroppo e in seguito Carol Rama e Paola Levi
Montalcini — avvenne nel 1952. A Torino il coagulo del Movimento
rappresentò una sfaccettata unione di poe- tiche, abbastanza distante dal
rigore costruttivista delle soluzioni compositive lombarde che fondava le
sue basi nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli
anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare la presa di
coscienza sulle radici dell'avanguardia delle personalità torinesi e ci
si limita al solo caso di Galvano. Nel 19471] distacco di Galvano
dal comitato promo- tore del Premio Torino (la prima manifestazione
locale di arte attuale italiana dopola fine della guerra)non avven-
ne solo per posizioni politiche. Come chiariva Giuliano Martano, nel
catalogo della mostra Arte concreta a Torino 1947-1956, per una parte di artisti
si trattava di una scelta di «lettura in quelle matrici dell'avanguardia
europea [...]quasiin contrapposizione alle matrici trovate allora
in un neonaturalismo e del “Fronte nuovo delle arti”»”. Per Galvano
e il discepolato della scuola di Caso- rati, alla quale riconoscevano la
creazione di «una terra concimata pronta a recepire, stratificazione di
cultura altezzosasevogliamo, maattenta[...]. Aveva purelasciato
ineredità una figurazione latente, una scansione dell’og- getto che verrà
dai torinesi lentamente e sofferentemente decantata»°. Unosmarcamento,
dunque, intotalebuona 25 T.Sauvage, Pittura italiana
del dopoguerra 1945 — 1957, edizio- ni Schwarz, Milano 1957, p.
129. 26 G. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a
Torino 1947 — 1956, catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino
1970. 27, G. Martano, in Arte concreta a Torino 1947 — 1956
cit. 28. Ibid. pace del Maestro, che anche Galvano
intraprese: la via verso l’astrattismo ben circoscritta e lineare.
La sua poetica, tra i torinesi, era la più distante dal concretismo
«proprio perché non è mai d'origine speri- mentale ma la sua
“avanguardia” si pone sempre come una verifica dello sperimentalismo. Si
pone insomma come contrasto immediato fra una realtà esterna [...]
ed una realtà interna quasi avida di controllare im- mediatamente sul
terreno stesso dell’accadimento, la validità dell’accadere, e di
controllarlo appunto in via sperimentale»? Gli aspetti
strettamente contenutistici della pittura di Galvano della prima metà
degli anni Cinquanta erano in diretto contatto con i suoi interessi in
quanto studioso di filosofia e storia delle religioni.
Andreina Griseri notava che gli entusiasmi per il Kandinskij volto
all’astratto e per il primo Kupka giungevano «a una presa di posizione
nell’ambito dell’arte non figurativa, chiarita in numerosi scrit-
ti, in cui il Galvano lumeggia la derivazione dalla secessione di Klimt
di molta arte contemporanea in una interpretazione nuova dei rapporti art
nouveau- Liberty e astrattismo»?°. Degli scritti galvaniani degli
anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo almeno: Storicità e
significato dell’arte “astratta” (1953), Dal simbolismo all’astrattismo
(1953), Le poetiche del Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo
(1956). Gli intendimenti del manifesto del MAC torinese del
1952 furono piuttosto netti. Più in generale erano incontrapposizione con
il dibattito dilagante in quegli anni che scindeva gli artisti tra
formalisti e realisti, con- tro il neopicassismo ed estranei al «pudore»
del com- promesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello
localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione dall’orbita
casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei e dal secondo futurismo con il
quale condividevano lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli
in- tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono il testo
programmatico, con la responsabilità di «lotta contro ogni conformismo
pigrizia intellettuale». «Se il nome stesso di “arte concreta” [...] sta
a significare il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con
tradizioni storicamente esaurite [...] per sostituire la loro ricerca
d'una diretta “presentazione” di oggetti in cui si vengano obiettivando i
bisogni spirituali dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro
quo- tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali [...]»®.
Galvano, pur immerso in una personalissima ricerca non figurativa,
nel periodo che all'incirca si estende tra il 1952 e il 1954,
sviluppò una maggior 29. Ibid. 30 A. Griseri, Albino
Galvano, in Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino 1957. 31.
A. Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con- creta” n.
9, 15 novembre 1952, ora in L. Caramel, Mac Movimento Arte Concreta 1948
- 1958, Electa, Milano 1984, p. 58. 20 adesione al
MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato dall'andamento curvilineo
delle partiture, si popolò di forme squadrate dalla linearità spigolosa.
Tutta- via, la freddezza costruttivista e il rigore logico del
concretismo erano solo apparenti; l'artista puntava al contrario «ad
un'arte che preservi il dialogo tra gli schemi astratto-geometrici e
quelli compositivamente più liberi, moduli grafici e forme archetipiche
non direttamente razionalizzate»”. Un precoce avvicinamento
ai concretisti lom- bardi lo si data già al 1950. Galvano fu presente
a Milano in due collettive: con Filippo Scroppo (1950, presentati
da Gianni Monnet) presso la Libreria Il Salto, cenacolo della pittura
concreta milanese e alla Terza mostra di pittura astratta italiana.
Astrattisti milanesi e torinesi allestita alla Galleria Bompiani
(1951, dove esponevano i piemontesi Costa, Davico, Mastroianni, Parisot,
Scroppo, Spazzapan). I mag- giori rappresentanti della corrente di entrambe
le regioni figuravano, Galvano compreso, anche alla II e III Mostra
d’arte contemporanea di Torre Pellice del 1950-51.
L'allineamento al MAC di Galvano fu palesato anche dalla sua
presenza ad esposizioni promosse dal gruppo. La sortita d'esordio dei
torinesi (Biglio- ne, Galvano, Parisot, Scroppo ai quali si
aggiunsero anche Mario Davico, Mario Merz e Ugo Giannattasio)
avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra Pittori
astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu però la prima presenza
organica del concretismo in città poiché già nel 1950 presso la Galleria
il Grifo si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come alla
Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove comparve una nutrita schiera
di astrattisti tra cui anche Galvano. Commentando la mostra presso
Gissi, sul bollettino “Arte concreta” n. 9, Galvano esibiva la profonda
sicurezza di una non superficiale accoglienza nell'ambiente cittadino e
rilevava la sfaccettatura di posizioni della compagine torinese che
collimavano in una base comune di principi. «Principi che possono
riassumersi in una profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad
esprimersi e a comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro
linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la coerenza ch’esso sa
imprimere ad un discorso i cui vocaboli non hanno bisogno di essere
immagini e finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei
casi più felici, poetica»®. La politica espositiva del gruppo
torinese non 32. L Mulatero, in P. Mantovani, I.
Mulatero (a cura di), Lucide inquietudini. Storie singolari
dell’astratto-concreto tra il '50 e il ‘70, Civico Museo d’arte
Contemporanea di Calasetta, Calasetta 2016, p. 26. 33 A. Galvano,
Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla Saletta Gissi, in
“Arte concreta” n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac Movimento Arte Concreta
1948 — 1958 cit., pp. 58-59. Con un'opera dalla serie
i Nastri. ebbe seguito se non l’anno successivo alla
Galleria 5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata da
Galvano che figurò in svariate mostre organizzate dal MAC, si ricordano
qui le principali: Pitture di Albino Galvano in un esperimento di
sintesi, presso lo Studio b24 di Milano nel 1953 (valla pena
rimandare agli «asterischi» galvaniani di quel periodo, quasi
«privati manifesti» sui bollettini “Arte concreta” n. 12 e 14 che
chiariscono la sua posizione all’interno del movimento) e lo stesso anno
a Torino da Gissi esposero pittori concretisti italiani e francesi
(Gal- vano presentò collages polimaterici di ascendenza
prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo Galvano fu presente ad
una mostra allestita dallo Studio b 24 in occasione del Salone
dell'Automobile. Si menziona a parte la collettiva presso la
Galleria il Fiore di Milano del 1954 dove Galvano espose insieme a
Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello scritto introduttivo al
catalogo elaborò stringenti analisi nei riguardi di un’«arte figurativa
che non ripeta ma continui la natura», invitando il visitatore a
riflettere «che l'apparente chiusura ad una più ovvia comunicazione di
queste opere nulla intende precludere alla possibilità di uno scambio e
di una penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una
21 lettura figurativa per elementi, segno colore, mo- vimento,
materia, ecc., non differenti da quelli che consentono la valutazione di
ogni buona pittura»*. Non sono da dimenticare infine le presenze
alle Biennali veneziane del 1952 e del 1954 con la sua produzione
concretista e la ripresa espositiva alle rassegne della Società
Promotrice di Belle Arti di Torino (1951, 1953, 1954).
Dall'Informale al neoliberty floreale 1955- 1965 Il «logico
passaggio all’astrattismo»” di Gal- vano culminò tra il 1952 e il 1954 in
una fase di «tensione tra impaginatura attenta alle squadra- ture
neoplastiche e colore tonale impastato». La vibrazione cromatica delle
campiture, ottenuta attraverso una libera stesura di pennellate, lo
portò a un lento e graduale sfaldamento delle sue strut- ture
geometrico-architettoniche a favore dell’indi- pendenza dell'immagine e
al protagonismo di una componente espressiva. Sul piano formale il
gesto pittorico si faceva emancipato e l’organicità della materia
riprendeva vigore. Si segnò qui il definitivo passaggio di Galvano
all’Informale, lontano dall’interpretazione del neona- turalismo
propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli (è proprio nel 1955 che furono
presentati a Torino i giovani artisti informali presso la Galleria La
Bussola nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che
rivelava la volontà di mantenere una continuità con il passato e la
natura). L'evoluzione del concretismo impose a Galvano (e
alla compagine torinese del MAC) un binario doppio di direzioni che
nonsiindirizzò all’antipittura quanto piuttosto alla scelta di rimanere
«dentro la pittura» nell’opzione di un astrattismo lirico che lo
condurrà verso l’Informale. Un Informale, sosteneva Galvano, affine
alla «declinazione di un linguaggio asemantico in cui tuttavia potessero
trovare esito quelle allusioni simbolistiche che già avevano un posto ben
rivelato dai titoli dei miei quadri del periodo astratto-concreto
Rica pe Una delle prime esposizioni che offrirono un Galvano
smarcato dall’astrattismo di matrice con- creta fu la personale (undici
opere del 1954-56) alla Biennale di Venezia del 1956 mirabilmente
introdotta da Giulio Carlo Argan. «La radice comune della sua
pittura [...]è la distinzione netta tra i concetti di forma e immagine.
L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come rappresentazione,
implica sempre un contenuto di nozioni, un riferimento alla natura,
un 34 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema,
Parisot e Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano
1954. 35 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20. 36 A.
Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo cit. 37 A.
Galvano, Autobiografia cit., p. 20. processo dioggettivazione.
L'idea diimmagine supera ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività
costante di quod significat e quod significatur; mira a designare
un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap- presentazione
un'immediata semantica». Seguitava Argan: «La sua è la ricerca di un'immagine
che non abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo esterno,
che non si manifesti per via di similitudini o allegorie, che dichiari
esplicitamente le sue origini e le sue ragioni esclusivamente umane, che
si ponga ad un tempo come noumeno e come fenomeno. [...] Così la
materia, non la forma, diventa mito ed immagine; e la materia è il
colore, ma anche il segno, la linea, il punto». Nel 1957
Galvano venne invitato da Carlo Lu- dovico Ragghianti per una personale
alla Galleria La Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione
l'artista tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la
coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano condotto
all’Informale. La «formazione spirituale» si era compiuta, esplicava
Galvano, «attraverso la mia adesione alle correnti non figurative, a
quel- l'inversione” del simbolismo nell’astrattismo che ho cercato
di spiegare storicamente in sede critica. Perciò a Kandinskij e al Kupka
del 1913 [...] agli americani Pollock e Tobey, ai polimaterici di
Prampolini. [...] L'unico germe di “manifesto” è quello sul
“feticcio laico”. “Feticcio” cioè metafisica, ma “laico” cioè an-
timetafisica”. Credo si possa essere antimetafisici solo nella misura in
cui si è contro le false metafisiche. Nel caso dell’arte contro la falsa
“ispirazione”, l'evasione sentimentale...»°. Tra il 1956 al
1962 il mezzo informale di Galvano virò verso accezioni neoliberty. La
copertura totale della tela della prima fase si distillò per mezzo di
uno sfondo neutro solcato da grafismi pittorici orientati sempre
meno verso un'immagine quanto in direzione di archetipi floreali e
calligrammidi scrittura gestuale. Galvano recuperava, seppur
allusivamente, attraverso una nuova definizione di immagini, la
figuratività «trasformando o meglio puntualizzando i ‘feticci
laici” in “emblemi”»‘° esplicitati in forme larvali di iris, i fiori
paradigmatici del Simbolismo. Sul finire del decennio Cinquanta e
fino al 1965, oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi
e alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la puntata
alla collettiva berlinese presso la Maison de France del 1957, le
partecipazioni al V Premio Bergamo dell’anno successivo, ai Premi
Arezzo (1960) e Fiorino. (Firenze 1960) e alla Quadriennale romana
del 1963. Di particolare rilevanza in quel periodo furono
38. G. C. Argan, in catalogo dell’ XXVIII Biennale di
Venezia, Venezia 1956. 39 A. Galvano, in catalogo della
mostra, Galleria La Strozzina, Firenze 1957. 40 A. Galvano,
Autobiografia cit., p. 20. 22 Nel
1972. due mostre. La personale del 1960 presso Galleria Il
Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti che così ultimava il
suo scritto: «I fiori Mallarmé ci costringono anche a riguardare di nuovo
in faccia la posizione dell'artista las que la vie étiole, portando
cosìla pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto
importante, di smascheramento dell'avanguardia, nella forma, secondo le
possibilità “moderne” di uno “estraniamento”»*!. Nella collettiva
(Galvano, Scroppo e Levi Mon- talcini) alla Galleria il Quadrante di
Firenze, Gillo Dorfles, accogliendo gli enunciati di Sanguineti,
alluse altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture di
Galvano che avevano: «accolto nella loro matrice compositiva quasi il “vuoto”
il sunyata di certa arte zenista, purrimanendo lige a una composta
scansione di ritmi dell’Abendland»”. Pittore dunque in «senso
tradizionale» si definiva Galvano che ricusava le forme antipittoriche,
schiuse alla strada dell’arte-oggetto (della quale si interessò in
sede teorica), per abbracciare una «simulazione d'avanguardia». Un
profondo disagio lo condusse, tra il 1962 e il 1965, a compiere una pausa
dalla pittura causata probabilmente dal cortocircuito innescato a
causa di intendimenti antitetici perseguiti dal parallelo mestiere di
critico e di artista. Come rimarcava Argan: 41 E.
Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Il Canale, Venezia
1960. 42 G. Dorfles, Tre pittori torinesi, in Albino Galvano, Paola
Levi Montalcini, Filippo Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il
Qua- drante, Firenze 1962. 43 A. Galvano, Autobiografia cit.,
p. 21. Con Filippo Scroppo. «la confluenza dei due
percorsi di pensiero (e la sua pittura è tutta pensiero) sono difficili e
interiormente sofferte[...]»*. Assumono infine un ruolo
fondamentale nella produzione saggistica di Galvano i due volumi
pubblicati in quel periodo: Per un’Armatura (Lattes, 1960) e Artemis
Efesia. Il significato del politeismo greco (Adelphi, 1966). Sono opere
difficilmente classificabili che attingono alla filosofia, alla storia
delle religioni, alla psicoanalisi e all’antropologia. I due studi
affron- tano il problema dell’interpretazione sia culturale che
psicologica di un passato che ci coinvolge direttamente e sono al tempo
stesso «processo di autoanalisi in me- rito al rapporto tra una
figura-feticcio — un’armatura tardomedievale e un idolo greco — e l’area
psichica della coscienza». Il decennio 1955 -1965 fu
certamente per Galvano la fase più feconda di collaborazione con
periodici e riviste tra cui le torinesi “Sigma”, “Cratilo” e come
redattore di “Questioni” (già “Galleria di Arti e Lette- re”)con Vincenzo
Ciaffi, Mario Lattese Oscar Navarro per l'editore Lattes. Una menzione a
parte merita il 44 G. C. Argan, in catalogo della mostra, Galleria
Unimedia, Genova 1974. 45M. T. Roberto, Albino Galvano,
Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Milano 1988.
contributo Le tigriimpagliate (1959) peril primo numero della rivista
“Azimuth” fondata da Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Per
“Letteratura” nel 1960 Galvano pubblicò La pittura a Torino dal ‘45 ad
oggi, un lucidissi- mosaggio che inquadrava, da testimone diretto,
l’arte torinese del dopoguerra. Successivi furono i notevoli
contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui: Per lo studio
dell'Art Nouveau a Torino (1960), Torino e i “secondi futuristi” (1962) e
il più tardo La pittura a Torino all’inizio del secolo ?°.
Bandiere, Nastri, «Griffonages» e Segni asemantici 1966- 1974
Nel 1966 con l'esposizione Erbe e Bandiere, presso la Galleria
Botero di Torino, Galvano sentì «il bisogno di affiancare e poi
sostituire gli emblemi ispirati alla natura con quelli di carattere
artificiale più spogli e tendenti in qualche modo a una nuova
astrazione». In mostra le forme organiche dai tratti guizzanti
dell'ultimo Informale di Galvano furono accostate, in un felice trait
d'union, con la nuova produzione attraverso la serie delle Bandiere. In
uno scritto critico perla suddetta mostra Gilda Chepes sottolineava:
«Le sue erbe alghe, le sue flammulae, più che bandiere, sembrano,
ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti, da spasimi da aneliti, da
desideri»**. L'artista perseverò nella coerenza linguistica
della sua ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti, non
si collocò in un'immediata e netta inserzione in correnti o gruppi
operativi. Gli estesi panneggiamenti svolazzanti dai colori accesi che si
stagliavano su fon- di neutri riecheggiavano quasi un'antica
tradizione araldica. I riferimenti pittorici non erano di certo
estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella sua declinazione
decorativa, rammentando inoltre suggestioni neobarocche. Un commento di
Carlo Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante di
Galvano dipinta degli anni Quaranta, potrebbe restituire puntualmente le
atmosfere delle recenti Bandiere espresse in uno: «scenario di questo
tempo immobile nella chiara decisione di un arabesco che non si
placa che in un ordine senza indulgenza, ma vivo di un amore
disincantato»? Furono ancora le Bandiere ad essere esposte
nel 1968 per una personale a Cremona alla Galleria d’arte I
Portici. Gli stendardi svolazzanti davano la prova di una profonda
conoscenza degli allora attuali linguaggi pop e forniscono anche un
«grave riverbero di anti- chità» rendendo l’immagine «imminente e
insieme assente che par scelta e fabbricata per un pubblico Tutti
gli scritti qui citati sono reperibili in A. Galvano, Dia- gnosi del
moderno, cit. 47 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.
48. G. Chepes, in “Borsa Arte”, 1966. 49 C. Mollino, in S.
Cairola, Arte italiana del nostro tempo, 1946. senza tempo e
d’ogni tempo [...]. Proprio per questo [...]è significante perché carica
di intenzioni contrad- dittorie e fortemente drammatiche, nella
dialettica che stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e
la necessità del presente»”. Dal1968Galvanosirivolse alla
nuova serie pittorica dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo
sviluppo formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato
geometrico si sostituì con una figurazione elementare di armonica
tridimensionalità sull’estensione della tela. Le masse sventolanti e
libere, nelle quali si evidenzia una ben nota propensione per l’ellissi e
il semicerchio, proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.
Giuliano Martano asseriva appunto di un'«astrazione intellettuale, in cui
i segni, i ghirigori, sono veri e pro- pri simboli codicillari, incognite
d’equazione, libertà della memoria. [...] Nastri che si dipanano nel
quadro senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese a
brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da circonlocuzione
diventa interlocuzione»?”!. Presso la Saletta d'Arte contemporanea
di Cu- neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione
elementare di volute concave e convesse di recente produzione, che si
palesavano, secondo Giorgio Brizio, «dall’uso parco e strettamente
pensato delle timbrici- tà cromatiche. Basandosi su toni primari,
operando esclusivamente sulla opacità della parte in ombra, Galvano
può, in una suddivisione doraziana dell’in- fluenza tonale, usare la
direttrice cinetica del timbro per equilibrare il dinamismo globale della
partitura spazio-occupato, spazio-vuoto»”. Nel 1974 la
personale alla Galleria Martano di Torino assunse il significato di una
ricapitolazione, dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si
erano evoluti, tra il 1973 e il 1974, in forme dall’aspet- to cellulare e
in moduli verticali e curvilinei. Tracce realizzate a carboncino,
impreziosite da lievi velature scariche di colore, campeggiavano
solitarie sulla tela; la dimensione gestuale fu affiancata
dall'espressione intellettiva dell'atto primario del dipingere.
Questi moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-
figurativa «appaiono anche maggiormente legati ai dettami grafici di una
cultura passata attraverso “quell’inversione del simbolismo
nell’astrattismo” [...] che riaffiora con l’organicità delle sue forme
così tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a quella
logica interiore che resta come la matrice vera di ogni opera di Galvano»”.
Lostesso anno una sala personale della 25° Mostra d'arte
contemporanea di Torre Pellice venne dedicata a 50 E. Fezzi, in
catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici, Cremona 1968.
51. G. Martano, Albino Galvano, in “Pianeta”, 1968. 52. G.
Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte contempo- ranea, Cuneo
1972. 53. A.Dragone in “Stampa sera”, Galvano che vi espose una
ventina di opere. L'artista presentò efficacemente al pubblico la sua
recente svolta pittorica: «ho sentito il bisogno di logorare la
forma, di intercettarne la presunzione di organicità, sgranan- done
il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su cui il colore nonagisse
più come elemento qualificante ma soltanto come sottolineatura allusiva.
[...] Come nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione di
estroversa aggressione della percezione dello spet- tatore si avvicendava
una fase di ripiegamento sulla discrezione, sulla riserva, sultono
contenuto». Coevi furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto
asemantico lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro
segno e gioco lineare [...] non senza un, fra ironico e intenerito,
strizzar l'occhio al “concettualismo”»59. Sempre nel 1974 si ebbe
la personale genovese alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti
imple- mentò la troppo riduttiva definizione del Galvano “doppio”,
critico e pittore, trascendendo anche nella saggistica e nella filosofia
e invitando a vedere «con totale persuasione [...] la forza della sua
lezione [...] rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e
sopra le sue tele». Il discorso si reiterava anche nello scritto critico
di Argan che chiudeva con un interro- gativo dal quale Galvano non si
discostò mai: «Che cos'è la pittura?». «Ciò che vuol sapere è che cosa
sia la pittura in questa precisa condizione della cultura, della
coscienza, dell’esistenza, e quale il suo grado di vitalità, quali le sue
possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni giorno più
ristretto»”. Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e
il 1974 si ricordano infine le puntuali presenze a collettive con cadenza
annuale come la Promotrice delle Belle Arti e le mostre del Piemonte
Artistico e culturale di Torino; le rassegne estive di Torre
Pellice e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri
a Bordighera Dal 1975 si reimpose per Galvano un nuovo approccio rivolto
alle forme naturali: la ripresa di una figurazione espressionista pervasa
d’un realismo quasi visionario e il fascino recuperato, come
confessò lo stesso artista, per le gidiane «nourritures terrestes».
Galvano sembrò sentirsi quasi responsabile d'un tradimento verso la
pittura allorché, per coerenza, operò una «sintesi tra l’ele- mento
naturale e il non figurativo che gli consentì 54 A.
Galvano, Personale di Albino Galvano, in 25° mostra d’arte contemporanea,
catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pel- lice 1974.
55 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21. 56 E. Sanguineti,
in catalogo della mostra, Galleria Unimedia, Genova 1974. 57
G.C. Argan, in catalogo della mostra Galleria Unimedia, cit.
SZ Nella bottega dell'antiquario.
un'impaginazione astratta servendosi di forme non inventate, non di
natura cerebrale ma veramente esistenti», Riemerse, con la
serie dei Cespugli (fino al 1977 circa), la fascinazione per i cespi di
iris, tema dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta non
più giocato con la «gestualità irruente» del colore spremuto direttamente
sulla tela, eredità del linguaggio informale, ma attraverso un sedimen-
tato approccio di sottili velature di pittura a olio utilizzata come
gouache che si rifaceva alle delicate tinte dei moduli di qualche anno
precedenti. Gli sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-
mente da segni grafici e scritte che sembrarono dischiudere uno spiraglio
perfino alla poesia visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi
la- vori — esposti in una personale del 1977 presso la Galleria
Weber di Torino — a parlare di «archetipo floreale» dove «il fiore
dell’iris scandisce l’intrico dei segni, grafismi di parole o di
immagini, altre volte rigidamente modulari o, almeno non anco- ra
piegati all’allusione significativa. ‘“Cespugli” Spinardi, in catalogo
della mostra, Piemonte Artistico e Culturale, Torino perciò in
contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico asemantico” e dei griffonages
che li avevano, verso la fine del 1974, preceduti»®?. Dal
1978 e fino al concludersi del decennio seguì la serie dei Motivi
vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti). La riappropriazione di una
rappresentazione ottica- mente realistica fu solo apparente; il candore
neutro dei fondiesaltava una suggestione di tridimensionalità
attraverso la scansione prospettica degli oggetti. Tali elementi solitari
erano estraniati dal loro contesto naturale e inseriti negli spazi
illusori di questa pittura d’assenza. Sul cadere diogni
riferimento a contenuti simboli- ci «o anche solo sentimentali» della
pittura di Galvano, ne scrisse Renzo Guasco in un testo che
introduceva lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata
a Torino nel 1979 dalla Regione Piemonte. Tali opere, per Guasco, «non
sono più emblemi né simboli che rimandano a un ulteriore significato. Per
essi si può forse parlare di “sospensione di senso” (per usare un
termine di Barthes), di un muto stupore di fronte alla vita e alla
natura. Le foglie morte e i relitti di Galvano rifiutano il significato,
e quindi ogni commento, o spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un
cespuglio spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono
les feuilles mortes»®. Con avvio del decennio Ottanta ne i
Paesaggi (Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una stesura
cromatica che spesso occupava l’intera tela con un conseguente recupero
dell'effetto tonale. Gli spazi desolati, le «muse inquietanti», che
Galvano propose in questa fase suggerirono a Paolo Fossati richiami
alla pittura metafisica. «Luoghi, intanto, vuoti, svuotati di
allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote e silenti, per il
camminante che vi si ferma a pensare e meditare. Luoghi di pensiero e di
inconsci sofismi: con i relativi feticci oppure archetipi, teste in
gesso di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi acque per
Galvano»®!. L'artista in età avanzata, provato dalla
difficoltà dell’offuscamento della vista, con le serie di guazzi su
carta di Nudi e Macchie sperimentò infine, una pittura liquida fatta di
segni colantiin un'inversione di «sgor- bi cromatici di netta matrice
informale»? Nel 1988 confessava ai lettori del catalogo della Galleria
Micrò (una delle sue ultime mostre): «Ancora una volta ho voltato
gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio, Galvano, in catalogo della
mostra, Galleria Weber, To- rino 1977. 60 R. Guasco, in N.
Pizzetti e G. Givone (a cura di), Albino Gal- vano cit., p. 16.
61 P. Fossati, Per un omaggio a Galvano, in P. Fossati, F. Garimol-
di e M. C. Mundici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano, catalogo della
mostra, Circolo degli Artisti, Torino, Electa, Milano 1992, p. iz.
62 A.Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Micrò, Torino
1988. ma vorrei ricordare che vi è stata una mia stagione di
“eriffonages” [...] che a questi fogli ultimi molto si apparenta, anche
se là il segno prevaleva, monocromo [...]. Perciò dico a mia difesa — il
diritto di difendersi è sempre riconosciuto ai colpevoli — “versatilità,
ca- pricciosità sì, incoerenza no”»®. Molti furono gli spazi
espositivi torinesi che ac- colsero le personali di Galvano inquadrando
la sua ultima fase pittorica, tra cui: la Galleria Weber (1977), il
Piemonte Artistico e Culturale (1982), la Galleria Cittadella (1981 e
1984) e la Galleria Micrò (1988). Occasioni extracittadine rilevanti
furono presso la Galleria Morone di Milano (1979), la Galleria
Villata a Cerrina Monferrato (1980) e la bipersonale insieme a Gino
Gorza presso Palazzo Te a Mantova (1988). Si rammentano poi l’antologica
presso la Galleria La Cittadella di Torino con opere dal 1930 al 1950
(1976); la vasta esposizione del 1979 organizzata dalla Regio- ne
Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino che esplorava l’intera carriera
dell'artista (corredata da un notevole apparato critico in catalogo) e le
mostre retrospettive del 1989 e 1990 alla Galleria Accademia di
Torino. Costanti furono inoltre le partecipazioni a collet-
tive come alla Promotrice torinese (dal 1975 al 1979), alla Galleria
Martano (1976) e all'esposizione Torino tra le due guerre presso la
Galleria d’arte moderna di Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata
attenzione perlostoricizzato Movimento Arte Concreta, Galvano
figurò in svariate mostre a: Cavallermaggiore (1980), Torre Pellice
(1983), Gallarate (1984), Aosta (1987). Albino Galvano morì il 18
dicembre 1990 a Torino all’età di ottantatré anni. La
dichiarazione conclusiva sugli intendimenti di una pratica pittorica
perseguita per l'arco di una vita intera è affidata a Galvano stesso e
permette di afferrare almeno un aspetto di questa multiforme e
primaria figura di artista, critico e intellettuale italiano del
Novecento. «Di una sola coerenza credo di poter- mi vantare, ma è
coerenza che in qualche modo mi sequestra al di fuori di tanta arte
contemporanea: la fedeltà alla tela, al colore ai pennelli. In parole
povere ho sperimentato molto, forse troppo e troppo disper-
sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle ricerche di chi
avevarifiutato o cercato un'alternativa ai mezzi tecnici — che poi vuol
dire anche espressivi — di una tradizione che va dal Cinquecento agli
impressio- nisti, ai fauves, agli espressionisti. Fedeltà o
incapacità di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne
rivendico la responsabilità o il merito». 63 bid. 64
A.Galvano, in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova 1988.
26 Seconda metà anni Settanta.
Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito
e il sangue", 1988. Da discepolo a interprete. Albino Galvano
e Felice Casorati Alessandro Botta “Quando, a
vent'anni, mi presentai alla Scuola di via Galliari, cioè allo studio di
Felice Casorati, avevo dietro le incerte aspirazioni dettate da una
pretesa mia attitudine al disegno [...]. Poco, ma abbastanza,
insie- me alla passione per la storia dell’arte, perché seguis- si
con attenzione sulle riviste (specialmente “Empo- rium”) le Biennali
veneziane del 1926 e del 1928 che mi educarono al gusto per l’arte
contemporanea”. Con queste parole Albino Galvano apre la sua auto-
biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese del 1979,
definendo sin da subito le proprie origini di formazione e circostanze di
aggiornamento. Nato nel 1907, “anno in cui, con le Demoiselles’ di
Picasso, l’arte occidentale vedeva chiudersi il ciclo iniziatosi alla
fine del duecento”? si iscrive al liceo classico Cavour insie- me a
Giulio Carlo Argan (“eravamo vicini di banco”), e presto interrompe gli
studi per dedicarsi interamente alla pittura, seguendo inizialmente le
indicazioni di ar- tisti intercettati attraverso le conoscenze
familiari.‘ Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più
che seguire le letture e gli studi che il percorso scola- Stico gli impongono,
preferisce accrescere le proprie conoscenze con una formazione isolata,
fatta di letture personalissime: “Mi seppellivo cinque-sei ore al
giorno in biblioteca — sostiene in un'intervista —. Lì incomin-
ciai a leggere ‘La Critica’. Nel’25 avevo letto Bergson” 5 Nell’atteggiamento
che caratterizza il giovane artista, concentrato ad inseguire le proprie
passioni piuttosto che le strade già battute, si può forse leggere una
conti- nuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come maestro,
una decisione non così scontata in una Torino dove gli orientamenti
estetici erano ancora influenzati dall’in- gombrante figura di Giacomo
Grosso e dall’insegna- mento della paludata Accademia Albertina.
Galvano ha una fascinazione improvvisa verso l'artista torinese,
arrivata attraverso l'osservazione di- 1 A.
GALVANO, Autobiografia, in N. PizzETTI, G. Givone (a cura di), Albino
Galvano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chia- blese, 21 dicembre
1979 - 13 gennaio 1980), Regione Piemonte, Torino 1979, p. 17.
2 Ibidem. 3 G. C. ARGAN, Albino Galvano [presentazione], in
XXVIII Bien- nale di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, giugno -
ottobre 1956), Alfieri Editore, Venezia 1956, p. 213; “Non eravamo tra i
pri- mi della classe: troppe cose c'interessavano, che non avevano
nulla a che fare col programma, e ne discutevamo per interi
pomeriggi, dimenticando le versioni di latino e i problemi di matematica.
For- se quell’amicizia di ragazzi ci costò qualche esame a ottobre
ma, almeno per me, non fu un'esperienza inutile” (Ibidem). 4
Galvano parla di “un apprendistato presso il Vannini, ma- estro di
disegno a cui ero stato indirizzato dal pittore Giovanni Pisano amico di
famiglia, che avevo avuto spesso occasione di veder al cavalletto” (A.
GaLvano, Autobiografia [1979], cit., p. 17). ©) [Intervista di L.
Lanzardo ad A. Galvano], in P. Fossati, F. GarmoLpi, M. C. Munpici (a
cura di), Omaggio a Albino Galvano, catalogo della mostra (Torino,
Circolo degli Artisti, 23 gennaio - 1° marzo 1992), Electa Piemonte,
1992, p. 140. Ud Albino Galvano alla
mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino, 1979. Archivio Storico
della Città di Torino, fondo "Gazzetta del Popolo".
retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni del museo
cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli stesso
nell’autobiografia del 1952 — mi erano cioè pia- ciuti piuttosto i
bianchi di tempera con il rosso dei co- ralli o il cielo spugnoso del
bozzetto per il ‘Ritratto del- la signora Wolf” che il neoquattrocentismo
del ‘Ritratto della sorella’”.. Prime indicazioni attestabili dopo
il 1926, sintomatiche di un interessamento che si rafforza man mano
e che è destinato a diventare decisivo per il suo ingresso nella scuola
dopo la visita alla Biennale veneziana del 1928, nella quale Casorati
espone,” oltre ad otto dipinti, anche due statue destinate al
proscenio per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occa-
sione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni in ‘Daphne’ che
le pose ricercate dei nudi”. 6 A.GALVANO,
[autobiografia], in Albino Galvano, catalogo del- la mostra (Asti,
Galleria La Giostra, 1952), Asti 1952, p.n.n.; rela- tivamente ai dipinti
di Casorati citati si veda il catalogo generale dell'artista G.
BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale. I dipinti
(1904-1963), 2 voll., Allemandi & C., Torino 1995, nn. 188 (1922),
250 (1925). Da qui in poi citato come (Bertolino, Poli). 7 A.
GALVANO, [autobiografia] [1952], cit., p. n.n. Relativamen- te alla
Biennale del ‘28 scrive: “Quella del 1928 volli visitarla di persona e vi
fui impressionato specialmente da Felice Casorati, sicché decisi,
scoperto che abitava a Torino, di iscrivermi alla sua scuola.” (Ip.,
Autobiografia [1979], cit., p. 17). 8 Ibidem;inquell’occasione,
oltre al Ritratto di Daphne (1928) (Ber- tolino, Poli 328), Casorati
espone l’opera Ragazze dormenti (o Mozart) (1927) (309), ricordata da
Galvano nel suo racconto autobiografico. L'ingresso alla scuola,
avvenuto probabilmente verso la fine dell’anno o all’inizio di quello
successivo, lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, ac-
cresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo fondante di stretto
discepolato del suo studio “che sta tra l'accademia e il monastero” del 1921.!°
La “Scuola libera di pittura”, inaugurata nel 1927 in via Galliari
33, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro e allievi e li vede
impegnati come fronte coeso nelle esposizioni cittadine e
nazionali.! La serietà e la dedizione alla pittura sono le
ca- ratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla scuola: lo
si ricava dalle impressioni che risuonano con continuità tra i commenti e
i ricordi degli allievi che in tempi diversi affrontano l’alunnato
casoratia- no.! Galvano non fa eccezione: “L'accoglienza fu, come
era nel suo stile, di una signorile severità”.! Ma, al di là delle
incertezze iniziali, il maestro sem- bra essere più colpito dalla
spiccata vivacità intel- lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle
sue capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano
raccontando di se stesso — abbia avuto subito per l’uomo la simpatia e la
stima che poi sempre mi di- mostrò, forse assai più scarsa la fiducia
nelle mie possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a
intestardirmi e ad impegnarmi a fondo”! Tra la fine di ottobre e
l’inizio di novembre del 1929 lo scolaro “intelligente ma noioso,
predicatorio”, secondo il ricordo di Lalla Romano (anche lei
discepola di Casorati),'° presenta le sue opere per la prima volta
con il gruppo di allievi alla II Esposizione d’arte allesti- ta nello
studio di via Galliari. L'esposizione “intima”, alla sua seconda
edizione, è aperta al pubblico di inte- ressati (a visitarla, sono
perlopiù personalità del milieu intellettuale antifascista cittadino) e
vuol essere una “raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli
allievi nello scorso anno”.!° La prova generale della scuola non
sembra però garantire a Galvano l’accesso all’im- 9 Galvano, a
molti anni di distanza, fissa la sua presenza nella scuola “dalla fine
del 1928 a quella del 1930” (A. GaLvano, Auto- biografia [1979], cit., p.
17). 10 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino [1923], p.
91. 11 Perunostudiosulla scuola di Casorati e sulle vicende
espo- sitive della stessa si veda V. CavaLLaro, La scuola di Casorati,
tesi di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi
di Torino, 2012, relatore: F. Rovati; F. Poi, V. CavaLLaro (a cura
di), La scuola di Felice Casorati ed Andrea Cefaly, catalogo della
mostra (Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni, 26
ottobre — 26 novembre 2017), Rubettino, Soveria Mannelli 2017.
12 testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in C. Pianciola (a
cura di), Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola,
Aras Edizioni, Fano 2018. 13 A. GALVANO, Autobiografia
[1979], cit., p. 17. 14 Ibidem. 15. L. Romano, Una
giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979, p. 192. 16 E.
PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti Plastiche”,
16 novembre 1929, p. 2. Su questo argomento si veda A. BOTTA,
Felice Casorati nelle. minente esposizione alla Galleria Valle di Genova —
or- ganizzata probabilmente da tempo e inaugurata nel gennaio del
nuovo anno -, che vuol essere l’occasio- ne per riunire una selezione più
stretta degli allievi.!” Dovrà attendere ancora qualche mese, in
primavera, prima di assistere alla presentazione di un suo dipinto
(accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale del 1930.!* Riuniti
attorno al maestro, gli allievi di Casorati — otto in totale — occupano
la sala 30, attigua alla fortu- nata e discussa retrospettiva di
Modigliani ordinata da Lionello Venturi, che non manca di far nascere
alcune corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca-
soratiani. Da questo momento in poi Galvano incomince- rà ad
essere presente con continuità alle mostre della scuola. Una conferma che
arriva già a poche settima- ne di distanza con la partecipazione alla 88°
esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti con ben
quattro dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si regi- stra
tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di via Galliari,'
mentre nel gennaio del 1931 viene segna- lato come uno dei “casoratiani”
che espongono - que- sta volta senza il maestro — alla mostra torinese
degli “Amici dell’ Arte”. Se fino a questo momento le opere
di Galvano non sembrano sollecitare più di tanto l'interesse della
critica — forse perché il modello del maestro è troppo riconoscibile
nella sua pittura —, l'occasione della I Qua- driennale d'Arte Nazionale
di Roma del gennaio 1931 apre ad un interessamento che coinvolgerà da lì
in poi anche il giovane artista torinese, presente con il dipinto
Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista mi- lanese “La casa
bella”?! Galvano, ancora coeso al gruppo almeno fino al marzo
di quell’anno (la sua presenza è confermata in una mostra di “scuola”
allestita alla galleria Milano), Esposizione dei pittori Casorati, Bay,
Bionda, Bonfantini, Mar- chesini, Maugham, Mori, prefazione di G.
Pacchioni, catalogo della mostra (Genova, Galleria Valle, 20 gennaio - 3
febbraio 1930), Ge- nova 1930. 18. Sitratta del dipinto Paese
con un ponte; cfr. Catalogo XVII Espo- sizione Biennale Internazionale
d'Arte 1930, catalogo della mostra (Venezia, maggio - novembre 1930)
Venezia 1930, sala 30, n. 18. 19 Cfr. E. Pautucci, Cronache
torinesi. Scuola di Casorati, in “Le arti plastiche”, 16 gennaio 1931, p.
2. 20 Cfr.E. ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli “Amici
dell’Ar- te”, in “Emporium”, vol. LXXIII, n. 433, gennaio 1931. pp.
50-51. 21. P. Torriano, Cronache d’arte. Note alla I Quadriennale, in
“La casa bella”, marzo 1931, p. 57. Relativamente alla
partecipazione degli artisti piemontesi alla rassegna romana si veda L.
IAMURRI, Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi alla Quadriennale,
in M. Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica torinese e
politiche nazionali 1920-1940, catalogo della mostra (Roma, Galleria
Nazio- nale d'Arte Moderna, 16 dicembre 2004 - 13 febbraio 2005),
Electa, Milano 2004, pp. 58-60. 22. Cfr. Bay, Bionda,
Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati, Galvano, Levi, Maugham,
Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del- la mostra (Milano, Galleria
Milano, 1° - 15 marzo 1931), Milano Copertina del catalogo della mostra
alla Galleria Milano, Milano 1931. incomincia a dar segni di
cedimento rispetto allo sta- tuto casoratiano e nei confronti della
scuola. Un di- Stacco progressivo che si rende evidente nell'esercizio
Stesso della pittura, che lo vede ricercare una propria indipendenza e
nuove vie di espressione. La Promo- trice del 1931 diventa per lui un
terreno di confronto nel quale presentare le più recenti ricerche,
filtrate at- traverso nuovi modelli nel frattempo subentrati e ma-
turati, chiariti con lucidità — a distanza di anni — dallo Stesso
artista: Mi affascinavano il tentativo di ricostruzione
formale del mio maestro e, contemporaneamente e contradditto-
riamente, gli esiti dell’impressionismo e postimpressio- nismo, sia nelle
loro accezioni originali sia nelle riprese locali dei Sei e, in genere,
la pittura di colore e di tocco, ovviamente legata a una visione
naturalistica. Nel du- plice e, in certo senso, contraddittorio intento
di tener Insieme i valori plastici di Casorati e quelli cromatici
dei Sei il risultato diveniva naturalmente pesante, impasta- to,
anche perché subivo fortemente l'influenza di una certa pittura francese
[...], o meglio di una pittura che si faceva in Francia spesso da
stranieri, [...] che allora agli inizi degli anni trenta mi affascinava
dalle pagine di “L'Art Vivant”.® Assente il maestro, Galvano
è presente con tre ope- re. La Composizione con figura, in particolare,
riprodotta 23. A. Galvano, Autobiografia [1979],
cit., p. 18. 29 sia in catalogo che sulla rivista
“Emporium”,’° mostra gli esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi
dei post-impressionisti francesi e sulle proposte figurative dei
“Sei” (sciolti ufficialmente, come gruppo, proprio nel 731), che si
riconoscevano nella linea di rinnovamento dell’arte contemporanea
tracciata da Lionello Venturi.® Il passaggio, da questo momento in
poi, è breve. Complice un disfacimento generalizzato della scuola
stessa, il pittore, alla mostra degli “Amici dell'Arte” al- lestita
nell'autunno del medesimo anno, è considerato già da tutti un ex
allievo.?? Ma la sua fedeltà al maestro e l'amicizia che li lega lo
vedranno partecipare ancora ad una mostra di “scuola”, allestita nel
teatro di Pavia all’inizio del 1932. Accanto agli ex compagni,
Galva- no diventa una presenza eccentrica. Le sue opere, che
spaziano tra i generi (dalla natura morta al paesaggio), mostrano la sua
indecisione circa la strada da intra- prendere, alla luce delle più
recenti scoperte, passando “da l’espressionismo a l'impressionismo senza
un atti- mo di esitazione”. La “rottura” con Casorati — 0
presunta tale —, coin- cide con il suo esordio di critico e con il suo
avvicina- mento a Lionello Venturi, al quale viene introdotto dal
suo compagno di studi Giulio Carlo Argan.* Nel lu- glio del 1932 Galvano
pubblica il suo primo contributo sull’illustre rivista trimestrale
“L'Arte”, che a partire dal 1930 vede Lionello impegnato nella
condirezione accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio, pro-
fessore all’Università di Torino, apre il periodico al di- battito sulle
arti contemporanee, fino a quel momento escluso dai contenuti
tradizionali della rivista. Il saggio Armando Spadini e il gusto degli
impressionisti? mostra l'avvicinamento di Galvano alla critica
venturiana, già evidente nel titolo del contributo (che riecheggia il
più celebre volume del 1926)" e che si conferma nei conte-
nuti e nel soggetto stesso dell'articolo. 24 E. ZANzZI, Cronache
torinesi. Dopo ottantanove anni... L'Esposi- zione Interregionale della
Promotrice di B. A., in “Emporium’”, vol. LXXXIV, 443, novembre 1931, p.
307. 25 Alberto Rossi, sulle pagine de “L'Italia letteraria”,
sottolinea come Galvano sia ormai “teso a tutt'uomo alla ricerca di
costru- zioni personali” (A. Rossi, Una mostra interregionale, in
“L'Italia letteraria”, 12 luglio 1931, p. 4), mentre Emilio Zanzi, su “La
Gaz- zetta del Popolo”, rileva come la distanza -tra allievo e
maestro- sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico che
formale: “Il giovane Galvano - fa notare - sta liberandosi dai grigi e
dalle tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e
con gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz” (E. z. [E. Zanzil],
L'arte al Valentino. La terza Mostra regionale del Sindacato delle Belle
Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 14 maggio 1931, p. 6). 26 Cfr.e.z.
[E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori, ar- chitetti,
decoratori. La mensa degli avieri ideata da S. E. Balbo, in “Gaz- zetta
del Popolo”, 10 ottobre 1931, p. 7. 27, P.A.Sornini, Alla mostra
Casorati II, in “Il Popolo di Pavia”, 27 gennaio 1932, p. 3.
28 Cfr. A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17. 29
In., Armando Spadini e il gusto degli impressionisti, in “L'Arte”, vol.
III, nuova serie, IV, luglio 1932, pp. 318-331. 30 LL. VENTURI, Il
gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926. Accanto all'impegno
pittorico, piuttosto in crisi in questo periodo (“per una dozzina d'anni,
mi mossi un poco a casaccio”), Galvano intraprende gli studi
universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta che è dettata non
tanto dalla sua ben nota passione per le materie letterarie e filosofiche
o dalla sua curiosità innata, ma più semplicemente da “problemi
economi- ci” che lo obbligano “in fretta e furia a prendere una
laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti privati” La fine del suo
percorso di studi, che si conclude con una Tesi sulla pedagogia della
religione discussa con Angiolo Gambaro e Nicola Abbagnano, coincide
con la ripresa dell'attività di critico ma anche di saggista,” che
si fa particolarmente intensa a partire dal 1938 e che lo vede
collaborare con le riviste “Il Selvaggio” ed “Emporium”. AI
di là dell'abbandono della scuola di Via Gal- liari, Casorati resta per
Galvano un solido punto di riferimento, non tanto come esempio figurativo
o di pratica pittorica da seguire, ma come rappresentate di un
modello culturale autorevole e indipendente pre- sente in città. L'amicizia
tra i due, avviata alla fine degli anni Venti e riconfermata in più
occasioni, sembra in questo giro di anni intensificarsi ulteriormente,
antici- pando il sodalizio che porterà alla pubblicazione della
monografia per la collana “Arte Moderna Italiana” di Scheiwiller nel
1940, dedicata integralmente al mae- stro.” A partire dal
1938 (fino al 1942) incomincia a col- laborare con “Emporium” occupandosi
di curare la sezione Cronache torinesi del mensile. Questo nascente
incarico gli permette di affrontare e commentare l’atti- vità artistica
piemontese, confrontandosi con un uni- verso legato ad una rivista nota
ed ampiamente diffusa e discussa. Casorati è sempre presente nei suoi
articoli: viene seguito passo passo da Galvano sia nelle vesti di
pittore che di organizzatore culturale, offrendo in spe- cial modo la
propria attenzione all'impresa della galle- 31 A.GALVvano,
[autobiografia] [1952], cit., p. nn. 32. [Intervista di L. Lanzardo
ad A. Galvano], cit., p. 138. 33. Da ascriversi sempre al rapporto
con Venturi sono i tre vo- lumi di Galvano, apparsi a partire dal 1938
per l'editore Nemi di Firenze (L'arte egiziana antica [1938]; L'arte
dell'Asia occidentale e centrale [1938]; L'arte dell'Asia orientale [1939]),
pubblicati nella collana “Novissima enciclopedia monografica
illustrata”. 34 “Casorati [...] sapeva rispettare la
personalità dell'allievo anche quando non era affatto d'accordo sulla
visione dell’allie- vo. Infatti quei pochi che sono venuti fuori
tra i molti che c'erano - Bonfantini, Chicco, Paola Levi
Montalcini, ed io, ci siamo subito allontanati da Casorati pur restando
suoi amici, pur essendo sem- pre aiutati da lui sul piano pratico per
mostre ed esposizioni. [...] Ma la Montalcini ed io siamo passati negli
anni Cinquanta all’a- strattismo, poi all’informale, tutte cose che
Casorati... ma non ci ha mai tolto né la sua amicizia né la sua
protezione. In questo era veramente un grandissimo signore” ([Intervista
di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 141). 35 A. GALvano,
Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pittori - n. 4,
Ulrico Hoepli, Milano 1940. 30 ria “La Zecca”,
avviata dal maestro a Torino insieme a Enrico Paulucci in via Verdi
15.5 Se appare piuttosto chiaro come Galvano tenti — con i
mezzi a sua disposizione — di promuovere e so- stenere l’amico Casorati
nelle sue molteplici attività, il maestro, dal canto suo, cerca di
aiutare il suo ex-allievo nel suo percorso di pittore. È lo stesso
Galvano a di- chiarare apertamente, molti anni più tardi, come la
sua affermazione al Premio Bergamo sia in realtà frutto di un aiuto
arrivato dallo stesso maestro: “Casorati era molto potente [...] mi fece
accettare [al Premio Berga- mo], mi fece sempre dare qualche premio, per
cui mi trovai agganciato”. Presente con continuità dal 1939 al
1942, Galvano si aggiudica per ben tre anni i pre- mi in denaro del
concorso. Solo nella seconda edizio- ne non compare tra i vincitori, ma
la sua opera viene acquistata dal Ministero dell'Educazione Nazionale
a titolo di incoraggiamento. Il. Verso la fine
del 1940 è data alle stampe la mo- nografia “Felice Casorati” scritta da
Albino Galvano, apparsa per le edizioni Hoepli di Milano.* La pub-
blicazione si inserisce all’interno dell’ambiziosa col- lana “Arte
Moderna Italiana” inaugurata nel 1925 e coordinata da Giovanni
Scheiwiller, immaginata per raccogliere — uno dopo l’altro — gli artisti
italiani più noti del tempo, attraverso piccole monografie
illustra- te, introdotte da un testo critico che viene di volta in
volta scelto dall'editore o dall'artista protagonista del volume. In
questo caso, è infatti Casorati a suggerire il nome del giovane critico a
Scheiwiller, incaricandolo di aggiornare radicalmente la precedente
edizione di Raffaello Giolli, ormai vecchia di quindici anni.”
La piccola monografia di Galvano non si colloca, all’epoca, come
una novità di genere nella letteratura artistica del pittore, ma rientra
in un panorama già piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si
oc- cupano di fornire uno sguardo complessivo sull'intera
produzione raggiunta sino a quel momento. Il volume
36 Ip., La collezione Della Ragione, in “Emporium”, vol
LXXXVII, 520, aprile 1938, p. 220; Ip., Torino. Maccari alla “Zecca”, in
“Em- porium”, vol. LXXXIX, 531, marzo 1939, pp. 161-162. In.,
Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol. XC, 537, settembre
1939, pp. 161-163; Ip., Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”,
vol. XC, 538, ottobre 1939, pp. 203-204. 37. [Intervista di
L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138. 38. A. GALVANO, Felice
Casorati, cit. Per uno studio sulla mono- grafia si veda A. Botta, Albino
Galvano e Felice Casorati. La mono- grafia per la collana “Arte Moderna
Italiana” di Giovanni Scheiwiller, tesi di specializzazione, Università
degli Studi di Udine, 2014- 2015, relatore: F. Fergonzi. 39
R. Giotty, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pittori
- n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1925. lo studio di Giolli, infatti,
limitava necessariamente l'indagine sull'artista alla prima metà degli
anni Venti. di Gobetti del 1923,‘ che si propone come una
rico- struzione cronologica del percorso artistico (nonostan- te la
limitatezza della produzione casoratiana) apre la strada a numerosi
tentativi di interpretazione e ordi- namento dell’opera del maestro, non
limitati alle pub- blicazioni di carattere monografico (il caso
successivo — come si è detto — è quello di Giolli) ma
rintracciabili anche all’interno di contributi meno estesi che, a
par- tire dal saggio di Venturi uscito il medesimo anno su
“Dedalo”, diventano sempre più frequenti nei tempi a venire, anche sotto
forma di presentazioni nei catalo- ghi delle esposizioni.” La
critica contemporanea studia la produzione di Casorati secondo principi e
approcci molto differen- ti che, verso la metà degli anni Venti, tendono
a farla rientrare in quel processo di costituzione di un'arte
nazionale ufficiale: un’annessione ai “pittori del Nove- cento” (non
pienamente condivisa dall'artista) che sarà esplicitata nell'articolo di
Margherita Sarfatti apparso su “La Rivista Illustrata del Popolo
d’Italia” nel marzo del 1925* e che contribuirà a determinare una
lettura della pittura di Casorati divisa “tra estetica e lettera-
tura”, destinata a rimanere ancora per molto tempo identificativa del suo
lavoro. Intorno agli anni Trenta il lavoro di Casorati rien-
tra già nell'ottica di una ricostruzione storica più am- pia dell’arte
italiana ed internazionale: le pubblicazioni della Sarfatti, di Virgilio
Guzzi, di Vincenzo Costanti- ni, di Anna Maria Brizio e — poco più tardi
- di Ugo Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva
generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni con- traddittorie), ma
sono tutte piuttosto concordi a identi- 40 P. Gost, Felice
Casorati pittore, cit.. 41 L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in
“Dedalo”, IV, fasc. IV, Settembre 1923, pp. 238-261. 42 Ip.,
Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazionale
d'Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, aprile -
ottobre 1924), Carlo Ferrari, Venezia 1924, pp. 88-89; G. PACCHIONI,
Felice Casorati, in Exposition d'’artistes italiens contemporains, catalogo
della mostra (Ginevra, Musée Rath, feb- braio 1927), Stabilimento grafico
Foa, Torino 1927, p. n.n.; A. Rossi, Felice Casorati, in 21 Artistes du
Novecento Italien. Deuxième exposi- tion du Novecento italien, catalogo
della mostra (Ginevra, Galerie Moos, giugno-luglio 1929), Richter,
Ginevra 1929; M. BERNARDI, 25 opere di Felice Casorati nel salone de La
Stampa, catalogo della mostra (Torino, gennaio 1937), Tipografia del
giornale “La Stam- pa”, Torino, 1937, p. n.n. Per una ricognizione sulla
fortuna critica Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati:
profilo e antologia, in M. M. LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati
1883-1963, catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina, 19
febbraio - 31 marzo 1985), Fabbri Editori, Milano 1985, pp.
141-167. 43. M. SARFATTI, Pittori d'oggi. Felice Casorati, in
“Rivista illustra- ta del Popolo d’Italia”, 15 marzo 1925. 44
In. Storia della pittura moderna, Paolo Cremonese Editore, Roma 1930; V.
Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini e aspet- il, Bestetti
& Tumminelli, Treves, Roma-Milano 1931; V. COSTAN- TINI, Pittura
italiana contemporanea dalla fine dell’800 ad oggi, Ulri- co Hoepli,
Milano 1934; A. M. Brizio, Ottocento Novecento, Utet, Torino 1939; U.
NEBBIA, La pittura del Novecento, Società editrice libraria, Milano
1941. ARTE MODERNA ITALIANA N. 5 ALBINO GALVANO
FELICE CASORATI 1940 - XIX ULRICO HOEPLI
. MILANO EDITORE Felice Casorati, Ulrico
Hoepli, Milano 1940. ficare nell'opera del medesimo una tendenza
interna e personalissima alla corrente novecentista. Le
difficoltà nel rintracciare una linea condivisa per la sua arte era già
stata evidenziata da Giacomo Debenedetti (intellettuale torinese, come
Gobetti, “pre- stato” anche lui alla critica d’arte) con l'articolo
Casorati e la critica d'arte del 1933, nel quale sottolineava come
“L'arte di Casorati pare fatta apposta per isconcerta- re gli schemi che
la più ‘scientifica’ critica d'arte s'è data come sicuri oramai ed
incontrovertibili”,’° evi- denziando nelle conclusioni tutte le
contraddizioni di una generazione: “Linea, dunque, no: forma
plastica, no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,
né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurien- ti, nell'accezione
data dai critici, che di quegli schemi si sono fatti, non pure gli
interpreti, ma i banditori. E questa è l’involontaria polemica del
Casorati contro la critica d’arte”. Davanti a questo insieme
di opinioni e approc- ci differenti, Galvano si dimostra sin da subito
molto perplesso verso i suoi predecessori, affermando in maniera
categorica come “Ciò che è mancato più ad una critica concludente su
Casorati è appunto [...] una comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture”,‘ e
sintetizzan- 45 G. DEBENEDETTI, Casorati e la
critica d'arte, in “L'Italia lettera- ria”, 15 gennaio 1933, p. 4.
46 Ibidem. 47 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 28.
do poi, nelle prime pagine della monografia, i termini di questa
fortuna critica — che è anche incomprensio- ne — sedimentata verso
l’artista, almeno fino alla metà degli anni Venti: Casorati
ha goduto di un momento di fortuna quando la sua pittura, forse proprio
perché meno urtante a prima vista di quella di altri pittori di
avanguardia, ebbe tutti i suffragi e specialmente a quelli della critica
che voleva essere alla pagina, ma salvando il rispetto per la
tradi- zione [...] Erano i tempi in cui la pittura del novecento
appariva come uno sforzo neoclassico in polemica con l’arte futurista da
una parte, con l’aneddotismo elegante dall'altra, [...] la pittura di
Casorati [...] ebbe una sua funzione in Italia per liberare il medio
pubblico dagli en- tusiasmi per Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca
Bianca.* Rispetto ai precedenti studi la posizione di Gal-
vano è fin da subito ben chiara: risiede nell'approccio preferenziale con
cui affronta l’opera di Casorati, total- mente inedito sino a quel
momento, che viene ribadito in più punti della monografia. In
apertura del volume il critico-pittore sottolinea come la sua analisi non
si circoscriva a una rilettura analitica e distaccata della produzione
casoratiana, ma si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata
sul ricordo della propria formazione: “Casorati pittore — scrive
richiamandosi ai suoi rapporti col maestro — è stato per molti della mia
generazione una esperienza di importanza capitale in ordine alla
formazione del gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto
limitata a fatti di specie figurativa. La pratica di di- scepolato presso
di lui e la frequente consuetudine di Casorati uomo, hanno valso ad
alcuni di noi come un'esperienza fra le più profonde e decisive anche
per quanto riguarda la vita morale”! L'insegnamento di Casorati,
oltre a fornire una solida base di rudimenti pittorici insieme agli
stru- menti per uno sviluppo individuale delle personalità
artistiche, è la chiave — sempre secondo Galvano — per la comprensione
stessa dell’opera del maestro, chiarita metaforicamente in un passaggio
del testo: “Casorati è uno di quei pochissimi artisti che dopo il
rapimen- to delle muse non rimangono incoscienti di quanto in loro
è avvenuto; lo capiscono ed aiutano a capirlo agli altri”.°° Un concetto
che viene ribadito, in maniera ancora più chiara, verso la fine del suo lungo
contri- buto per Scheiwiller: “Non molti di noi [allievi] hanno
saputo da quelle parole imparare a dipingere decente- mente, ma certo
tutti a leggere i suoi quadri un poco meglio”. Con queste
premesse Galvano vuole dimostra- re come la vicinanza al maestro gli
permetta di avere 48 Ivi, p.7. 49 Ivi, p.d. 50 Ivi, p.
6. 51. Ivi, p.32. 32 una visione privilegiata,
lucida e fedele del suo lavoro, elevando la lettura delle opere ad
un’originalità vicina alle intenzioni del maestro, più di quanto gli
altri pos- sano avere. AI di là degli schieramenti e dei
tentativi di cate- gorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il
la- voro di Casorati — tra assimilazione al gruppo novecen- tista,
ascendenza neoclassica 0, ancora, appartenenza alla poetica metafisica —,
Galvano sceglie il sostantivo “Platonismo” per riassumere gli esiti
figurativi ottenu- ti dall'artista a partire dagli anni Venti,"
un’indicazio- ne che gli permette di liberarsi da ingombranti
etichet- te sino a quel momento attribuite all'opera del pittore.
È un'affermazione di Casorati a suggerire a Gal- vano le basi per
un'interpretazione platonica delle sue opere: il critico recupera
esplicitamente una dichiara- zione del maestro che risale al 1921
espressa a margine di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale
chiari- sce le proprie intenzioni —quasi programmatiche — di
esercizio pittorico: “Dipingere la verità, dimenticando la realtà
superficiale” 5° Un concetto che viene succes- sivamente ribadito da
Casorati, spogliato delle sue im- plicazioni categoriche (rinnegate in un
secondo tempo dallo stesso pittore)? in una successiva
dichiarazione, fatta a dieci anni di distanza e riportata nel
catalogo della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar- tista
sottolinea ancora una volta come il suo distacco dalla realtà dei
soggetti sia prerogativa fondante del suo lavoro: “la mia pittura è
staccata dalla vita”.> La posizione “platonica” di Galvano pone
il la- voro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli
Impressionisti (che godono invece di una notevole for- tuna, verso gli
anni Trenta, a Torino), collocando il mo- vimento francese e il maestro
torinese su due fronti op- posti — sia da un punto di vista lirico che
tecnico —: un 52 sto di Casorati preferiremmo
ad ognuna quella di ‘Platonismo (Ivi, p. 6). 53 F. Casorati,
[Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea, catalogo della mostra
(Milano, Galleria Pesaro, ottobre - novem- bre 1921), Alfieri &
Lacroix, Milano 1921; ora in In., Scritti intervi- ste lettere, cura di
E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2004, p. 11. 54 “Scrissi allora
nel catalogo alcune parole per spiegazione del mio lavoro e quasi per
contrappormi all'arte di quel tempo: affermavo di voler dipingere la
verità, dimenticando la realtà apparente; di voler indulgere agli errori
che spesso sono la sola ragione dell’opera d’arte... Queste parole furono
definite un’ere- sia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il
carattere di immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma,
in con- trapposto al più o meno degenere impressionismo di
sfarfalleg- giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del
movimento nel vibrare continuo della luce” (F. CASORATI, in G. MascHERPa
[a cura di], Felice Casorati e il religioso, catalogo della mostra
[Milano, Galleria San Fedele, Milano, 1 marzo - 8 aprile 1983], Milano
1983, p. 12). 55 E. CASORATI, Presentazione, in Prima
quadriennale d'arte nazio- nale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo
delle esposizioni, gen- naio - giugno 1931), E. Pinci, Roma 1931; ora in
In., Scritti interviste lettere, cit., p. 23. “E infatti se
dovessimo trovare una parola per definire il gu- IN
rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle indicazioni già
enunciate dall'artista nella citata pre- sentazione del 1931: “non ho mai
capito il movimento ‘qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme
statiche [...] la mia pittura nasce -per così dire- dall'interno e
mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi- derazioni che
vengono caricate di significati filosofici, anche in questo caso, da
Galvano: Al Protagorico impressionismo per cui misura di tutte
le cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il Pla- tonico
Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura dove le cose appaiono
reali in quanto hanno la maneg- giabilità di ciò che dal flusso delle
sensazioni è ritagliato per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste
o seni var- ranno come categoria.” Al “degenere
impressionismo” Casorati contrap- pone, secondo Galvano, “i suoi
caratteri di immobilità, di impassibilità, di contorni decisi, di
‘forma’”.* Alle premesse teoriche fanno seguito le prime
verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti Studi, non seguono
uno sviluppo strettamente crono- logico ed organico della produzione
casoratiana, ma si Muovono più liberamente, procedendo secondo
l’an- damento del discorso. | Come nelle antecedenti
occasioni di studio, l’ini- z10 dell'attività pittorica viene fatta
coincidere con le Opere del 1909, che gli valgono le prime attenzioni
da parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla mo- Stra
degli Amatori e Cultori di Roma. Le considerazio- ni che investono il
dipinto Le vecchie (1909) e La cugina (1909)? sottolineano nelle ricerche
di Casorati “un sen- so drammatico della vita teso in un’acuta analisi
psico- logica in cui non manca una punta di sensualità [...], Ma
temperata in una specie di serenità letteraria”’,9 Motivi che si pongono
in continuità con le formulazio- Ni espresse in precedenza sia da Gobetti
che da Ventu- Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione
psicologica ed il senso letterario di queste prime composizioni.‘
._ Il salto a questo punto si fa subito brusco: l’esclu- Silone di
tutta la produzione degli anni della guerra (che coincide con il suicidio
del padre di Casorati e con le nuove responsabilità di capofamiglia verso
le due Sorelle e la madre) è in linea con le volontà dell'artista,
che sceglierà di non conservare le opere di quel perio- do,
contraddistinte da un simbolismo e sintetismo de- Corativo piuttosto
anomalo. 56 Ibidem. 957 A. Galvano, Felice
Casorati, cit., p.7. 98 Ivi, p. 6. 59 (Bertolino, Poli 40,
50). 90 A. GALvaNnO, Felice Casorati, cit., p. 9. 01
Cfr. P.Gosetti, Felice Casorati pittore, cit., p. 93; L. VENTURI, Mostra
individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazio- nale
d'Arte della Città di Venezia, cit., p. 88. 33 Un
passaggio su Le signorine (1912), che “libe- ro questa volta da
preoccupazioni di ordine realistico ed orientato verso una completa
subordinazione alla composizione”, permette a Galvano di transitare
di- rettamente su Tiro al bersaglio del 1919, anticipando i
problemi di annullamento della terza dimensione già evidenti nel
dipinto. Per Galvano Tiro al bersaglio rappresenta un’opera
cruciale, da cui parte tutta la produzione più celebrata dell'artista,
quella del periodo immediatamente suc- CESSIVO: l’opera significativa
‘Tiro al bersaglio’ (1919) [...]. In essa il colore e la linea collo
scomparire di ogni ricerca della terza dimensione assumono per la prima
volta una organicità che è davvero il segno dell’impostarsi nella pittura
di Casorati dei problemi di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il
qua- dro, colla completa scomparsa delle ricerche chiaroscurali e
mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad un sem- plice tappeto di
tinte piatte, si comprende facilmente come linea e colore divengano funzione
l'uno dell'altro, tendendo a uno stato in cui la visione inquietante del
pittore raggiun- ge uno dei più intensi suoi momenti” Il
dipinto, in realtà, aveva sino a quel momento goduto di una fortuna
alterna: tacciato di futurismo nella prima presentazione pubblica del
1919, è per Gobetti un’opera dai “rapporti formali [...] indecisi”
ancora legata alla produzione dalla prima metà degli anni Dieci, un
lavoro insomma, che Casorati realizza come “prova per testimoniare a se
stesso la fine del suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi
ormai all'episodio”. La rivalutazione di Tiro al bersaglio, nei
fatti trova, prima di Galvano, un precedente mol- to prossimo all'uscita
della monografia Scheiwiller: nell'agosto del 1940 Italo Cremona
(anch’egli vicino a Casorati, pur non essendo mai stato allievo della
sua scuola), in maniera analoga a Galvano ragiona sull’im- portanza
del colore e sul principio di astrazione pre- sente nel dipinto, che
anticipa le opere più compiute e celebrate degli anni Venti:
sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per pe- netrare
invece il colore secondo un processo di intelli- gente astrazione. [...]
In quella curiosa vetrina di oggetti [...] vivono infatti quei bianchi
spettrali, quei colori —fin- ti-, che sovente ritroveremo nell'aria
rarefatta dove re- spirano le sue figure, anche quelle delle parate
familiari che Casorati ha sovente composto con sincera affettuosi-
tà ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta, in uno scenario
freddamente preordinato, sul mondo dal quale l’artista le ha
volontariamente allontanate.” 62 (Bertolino, Poli
71). (Bertolino, Poli 140). A. GALVANO, Felice
Casorati, cit., pp. 10-11. 65 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, cit.,
p. 96. Ibidem. I. CREMONA, Felice Casorati, in “Primato.
Lettere e arti d’Ita- La rivalutazione del dipinto si pone
verosimil- mente in linea con le volontà dello stesso Casorati:
l’o- pera, che dal 1919 trova collocazione stabile nell’abita-
zione dell'artista, è ripresentata nel 1929 ad una mostra degli allievi e
riprodotta per volere dello stesso mae- stro come prima tavola nella
monografia Scheiwiller.® Un interessamento che viene letto da Galvano
come un “Segno che una pittura senza volume ed una pittura di
colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso profondo della sua
arte”. Le opere realizzate a partire dal 1921 aprono la di-
scussione sulla funzione e l’importanza del colore per Casorati, che
viene ampiamente discussa nel testo e che caratterizza da qui in poi
tutta la monografia come lettura univoca del decennio successivo. Accanto
ad una premessa platonica, che si confronta nuovamen- te con le
opere Meriggio (1923), Lo studio (1923) e Con- certo (1924), allontanandole
da facili letture estetiche,” Galvano vede in “quegli slarghi formali” di
pittura un anticipo di “un’esperienza di tono che sarà chiarissima
intorno al 1931-32”. Contrapponendosi alle interpretazioni — che
vede- vano nella linea e nella forma plastica le caratteristiche
fondanti dell’opera di Casorati — Galvano valuta la pit- tura del maestro
come una pittura essenzialmente di colore,” spingendosi a verificare le
intenzioni dell’arti- sta e giustificare la scelta di determinati soggetti
e for- me piuttosto che altre, proprio in funzione del colore: “Vi
sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i più formali a prima
vista, come ‘Daphne”? [...] che non si afferrano in tutto il loro valore
se non riferendoli al co- lore. Casorati ama le forme semplici perché
sono quelle che permettono al colore di stendersi con la sua
miglio- re ampiezza. È strano come questa semplice verità sia stata
tanto spesso fraintesa, non mancando del resto di contribuirvi la stessa
interpretazione che il pittore ha dato della propria opera”. Una
sensibilità tonale che porta il critico ad accostare come esempio di
‘“straordi- lia”, I, 11, 1 agosto 1940, p.
19. 68 ‘è quanto mai significativo a questo proposito il fatto
che il pittore abbia tenuto in tempi recenti non lontani ad esporre,
ad introduzione e quasi chiave di sue opere più recenti, quel ‘Tiro
a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle anche ad inizio di
queste riproduzioni” (A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 24). 69
Ibidem. 70 “Il ‘nudo’ e gli analoghi ‘Concerto’, ‘Meriggio’,
‘Studio’, ci presentano un mondo che si presta ad essere interpretato in
modo equivoco, come estetistico, da chi non tenga presente che per
Ca- sorati quelle platoniche accolte di figure femminili ignude, anche
se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente valore per questa
eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei volumi” (Ivi, p. 12). Cfr.
(Bertolino, Poli 212, 215, 226). 71. A.GAlvano, Felice Casorati,
cit., p. 13. 72 “La forma serve [...] a distruggere la linea ed a
passare al colore: essa è, se si vuole, il punto di partenza, ma è
proprio il colore è il punto di arrivo” (Ibidem). 73.
(Bertolino, Poli 328). 74 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., pp.
13-14. 34 ARTE MODERNA ITALIANA |
FELICE CASORATI II ed. del volume Felice Casorati,
Ulrico Hoepli, Milano 1947. nario pre-casoratismo” l’opera di Jan
Vermeer e di Ge- orges de La Tour piuttosto che quella di Ingres,
riferita dallo stesso pittore come modello di riferimento alla
propria pittura nel “Referendum sul quadro storico” del 1929.
A sostegno di questa sua tesi sul colore Galvano recupera ancora
una volta i ricordi dell’insegnamento del maestro, affrontando questioni
di metodo e di pra- tica pittorica vissuta nello studio dell'artista,
dove l’os- servazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla
forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi: ci
limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo di chi è stato alla
scuola di Casorati verta essenzialmente su due punti: l'insieme e il
tono. E soprattutto l’insie- me come forma il più sintetica possibile in
funzione del tono. La forma intellettualistica di un oggetto,
proprio ciò che interessa di più al pittore formale o classico, è
ciò che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for- ma
che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice- mente possibile è
la forma di quella determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto.” 75
F. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico], in “Le arti
plastiche”, 16 dicembre 1929; ora in Ip., Scritti interviste lettere,
cit., p. 22. 76 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 14. Analoghe
impressioni sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in
“L'Arte”, XXXIII, La discussione sul colore offre a Galvano il
punto di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,
secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbe- ro avuto un ruolo
capitale nell'evoluzione del lessico pittorico casoratiano, soprattutto
per il genere della natura morta.” È Venturi, nel 1923,” a
offrire per primo quest'in- terpretazione, individuando nell'esperienza
diretta di Casorati alla Biennale del 1920 (dove, su 28 dipinti di
Cézanne presenti, erano ben sette le nature morte) il passaggio di svolta
tra Le uova sul tappeto verde del 1914 e Le uova sul cassettone del
1920:”? “Le ‘uova’ [...] del 1913 sono un motivo di bianco su verde, le
‘uova’ del 1920 sono un motivo di forma geometrica solida e chiara
sopra un volume scuro”.8° Per Galvano, l'avvicinamento al maestro
di Aix è da intendersi come “esperienza più morale che pittorica”,
nella quale l'evoluzione delle sue natu- re morte rappresenta un processo
interno alla pittu- ra stessa piuttosto che il risultato di
quest’incontro: “[Uova sul cassettone] non si spiega con un
riferimento al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza
sti- listica” — puntualizza Galvano - “ma solo col metterlo In
relazione a quello che la pittura di Casorati fu prima d'allora” 8
Secondo il critico, più che un precedente sti- listico, la lezione di
Cézanne offre la verifica di nuove possibilità espressive; un punto di
vista che trova con- ferma — più tardi — nelle stesse dichiarazioni del
pittore, che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla Biennale
del 1920: Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifestò
im- provvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu
un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi sentii preso da
quel senso di calma, di fermezza, di equi- librio, che solo le opere dei
grandi può dare. Equilibrio! Compresi che nella sua pittura trovava il
giusto equilibrio il problema posto e sviluppato in un senso
dell'Impressioni- smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione;
com- presi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava
di insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che Specialmente
in quei difetti era il germe della sua grandez- fasc.
IV, luglio 1930, p. 380. 77. Relativamente a questo genere si
vedano P. Fossati, Nature morte di Casorati, in M. M. LamBERTI (a cura
di), Casorati. Mostra antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo
Reale, 27 mar- ZO - 20 maggio 1990), Electa, Milano 1989, pp. 29-38; G.
BERTOLINO, Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte (1910-1920),
in ID., F. PoLI (a cura di), La natura morta nella pittura di Felice
Casorati, cata- logo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale,
24 maggio-20 luglio 1997), Electa, Milano 1997, pp. 11-22.
78. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit.
79 (Bertolino, Poli 114, 162); relativamente alle opere si veda In
particolare M. M. LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto verde) e
Le uova sul cassettone, in In., P. Fossati, Felice Casorati 1883- 1963,
cit., pp. 62-64; 79-80. 80. L. VENTURI, Il pittore Felice
Casorati, in “Dedalo”, cit., p. 254 ù A. GALVANO, Felice Casorati, cit.,
p. 33. Ivi, p. 16. 35 za. Compresi che
Cézanne era il pittore della rinuncia e che la rinuncia era la
forza della pittura moderna. Non cambiai modo di dipingere, ero troppo
inconsciamente orgoglioso per tentare un cambiamento di rotta che non
avrei potu- to fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare
della grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle mie
posizioni e cercando solo in profondità.* La monografia
Scheiwiller, pensata per aggiorna- re la precedente di Giolli, in realtà
affronta solo margi- nalmente la più recente produzione del maestro,
soste- nendo per le opere più prossime la piena attuazione del
proposito coloristico în nuce già nei primi anni Venti. Ai ricordi
della Biennale del 1924, e soprattutto a quella del 1928,* Galvano
contrappone le opere espo- ste nei primi anni Trenta: per La lezione
(1929), Susanna (1929) e Lo straniero (1930) pone l'accento su come
pre- valgano in questi dipinti “certe note di rossi improvvisi, il
taglio in controluce, il gusto, almeno nei due primi, di accostare il
nudo ad una figura maschile vestita, un de- siderio di atmosfera serena
che suggerisce lontananze chiare e assolate” .8# Motivi pittorici che,
spogliati degli elementi accessori (come la copertina del “Selvaggio”
nella Lezione o, ancora, le pantofole rosse di Susanna), trovano
un'ulteriore compiutezza in Daphne (1934) e Ragazza in collina” delle
collezioni dei Musei Civici di Torino, “soluzioni più aneddoticamente
umane [...] dove il motivo del controluce sulla finestra aperta so-
stituisce figure familiari o umilmente umane ai mani- chini, mentre il
paesaggio si fa sereno [...] ricavato da quei campi di Pavarolo ormai
cari all’artista”.* Come già sottolineato da Maria Mimita
Lamberti, l'apporto di Galvano si dimostra poi piuttosto illuminan-
te nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea di lettura
della sua produzione, sino a quel momento tra- scurata rispetto al genere
più discusso della natura morta. 83 Il passo è
riportato in L. Caruccio, F. Casorati, quaderni d'arte del Centro
Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del pesce d'oro, Milano 1958, p.
22. 84 ‘Noi veniamo dall'esperienza della generazione per cui
i quadri del ‘24 rappresentarono lo scandalo dell'adolescenza che
ancora confondeva la classicità coll’accademismo e che scorgeva in quei
quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o pronta al
riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qual- che cosa di
inquietante e di tentatore che non si poteva dimenti- care [...] i quadri
della biennale del ‘28 rappresentarono invece la scoperta del mondo nuovo
e spregiudicato che si apriva alla nostra cultura” (A. GaLvano, Felice
Casorati, cit., p. 15). 85 (Bertolino, Poli, 366, 368, 396).
Erroneamente Galvano attri- buisce il titolo Lo studio al dipinto La
lezione esposto alla Biennale del 1930. L’opera verrà distrutta
nell'incendio del Glaspalast di Monaco del 1931. 86
A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 22. 87 (Bertolino, Poli 531,
592). Galvano, in realtà, indica il secon- do dipinto con il titolo
Estate. Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, cit. p.iz. 88
Ibidem. 89 M.M.LAMBERTI, I nudi nello studio, in Ip. (a cura di),
Casorati. Mostra antologica, cit., pp. 13-28 (13).
Galvano vi riconosce una traccia di continuità che, a partire
dalle Signorine del 1912 (opera che, secondo il critico, non è da
intendersi come “gruppo” ma come insieme di figure isolate), arriva sino
alla Venere bionda del 1934, “punto di arrivo e di dissoluzione di
quello che si potrebbe chiamare il ‘tonalismo’ di Casorati”:”
secondo Galvano il motivo del nudo in Casorati si presenta “come figura
essenziale, come una forma ele- mentare, categorica, simile a quelle
delle scodelle, delle uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari
dei sem- plici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono
quegli “slarghi formali” di pittura, oltre alla “possibi lità di un tono
uniforme”? capaci di confermare la sua sensibilità di colorista.
III. A distanza di sette anni dalla pubblicazione la
monografia di Galvano su Casorati viene ristampata,” aggiornata in alcune
sue parti e rivista totalmente per quanto concerne l'apparato
iconografico. È il 1947. Tra la prima uscita e la riedizione,
l’interessamen- to che il discepolo dimostra nei confronti del
maestro è continuo e si attesta già dall'inizio del 1941 con mo-
dalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo
precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si affiancano però
nuove prospettive lavorative. Proprio nel 1941, accanto alla sua attività
di pittore e di critico (che in questi anni, oltre alla corrispondenza
per “Em- porium” e alla collaborazione per “Il Selvaggio”, si
amplia con due contributi sulla rivista “Le Arti”) Gal- vano è impegnato
nella nuova veste di assistente alla cattedra di “Pittura” di Enrico
Paulucci presso l’Acca- demia Albertina di Torino, assegnata
contestualmente anche a Felice Casorati per l'insegnamento di “Com-
posizione pittorica”. Incarichi che vengono entrambi costituiti ad
personam dal Ministero dell'Istruzione nel contesto dei provvedimenti
avviati da Bottai a favore delle Accademie artistiche. Sono questi,
inoltre, gli anni nei quali Galvano va consolidando una sicurezza
economica stabile — tanto auspicata negli anni Trenta — grazie
all'insegnamento nelle scuole superiori: prima come professore di figura
disegnata nei licei artistici piemontesi e poi, dal 1942, come docente di
filosofia e storia nei licei classici e scientifici. La
mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata nel novembre del 1940 alla
Galleria Cigala di Torino, è l’oc- casione per tornare a parlare di
Casorati sulle pagine di 90 A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p.
18; cfr. (Bertolino, Poli 501). sa: «Ivi, p. 20.
92 Ibidem. 93 Ip, Felice Casorati, Arte moderna italiana n.
5, Serie A - Pitto- ri - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1947. 94
Cfr. F. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in M. M. LAMBERTI, P.
Fossati, Felice Casorati 1883-1963, cit., pp. 199-205. 36
Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati
Menzio Pau- lucci, Carlo Accame, Torino 1942. “Emporium”,
presente in questa circostanza con due pittori torinesi protagonisti
della scena artistica citta- dina (reduci entrambi dall'esperienza del
gruppo dei “Sei” ), sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi
di- retti del maestro: il quarantaduenne Francesco Menzio e il più
giovane (di poco) Enrico Paulucci, con il quale Casorati ha intrapreso da
tempo un rapporto di stretta collaborazione.” Il sodalizio
dei tre artisti, che non vuol essere un principio di ricerca comune ma
piuttosto un impegno di politica culturale condivisa, si ripropone più
tardi, in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria
Genova del capoluogo ligure nel febbraio del 1942. La circostanza è
anticipata da una pubblicazione autono- ma di Galvano, intitolata Tre
nature morte e stampata dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica,
nello 95 A. Galvano, Casorati, Menzio, Paulucci, in
“Emporium”, XCI- II, 554, febbraio 1941, pp. 93-95. Stesso
anno, la monografia su Casorati di Italo Cremo- na), in un elegante
edizione in folio che riporta come Sottotitolo i nomi dei tre pittori
torinesi.’ In questa oc- casione — che si propone di presentare
sinteticamente tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di
riprodu- zioni a colori — Galvano sceglie la natura morta come
genere esemplificativo della produzione degli stessi. Un'operazione che
nell’introduzione viene definita come “didattica”” e che si pone in
aperta polemica nei confronti della tendenza a considerare questo
genere come motivo poco adatto alla pittura moderna: “ad Ogni
esposizione abbiamo sentito deplorare l'eccessiva presenza di nature
morte o esaltare per il loro scom- parire di fronte ai quadri di figura”.
Una difesa per l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non
si risparmia nel chiamare in campo i precedenti noti di Cézanne,
Manet ed ancora Renoir. La questione, in realtà, non è nuova, ma
prende le mosse da un pensiero espresso dal maestro quasi quindici
anni prima, che rappresenta verosimilmente il pretesto per il contributo
di Galvano, che mostra que- sto taglio così inaspettato. Sulle pagine del
quotidiano torinese “La Stampa”, Casorati lamentava nell’artico- lo
La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di accettazione della
natura morta da parte di pubblico € critica, con presupposti che
sembravano essere gli stessi avanzati ora da Galvano nella sua
introduzione: Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie
volte questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi
aranci, troppi pomodori ecc. [...] poveri oggetti, [...] vo1 siete i
modelli più docili e più esigenti degli artisti [...] Nei momenti più disperati
della mia vita di arti- Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura
dipingen- do umilmente una scodella, un uovo, una pera”.? .
La scelta della natura morta casoratiana — vero- sImilmente selezionata
da Galvano — ricade su Le pere verdi del 1941,!% presentata probabilmente
per la prima volta in questa sede: un’opera che gli permette di
riba- dire il principio coloristico sostenuto nella monografia del
‘40, che viene qui chiarito con un'attenta analisi
96 Ip., Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame,
Torino, 1942. 97 “La presentazione di ‘Nature morte’, dovute a tre fra i
più autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire,
ed essere criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e
po- lemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha
piuttosto un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico:
degli intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per
limitazione Naturale di possibilità, per passione di parte o per
difficoltà di Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non
occorre Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-
azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico 9, peggio,
di conventicola, il semplice intento di chiarificazione Intellettuale e
critica” (Ivi, p.n.n.). 8 Ivi, p.nn. "i F CASORATI, La crisi
delle arti figurative, in “La Stampa”, 29 ra raio 1928; ora in Ip.,
Scritti interviste lettere, cit., pp. 19-20. (Bertolino, Poli 682).
CY della sua pittura (non priva di tecnicismi del
mestie- re), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi
cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre — secondo Galvano —
a problemi ed equilibri di natura compositiva: Sul fondo
rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e spento, e le chiazze
rugginose e calde della putredine che intacca i frutti; solo dal colore
prende realtà il fascino di questa natura morta, eppure il colore qui non
evocherà a nessuno la categoria della ‘forma aperta’ o la scioltezza
di un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il pittore
delle forme assolute e degli elementari geometrici, ma il colore ne
rivela, per distinguersi dei campi continui e dilatati, la purezza, anzi
il purismo, di impaginazione e ce ne propone la più castigata
presenza. [...] i colori si subordinano ad una ragione
compositiva a priori [...] in essa si giustifica quel disporsi graduale
di intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e tale
veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni attenzione
sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma pretendesse di disporsi
sul medesimo piano di ‘bel colo- re’ dei toni vicini) il colore locale;
necessario a staccare nel castigato e serrato gioco compositivo della
frutta ritagliati sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono
nella vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie.!®!
Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Fe- lice Casorati
(e i torinesi) apparso un anno più tardi, nel 1943, sulla rivista
“Pattuglia” di Forlì.!® Nel numero di maggio-giugno, dedicato interamente
alle arti figura- tive e curato da Giovanni Testori, Galvano traccia
un bilancio della situazione artistica torinese: accanto a
considerazioni su Casorati in linea con la monografia Hoepli del 1940,
abbandona i ricordi della scuola di via Galliari proponendo una lettura
totalmente rinnovata, alla luce dei più recenti sviluppi espositivi.
Menzio e Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri “Sei”, che
però non vengono nominati) i “giovani pittori che si erano stretti
intorno a Casorati” e che, seppur non direttamente allievi dell'artista,
non “rinnegavano il debito contratto col primo ideale maestro, né erano
da lui sconfessati: anzi la stima, l'amicizia e la valutazione dei diversi
ed ugualmente validi risultati, da parte del più anziano rimanevano
intatti od accresciuti”."° Una A.GALVANO, Tre nature morte. Casorati
Menzio Paulucci, cit., p. n.n. 102 In., Felice
Casorati (e i torinesi), in “Pattuglia”, 7-8, maggio- giugno 1943, pp.
15-16. La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene inaugurata nel 1941 e
riporta nel sottotitolo la dicitura “Mensile di politica, arti e
lettere”. L'articolo di Galvano viene pubblicato nell'ultimo numero della
rivista, curato Giovanni Testori e in- titolato “Omaggio alla pittura”,
che si proponeva di fornire un bilancio dell’arte italiana del ‘900. La
rivista viene interrotta e se- questrata da Mussolini per i suoi
contenuti non in linea con le direttive -in campo figurativo- imposte dal
regime. 103 Ivi, p. 16. 07 ee (E I
TORINESI) E condizioni che determinarono a To- ‘20: sei anni dopo
l'altra polemica fra rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a
proposito del di quest'ultimo, di eu- proposito
del valore positivo tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle
influenze parigine sull'arte tica ai pose di per se stessa come po-
—ita'iana non ebbe significato diverso. Ora lemica: © in cui da polemica
fu l'one- —P. Gobetti e L. Venturi furono appunto stà stessa della critica.
La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca 14-18 era terminata.
Lo stile «libe- sorati. A dispetto danque delle av ty » in architettura,
il neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira lismo tipo «In
arte libertas» da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie pure
avevano mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e tori validi
come Modigliani e Spadini figurativa di quest uveva esaurita ogni pretesa
alla forma- —srebbe un significato diverso, e in certo zione di una coscienza
figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è banalità di
un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più fermenti
di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve
scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente pEr eg
sai 16 gin lettuale per quello Hgurativo sano ogni evasione
dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati quanto per
queste esperienze avveniva —anche nelle punte di estrema avanguar- ordine
a le possibilità della linea cur- —.ija come in certi distrutti. di- me
di questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F.
Casorati: “Ragazza,. (1937) diano avveniva, in modo anche più vol- —gel
gusto di Kandiski, cerca i proprii gare è fatuo, mancati Sant'Elia e
Boocio riferimenti non in un mondo mediterra- : ma in uno nordico {quasi
a fedeltà i H È È; i
figurativo di Martino Span- Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e
di Defendente Ferrari che guard Memet o di Bestlovea, a confeadero
assai più che quello, volto verso il l'eleganza
lineare di Modigliani con di Gaudenzio), non in un'umanità l'imperizia
del bambino (e se mai si assertrice di proporzionata statura mul sarebbe
dovuto rimproverargli un'ele- rondo det orizzonte, ma nel panza sin
troppo vicina » preoccupazio- tormento di sentirai oppressa da È ni
ostetistiche e contenutistiche simili amine mirror quelle che limitavano
fl eritico) inau- ciò di dramma per la propria persona, guraodo quella
tradizione di contenu- in quanto finita, Il sottile Tinguaggio tismo ad
oltranza e di cauto e garbato, formale, la ricerca d'equilibrio compo- ma
fondamentalmente deciso, « fin de sitivo, l'astratto rigore della sintesi
po- non recevoie » mel riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme
@ certo conda pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i
libri aperti, i tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli
accorgimenti ‘tecnici, meno 2 merito della consequenzialità come l'uso
della tempera verniciata, ri- quel poco di csi valga la pena di (91
—rorimenti al quattrocento, mostro. sn menzione della critica d'arte del
quo- non poteva sfuggire ad ‘una tidiani oggi ancora a Torino. più
accorta l'assoluta continuità spi- Un panorama, come si vede, sostan-
rituale che legava il mondo d'allusioni rialmente simile a quello del
resto crepuscolari è le eleganze cstotizzanti d'Italia, in cui tuttavia,
in quegli delle « Vecchie» o delle « Signorine» anni dell'immediato
dopoguerra, Tori. attraverso 1 paradossi pseudoformali ba ipo ipa delle «
Scodelle » è delle « Uova » nella maniera particolare e gerto senso,
doppia redazione, a tappeto ed s vo- fispetto al resto d'Italia,
polemica, su tume. a questo muovo mondo di non di un doppio piano,
intellettuale e figu: —1meno quintessenziate definizioni umane Rene a pi
o spaziali, anche se nel silenzio di IO) essere esemplificata PO quelle
quinte prospettiche ora quei pro- sizioni reciproche de «La Ronda fili
proponessero le loro cadenze non di « Rivoluzione Liberale ». Cinscuno
più per la via analitica dei compisci vede quanto diversi gli
orientamenti menti particoleristici, ma per quella umani e culturali. Ma
è tipico che pro? —delle sintesi ellittiche. prio fra Cardareti un'occe.
Eppure una così diversa afferma- sione polemica, sul Leopardi, portò a
zione in ordine a scoperte pittoriche, una discussione do andava ben una
tanto dialettica decisione nel de- oltre i termini della cortesia. Siamo
nel finire il proprio mondo indipendente. F. Casorati: “ Bambina. (1932)
Felice Casorati (e i torinesi), "Pattuglia", 7-8 maggio-giugno
1943. lettura della scena artistica cittadina che esclude
total- mente i primi discepoli dell'artista — che continuano nel
frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino — preferendo invece
soffermarsi poi sulle “anomalie” figurative (intese rispetto al tracciato
casoratiano) pro- poste da Luigi Spazzapan e Italo Cremona. Il
rapporto tra allievo e maestro, che è innanzi- tutto di amicizia, rimane
solido negli anni a seguire, nonostante le scelte di Galvano si avviino,
nel frattem- po, verso un fronte non figurativo della pittura, che
lo vedono abbracciare l’astrazione ed aderire nel 1950 al Mac
(Movimento Arte Concreta), fondando insieme ad Annibale Biglione, Paola
Levi Montalcini, Adriano Parisot, Carol Rama e Filippo Scroppo la sezione
tori- nese del gruppo. Accanto alla sua attività di critico
militante, più orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute
con- testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad inte-
ressarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture complessive e
bilanci di un'epoca, che sembra ormai essere lontana nel tempo.!%
104 Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, in S. CAIROLA (a cura
di), Arte italiana del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti
Grafiche, Bergamo 1946, pp. 18-20; In., La pittura a Torino dal '45 a
oggi, in “Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea”, 43-45,
gennaio-giugno 1960, pp. 55-76; ora in Ip., La pittura, lo spirito e
38 mente da ricerche solo per certi riguar- questi sforzi
di giovani della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre riuscito a
cogliere il momento di di parallele, grazie all'autenticità della
universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha appreso. spontanen
concretezza pittorica. Senza realizzazione figurativa è della schiet
ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del resto questo gli
abbia impedito tezza di linguaggio fantastico da essa Nacque così il
gruppo dei «Sei»: —tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta
coscienza teorica della po- presupposia, s'inseriva nel dialogo della
—Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta —quei profili nettissimi che gli
permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi- italiana di quegli
anni con una © Jessie Boswell.,Fntro e fuari le vi- di dare evidenza
allucinante di inganno gurativo sì determina e del rapporti di validità
di proporzioni che tuttavia man. —cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla
riproduzione dei i og- esso col movimento «surrealista», (di tiene
integro il valore dell'esperienza risultò allora e tale si mantiene, come i:
distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa ‘e significativa
» a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza
suggest vicenda gli interessi destati a Torino memoria 0 più rigorosa-
parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia
dei col monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di
compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente
pittura. Tutti da « Fanciullo ad- —menti delicati, di edonismo controllato
—rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano» Seleaggio, per brev'ora torinese
dormentato » del "21, allo « Studio » del —© schivo, sceglie usa sun
umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti
realizzazioni 122, al « Concerto » del ‘24. ne henno zione in volti di
giovani donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche, nella
sede della società nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da questo
punto di partenza —dà lettura , ma « cl Ippica di Carlo Mollino) che tatti 1
suoli hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte,
ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono, ma erano pur
utilizzabili în assai più —concordanti nella dissoluzione di ogni e- —torici in
cui però Cremona è quasi sem- ALBINO GALVANO concreto discorso di quanto
non si lamento estrinsecamente contenutistico, facesse dagli epigoni del
peggior otto- del rigoriamo formale casoratiano in- cento. Si affermò che
i Macchiaioli tu- torno al ‘23, e del fervore cromatico de rono fra gli
artisti autentici della no- gli impressionisti intorno al ‘29 per- ===
stra tradizione; si riconobbe che un ar- —misero a Menzio di scontare in
puro tista ostile o almeno appartato di fron- sollecitazioni pittoriche
quei dati del te a ricerche futuriste, metafisiche © sentimento, si defini
una visione tanto neoclassiche era un grande pit- personale quanto
coerente dove la mu i si riscopri l'im- sicalità del colore e la
freschezza del pressionismo. Îl necclassiciamo, nel È
È «po vecento » milanese, che qualcuno git si
che delicati non impedirono, anzi fa- definiva nooromantico, sì
innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes- Tosi, in una
tradizione di pittura a- —sione umana piena di melanconica no- perta.
Soffici non più cubista predicava —biltà nel reiterato e come
ansiosamento ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare
intorno alla con- in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza
pittorica di quelle persone di deva quella di Fattori: a Torino, do-
drumma, così sottilmente lirico e di ve già ‘intorno a Casorati una
scuola cosi pausate parole, che si muovona tendeva a ridurre a grammatica
il sua nelle composizioni famigliari di Menzio. figurativo,
attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto guamento
universitario, Îl mecenatiamo —qutt'altro che paghi o chiusi nell'au di
un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre
tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei limiti 0 della
milanese di Persico anch'esso partito —contiagenti stanchezze che potessero cc-
in battaglia contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo- la
lezione degli impressionisti fu at- chio di formalismi eidetici del
primo, tinta direttamente ai grandi modelli: © Manet, Renoir,
Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che ci spie senso
importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Enrico
Paolacei: * Piazza Navona .. l'affermazione che Cèzanne non meno
nitide pro- veva reagito all'impressioniamo, ma lo filature lineari di
Casorati dopo il ‘30, veva continuato e che perciò la tradi- —come le |
ritorni, e, meno zione più viva di movimento an- , da monotonia le
ripetizioni dava proprio cercata in quel discorso —1delle cose meno
valide di Menzio. ln rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai
diverso, ina con accanita tro che occasionale e vedutistico che era
commovente dedizione ad un'ideale stato proprio dei pittori che abbiamo
di pura pittura che escludesse tanto citato piuttosto che dei Monet, dei
Pis- ogni intrusione intellettualistica quento surro, del Sisley.
Secondo: che quel- ‘ ogni dispersione decorativa Enrico Pao l'adesione
all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon teva che
importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa,
Van Gogh al più libero «fsuvinmo », rivivere il gusto degli
impros- che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di
questa fase della ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura
torinese, possono essere riat- ivano continuato, Gli strilli dei varii
taccati, in senso diverto, Piero Mar- Ojetti per i «salti in lunghezza da
tina, temperamento delicato di colorista Giorgione n Braque »
naturalmente non eu cui è stata decisiva l'influenza di si contarono! Ma
intanto quello che te nf gie gi importava fu che la esemplificazione
cento personale una trepida, © vitale dei frutti di quest'esperienza cul-
come smorzata, elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei
gio- to tonale degli oggetti, e Luigi Spazza- vani pittori che sì erano
stretti intorno pan la cui origine è le cui esperienze è Casorati, pur
non più così ragazzi istriano diedero ad una veramente pro da diventar
suoi allievi nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit-
lastico della parola, © che ora nell'inì- —1toricamente, attraverso la rapidità
della ziare un lavoro diversamente orientato, —acchia e del segno, ogni
dato ogget- e vano il debito contratto col tivo una truculenza
cspressionistica re- primo ideale macatro, nè erano da Jui =—mota dal
raccoglimento degli altri to- sconfessati: anzi la stima, l'amicizia
rincsi e dalla pacata visione dell'im- © la valutazione dei diveral ed
ugual. =—pressioniamo. È di questo suo pecu- mente validi risultati, da
parte del —liare atteggiamento ci restano molti mo- più anziano rimanevano
intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci
cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra <
incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale. desio sforzo
d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri verso
divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza
i sultato, altrettanto si può dire dell'attenzione a —Dittorica
inieressantiesima di Italo Cre- Francesco Menzio: ‘ Ritratto ,,
Nel 1963, alla scomparsa del pittore, Galvano traccerà un ricordo del
maestro, a margine del catalo- go della 14° mostra d'arte contemporanea
di Torre Pelli- ce. Non più il colore o il tono, ma quei valori
umani e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni di
via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo “omaggio” di
discepolo: “poiché fu anche la coscienza di questa libertà, prima ancora
morale che estetica, che da Felice Casorati alcuni di noi ricevettero
come l’inse- gnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo
ad esso questo saluto al Maestro. Chè le sue opere par- lano, per il
rimanente, senza bisogno di commento”!°. il sangue, a cura di G.
Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino 1988. 105 A.
GaLvano, Omaggio a Felice Casorati, in 14° mostra d'arte con- temporanea,
catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese, 3 - 28 agosto
1963), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1963. Gli occhi fervidi
e il sapore di cenere Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo,
Art Nouveau Adriano Olivieri Approssimarsi all'opera
letteraria di un uomo di cospicua cultura quale fu Albino Galvano,
significa penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-
dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita e ricorrente
oggi nella ferma e attenta riflessione di pochi storici. Come ebbe a
dichiarare Galvano stesso In una autopresentazione del 1980, non gli si
perdonò l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle
stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo malgrado per
giovanile quanto vocazionale passione per la cultura. Proprio
nell’ambiguità, nel marcare un confine ideologico sottile, ordinandosi
orgogliosamen- te in disparte insieme alla generazione degli
eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che Galvano trovi un
eccentrico terreno di appartenenza sul quale edificare una propria
filosofia personale sistematica- mente relata all’erudizione
antropologica, filosofica, religiosa e pedagogica. Formazione altresì
integrata agli interessi misteriosofici - Galvano stesso ebbe a
definire le proprie opere “evocazioni esoteriche” — vagamente connessi
alla cultura torinese d’inizio secolo e, in modo maggiormente probante,
con lo Studio di Casorati in via Galliari dove conobbe Daphne
Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica della parigina Académie
Ranson, si era trasferita a Torino dove la sorella Cynthia con Cesarina
Gurgo Salice, Bella e Raja Markman si dilettavano già, oltre che di
danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico, Galvano — che
inizia allora ad interessarsi a Rudolf Steiner e Madame Blavatsky — batté
gli argomenti indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un
Intellettuale atipico che, come ricordava Sanguineti, ISpirò idee
ereticali nei propri allievi. Autore di pochi libri, che punteggiarono
una carriera meno prodiga di quella del compagno di studi liceali Argan,
nel 1932 conobbe Lionello Venturi che lo accolse come collaboratore
de “L'Arte” facendogli inoltre pubblicare alcuni studi sulle civiltà
extraeuropee?. L'equivocità tra critica militante e pratica
pittorica fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui
rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In questo assiduo
riversarsi delle specificità discipli- nari consiste per Galvano il senso
estremo della sua Pittura, votata alla vanità dell'atto privato,
smagata da Ogni velleità economica e promozionale ma cro- S!uolo
rovente dal quale estrarre i concentrati succhi di un'urgenza
creativa. L'incessante ritorno all'arte . ni n GALVANO, La pittura a
Torino dal ‘45 a oggi, in “Letteratura”, I, “n 0, p. 99-76. Poi in: “La
pittura, lo spirito e il sangue”, P.MAN- ia la cura di), Il Quadrante
Edizioni, Torino, 1988, p. 155. Poi R i ALVANO, Diagnosi del moderno.
Scritti scelti 1934-1985”, A. UFFINO (a cura di), Nino Aragno Editore,
Torino, 2018, p. 393. | L'arte egiziana antica, Firenze, 1938;
L'arte dell'Asia occidentale centrale, Firenze, 1939; L'arte dell'Asia
orientale, Firenze, 1939. 39 è,
Al Liceo Gioberti di Torino, 1961-62. dA EdO
a ad. come artificio, come fare in sé autosufficiente, fu
per Galvano un difettivo rimedio all’insanabile scissura della
natura umana divisa tra spirito e materia, tra razionalità e intuizione,
e un’imperfetta occasione di confronto tra individui sul piano
partecipabile ed empirico dell'immagine che, pur sempre aderente
alla condizione fabrile, trova la propria natura più autentica
nell'essere essa stessa divisa tra creazione e imitazione. L'attività
poietica, l'agire sulla materia intesa sui presupposti estetici gettati
da Alain (pen- satore scomunicato da Croce), sottrae il discorso di
Galvano dall’osservanza teoretica idealistica come dall'impegno etico
esistenzialista e, abrogando di fatto la condanna platonica dell’arte,
accetta il va- lore estetico come simbolo del “male”. L'arte trova
allora la propria eretica ragion d'essere nella forma materiata, così
come l’idolo o il feticcio sarebbero la divinità in presenza e non
l’ipostasi divina. Per questo la pittura per Galvano rappresenta
enigmaticamente il “dio visto di spalle”. Quando Mosè chiese al
Signo- re di mostrargli la sua Gloria il Signore gli rispose: «Farò
passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome”
[...]. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun
uomo può vedermi e restare vivo [...]. Tu starai sopra la rupe:
quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti
coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le
mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”». L'espediente
divino narrato nell’Esodo biblico?, fatto laicamente
3 i La Sacra Bibbia, cap. 33, vers. 19 e segg.
Cesare Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela,
68x125 cm., 1898, GAM Torino. reagire con esperienze disposte alle
“proiezioni”, tra cui l’idea del dio pagano che non tace non parla
ma accenna, sarebbe da intendersi per Galvano — che si era laureato
presso la facoltà di magistero di Torino discutendo con Gambaro e
Abbagnano una tesi su “La pedagogia della religione” — come
metafora dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale
unica possibilità mondana di riconquistare l’unità primigenia dell’uomo.
L'azione esercitata dall'artista nelle condizioni oggettive della materia
è, più di una tecnica operativa, un’alchimia - ai filosofi Galvano
preferisce Jean Baptiste van Helmont e Cesare Della Riviera — che
permette il verificarsi di un'unione tra l'esperienza concreta bloccata
nell'immagine e l’'epifania del dio inteso non in senso
devozionale. Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea
crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente solo nell’intuizione e
non nella funzione estrinsecante della materia. L'arte sfugge così al
concetto di rap- presentazione candidandosi come opportunità che
contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi nell’enigma, nella
manifestazione del trascendente. Galvano percorrerà incessantemente
questa terra di frontiera: come filosofo, come storico, come
pittore. Prodromo del percorso pittorico fu l’alunnato presso
Felice Casorati, scelto peril linguaggio sufficien- temente decantato,
sintetizzato e affrancato dal dato naturalistico per mezzo di
un'operazione intellettuale capace di conferire un ordine platonico agli
oggetti dispensati dalla polverizzazione cromatica impressionistica. Una
lezione estetica essenziale quanto l’austero contesto della scuola.
Esemplarità che si concretizza inunalto profilo morale e umano che
Galvano ritiene in dissolvimento nell'arte moderna con la quale si
conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro, tumultuoso nel bene
ma anche nel male, dal quale si sentì definitivamente estraneo
dall'inizio degli anni Sessanta. Il mondo del secondo dopoguerra
sarebbe affetto da una crisi di moralità alla quale potrebbe
unicamente fare fronte una presa di responsabilità politica, artistica,
religiosa, speculativamente limpida ed esente da posizioni compromissorie
e accomodanti come quelle sostenute dagli artisti che vogliono
salvare i valori della tradizione pur dichiarandosi moderni.
L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico aGalvanorisultano
ree di edificare, intorno a un fulcro di ragioni economiche (Marx) e
sessuali (Freud), un presente depauperato dall’opportunità della variazio-
ne imprevista. A una totalità di costruzione legata alla forma, tipica
del Medioevo, si avvicenda insomma una totalità d'impiego legata allo
scopo, decisamente avvilente come comproverebbe per inverso il
moder- no carattere apologetico della narrazione tecnica e scientifica.
Giudizio estendibile al fatto estetico per cui all'arte come atto
fabrile, tipico del Medioevo, si avvicenda l’arte come atto
intellettuale, peculiare del Rinascimento e dei secoli successivi fino al
XVIII. Seguirà il periodo reazionario e tradizionalista del Romanticismo,
caratterizzato dal recupero program- matico degli archetipi (Jung)
medievali ma rivissuti Per un'armatura, Edizioni Lattes, Torino,
1960. Senza il contesto sociale entro il quale quegli ideali
Sl erano formati. La spontaneità medievale diviene nel Romanticismo
programma culturale e come tale sarà ereditata dal Decadentismo e dal
Simbolismo, il Soggettivismo dei quali impronterà di sé l'Espres-
Slonismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla pulsione oppositiva alla
tradizione elevando a sistema l'efficienza produttiva di un “nuovo”
codificato come autoreferenziale, programmatico e inintelligibile
ma ‘ncapace di emanciparsi dal dato naturale nonostante esaurirsi
dell'esperienza storica dell’arte illusiva. Gli €pigoni dell’astrazione
storica, i concretisti, sarebbero Invece esonerati da questa soggezione
insieme alle Tetoriche idealistiche riuscendo, in piena
ricostruzione etica e umana, a calarsi completamente nel dato resi-
duale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico. Fu l’esperienza
che Galvano intraprese dal 1948 al 1953, con l'adesione alla branca
torinese del MAC, €sauritasi per lui nella spontanea affermazione
delle forme curvilinee tipiche del Liberty su quelle rette e
Spigolose dell’astrazione concretistica. In una sorta di personale
contropartita agli inte- lessi spiritualistici e antropologici, Galvano
pensa a Artemis Efesia, Edizioni Adelphi, Milano, 1966.
un'arte come luogo del verificarsi del mito capace di portare a
definitiva decantazione la sua inclinazione espressionistica (rubricata
dal Pallucchini) estraendo- ne la forza panica trasfigurata in una
rinnovata spinta metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente
come egli abbia risolto insé l’apprendistato casoratiano non
assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando l'aspetto decadentistico
della pittura del maestro celata sotto la rigorosa adesione a una norma
di cristallina evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio
critico volle incrinare dialetticamente il sapere con- solidato al fine
di cogliere unitariamente il senso più autentico della modernità.
Accostandosi ai testi suoi maggiori, nei quali dispiega un cospicuo
sforzo storico ma editati in un periodo a loro sfavorevole — “Per
una armatura” (1960) e “Arthemis Efesia” (1967), si hala sensazione
di essere dinanzi a un affascinate quanto indefinibile prodotto letterario
—saggio, disquisizione filosofica, colta divagazione, eccentrico
soliloquio, introspezione analitica — che, pensando alla continua
permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe a pensare a una
creazione letteraria con statuto indipen- denteecreativo rifiutato da
Galvano incline, viceversa, a una critica intesa come emanazione
di un'attività immanente all'atto creativo. Permane tuttavia l’eco
dell'idea crociana della storiografia e della critica che, pur non
aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi a sancirne la validità poetica
secondo l’idea del philo- sophusadditusartifici- contrapposta all'idea
dell’artifex additus artifici sostenuta da Annunzio e Conti sulla
scorta di Ruskin e Pater -—, attribuisce facoltà filosofiche e artistiche
alla soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.
Coscienza “temuta e avversata”* Croce è, per Galvano, un'autorità
intellettuale che in cambio di una piattaforma teoretica esige la
partecipata condanna delle opere che, passate al vaglio di un
accurato approccio metodologico, risultino prive di valore poetico.
Nell’acido corrosivo dell'ironia e dialettizzando gli argomenti con lo
storicismo, Croce condanna il Decadentismo nelle accezioni mistiche,
estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede inconsistenza
filosofica e spirituale, includendo in quel termine tutto ciò che tende a
sviluppi formali astratti e condannando di fatto la fitta rete
culturale e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce
avrebbe il merito di avere reso accessibile e ripercor- ribile questa
fitta topografia anche nella declinazione contraddittoria e fragilmente
raffinata del vituperato Decadentismo. Accettando la condanna
crociana, Galvano confessa la propria passione per decadenti,
esotici, erotici e apostoli misteriosofici, ponendosi scientemente in una
giurisdizione infernale come critico e come artista nato dalla linea
evolutiva del Simbolismo. Identifica anzi quello straordinario mo-
mento storico come un estremo malinconico balenio della civiltà al
crepuscolo, un'epoca di transizione divisa tra spirito e carne, abitata
da alcuni tra i più eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi
ma compiute e che lo sperimentalismo modernista delle avanguardie
esaurirà. In una sorta di ribellione alla figura paterna,
Galvano trasgredisce la raccomandazione crociana di non leggere Rimbaud,
Mallarmé, Valéry e risco- pre, anteriormente a Cremona?, il modernismo e
la linfa vitale del Decadentismo attraverso il quadro metodologico
del filosofo abruzzese inclusivo di fatti estetici anche diametralmente
opposti alle sue idee. A Galvano, come alla sua generazione, fu quindi
im- possibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità 4
A. GALVANO, Perché non possiamo non dirci crociani, in “Nu- mero — Arte e
letteratura”, V, n. I-II, gennaio-marzo 1953. Poi in: “Omaggio a Albino
Galvano”, catalogo della mostra, Circolo de- gli Artisti, Torino,
gennaio-marzo 1992, P. Fossati, F. GARIMOLDI, M. C. MunpiCI (a cura di),
Electa, 1992, pp. 116-120. Poi in: A. GALVA- NO, “Diagnosi del moderno”,
cit., p. 37. 5 I. CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze,
1964. 42 che quella metodologia offriva nel
sistematizzare l’intera storia. Quello che invece depose fu lo
spirito conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a ba-
nalizzarsi nell’idea diunmuseoimmaginario.Quando negli anni Sessanta ebbe
il proposito di approfondire l’immagine cultuale e psicologica
dell’efesina Arte- mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui
da un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!” (1898),
opera collocabile allora, quando uscì il libro, e tuttora, in un filone
di gusto piuttosto sospetto. Con una serie di pubblicazioni’, si renderà
così protago- nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato
interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più diuna semplice
ragione di studio quanto invece, nella pratica pittorica, una viva
permutazione in allusioni enigmatiche irriducibili a ogni
interpretazione, quali il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore
e sim- boli. Questa continuità formale si chiarisce anche come
continuità semantica quando si consideri come Galvano e Cremona abbiano
ricondotto l’arte astratta in un comune svolgimento con il Simbolismo e
con il Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata sul
piano della fabbricazione. Da cui il transitare di Galvano dalla fase
concretistica a quella informale e, più in là negli anni, a quella
araldica di nastri e bandiere per giungere appunto agli iris.
Trascorrere stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-
tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva assegnata ai reticoli
cromatici astratti e la sensibilità decorativa trasformata in materia
fermentata fino alla disgregazione dalla quale estrarre infine
nuovamente il ritmo danzante delle forme arabescate. Il Simbolismo
gli consente di riversare il misticismo nella propria opera di pensatore
e, soprattutto, di pittore. L'arte assume quindi un valore emersivo di
forze morali (leggi spirito) — del “bene” nel momento crociano, del
“male” più tardi in modo nietzschiano — prima ancora che estetiche (leggi
sangue); diade debitrice al suo filosofo di riferimento Ludwig Klages,
altro intel- lettuale trascurato in Italia quanto sospettato di
avere incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece più
coerentemente dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo
intuizionista. L'arte tenta un'indiretta conciliazione tra spiritualità e
artificio consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-
mente creatrice e non solo la copia di una copia; non una
rappresentazione ma un esserci immanente. La volontà di accogliere quel
“male” come necessario gli viene dalla presa coscienza di
un'’artisticità, che arde 6 A. Galvano, Dal
simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di lettere ed arti”, n. 4-5,
1953; Le poetiche del simbolismo e 1 ‘origine dell'Astrattismo
figurativo, in “Studi in onore di L. Venturi”, vol. II, 1956. Articoli
specifici ai quali aggiungere: L'erotismo del liberty e la sublimazione
astrattista, in “Cratilo”, n. 3, 1963. i Gabetti Isola, Casa di
Erasmo, Torino, 1953-1956. inlui fin dalla giovinezza, radicata
proprio nelle opere Create tra XIX e XX secolo e nelle elaborazioni
più irrazionalistiche. Come quella immoralità sia aperta a fertili
risultati lo si comprende appoggiandosi all’in- terpretazione che Galvano
offre delle Artemis: bianca come simbolo coadiuvante di perfezione
conchiusa ma Statica, nera come simbolo avverso di imperfezione e
INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può Jenerativamente aprirsi a
una riserva di possibilità eventualmente immanifeste. Per traslato,
quindi, la hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di
risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che la Pittura, come
prodotto di una volontà impossibilitata a realizzarsi nell’ideale, sia il
risultato di una caduta la Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità
e disvia- mento. Come s'accennava sopra, Galvano si smarca
dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico e del bene morale,
per lui non più coincidenti, ma accetta la disperata affermazione dell'immagine
come 43 “ ” a »
l Me. È È n IS 18 la . t
: LI è» ® î unico possibile
risultato dell'impulso proiettivo delle aspirazioni individuali o
sociali. Pittura che in ultima istanza è anche piacere sensoriale,
vocazionale istinto a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”,
vanitas; pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la
proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma- gini aderenti al
mistero, almeno per quel poco che la contemporaneità consente, poiché
ilmondo nega ogni giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero
bor- ghese, incapace di slanci estetici e metafisici, permette che
in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la pianificazione, la
sterile sistematicità. Per Galvano la nostra epoca è irrimediabilmente
scissa dal significato iù autentifico della vita, dalla sua forza
feticistica poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza del
dio era costante, una favola bella l'iconografia della quale non è che
una lontana immagine idealizzata priva, per i moderni, di ogni accenno
oracolare. Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse,
dovettero apparire perlomeno eterodosse all'atto della loro formulazione,
divise tra esistenzialismo e fenome- nologia e affacciate all’abisso del
mondo preclassico, alle profondità eraclitee. Scostatosi
dall’irrazionalismo di Klages, Galvano non intese fare di sé un
anti-razio- nale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come
indica la personale concezione di arte in equilibrio tra ragionevolezza e
vaticinio, secondo un fare né pienamente consapevole poiché eroticamente
privo di volontà intellettiva, né tantomeno completamente
incosciente poiché contemplativo. Pertanto l'ipotesi di Galvano fu più
aderente alla poetica di Mallarmé piuttosto che al pensiero di Valery,
perché dove il primo disidratando e affinando la parola poetica
pose le condizioni per un superamento del modello simbolistico aprendo di
fatto alle avanguardie, il secondo immaginò la creatività come un processo
logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla consapevolezza
dell'atto. Esaltando cartesianamente l’intellettoela coscienza, il
processo creativo per Valery è un'attività spiegabile analiticamente
senza ricorrere a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,
sessualità e sensualità - Croce aveva biasimato la sen- sualità
nell'opera di Mallarmé come priva di “anelito d’innalzamento”” — furono
invece le pulsioni vitali del Simbolismo che interessarono Galvano e che
la razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti- co,
dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse pregiudiziali.
Speculazione intellettuale e artistica che rivela tutta l’enigmaticità di
Galvano che oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da
Alain, di “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,
intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se da una parte,
sull'esempio di Mallarmé — il quale pre- cipitò le parole nell’assoluta
perentorietà delle pure idee aspirando infine a una “poésie sans les
mots”® -, Galvano pare decidersi per la “vue” aderendo al
concretismo astratto come pars construens dalla quale pretendere risposte
formali di esito certo, dall'altra, per mezzo del multiforme divenire
della sua pittura, apre obliquamente alla possibilità allusiva
dell’appa- rire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo
al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza creativa
all'evidenza intellettuale di forme e colori è l’unica risposta
contingente possibile per Galvano che decide di non decidere tra i
termini antitetici asseriti, approfondendolo sguardo nell'oscurità della
creazio- ne e della vita. Medesimamente il Galvano scrittore
affronta il passato eludendo la descrizione analitica delle epoche
storiche portandone bensì all’emersione 7. B. CROCE, Poesiae non
poesia, Laterza, Bari, 1950, 5° edizione riveduta, pp. 318, 319.
g S.MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Eugène
Fasquelle Éditeur, Parigi, 1897, p. 297. i reconditi meccanismi,
le contraddittorie spinte pul- sionali; un’organica prassi opportuna a
increspare la ricerca storica attraverso una molteplicità di punti
di vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente
sollecitati. Il rischio nell’approcciare oggi la figura di Galvano
è quello di appiattirne il pensiero, come già avvertiva Sanguineti nel
1990°. L'illustre allievo aveva compreso come il decadentismo pittorico
di un Moreau o lette- rario di un Huysmans fossero considerati dal
maestro un indispensabile momento storico. Galvano mostra insomma
un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni crepuscolarmente
schifiltose”!° che avevano impedito ai Campana, agli Onofri, agli
Ungaretti e ai Montale di superare, senza rifiutarne la “carica panica e
mitica”, il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano.
InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista si era in sostanza
ripercosso nella crociana deplorazione categoriale per l’arte moderna
insieme all’illusione di potere produrre un'opera estetica autenticamente
nuo- vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il
tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates latine che aveva
tentato D'Annunzio richiamandosi ai romantici tedeschi, apriva gli occhi
di Galvano ai presocratici e alla filosofia moderna
(dall’irrazionali- smo alla scuola ermeneutica) che del classicismo
aveva assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso di
una natura come rivelazione del divino. Da cui l’idea di una suprema
ragion d'essere trascendente alla quale l’arte, per Galvano, dovrebbe
aprirsi ma che invece nelle enunciazioni contemporanee gli pare,
con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera chiusa. Con un piglio da
lettura sociale dell’arte, Galvano scrive dell’esaurimento dei rapporti
storici tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato
l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte così a gratuite
provocazioni. Conseguentemente proponeva le dimissioni delle categorie di
giudizio elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con
un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da Sartre su
Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre un pittore tradizionalista,
Galvano si dichiara disin- teressato a certi sviluppi artistici lasciando
intendere come il problema dell'effimerità dell’arte contempo-
ranea—compreso l'amato astrattismo geometrico—sia anche un problema della
storia dell’arte come disci- plina. Su come debba essere poi questa
storiografia Galvano non si pronuncia se non dichiarando che il
problema della storia dell’arte debba essere anche e SANGUINETI, Contro
la ragione, in “La Stampa”, 10 marzo 1990, p. 7. 10 A.
GALVANO, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Tori- no, dicembre
1979-gennaio 1980, p. 108. 11 Ibidem. soprattutto il
problema dell’uomo! Sovvengono le parole destinate a grande fortuna
critica che avrebbe scritto Hans Belting nei pamphlet intitolati “La
fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte” (1983) e nel
successivo “Das Ende der Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehnJahren”
(1995)nei quali auspicava la fine della storiografia artistica
tradizionale a favore di proposte olistiche e antropologiche avvedute
delle mutate circostanze sociopolitiche, del rimescolamento di
cultura alta e bassa, della suggestione determinata dai linguaggi
mediali, dell’emergere di realtà culturali prima marginalizzate,
dell’obsolescenza della funzio- ne assegnata al lavoro manuale,
dell’alterato ruolo di musei e gallerie d’arte. La prospettiva delineata
da Galvano si tinge di accenti acri quando denuncia la pacifica cittadinanza
ottenuta dagli ismi ridotti alla non nocenza di prodotti da supermarket
immersi in una rete di opportunità economiche e di complicità
professionali. Un terreno culturale desolante che assume una disillusa
trasposizione nella sua pittura ultima, nei paesaggi desertificati, nella
scelta estrema del silenzio creativo come opzione possibile nonché
parzialmente intrapresa. Facendosi anticipatore di posizioni
storiografiche di superamento della cano- nica divisione tra antico e
moderno e concentrando il periodo rivoluzionario dell’arte d'avanguardia
tra il 1907 e il 1925, in una sorta di personale à rebours Galvano
esprime l'opinione secondo cui i movimenti artistici successivi si
sarebbero attestati su posizioni di assimilazione manieristica piuttosto
che di irriverente Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi
della tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte
moderna parallela più complessa e connettiva come avrebbero potuto
scriverla gli artisti ai quali infine delega idealmente il compito futuro
di creare un'ar- te che, restando nell’ambito non figurativo e
senza Impossibili riflussi, riesca coerentemente a ristorare i
Valori artistici e umani del passato. Galvano insomma invoca il diritto
anon essere moderno, o peggio ancora d avanguardia, evitando di lavorare
sulla contingenza e rifiutando l'egemonia della critica per
privilegiare, In senso dichiaratamente anticrociano, la poetica
degli artisti che al lavoro intellettuale uniscono la prassi.
Insieme alla proposta per un rinnovamento della Storiografia artistica
Galvano ne affianca un’altra di Natura conservativa consistente nell’idea
di salvaguar- dare le opere minori del modern style, perlomeno gli
Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di Cometti Per esempio).
Immagina la documentazione degli edifici Liberty finendo per invocare
l'allestimento di Una retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale,
ma ù A. Gauvano, «Cosa nostra», in “Sigma”, Ln1, primavera
64, pp. 63-70. Poi in: “Omaggio a Albino Galvano”, 1992, cit., Pp.
130-133. Poi in: “Diagnosi del moderno”, cit., p. 59. avveduta del caso
italiano e piemontese nel dettaglio, da allestirsi nella rinata Galleria
di Arte Moderna di Torino (1960). Caduta nel vuoto la proposta sarà
pro- prio Galvano a scrivere un articolo sull’Art Nouveau a Torino!
e poi, insieme a Giorgio Balmas e Lorenzo Guasco, a curare nel 1978 al
foyer del Piccolo Regio una mostra dedicata alla pittura torinese
all’inizio del secolo. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di
vita prima ancora che d’arte nel quale confluirono la vita delle forme
collettive e l’individualità creativa. Dissentendo da Croce, l'interesse
di Galvano per gli oggetti si approssima alle idee espresse da Giovanni
Gentile nella prolusione al corso universitario di storia della ceramica
pronunciato nel Palazzo Comunale di Faenza nel 1928 nel quale il
filosofo, saldando arte e vita, rivendica la dignità estetica dei
prodotti artigianali e industriali di qualità. Si consuma qui
l'ennesima contraddizione di un crociano affine alle idee di Gentile che
pur biasima per densità retorica. Sensibile alle arti dei periodi di
transizione e avvedu- to della caducità dei giudizi, compresi i propri,
per Galvano ogni critica obiettiva deve essere sempre
un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un esegeta capace di rileggere
l’arte tra i due secoli, così come Sanguineti seppe fare con la
letteratura, Galvano rammenta come la sua generazione abbia vergato
parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni addietro valutato un
artista di statura europea. Ma fu anche la generazione di quei giovani i
quali, raggiunti i vent'anni nella terza decade del XX secolo,
quando dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono conle
parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans il cui Des Esseintes sembrò
essere allora il prototipo di un esteta come Carlo Mollino. Dell’amico,
stimato oltre che come professionista di genio anche come
dilettante d'eccezione, Galvano ammirò la capacità di governare con la
formazione culturale crociana e il rigore razionale tipico della sua
professione, gli umori sensuali, avventurosi e ambigui del suo
animo capace di rievocare il ritmo aperto e biologico del Liberty
restituendolo nella voluttà degli interni arredati, nell'armonia
architettonica dei pieni e dei vuoti, nella eterogenea e immaginosa
commistione di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità che il
termine “surreale” illustra solo parzialmente e che trova una segreta
corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle
conchiglie, negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere
barocche che Galvano dipinge negli anni Trenta e Quaranta. L'identità
autopoietica generata da Torino si manifesta nella condivisione
spirituale prodotta da A. GALVANO, Per lo studio dell'Art Nouveau a
Torino, in “Bol- lettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle
Arti”, nn. 14-15, 1961. questa generazione d’eccentrici
intelletti, nella speci- fica formazione di un genius loci come Galvano e
nel progetto della Bottega d’Erasmo che Gabetti e Isola disegnano
in forme intellettualistiche neo-liberty nel 1953. Proprio in quell’anno,
“A Rebours” di Huysmans diverrà per Galvano il pretesto per puntualizzare
le proprie posizioni all’interno del Mac e più in generale nel modo
di intendere il Decadentismo!. Quando Leonardo Borgese consigliò agli
astrattisti concreti, in chiusura della recensione alla mostra di
Galvano allestita presso lo Studio B 24 di Milano nel 19535, di
rileggersi il celebre romanzo di Huysmans nel quale, a suo parere, ci
sarebbe stato il necessario per decodi- ficare la loro poetica, gli
aderenti al gruppo accolsero l'esortazione come una blasfemia da
respingersi inte- gralmente. Galvano ritenne legittima la protesta
dei compagni astrattisti apparendogli chiaro come Borgese
incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante vita del
protagonista narrato nelromanzo, diesprimere un'e- pidermica quota di
edonismo e di sensualismo ribelle ai disvalori della società
positivistica industrializzata e scientifica, votata al profitto, al
commercio, al nuovo capitale borghese. Dopo di che Galvano,
confessando di aderire parzialmente al pensiero del capitano della
brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura
sorprendentemente sincretica aperta al riconosci- mento dell’ambivalenza
del rapporto tra astrazione e Simbolismo. Al rifiuto delle suggestioni
emotive del Simbolismo, l’astrattismo, secondo Galvano, ne
intellettualizzerebbe le allusioni ele “corrispondenze” (termine
apertamente rimontante a Baudelaire) come strumento oppositivo al
dilagare prosastico del reali- smo. L'astrattismo del dopoguerra
ridurrebbe quindi ai minimi termini la carica letteraria aumentando
quella metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili
dell’astrazione primonovecentesca e tesaurizzando nel contempo (sulla
scorta della ricostruzione filogenetica di Pevsner) la lezione di Toorop,
Gauguin, Munch e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge,
Blake, Antonelli, Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei precursori che
evocarono ancora le leggi del mondo fisico consentendo agli evoluti
linguaggi non figurativi di divincolarsi più recisamente dalla mimesi.
Negli anni tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia e della
psicologia della forma, si assisté a un aurorale revisionismo
storiografico dell'Art Nouveau — anche Edoardo Persico ebbe in animo di
scriverne una storia!° 14. A. GALVANO (asterisco di) in, ‘Pitture
di A. Galvano in un esperimento di sintesi” (testo anonimo), Milano
Studio B 24, “Arte Concreta”, bollettino n. 12, seconda serie, febbraio
1953. Poi in: P. Fossati, “Il movimento arte concreta 1948-1958.
Materiali e documenti”, Martano Editore, Torino, 1980, pp. 62, 63.
15 L. BorcEse, “Corriere della Sera”, 1° gennaio 1953. 16 A.
Pica, Revisione del Liberty, in: “Emporium”, a. XLVII. n. 8, vol. XCIV,
n. 560, agosto 1941, p. 66. 46 — ma sarà con gli anni
Sessanta e Settanta che diverrà condivisa acquisizione la carica anticipatoria
ricoperta da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da
Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume un ruolo sovversivo nel
movimento proponendo ine- dite e intelligenti aperture di senso che
tuttavia non giungeranno a ispirare un prolifico dibattito
all’interno del gruppo infragilito dalle difformità tra la
posizione intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e gli
arrovellamenti sulla materia fortemente allusiva espressi dalla linea
torinese. Risalendo alle sorgenti dell’arte astratta, Galvano riannodò,
in antitesi alle let- ture formalistiche, le affinità con le fonti
spiritualiste di Decadentismo e Simbolismo e — pensando alla
densità mistica nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo e cattolicesimo
— con le citazioni della Blavatsky e di Steiner scritte da Kandinsky, con
la prossimità di Mon- drian ai circoli teosofici, con il lirismo magico
di segni e colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con uno dei
primitesti dedicati all’astrazione scritto da Julius Evola. Dandy
autoironico votato alla marginalità, Galva- no disseminò il proprio
percorso di tracce sulle quali indugiare, trascorrendo liquidamente da
una disciplina all'altra in modo stupefacente per un intellettuale ani-
mato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla metodicità dello
studio scolastico. Attribuire un senso univocoal suo pensiero
equivarrebbe a fraintenderne la filosofia e l’idea stessa di un'arte come
autosufficiente e spontaneistico operare nella ferita aperta tra vitali-
smo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia a cicatrizzare.
La civiltà intera corrisponde per lui alla fenomenicità delle immagini da
essa prodotte che, in sostanza, aprirebbero al mistero quale autentico
even- to metafisico. Intendendo come piani dell’emersione
archetipica i segni dell’arte — della quale l’idealismo si limiterebbe a
coglierne l'aspetto teoretico, Alain quello pratico e l’Esistenzialismo
quello etico — sarebbe troppo semplicistico archiviare la passione di
Galvano per Decadentismo, Simbolismo e modern style, come
l'infatuazione culturale per un'epoca vesperale. Egli si sente invece
custode ed erede di quella lacerante contraddizione, di quella genesi
oppositiva, di quella disperata tensione verso uno spirituale
fatalmente arreso alle forme dell’estetismo, di quella magnifica e
perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale nella personale
proteiforme pittura così come nelle pro- gressive illuminazioni della sua
letteratura filosofica e artistica. Opere esposte1 Lettrice
sdraiata -— 1931 — olio su tela — 63,5x81 cm 2
Autoritratto - 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm 3
Astrazione - 1950 — olio su tela — 50x60 cm et adi
4 Il giorno olio su tela 100x80 cm Pacato — 1954 — olio su tela —
90x110 cm 6 Composizione in nero — 1954 — olio su
tela — 90x110 cm / S.t.-1956-olio su carta — 34x48
cm $ Ercole ed Anteros — — olio su tela — 85x115
cm 9 Omaggio a Van De Velde - 1959 — olio su tela —
80x90 cm 10 Ir1s — 1960 — olio su tela — 105x95
cm 58 10Y1-1960- olio su tela — 95x110
cm 3 F 12 Calligramma — — olio su tela —
100x85 cm 13 Fiori di lago — 1962 — olio su tela —
100x120 cm 14 Le jardin de cet astre — 1962 — olio su
tela — 132x116 cm 15 Ireos — 1962/65 — olio su tela —
130x115 cm 16 Proposta — — olio su tela — 135x122
cm 17 Pavese — 1967 — olio su tela — 120x110 cm
18 Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60
cm 19 Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80
cm 20 Nastro n. 25 — 1968 — olio su tela — 90x80
cm 21 Nastri — 1969 olio su tela — 60x50 cm
22 Nastri colorati — 1969 - olio su tela — 110x100 cm
23 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
24 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm MALI
25 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
ter» IG MOFBEE sie Tre ir"
Saitta Sl 26 Segni asemantici
(dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm pari #1 =$
Re |a te n ; 26 Segni asemantici (dittico) - 1973 —
olio su tela — 110x90 cm 27 Artemis — 1974 — olio su
tela — 120x110 cm 28 Maioresque cadunt - 1974
— olio su tela — 90x80 cm TITO sal - —
olio su tela — 70x50 cm 30 s.t.olio e carboncino su
tela — 80x60 cm 31 Ireos - 1977 — olio su tela —
70x60 cm —_—— mr LIIII:5 ——_—_
T=—r-—-r®x (i 32 Iris n. 2 - 1975 - acquarello su
carta — 40x30 cm Sa Cespu glio — 1974 — acquarello su
carta — 40x30 cm
34 Glotre du lon g desir idees —- 1975 — acquarello su carta — 40x30
cm 35 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30
cm VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET
DART DIG SPARI DIO RR pia I I LITIO ODE LIL 36 Fiori acquarello su
carta — 40x30 cm 37 Une Fleur — 1975 — olio
su tela— 70x70 cm 38 Scrittura - 1976 —
acquarello su carta — 60x50 cm 39 Sassi e foglie olio
su tela — 80x80 cm 40 Foglie morte — 1978 — olio su
tela — 80x80 cm 41 Ciottoli — 1980 — acquarello su
carta — 40x30 cm Labrit, © di DASIO LT R EDLI
u DILODIAT 42 Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta —
48x35 cm 43 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta —
48x35 cm ” — hu ro iiriiRRRE
44 Rocce e ciottoli — olio su tela — 80x80 cm
45 Rocce e sassi — — olio su tela — 80x80 cm
46 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm
47 Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm Opere in
mostra 01 — Lettrice sdraiata —— olio su tela — 63,5x81 cm
02 — Autoritratto — 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm 03 —
Astrazione — 1950 — olio su tela — 50x60 cm 04 — Il giorno — olio
su tela — 100x80 cm 05 — Pacato — — olio su tela — 90x110 cm
06 — Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm 07 —
s.t.-— 1956 — olio su carta — 34x48 cm 08 — Ercole ed Anteros —
1956 — olio su tela — 85x115 cm 09 — Omaggio a Van De Velde — — olio su tela — 80x90 cm 10 — Iris-— —
olio su tela — 105x95 cm 11 — Fiori olio su tela 95x110 cm Calligramma olio
su tela — 100x85 cm 13 — Fiori di lago —- — olio su tela — 100x120
cm 14 — Le jardin de cet astre —
— olio su tela — 132x116 cm 15 — Ireos — 1962/65 — olio su tela —
130x115 cm 16 — Proposta — 1965 — olio su tela — 135x122 cm
17 — Pavese — — olio su tela — 120x110 cm 18 — Farfarello e
Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm 19 — Gonfaloni — 1968 — olio
su tela — 95x80 cm 20 — Nastro n. 25 - 1968 — olio su tela — 90x80
cm 21 - Nastri — 1969 — olio su tela — 60x50 cm 22 —
Nastri colorati —- 1969 — olio su tela — 110x100 cm 23 — Nastri —
1970 — olio su tela — 60x50 cm 24 — Nastri olio su tela — 60x50
cm 25 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm 26 —
Segni asemantici (dittico) — 1973 — olio su tela — 110x90 cm 27 — Artemis
— 1974 — olio su tela — 120x110 cm 28 — Matoresque cadunt — 1974 —
olio su tela — 90x80 cm 29 — s.t.- 1974 -— olio su tela — 70x50
cm 30 — s.t.— 1974 — olio e carboncino su tela — 80x60 cm
31 — Ireos — 1977 — olio su tela — 70x60 cm 32 — Iris n.
21975 — acquarello su carta — 40x30 cm 33 — Cespuglio — 1974 —
acquarello su carta — 40x30 cm 34 — Gloire du long desir idees —
1975 — acquarello su carta — 40x30 cm 35 — Fiori —- 1975 — acquarello su
carta — 40x30 cm 36 — Fiori - 1975 — acquarello su carta — 40x30
cm 37 — Une Fleur — 1975 — olio su tela — 70x70 cm 38 —
Scrittura — 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm 39 — Sassi e
foglie — 1978 — olio su tela — 80x80 cm 40 — Foglie morte olio su
tela — 80x80 cm 41 — Ciottoli acquarello su carta — 40x30 cm
42 — Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 43 —
Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 44 — Rocce e
ciottoli - 1981 — olio su tela — 80x80 cm 45 — Rocce e sassi — 1981
— olio su tela — 80x80 cm 46 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela
— 80x80 cm 4/ — Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80
cm Finito di stampare nel mese di marzo 2021 da GARABELLO
ARTEGRAFICA (SAN MAURO TORINESE). Grice: “I don’t see why Italians are obsessed
with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks conceptual
artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing. In his more
snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of art –
bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or third,
and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is – as
shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino
Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce, Grice. By uttering
x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of gesture. il concreto,
l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di Sraffa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The Swimming-Pool
Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.
Grice e Gangale – il dia-letto e la dia-lettica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò
Marina). Filosofo italiano. Grice: “I like Gangale; the fact that I taught for
years in front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio
Corone. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Firenze. Si laurea con “La
logica della probabilita”. Iniziato in Massoneria, nella Gran Loggia d'Italia. Porta avanti la difesa dell’idioletto e del
dialetto. Opere "Rivoluzione
Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della
cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa);
“Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve
regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli,
Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia. According to Louis Hjelmslev,
semiotics is first and foremost a hierarchy. Its distinguishing feature is that
it is guided by a dynamic principle by which it is split into dichotomies at
all levels, yielding expression and content, system and process, denotative and
non-denotative semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative
semiotics. This text may be reproduced for non-commercial purposes,
provided the complete reference is given: Sémir Badir (2006), « The Semiotic
Hierarchy », in Louis Hébert (dir.), Signo[online], Rimouski (Quebec),
http://www.signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp. 2. THEORY top
2.1. The terms semiotics and semiotic [n.] designate two a priori
dissimilar things. By semiotics, we mean a field of study in which we can
formulate a method for analyzing signifying phenomena, as well as a theory
including all the particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the
result of a semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics
that seeks to map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And
furthermore, from a synchronic perspective (the music of a given period and
culture), if not from a panchronic perspective (music in general), we can say
that music is itself a semiotic [sg.], being possessed of both a system
(distinctions in pitch, duration, timbre, and so forth) and a process
(consistent relations between sounds in their various aspects). According
to Hjelmslev, the acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in
relation to one another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal
to the results of its analyses. As such, it is also endowed with a system and a
process. In order to preserve the distinction between the two terms, we must
understand that semiotics as a whole contains specialized individual semiotics
[pl.], some of which are useful in developing theories and methods (the ones
that Hjelmslev calls metasemiotics), while others are meant to be articulated
into semiotic hierarchies (this is the role of what he calls the connotative
semiotics). Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's
works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent
parts (in Hjelmslev, 1975, p. XVIII; also translated into French in Hjelmslev,
1985, p. 17). The class of objects The class of objects NOTE: THE
LIMITS OF GRAPHICS The above chart shows only one aspect of the functions
identified between semiotic components: their paradigmatic functions (the
relations between classes and their members). A more complete diagram designed
to include the distinguishing features of semiotics would also show the syntagmatic
functions (relations of implication) that operate between the different
components. Tree diagrams do not really lend themselves to this kind of
representation. This is one difficulty that Hjelmslev himself was unable to
completely resolve. 2.2. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work,
Principes de grammaire générale, written in French in 1928, Hjelmslev sets out
the principle of classification that is operative in any language [langage].
"Categories as such", he writes, "are a fixed quality of
language. The principle of classification is inherent in all idioms, all times
and all places" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 78). Thus linguistics, with
its three levels of analysis (phonology, grammar, and lexicology) is a science
of categories. However he adds that "the science of categories must
disregard the categories established in logic and psychology and venture right
into language's territory to find the categories that are characteristic of it,
that are specific to it, and that are not found anywhere outside language's
domain" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 80). Hjelmslev soon extended this
domain to include languages other than verbal ones, but not to the point of
including any system of classification. The semiotics [pl.] make up this
larger domain, and they are distinguished from other systems of classification
by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of their analysis
at all levels. We find this uniformity first between the components of any
semiotic. By custom, these components are called the expression plane and the
content plane. The reason for this is that as a general rule, expression forms
are visible in the object (they are "expressed"), whereas it is in
the content forms that signification resides (the semiotic object
"contains" content forms). However, this is beside the main point,
which is that we always analyze a semiotic object (usually a text) uniformly,
with an initial distinction between two components. In other words, for
Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content can be given
predominance; they must both be analyzed together (Hjelmslev, 1928, p.
88). NOTE: ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY It is true that Hjelmslev
subsequently states that the semiotic planes must also not be conformal to one
another; otherwise the distinction between them is nullified (Hjelmslev, 1963,
p. 112). It would require too many theoretical details to explain the principle
of nonconformity here. Suffice it to say that this principle is not directly
related to the issue addressed in this chapter, which is hierarchical
organization, and that, furthermore, nonconformity does not in any way
interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their
structural parallelism). Although it doesn't simplify matters any, we must
acknowledge that a diagram of semiotics actually postulates a classification
that is itself non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen
as either an expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory)
or a content plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and
each of these planes is conformal to the other. 2.2.2 PARADIGMATIC
FUNCTIONS In one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to
establish distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function
can always be expressed as two elements in an either... or...relation:
"either this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a
sound, word, sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of
these functions. There are three possible results: (1) two constants are
identified; (2) there is no constant identified, so that the elements involved
remain as variables; (3) one of the elements is considered to be the variable
of the other. The three types of paradigmatic functions either this or
that, one excludes the other constant ↓ constant
complementarity either this or that, it makes no difference
variable ↑ variable autonomy either this, or more specifically that
constant –| variable specification For example, in French, the
masculine and feminine are two constants (of content) with respect to animate
beings. Conversely, with respect to inanimate elements, they are regarded as
variables. In French we refer to cities, which have no designated grammatical
gender, sometimes as feminine and sometimes as masculine. And finally, with
respect to the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been
selected as the constant of content. Naturally, linguistics aims first to
establish constants, in either a relation of complementarity or of
specification. From a paradigmatic standpoint, the expression plane and the
content plane are complementary in semiotics (e.g., in a verbal language),
whereas in a symbolic system (e.g., in a computer programming language) they
are autonomous. Another aspect of semiotic analysis identifies relations
between elements. A syntagmatic function can be expressed as two elements in a
both... and... relation: "both this and that". Once again, three kinds
of syntagmatic functions may be identified: (1) if one element is present, the
other must also be present, and vice versa; (2) one element does not have to be
present for the other to be present; (3) one element is required for the other
to be present, but not the reverse. The three kinds of syntagmatic
functions both this and that, by necessity constant ↔ constant
solidarity both this and that, by contingency variable –
variable combination this necessarily accompanied by that
variable → constant selection A verbal sentence is the
necessary association of a noun phrase and a verb phrase; they are the two
syntagmatic constants of the sentence. Conversely, there is no consistent
relation between the categories of verb and adverb: the verb can be present
without the adverb, and the adverb can modify something other than a verb (an
adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and the adverb are
variables relative to one another. On the other hand, an article requires a
noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the constant
and the article is the variable. From a syntagmatic perspective, there is
always solidarity between expression and content. If the analysis identifies an
expression plane for a given object, then it must also identify a content
plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a
semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our
analysis). NOTE ON LINGUISTIC LAWS Necessity in syntagmatic
functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution
would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is
replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical
non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the
predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been
recorded in attested texts must still be valid for future texts. 2.3
DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages are the
first object of semiotic analysis. Their systems are identified through the
paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic functions
on both planes, expression and content. When analyzed, texts are equivalent to
processes, since they constitute chains of semiotic elements that are put into
relation with one another. Semiotic analysis can be applied secondly to
other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is from this
extension that it has earned the name semiotics. But in addition,
semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of language
that cannot be reduced to two planes (their components are not even in number).
These languages [langages] are termed non-denotative. There are two kinds: the
metasemiotics and the connotative semiotics. A metasemiotic is rooted in a
semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this plane, each
element of content takes on an expression in a denominative capacity.
This is what we are doing when we say that in a certain advertisement for
French pasta (to take a famous example used by Roland Barthes), the yellow and
green colours on a red background (the colours of the Italian flag) signify
"Italianicity" (Barthes, 1985, p. 23). Italianicity is a metasemiotic
expression used to designate the signification of visual elements
(colours). The same function is in operation when we say that the
expression arbor signifies "tree" (Saussure, 1959, p. 67), except
that in this case, both expression and content take on metasemiotic expressions
through the use of distinct typographical markers (italics and quotation marks)
and different languages (Latin and English). In this case they are called
autonyms. Metasemiotic control helps us to avoid any equivocation between
expression and content in our analysis. Finally, metasemiotic expression
also has a power of generalization, by allowing categories to be designated.
When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are attributing a name
to several syntagmatic functions grouped under this common denominator. To put
it another way, the metasemiotic expression verb can be used to describe a
syntagmatic function that is analyzed in each particular verb (Badir, 2000, pp.
122-123). It can be helpful to include this control plane in a specific
semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling metasemiotic
expressions (writing being the prime evidence of this, and so very complex).
This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the control plane,
and the other is the object semiotic. By doing this, the metasemiotic once
again becomes a binary structure, but with two tiers (in the table below, E
stands for expression, C for content). Metasemiotic structure
metasemiotic control plane (E) object semiotic (C)
expression plane (E) content plane (C) 2.5 CONNOTATIVE
SEMIOTICS The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a
control function, however. In fact, we can always affix a third plane to a
semiotic in order to account for anything that has been missed by the analysis,
anything that is considered to be a special case or exception.
Variants are the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to
account for them in some way nonetheless, then we define them as invariants
within special or narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The
third plane, then, is formed by considerations that were not selected in the
first-tier analysis (called denotative). This plane is ordinarily held to
be a content plane, since it is assumed that semiotic objects cannot be
intrinsically modified by these considerations. (One senses a delicate point
here, that is admissible only at the discretion of the analyst).
Connotative structure connotative semiotic denotative semiotic (E)
plane of connotators (C) expression plane (E) content plane
(C) For example, Hjelmslev maintains that any given language
may be analyzed equally well through its written texts or its oral utterances;
in other words, that its rules of syntax, its morphological formations and
vocabulary are common to oral as well as written productions. Certainly anyone
can see that this assessment is not ill founded. Nevertheless, there are
distinctions, which have inevitably been left as variants in the linguistic
analysis. Ensuring compatibility between the analysis of these variants and the
first-tier analysis is a matter of establishing a plane in which orality and
writing can be included as two paradigmatic invariants of content of a
particular type: orality and writing are set up as connotators. In this way,
the first-tier analysis remains valid, although it can always be customized
with respect to the newly established paradigmatic function (Hjelmslev).
From a broader perspective, we can use connotative semiotics to specify which
tier of specialization to use for a particular semiotic analysis, as semiotic
analysis is not apt to be applied indiscriminately to any element of language
(this is only true of its theoretical components, in particular, the ones
presented here). In linguistics we begin by recognizing the plurality of verbal
languages, basing our analyses on distinct corpora for each language. It is the
role of connotative semiotics to establish each language as a connotator. So
when we speak of the "linguistic analysis of French", French is a
connotator, as it determines in which particular case the analysis is
valid. At this time, the theory of semiotic hierarchy has been developed
extensively only in the application for which Hjelmslev initially intended it:
the metasemiotic hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's
tree diagram, reproduced in section 2.1). Metasemiotic hierarchy with
languages [langues] as the object semiotics
expression plane analysis content plane analysis internal
semiologies paradigmatic perspective phonology
lexicology syntagmatic perspective "morphology"
grammar external semiologies paradigm of historical and geographic
connotators historical and dialectal phonology historical
lexicology and dialectology comparative and historical grammar
paradigm of social connotators sociolinguistics, linguistics of written
language paradigm of psychic connotators pedolinguistics,
psycholinguistics, study of language disabilities paradigm of cultural
connotators rhetoric, stylistics, narratology internal
metasemiologies phonetics semantics external
metasemiologies physics and physiology of sound extrinsic
interpretations We will start by discussing the table entries. In the
hierarchy there are two columns dividing the analysis into two components,
labelled expression plane and the content plane. However, this
subdivision does not hold throughout (as in the case of comparative grammar),
either because two different semiotic analyses bear the same name in practice,
or because the analysis is non-semiotic, as it turns out. The hierarchy is
divided into rows representing the object semiotics. First they are divided by
their rank in the hierarchy (semiotic or metasemiotic), next by distinguishing
the denotative semiotics (addressed by the internal semiologies) from the
connotative semiotics (described by the external semiologies). Lastly, the
denotative semiotics are divided into paradigmatic and syntagmatic functions.
It should be noted that the hierarchical structure shown here is reversed in
actual practice, where one always proceeds by progressive expansion, beginning
with denotative analysis, or more specifically, paradigmatic analysis. In
this table, languages are denotative semiotics from the standpoint of the
internal semiologies and metasemiologies; however, they are treated as
connotators from the standpoint of the external semiologies and
metasemiologies. The operation of the latter is dependent on the former.
In addition, the metasemiologies regulate the semiologies by allowing us
to verify whether they are adequate to account for the facts of language
[langage]; however, there is no one-on-one correlation between internal
semiology and internal metasemiology, nor between external semiology and external
metasemiology. For example, a semantic analysis can provide the basis for a
lexical derivation or for a narrative schema. And the physiological analysis of
sound can be used as a descriptor for a phonological invariant (e.g., using the
physiological feature palatal to designate an invariant) or as a means to
describe child language (e.g., the term "labial click", which
describes the onomatopoeia produced by babies 12 months old, also known as the
"kissing sound" – this example is cited in Jakobson, 1968, pp. 25-26,
footnote). Morphology should be understood in a specific sense, not
entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense. Morphology
deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical forms in his
Principes de grammaire Générale. Finally, note that while linguistics can be
considered as one metasemiotic among others, there can be no objection to
adopting the point of view that semiotics provides cultural connotators for a
comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are compatible in
glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen to be
complementary, to the benefit of semiotics. top BADIR, S., Hjelmslev, Paris:
Belles-Lettres. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The
Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation,
trans. R. Howard, New York: Hill and Wang, 1985, pp. 21-40. HJELMSLEV, L.,
Principes de grammaire générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, HJELMSLEV,
L., Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison:
University of Wisconsin. HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language,
Madison: University of Wisconsin Press, 1975. HJELMSLEV, L., Nouveaux essais,
Paris: Presses universitaires de France, 1985. JAKOBSON, R., Child Language:
Aphasia and Phonological Universals, The Hague: Mouton, 1968. SAUSSURE, F. de,
Course in General Linguistics, trans. W. Baskin, New York: Philosophical
Library. Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians adored him because he
got Danish citizenship; also because he understood Hjemlslev as nobody does!
Gangale was practical; he was into his ethnic minority. He formed good
philosophical bond with Gobetti, against Croce and Gentile. It is obvious that
those who know the Gangale of the Albanian studies won’t make a connection with
his fight for protetantism and his adventures with Italian philosophy, with
Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he was able to immerse in
Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe
Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords: il dia-letto e la
dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto, dia-letto, ethno-letto.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto al dia-letto” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Garbo – la fisiologia dell’amore -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I
like a Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a
time when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the
natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against
Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love
unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved
the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia
sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il
consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno
dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che
Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve
period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna
e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e
farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i
suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando
Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal frequentare
lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare Bologna. Si
transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90 fiorini d'oro
come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si recasse a
Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo commento su
una parte del libro IV del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il soprannome
di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium totius
pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a causa
del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo
commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra (anche
se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite dai
biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa
Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a
Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno
stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva
letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante
medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super
canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi
prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di
Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”. A causa dell'invidia dei suoi colleghi di
Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di
Torrigiani. Le lezioni riscuotevano
molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un
allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le
sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva
segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Cecco D'Ascoli ne fece scherno
con i suoi allievi, e Garbo e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia
Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani
e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si
fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte,
avrebbe potuto prendere i suoi scritti. L'episodio,
probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso Garbo
a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova,
che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di
fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che
probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in
veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese
dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente
ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di
capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui
appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati
da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con Garbo.
Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste
parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché
siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti
nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in
giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma
dove hai imparato quest'arte?", e Garbo rispose: "A casa
tua". Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de
natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione
embryonis" di Tommaso Del Garbo, suo figlio, e la "Expositio in
Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di
Garbo mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue
l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo
che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito
che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto
discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra
generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e
animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la
crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per
Tiraboschi e Colle, Garbo non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade
dice che ad Avignone avrebbe incontrato Ascoli.
Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu
macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e
sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a
Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di
Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de
Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo,
trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e
d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico
dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e
successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria
ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore
Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della
fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo
in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. Garbo muore poco
dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di
vendetta lanciato da Ascoli. Altre opere: La figura di Del Garbo
campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come
quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che
possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti
rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi
pregi, che con i suoi difetti. Tra le opere che sicuramente possiamo
attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati. Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi
Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae
generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli
studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu
eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara)
insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture
ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī
e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e
parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani. Altre opere invece non sono state stampate:
"De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla
flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica) "Recolectiones super cirurgia
Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl.
della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi
prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum
enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a
“Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico,
come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”,
esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di
Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti.
Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si
dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina.
Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose,
ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la
dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce
(nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del
corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere)
quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e
l’effetto dell’amore? La morte che impedisce
le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una
passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII)
Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo
spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il
sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per Garbo, l'amore
è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua
volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e
l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno
influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova
nella casa di Venere. Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum
tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia,
quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas
Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio
super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium
Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara,
André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae
Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur
(Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de
emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui
un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena,
Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.
Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The
enigmatic, indeed disturbing figure of Cavalcanti exercised the imagination of his
contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante
talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that
Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of
those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to
Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN XXIV). The whole of Dante’s treatise,
as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend
(VN XXX). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed
to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet
responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of
Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father,
Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied
“altezza d’ingegno,” shared with Dante (X.59), and his disdain for some- thing
— unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet
later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object
lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably
from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido
Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?”
which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me
prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,”
stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual
ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose
vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming
from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than
Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who
mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological
apology the Acerba, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an
erroneous analysis of love’s http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1
Heliotropia http://www.heliotropia.org
workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con-
tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as
much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his
intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the
powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers
specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of
Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the
poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as
“cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Giovanni
Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of
Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se
non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet
which al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself.
Amongst the later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the
butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle LXVIII),
a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron VIII.5).
Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in
particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca-
valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio XI. He
also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous
Florentine “giusti” in Inferno VI.73. Commenting upon Inferno X, Guido da Pisa
(1327–28) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus
insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias
poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in
character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself.
For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of
Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno X.63) as essentially poetical will be
influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary points to
Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito
scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio
XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il
primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si
mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia
dire.’” The Selmiano (1337), commenting upon Inferno X, again points to
Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più
alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth
of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially
through the distorting prism of http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
2 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Dante and the early
Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the
Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in
his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Guido
Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that
he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in
mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in
Decameron VI.9 where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a
“lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years
previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about Dino del Garbo, the famous
Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to
Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when
Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio XI. The
Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what
concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a
quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo
naturale, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni
cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare;
e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui
nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto
abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della
oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue
speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
(Decameron) Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line
extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that
the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti,
for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima
col corpo morta fanno” (Inferno X.15). A very similar portrait of the poet is
given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e
ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun
altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e
buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come
esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per
ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia,
ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni X.62) The phrase “ebbe a
sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro
ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by
Guido da Pisa as we have seen, that the
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this
Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform
Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine
civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have
seen, the anecdote in Decameron VI.9 had been previously used by Petrarch, who
places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a
notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on
materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his
credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of
Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine,
traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on
book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie
[Clarification of the Whole Prac- tice of Medical Knowledge]. According to
Giovanni Villani, Dino was very touchy about his academic standing, and took a
mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of
Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having
plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen.
Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the
death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia”
(Cronica X.41). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very
shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necro-
mantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest
in Guido Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” Dino del Garbo wrote a detailed
Latin com- mentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and
Ar- istotle, which was partially imitated and adapted in a vernacular version
unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest
in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino,
amongst others, clearly in debt to it. Dino’s commentary (no later than 1327)
was certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been con- vincingly argued by
Antonio Enzo Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’
del Cavalcanti,” in GSLI 141 (1964): 336–68) that the unique surviving manuscript
of the commentum (an insert in Vatican Chigiano L. V. 176, ff. 29r–32v) is a
Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the later documents
reinserted into the manuscript, dates from approximately 1366, judging by the
evolution of Boccaccio’s handwriting studied by Pier Giorgio Ricci (Studi sulla
vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi, 1985, p. 295 [and plate
XIII]). The entire MS is reproduced phototypically in colour by Domenico
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 4 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. 176 autografo
di Giovanni Boccaccio, Rome-Florence: Alinari, 1974). However, already in the
Teseida (1339–41), Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary.
Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet
and jurist Cino da Pistoia, who had known and corresponded poetically with
Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was
a student canonist there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena
Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been
ed- ited and published as an appendix by Guido Favati (Guido Cavalcanti, Rime,
Milan-Naples: Ricciardi, 1957, pp. 359–78). An earlier, sectionalised English
summary translation and secondary commentary can be found in Otto Bird, “The
Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary of Dino del Garbo”
(Mediaeval Studies 2 (1940): 150–203 and 3 (1941): 117–60). In Italian, there
is a fine translation and commentary of the glosses by Enrico Fenzi (La canzone
d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo,
1999, pp. 187–219). In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial ecphrases
of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two rivals for the
hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the temple of Venus in
book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long authorial gloss, part of
which is on the nature of love itself. In keeping with Boccaccio’s implied
fiction that the glosses are by somebody else, he refers to himself in the
third person as the “author” and reserves the first person for the fictive
commentator. The gloss labours on through the various symbolic, almost
personified qualities (à la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till
it reaches the figure of Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative
dello appetito eccitato per le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale
noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le
sopradette cose si ge- neri in noi, quantunque alla presente opera forse si
converrebbe di di- chiarare, non è il mio intendimento di farlo, perciò che
troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di
Guido Caval- canti Donna me priega, etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro
Dino del Garbo. (Teseida, gloss to VII.50) What is important here is that, for
Boccaccio, the poet’s canzone and the physician’s glosses were already
intimately linked, presumably in a single document (as would be the case in the
much later Chigian MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida
self-commentary then continues, after this parenthesis, with further
enumeration of the “author’s” selection of symbolic qualities, beginning with
an elucidation of Cupid’s darts. But the
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 5 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org first sentence of this continuation shows that
Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed
from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata
nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare
di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about
fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in Dino’s
commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio
circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati, 371) [it is a
certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning
the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the
presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be
construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older
source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste
amandi (late 12th cent.): Amor est passio quedam innata procedens ex visione et
immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia
cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius
amplexu amoris praecepta compleri. (De amore I.1) [Love is a certain inborn
passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the
beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else
to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the
commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to describe
erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his readers to
understand that its endo- genesis is an important part of his theory of love.
“Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown by the
following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be more in
the nature of a past participle. The lexical fragment survives, however,
despite its possible change of status, as a tell-tale sign of Boccaccio’s prior
reading. For Boc- caccio, conflating the two sources was tempting, because Dino
is clearly indebted, for substantial elements of his treatise, to the
chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic initial combination
“passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not reading Cavalcanti and
Dino del Garbo as an inno- cent, then, but rather as somebody who had already
come across authori- tative, if somewhat obsolescent definitions. The problem
for the compiler of the Teseida glosses is that the two definitions do not
match. Andreas http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6 Heliotropia
2.1 (2004) http://www.heliotropia.org believed that love was intrinsic
(“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al
cor gentil,” whereas Dino, following Ca- valcanti, declares that this passion
was definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res
extrinseca” (Favati, p. 360). Boccaccio at the time of his writing of the
Amazon epic seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates.
One might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge
of the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read
it. But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly
Aristotelian terms, though present in the De amore, are simply not used as
technicisms in An- dreas) imply that he has a good idea of the philosophical
slant of Dino’s vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously
in the Filostrato (V.62–65) and Rime (XVI.8 and 13), textual traces of
Cavalcanti in Boc- caccio’s fictional and creative works are rare and
tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable)
intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of
Cavalcanti (Guido Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, 1993, esp. index, p.
353). Vittore Branca furnishes more detailed examples (Rime I, IX, XI, XIII,
XXIV; Teseida X.55–57 etc.) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron
(Florence: Sansoni, 1992, pp. 254–57). One could add to this list, tentatively,
perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural memory” of the
opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for Florio’s love is
there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile accidente”
(III.5.2). It could be, however, that this particular use of “accidente”
(generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading
of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in
love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN XXV.1).
Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which
generates the gloss which mentions “Donna me prega” and Dino del Garbo’s
glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the musical and
visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it
visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là
volando gieno a lor posta... (VII.53.6–8) Though “spiritus” was a technical
term in medicine, referring to the transmission of vital and animal forces
through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic Cavalcantian
usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented consciousness
characteristic of the “anima http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 7
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org sbigottita.” Guido even
parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.”
More persuasive again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of
Boccaccio’s early Rime (XXI): Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui
accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, [...] Though Vittore
Branca does not expressly say so in his commented edition of the Rime in volume
V of Tutte le opere (Milan: Mondadori), this sonnet seems to parodically
contrast a pessimistically Cavalcantian view of love in the first quatrain with
a more Guinizellian, positive stance in the remain- der. All in all, though,
compared with the massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the
verse of Cavalcanti seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio.
He seems to have been much more interested (as the layout of the glosses and
the title of the autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me
prega” as a vehicle for Dino del Garbo’s commentary, rather than as a
composition in its own right. The Dino del Garbo commentary became more useful
to Boccaccio when he came to write the Genealogie (ca. 1360 in its first
version) and the Esposizioni (1373). By this time, his appreciation of the
question of sub- stance and accident, and of intrinsic and extrinsic causality,
had markedly improved, though his interest is still anything but scientific.
The Genealo- gie passage occurs in the biography of Cupid, begotten from the
illicit cou- pling of Mars and Venus, in IX.4. Cupid had been the figure, as we
have seen, who had given rise to the mention of Dino del Garbo’s glosses on
“Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much more ex-
tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est igitur hic,
quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus illata, et per
sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus
ad hoc supercelestibus corporibus aptitu- dinem. Volunt namque astrologi, ut
meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate
alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et
significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum
luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa
talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento
quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una
cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem phylocap-
tionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut,
quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus
commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod
placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis
autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter virtutes
apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic autem
receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles. Ibi
autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua libertas
eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc firmata in
memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in appetitu
sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando adeo
grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam su-
mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni-
chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod
supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream
dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et
sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido
generatur. (Genealogie IX.4.6–9) Rather than provide a translation into English
here, we can go straight to Esposizioni V litt., 162–67, which is an
outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in
Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is
occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”
(Inferno V.100). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of
Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”)
the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and Dino del Garbo,
here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy
account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo
lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The
passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s
tripartite distinction of the kinds of love (Ni- comachean Ethics VIII.3), of
which more later. Only the very last periods suffer any change from the content
of the earlier Genealogie text. The cor- responding passage in the Esposizioni,
the volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che
alla nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi
vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi
corporei portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i
corpi superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli
astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò,
quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa
di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di
quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce,
dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del
Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con
Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che
nasce una http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 9 Heliotropia 2.1
(2004) http://www.heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle
fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo
cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive
interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato
alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù
sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra
le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il
recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi,
cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è
que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere
dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa
piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di
questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone
questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e
quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli
fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse
volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa
piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da
Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a rice- vere questa passione secondo
le disposizioni del corpo: la quale attitu- dine se non fosse, questa passione
non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the
Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa
(Metamorphoses II.846– 75), clearly inappropriate for a commentary to a
Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour.
Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage,
conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its
entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact.
But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting
a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the
reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly
accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter
Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples,
would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under
the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is
implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò
del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo V.8) and that he
is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De
anima, a large section of this treatment, including the reference to these
auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in
Dino’s glosses. The http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 10
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org opening sentence is an
extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the
physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the
soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est
res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad
quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in
quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que
est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis
corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat;
secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in
appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset
incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per
quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex
principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia
nativitatis alicuius, pre- cipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut
dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De Generatione
Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens proportionalis
ordina- tioni astrorum. (Favati 363) [Something else is involved in causing any
passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the
sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an
appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So
the author, in order completely to show what is the thing which generates this
passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which
makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon-
strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love
follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start
at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition,
by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the
principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s
birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris-
totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Ge-
neration of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally
to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor,
Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific
passage in Dino. The Garbian passage, commenting on line 18 of the canzone,
reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da
Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo,
quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in
domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius,
significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et om- nibus venereis abusivis
scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly,
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 11 Heliotropiain “Comento
Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum
Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia
pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati
363) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La
quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from
Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody,
Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person
to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a
fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called
Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of
somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust
and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the
author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is
rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is
to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely
astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted
are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own
Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to
the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum
there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway
of Andalò, has been exam- ined in an important study by Antonio Enzo Quaglio
(Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana, 1967) and its narrative
consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo
have been investi- gated by both Janet Levarie Smarr and Stephen Grossvogel.
The adventi- tious references to Haly in the love definition in the Genealogie
and Espo- sizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging
his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing Dino’s
quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered
intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely
the sequence of inter- iorisation, comes from Dino’s gloss to line 21. Dino’s
ordering of the inner processes is, according to Otto Bird, untypical, yet
Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana,
sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad
sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum,
deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad
fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab
istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que
virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus
possibilis. (Favati 364–65) [For this is the sequence in human apprehension,
just as it is declared in natural science. First of all the “species” of the
thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste
or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it
comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the
memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler
faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties,
and this is the possible faculty] Dino then provides a brief explanation of the
difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning
function of individuation and universals, and the passive or possible
intellect, merely concerned with the processing of species resulting from
sensibles. The discussion is not otiose, for Dino is aware of Cavalcanti’s
dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational
and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such
technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the
question of the relationship between love and will. The relevant passage from
Dino glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio
characteristically leaves out Dino’s pro- fessionally inspired mention of the
difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the
sensitive faculties, in the heart or in the head. Dino writes: Et nota quod
istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut
ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam
quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex
proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et
liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic,
sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis,
licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per
voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et
simili modo etiam de amore. (Favati 364) [And note that he calls this appetite
the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to
show that, although love can happen to somebody through a natural disposition
whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person
does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will,
which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And
it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for
instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry
easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he
can even indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is
one of classification: given the working of erotic passion specifically in the
sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is
necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations
of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the
emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an
ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore
responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a
phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by
accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s
direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area,
he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further
on in the commentary, for Dino re- fers to the will obliquely later on, drawing
on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic
nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua
homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam
formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety,
similar to melancholy, in which a man ac- tually brings upon himself the
rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are
within him.] A fragment of this reading of Dino can be found in the Decameron,
when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa
(X.7.8), as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important
in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit
incitationem.” And later again, Dino will return to the topic, to explain why
nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose
existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est
quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo
est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio,
quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita
ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis
incipit multotiens ex proposito. (Favati 373) [The second cause is because,
though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free,
indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless
in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the
appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the
beginning of this passion fre- quently starts from choice.]
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 14 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the
question of free will served no particular purpose, and was not set within a
moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial.
Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la
ragion sommettono al talento” (Inferno V.39). Boccaccio’s own prior
interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che
la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa
dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non
sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per
quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni
V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’
philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between
“will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities
of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova
XXXIX, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and
reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term
Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione”
(Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi, 1960, vol. I,
p. 337). It is no surprise, therefore, to find that Boc- caccio now moves
straight from his paraphrase of Dino del Garbo on love and will to a discussion
of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt., 168) was obliged
to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo was
“flessibile,” in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is
the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi
version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a
fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a
nullo amato amar per- dona” (Inferno V.103), the moralist suddenly swings into
action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa
spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169)
Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three
varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his
discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love
indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,”
where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing
from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much
earlier (III.22.8). Now he claims that Fran- cesca’s declaration of the
inevitable reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only
happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in
Purgatorio XXII.10–12 (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding
affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of
pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But
why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts,
suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with
Dino’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the
glosses, and has found that the next argument Dino engages in is concerned with
is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et
large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus
in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione
cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est
circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad invicem
est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant se amore
de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno respectu
alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est amicus
alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et ideo,
licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum amicitia.
(Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to which it is
a certain passion by which the appetite is inclined and moved towards something
which seems good to it on account of its pleasurability, by reason of whatever
agency of that thing: and it is not accepted in this way here: for love
concerns many things, about which love it is not Guido’s present in- tention to
speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for friends love
each other reciprocally, and yet they do not love each other with the kind of
love which is the topic here; and it can be a question of love in one regarding
the other, and yet there will not be friendship between them: for everybody who
is a friend to somebody is loved by that other person, but not everybody who
loves somebody is loved by that person, and so, even if every friendship is
with love, not every love is with friendship.] In his round-about way Dino is
dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam” [for
desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is
properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true
friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to
define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the
so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia
d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by
John Livingston http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 16 Heliotropia
2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,”
Modern Philology 11.4 [1914]: 491–546). Boccaccio, uninterested in the minutiae
of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus
inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp
(Decameron II.8.44–48), retains the distinction but uses it for a moral
purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as
theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves
of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to
their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he
re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com-
mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is
otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned
souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has
another go at defining the relative roles of astrological disposition and free
use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di
sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli;
la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la
ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e,
oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli
piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion,
prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped,
selectively, by Dino del Garbo’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a
very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and
perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris
of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem
to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran-
cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and
tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause
of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is
saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V.
Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed
with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s
“priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and
“niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual
chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor
m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano ciascheduno altro, e questo
sì m’offende, (Filostrato II.7.1–5) This is a clear echo of Francesca speaking
of how love “al cor gentil ratto s’apprende [...] e ’l modo ancor m’offende”
(Inferno V.100–02). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar
perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The
same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four,
Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a
jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence, saying that the
unrequited lover will finally get his reward, for true love induces inevitable
reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al
presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò
l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same concept lies behind that
other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo and Francesca, the
Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo II: their love,
too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently coerced by mutual
delight. Florio clearly considers that such a situation is universal, and
affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo
Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro
iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu
alcuno tanto di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso.
(Filocolo) But perhaps the most memorable examples of such love apologies come
in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of France
lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza di mio
marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor
contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le
tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io
negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore
e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of
love is emphasised, a subtle change has now taken place. We now get at least a
fleeting admission that an element of volition was involved (“mi sono lasciata
correre”). When we come to look at the famous justification of Ghismonda, caught
in flagrante with Guiscardo by her jealous father (Decameron IV.1.31–45), we
see the same refined con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the
Paolo and Francesca episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare
sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and
durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho
amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso
la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the wording has
been altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is
clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”. But then the
speech gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by
previous marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her
desires: Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che
an- cor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile
disi- dero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere
stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com-
pimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi
tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet,
here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of
decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the
sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then,
the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career,
earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not
associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular
verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to
a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it
became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and
Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of
Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the
distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with
an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s
understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid,
seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming
Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his
worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never
told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin
rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love
is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we
respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every
philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in
Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua
symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the
future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly
be a whore!” -- Aldrobrandino Del Garbo.
Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in
termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione –
latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia
complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione,
appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato
dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore
proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e
Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gargani – Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like Gargani;
many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of
‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to
Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational
impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di
quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di
costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e
dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.”
Aldo Giorgio Gargani (Genova), filosofo. Si laurea a Pisa sotto Barone.
Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e
conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di
Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I
suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio,
l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è
anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e
destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il
testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari). Altre
opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi,
Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La
condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi,
Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida,
Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari); “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il
coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli,
Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica”
(Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a
Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla
verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità”
(Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA
Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica
Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere
e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto,
sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo
e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione
(Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia
greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari
non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e
Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2.jpg Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste
Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus
Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide
(patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa
(Eurialo) Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso)
Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono
in due episodi dell'Eneidedi Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia,
costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a
riportare in vita con la sua opera. Il particolare rapporto che li lega è
definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va
inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e
l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici
nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani
latini Cidone e Clizio. Il mito «… Appresentossi in prima Eurïalo con
Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e
casto amico.» (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428)
Eurialo Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia
nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che
un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore
degli altri. Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi
funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e
riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di
Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le
sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per
lui. Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere
Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani,
approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici.
L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento
nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio
quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il
riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni,
dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati
nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco
vicino all'accampamento rutulo. In quel momento Virgilio richiama alla
mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia
l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa
il capo durante la pioggia. NisoModifica Niso appartiene a una famiglia
illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del
nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo,
chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo
combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra
l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori.
Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di
corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno
stratagemma. Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per
uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea,
ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo
non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua
insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi
giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato
poi da Eurialo. Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai
cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne
la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta. Quinto
libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale
al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice
nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro
tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco,
vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una
pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della
celebrazione dei giochi. A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta
di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per
l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra. Di
conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara. Irritato per la
vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico,
commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il
giovinetto. Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a
Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da
Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di
diritto, ossia un cavallo con borchie. Nono libro - La sortita notturna e
la morte dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio
s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due
achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi
guerrieri. L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei
Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli
Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo
del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di
essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere
ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni
riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro
missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze
e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri
troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa. I due amici
penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo
della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione,
aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava
russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo
colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro
importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi
staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto
Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco
dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi
sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso.
Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo
Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma
viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a
cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con
sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei
Rutuli, che non è tra le vittime). Proprio per la vanità di Eurialo i due
amici vengono avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli
guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso
pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a
inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel bosco. Gli uomini di
Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e
Niso, che cercano una via di fuga. Improvvisamente Niso si ritrova da
solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati
italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce
a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi
possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada,
trafiggendolo mortalmente. (LA) «Talia dicta dabat; sed viribus
ensis adactus transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus
leto, pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente
il colpo già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse.
E già morendo Eurïalo cadea, di sangue asperso le belle membra, e
rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di
rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina.» (Traduzione di
Annibal Caro) Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta la sua
violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata
e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e,
morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in
medios solumque per omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum
glomerati hostes hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac
rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et
moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum
confossus placidaque ibi demum morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si
scaglia solo a Volscente, solo contra lui pon la sua mira. I
cavalier che intorno stavano a sua difesa, or quinci or quindi lo
tenevano a dietro. Ed ei pur sempre addosso a lui la sua fulminea spada
rotava a cerco. E si fe' largo in tanto ch'al fin lo giunse; e mentre che
gridava, cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse. Così non
morse, che si vide avanti morto il nimico. Indi da cento lance
trafitto addosso a lui, per cui moriva, gittossi; e sopra lui contento giacque.»
(Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte
di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due
amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti: Fortunati ambo!
Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus
Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati
ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo
sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà
del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e
fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati
all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.
Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate
davanti al presidio troiano con grande clamore. In seguito la Fama
avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla
notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio
un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla
nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa
missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il
suo corpo. La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e
implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima
memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e
lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo. Vittime di Eurialo e
NisoModifica Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo
dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione: Abari Erbeso Fado
Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore
vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi
in scontro aperto (3): Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto
Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante,
cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:
Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri
rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la
sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i
tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso 328 «armigerumque Remi
premit aurigamque sub ipsis», da alcuni tradotto «sopprime l'auriga ed armigero
di Remo» è da intendersi per altri come «sopprime lo scudiero di Remo e
l'auriga», quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12
a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più
nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben
quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e
Serrano. Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel
sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti
studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione
definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa
che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di
"Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome
Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto
padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto
uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di
Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae. Raffronto con l'IliadeModifica
Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone
vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la
similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina
del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per
la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua
anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede
riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane
eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime,
divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade;
Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col
giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade,
ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di
Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo
virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete,
amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione
del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi
cavalli). Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato su
quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano
più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due
guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una personalità molto
simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e
irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un
commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così
come non risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga,
destinato a perire subito dopo di lui. [1]. Interpretazione dell'episodio
Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della
guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i
troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun
altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano
Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi
dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e
Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno
loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio
1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos
centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù
che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal
sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte.
Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a
questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i
caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal
poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere
è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante
dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e
soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano. Fortuna
dell'episodioModifica Nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto i due giovani
soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei
cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in
battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto
segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo
Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica;
inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella
strage. Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati
due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso
ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in
collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e
Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di
personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche
in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici.
FontiModifica Publio Virgilio Marone, Eneide, libri V e IX. NoteModifica ^ Asio
è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua
morte decide di vendicarlo Iliade (Monti)/Libro XIII - Wikisource, su
it.wikisource.org. URL consultato il 23 giugno 2021. Voci correlateModifica
Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte
(figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando furioso) Ramnete
Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e Clizio Decapitazione
Reso Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Eurialo e Niso Portale
Letteratura Portale Mitologia Scienza e filosofia della
complessità. Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani A cura di Angelo
Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci)
Aldo G. Gargani: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso
Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1.
Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a
Poincaré di Stefano Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La
prima formulazione esplicita del problema/Dalla geometria analitica all’analisi
algebrica/La controversia intorno a 1 r2/Il problema dei tre corpi ristretto/Il
Sistema solare è stabile?/Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica/La
meccanica razionale e l’analisi classica/Il teorema di Poincaré: limite
invalicabile o nuovo spazio di possibilità? 2. Il problema della previsione in
un sistema deterministico classico di Andrea Cintio Introduzione/Il problema
dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il
problema delle previsioni delle evoluzioni/Evoluzioni caotiche/Dalle singole
orbite alle famiglie di sistemi/Il problema della previsione e la dipendenza
sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di
Leone Fronzoni Introduzione/La riscoperta del caos/Le biforcazioni/Coerenza e
autorganizzazione/La turbolenza/Stati coerenti localizzati: i solitoni/La
sincronizzazione/Coerenza e disordine nella meccanica quantistica/Entropia e
complessità/Network/Conclusioni 4. Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la
prevedibilità di Luca Bellotti Alan M. Turing (1912-1954): una brevissima
biografia/Una digressione: Penrose contro Turing/Algoritmi/Macchine di
Turing/Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle
macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari
nei sistemi viventi di Giuseppe Longo Introduzione/Storia e dipendenza dal
cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante
storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive/Verso il
futuro: sapere e imprevedibilità/Tracce invarianti di una storia/Spazi
relazionali costruttivi e invarianza/Conoscenza del presente e invenzione del
futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari/Conclusione 6. Possibilità
e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica
classica/La meccanica quantistica/La biologia/Conclusioni Bibliografia Gli
autori Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di Aldo Giorgio
Gargani, a cura di: Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti, Carocci,
Roma, 2020 Abstract Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati,
presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica,
fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in
memoria di Aldo Giorgio Gargani. Dello studioso scomparso nel 2009 sono ben
noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in
altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno,
irriducibilmente, al di là della determinazione.Aldo Giorgio Gargani. Gargani. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura
come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice –
ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Garin – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo italiano. Grice: “Garin is a
serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal,
unity of Italian philosophy! If ever there is one!” -- Italian philosopher, author of a very rich,
“La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo
italiano”Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani.
Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi
sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo
la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che
continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università.
Tra i commissari del concorso liceale c'era Guzzo, una figura che costituirà un
punto di riferimento per Garin quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I
suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici
come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come
Lavelle, Senne, Castelli Gattinara di
Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo stesso Guzzo. Iscritto al Partito
Nazionaledal 1931, pronuncia al Lyceum di Firenze una commemorazione a Gentile.
Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose
non vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che
hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla
concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia
italiana”, fortemente sollecitato da Laterza. Storico della filosofia molto
legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiuta la definizione di
filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle sue polemiche
anti-speculative e come influente teorico della storiografia filosofica.
Insegna a Firenze. Si ttrasferì a Pisa a causa dei perduranti disordini della
rivolta studentesca iniziata nel '68, di cui non condivideva le modalità di
lotta e che considerava espressione di astratto rivoluzionarismo. La sua
infaticabile avidità di letture filosofiche lo rese consigliere prezioso. L’Accademia
dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre
opere: “Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina”; “Gli illuministi
inglesi. I Moralisti; “Il Rinascimento italiano”; “L'Umanesimo italiano”;
“Medioevo e Rinascimento”; “Cronache di filosofia italiana”; “L'educazione in
Europa”; “La filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento
italiano”; “La cultura italiana tra Ottocento e Novecento”; “Scienza e vita
civile nel Rinascimento italiano”; “Storia della filosofia italiana”; “Dal
Rinascimento all'Illuminismo” “Filosofi
italiani”; “ Rinascite e rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due
secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo del Rinascimento”; “Gli editori italiani tra
Ottocento e Novecento”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò non toglie che
l'importanza della interpretazione del Rinascimento che Garin ci dà nei suoi
scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni
di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico, letterario)
possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della evocazione del
Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci
L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, su
lincei. Fondo Eugenio Garin, Il percorso storiografico di un maestro, Firenze,
Le Lettere, Marino Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin, l'ombra di Gentile e
i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia
Catanorchi e Valentina Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del
convegno Firenze), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. Michele Ciliberto,
Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, RomaBari, Laterza,. Raffaele
Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La
Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, "Il
Gramsci di Eugenio Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della
prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi.
Saggio introduttivo alla storiografia di Garin, Milano, FrancoAngeli, TreccaniEnciclopedie
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Eugenio Garin. Negli ultimi anni della sua vita,
quando con ritrosia era portato a far¬ ne un sobrio bilancio, Eugenio
Garin insisteva a dire di essere stato so¬ prattutto un insegnante. «Ho
sempre insegnato», ripeteva. E insegnante lo era stato da giovanissimo,
appena ventenne, dei giovani della scuola di avviamento al lavoro di
Fucecchio, delle ‘ragazze di buona famiglia’ delle Mantellate di Firenze,
alle quali faceva lezione sorvegliato, giovinetto tra giovinette, da una
severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Can- nizzaro di
Palermo, ventiduenne nel 1931, poi di quelli del Liceo scien¬ tifico
Leonardo da Vinci di Firenze, mentre, precoce in tutto, sostituiva uno
dei suoi maestri, Francesco De Sarlo, neH’insegnamento universita¬ rio di
Filosofia teoretica nel 1935, appena ventiseienne. Aveva, insomma, sempre
insegnato e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università in
giù. Non saprei dire di Garin insegnante di liceo. Vorrei dire solo qual¬
cosa di Garin docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e
con ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo Garin. Non già
perché egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto
lo volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di
reagire a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria
formazione, con * Nel dicembre del 2004 è scomparso Eugenio Garin.
Al maestro fiorentino e alla sua opera la Biblioteca Roncioniana aveva
dedicato un convegno nel 2002 (cfr. Giornata di studi, omaggio a Eugenio
Garin, «Bollettino Roncioniano», II, 2002, pp. 45-47; del convegno sono
poi usciti gli atti: Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un
maestro del Novecento, a cura di F. Audisio e A. Savorelli, Firenze, Le
Lettere, 2003). Pubblichiamo qui un ricordo di Garin, che Maurizio Tonini
ha letto neha cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio il 12 gennaio febbraio
2005, aha qua¬ le sono intervenuti il Sindaco di Firenze, Leonardo
Domenici, Massimo Cacciali, Michele Ci¬ liberto, Mario Luzi e Paolo
Rossi. Il testo è apparso neha brochure Per Eugenio Garin, Napoli,
Bibliopoli, 2055, edita a cura di Maurizio Tonini e Francesco Del Franco, che
si ringraziano per averne acconsentito la ristampa in questa sede.
6 Maurizio Tonini le proprie attese. In
altre parole egli non intendeva plasmare l’ascoltatore, ma solo offrire
occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispon¬ dere a suo modo,
liberamente. Non che il suo insegnamento fosse univo¬ co, uguale
dappertutto e per tutti: era un insegnante troppo navigato per sapere che
una cosa era far lezione agli studenti di Lettere e filosofia assie¬ me,
un’altra ai soli filosofi, come ci chiamava, un’altra cosa ancora ai lau¬
reati e laureandi. Sapeva bene che era diverso rivolgersi ai
colleghi in un convegno di studio, o parlare in una casa del popolo,
oppure rivolgersi a tutti, ai citta¬ dini, come spesso gli è capitato
proprio qui nel Palazzo Vecchio della sua Firenze. Cambiavano i contenuti,
mutavano i toni, mai il carattere, l’alta professionalità, medesima
sempre la passione. Eugenio Garin non ha mai spezzettato il pane della
cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare o da insegnare, lo
sconosciuto studente che si presentava all’esame, l’ami¬ co e collega, lo
studioso straniero, il giovane laureato, tutti meritavano sempre la
stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua pro¬ duzione
letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège de France stanno
insieme agli scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne
colga, se non con l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza
e la loro destinazione. Niente gli era più alieno,
fisicamente e metaforicamente, dell’espres¬ sione ‘prendere per mano’.
Garin non prendeva per mano nessuno: apre un libro, i cui capitoli anda
narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo. Per chi sapeva apprezzarlo,
quel libro conduceva a altri libri, poi a una collana, infine a una
biblioteca, spesso la sua. Un libro somi¬ gliante a quello di un autore a
lui carissimo, Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy,
fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di vie traverse che
sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino a farlo
dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario per
cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno, per
proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria
strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascu¬
no instaurava con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la
sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di
di¬ spense, alcuna versione ufficiale. Considerava la
cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più profon¬ da coscienza di
sé». E l’università era cultura. In questo senso il suo non è mai stato
un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai considerato un
missionario, né ha considerato il proprio lavoro una mis¬ sione.
Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando con il
motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un
viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto, ma
che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi re¬
sponsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prende¬
vano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte
al¬ trui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a
essere il pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi
giovinotti. Lo avrebbe considerato un tradimento, un traviamento del suo
compito, che era appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di
insegnare a capirne la storia, di fare cultura, ma sempre altro da
convincere o da portare su una strada che non fosse già in qualche modo
segnata, e segnata indivi¬ dualmente, in chi lo ascoltava. Un
pescatore anche, ma un pescatore che gettava reti larghe e pro¬ fonde
nelle quali si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai che
venissero catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere studenti ma¬
turi — non venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio
la maturità? — che egli considerava suoi pari, almeno per quel che
riguar¬ da il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e
più equamente distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e
noi riguardava, ga¬ lileianamente, l’estensione del sapere, non la
capacità di comprendere. Il severo, severissimo Garin, che tanto
spaventava le matricole, era un be¬ nevolo confessore dell’ignoranza dei
suoi studenti. E quelli più maturi imparavano subito che la migliore
risposta alle domande che fioccavano in aula era quella di confessarla
subito quella ignoranza, anche quando si era quasi sicuri della risposta
(ma chi era sicuro di fronte a Garin?). Certo, quell’estensione del
sapere costituiva una barriera, una diffe¬ renza di cui era consapevole
lui e consapevoli noi, una barriera quantita¬ tiva, ci faceva credere,
scalabile e riducibile, quasi come una differenza di età, mai come un’inattingibile
diversità, che mai si trasformava in pater¬ nalistica condiscendenza.
Quella barriera si sgretolava nella generosa di¬ sponibilità a fornire
indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non solo le
tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi alla
lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri colleghi che
ci risultassero particolarmente difficili. Il grande intellettuale non
dimen¬ ticava in nessuna occasione la sua professione: non solo nel
rigido adem¬ pimento dei suoi obblighi di docente, nella proverbiale
puntualità, nella scrupolosa preparazione dei corsi (i ‘bauli’ di libri
che partivano anzitem¬ po per la montagna), nella paziente e tanto
prodiga lettura dei capitoli delle tesi di laurea, nella curiosità con
cui ogni anno rinnovava l’incontro con i suoi giovani interlocutori.
Aveva trasformato una precoce vocazio¬ ne in una professione, in un
affetto per il proprio lavoro, prima ancora che per chi dovesse
usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at- Eugenio
Garin. La lezione di un maestro tribuiva alle lontane origini savoiarde,
ma che forse è la chiave per coglie¬ re la sua straordinaria e mai
dismessa operosità, la freschezza di ogni suo intervento. Garin non è mai
stato altro che un insegnante: poche, modeste e occasionali le cariche
accademiche, nelle quali emergevano un’insofferenza e una scontrosità
imprevedibili nel professore, altrettanto rare quelle istituzionali o
editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera scolastica,
nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che aveva, come sapete,
una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola, per la sua
città, per il suo paese. Credo che nulla gli sarebbe apparso più estraneo
e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un isti¬
tuto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata
una scuola di Garin, ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e
si sono laureati con lui, che hanno lavorato con lui, che hanno condiviso
aspetti e momenti del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma
niente di più. Incauti giovinetti, invidiavamo gli allievi di Dal PRA,
che il maestro radunava a S. Margherita o sul lago di Garda, cui apriva
la «Rivista critica di storia della filosofia», la collana del centro
milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si ritrovavano su
«aut aut», che si incontravano nelle edizioni del Saggiatore, ricordavamo
e ricono¬ scevamo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che
attendeva¬ no a imponenti opere collettive, e tanti altri che andavano
sorgendo vi¬ cino e lontano. Garin non aveva nulla: non ha mai diretto
opere colletti¬ ve, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti
organizzare, mai colla¬ ne editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda
età, con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il «Giornale critico della
filosofia italiana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero
espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che
in lui fosse ricono¬ scibile. Neanche quando alla Scuola Normale di Pisa
gli si è offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e
entusiasta messe di giovani studiosi, è venuto meno il carattere del suo
insegnamento. Lì, come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha
mancato di offrire opportunità, un’occasione irripetibile, anzi,
generosamente resa disponi¬ bile, ma sempre e solo per chi aveva modo e
voglia di coglierla e di rea¬ lizzarne le potenzialità, ma lasciando a
ciascuno la libertà di decidere, di interpretare quell’incontro, di farne
ciò che voleva. Il severo Garin non rimproverava mai: non gli sarebbe mai
venuto in mente di riprenderci, come capitava al suo amico e collega CANTIMORI
o a RAGIONIERI, se mancavamo a una
seduta di seminario e venivamo sorpresi in bi¬ blioteca o, peggio, al
bar. Ma neppure gli sarebbe venuto in mente di TONINI portarci nello
stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capitava spesso con
Cantimori e occasionalmente con Ragionieri. Non voleva essere né un
padre, né un maestro di vita. Non credo neppure che volesse additarci un
modello: era piuttosto una lezione di maturità, di piena e consapevole
democrazia intesa come rigoroso rispet¬ to dei ruoli, quella a cui ci
chiamava, e che per molti era anche la prima. Il suo dovere era quello di
insegnare, del nostro dovevamo rispondere noi. Scendeva dalla cattedra
per aiutarci a leggere un testo, per offrirci un’indicazione, per
mostrarci un passo di un libro, sedeva tra noi a discutere di Cartesio o di
Platone, e la lezione poteva proseguire nella Biblioteca di Facoltà, o vicino
ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma senza mai abdicare
alla sua funzione: non sarebbe mai sceso a discutere con noi il corso
dell’anno seguente, la sua organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo.
Non discuteva le nostre scelte di vita, i propositi di lavoro, le
carriere. Li considerava su un altro piano, nel quale l’insegnante non
doveva né poteva intromettersi: li accettava. Al massimo inarcava le
ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e abbiamo continuato a
sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnalava i dubbi e
gli errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lasciava
tutte, fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Era facile sapere
come la pensa, lo leggevamo su «Paese sera», su «l’Unità», su «Rinascita», lo
seguivamo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai
inne¬ scata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità,
oserei dire, che prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante
e studente. Garin ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci
ha insegnato come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI
a Cartesio, da CITTADINI a Giovanni PICO della Mirandola. Ha ricostruito
squarci del nostro passato culturale e civile, da CROCE a GENTILE, da GRAMSCI
a LABRIOLA, da CAPPONI a VILLARI, ci ha dato testi e momenti del nostro
passato filosofico che hanno costituito e costituiscono un’eredità operante,
viva e vitale per ognuno che voglia fare una professione simile alla sua.
Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli
pareva più importante: la sua lezione. Mi accorgo, nel concludere,
di aver ricordato una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se
l’attuale, nella quale molti di noi si trovano ora, sia migliore o
peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di
potervi incontrare ancora un insegnante come Garin. L'insidia implicita nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica
dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta l'attivita
spirituale e impegnata a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile,
trova la sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico
e di tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita,
ma si difende e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca,
le piu profondamente espressive, dovra
rivolgersi, non gia a testi per
tradizione considerati monumenti letterari, ma
alle opere in cui veramente si
manifest6 tutto 1'impegno umano della nuova
civilta. Cosi, mentre chi prenda a
scorrere novelle umani- stiche non potra
non uscir deluso da talune, piu che
imitazioni, traduzioni, o meglio raffazzonamenti,
di modelli boccacceschi, quali troviamo, tanto
per esemplificare, in un Bartolomeo Fazio,
pagine di insospettata bellezza, capaci di
colpire ogni piu raffinata sensibilita, ci
si fanno incontro nei trattati e nei
dialoghi di Poggio Bracciolini, e perfino
nelle opere di un filosofo di professione,
dall’andamento talora scolasticizzante, qual
& Ficino. E proprio il Ficino
della Theologia platonica, presentando gli
uomini travagliati dalla malinconia della
vita e desiderosi che tutto sia un
sogno (wforsitan non sunt vera quae
nunc nobis ap parent, forsitan in
praesentia somniamus»),2 defmisce nei suoi particolari
espressivi un tema di larghissima risonanza
in tutta la letteratura europea. Sempre FICINO,
nel Liber de Sole, pur parafrasando
talora l’orazione famosa dell'imperatore GIULIANO,
fissa i momenti di quella «lalda del
sole)) che, attraverso Leonardo da Vinc,
arriva fino alPinno ispirato di Campanella.
Leonardo rimanda esplicitamente all'apertura del
terzo libro degli Inni naturali del
Marullo; ma chi veramente, ancora una
volta, in una prosa di grandissimo
impegno, ci offre tutti i temi di
quella si. «L'omo nato nobile e in
citt& libera»- come diii PICCOLOMINI. FICINO,
Opera, Basileae, per Henricum Petri. (Theol plat.). lenne
preghiera di ringraziamento alia fonte di
ogni vita e di ogni luce, e
proprio Ficino. Del quale e la non
dimenticabile raffigu- razione di una
tenebra totale, ove e spento ogni
astro, che fascia lungamente i viventi,
finche di colpo il cielo si apre
per mo- strare colui che e sola
forma visibile del Dio verace. E
ficiniana e 1'opposizione del carcere
oscuro e della luce di vita, della
te nebra di morte e dei germi
rinnovellati dalla luce e dal calore
solare, in cui si articolera il metro
barbaro di Campanella. Ma per
rimanere agli scritti di un medesimo
autore, ALBERTI, non grande imitatore del BOCCACCIO,
raggiunge invece la sua piena efficacia
quando costruisce i suoi dialoghi, e
sa essere perfettamente originale pur
intessendoli di reminiscenze classiche. Perfino
la tanto celebrata Historia de Eurialo
et Lucretia di Enea Silvio perde
tutto il suo colore innanzi alle
pagine dei Commentarii'* e sono piu
facili a dimenticarsi i casi di
Lucre- zia che non le stanze delle
antiche regine divenute nidi di serpi,
o le porpore dei magistrati romani
rievocate fra Tedera che copre le
pietre rose dal tempo, o i topi
che corrono la notte nei sotterranei
di un convento e il papa che
caccia sdegnato i monaci ne- gligenti.
Per non dire di quella feroce
presentazione dei cardinali, fissati in
ritratti nitidissimi con rapide Imee mentre
per complottare trasferiscono nelle latrine
la solennita del conclave. Poggio
consegna a trattati di morale narrazioni
scintillanti di arguzia, spesso molto piu
facete di tutte le sue Facezie. I
mari di Grecia percorsi sognando di
Ulisse, il fasto delle corti d'Oriente, le
belve africane, i fiumi immensi, et
per Nilum horrifici illi anguigeni
crocodiliw, si alternano a discussioni
erudite sulle iscrizioni delle Piramidi
nelle lettere agli amici e nel
taccuino di viaggio di quel bizzarro
e geniale archeologo che fu Ciriaco dej
Pizzicolli d'Ancona. E forse il grande
Poliziano ha scritto le sue pagine
piu belle nella prolusione al corso
sugli Analitici primi d' Aristotele e nella
lettera alPAntiquario sulla morte del Magnifico Lorenzo.
Lettere dialoghi e trattati, orazioni e
note autobiografiche, sono i monumenti piu
alti della letteratura del Quattro cento, e
tanto piu efficaci quanto meno 1'autore
si chiude nelle i. «La novella
era un genere troppo definite, troppo
condizionato nelle sue linee essenziali da
una tradizione ormai piu che secolare,
perche il Piccolomini potesse eluderne il
colorito e gli schemi» (PAPARELLI, Enea
Silvio Piccolomini, Bari, Laterza). forme
tradizionali, quanto piii si impegna nel
problema concrete che lo preoccupa,1 o
si accende di passione politica nel
discorso e nell'invettiva, o si dimentica
nella confessione e nella *lettera.
Poliziano, che della produzione letteraria
del suo tempo fu il critico piu
accorto e consapevole, e che ha
dichiarato con grande precisione i suoi
princlpi dottrinali nella prefazione ai Miscellanea,
nella lettera al Cortese e, soprattutto, nella
grande prolusione a Stazio e Quintiliano,
ha visto molto bene come alPumanesimo
fossero intrinsiche particolari maniere
espressive. Proprio nelle prime lezioni del
suo corso sulle Selve di Stazio, con
la cura minuta che gli era propria,
si sofferma a dissertare abbastanza a
lungo intorno a due forme letterarie
tipiche, Fepistola e il dialogo,2
accennando insieme al genere oratorio, da
cui gli altri due si distaccano pur
non senza svelare un'intima parentela. L'epistola
— egli dice — e il colloquio
con gli assenti, siano essi lon- tani
da noi nello spazio oppure nel tempo:
e vi sono due specie di lettere,
scherzose le une, gravi e dottrinali
le altre («altera ociosa, gravis et
severa altera))).3 Ma 1'epistola deve
essere sempre i. In una compilazione
erudita come i Dies geniales di
Alessandro d'Ales- sandro la discussione
filologica si inserisce con eleganza fra
il « ritratto» e il «ricordo» senza
togliere a questi alcuna grazia, cosi
che la discus sione di un testo
classico si colloca nella descrizione di
un compleanno del Pontano o di una
cena di Ermolao Barbaro, o fa seguito
a una lezione romana del Filelfo
(cfr. BENEDETTO CROCE, Varietd di storia
letteraria e civile, n, Bari, Laterza. A
proposito del dialogo e dell'epistola come
forme caratteristiche dell'umanesimo e da
vedere quan to dice WALTER RttEGG,
Cicero und der Humanismus, Formate Untersuchungen
iiber Petrarca und Erasmus, Zurich, Rhein-Verlag,
anche se a proposito della sua
tendenza a ricondurre tutto a CICERONE e da tener
presente la nota che CROCE stese
appunto sull'opera del Rxiegg (Mommsen e CICERONE,
in Varietd cit., pp. 1-12). 3. II commento
del Poliziano e nel ms. Magliab. vn, (Bibl.
Naz. Firenze). II testo in questione
e a c. 4V-5V («est ergo proprie
epistola, id quod ex Ciceronis verbis
colligimus, scriptionis genus quo certiores
fa- cimus absentes si quid est quod
aut ipsorum aut nostra interesse
arbitremur. Eiusque tamen et aliae sunt
species atque multiplices, sed duae
praecipuae . . . altera ociosa,
gravis et severa altera. Atqui neque
omnis materia epistolis accommodata est...
Brevem autem concisamque esse oportet
simplicis ipsius rei expositionem, eamque
simplicibus verbis. Multas epistolae inesse
convenit festivitates, amoris significationes,
multa proverbia, ut quae communia sunt
atque ipsi multitudini accommodata. Qui
vero sententias venatur quique adhortationibus
utitur nimiis, iam non epistolam, sed
artificium oratorium. Epistola velut pars altera
dia- logi. . . maiore quadam
concinnatione epistola indiget quam dialogus imitatur
enim hie extemporaliter loquentem at
epistola scribitur»). breve e concisa,
semplice, con semplici espressioni, ricca
di brio, di affettuosita, di motti,
di proverbi (amulta proverbia, ut quae
communia sunt atque ipsi multitudini
accommodata»). Ne la lettera deve prendere
un tono troppo sentenzioso e ammonitorio,
altri- menti non si ha piu una
lettera ma una elaborata orazione («iam
non epistolam, sed artificium oratorium))).
L'epistola e come la battuta singola,
e die rimane quasi sospesa, di un
dialogo («velut pars altera dialogi»),
anche se deve essere formalmente piu
cu- rata del dialogo, che per essere
schietto deve imitare ii discorso
improwisato, mentre Tepistola e per sua
natura discorso medi- tato e scritto.
In tal modo un carteggio viene ad
essere un dia logo compiuto e vario;
e non va dimenticato come proprio il
cu- rioso epistolario del Poliziano ci
offra un esempio caratteristico di simili
colloqui. Non a caso, con la
sua grande sensibilita critica, il
Poliziano batteva proprio su queste forme:
ad esse infatti si pu6 ricondurre
quasi tutta la piu significativa produzione
latina in prosa del Quat trocento,
poiche anche il diario, il taccuino
di viaggio, si confi- gura di
continue come lettera ad un amico.
Cosi, per ricordare ancora V Itinerarium di
Ciriaco d'Ancona, noi vi troviamo ripor-
tati di peso i temi e le espressioni
medesime delle epistole.1 6 stato
detto, ma non del tutto giustamente,
che «PUmanesimo fu una rivoluzione
formale»;3 in verita la profonda novita
for- male aderiva esattamente a una
rivoluzione sostanziale che fa- cendo
centro nella CONVERSAZIONE CIVILE, nella vita civile,
po- i. Itinerarium: ego quidem interea magno visendi orbis studio,
ut ea quae iamdiu mihi maximae curae
fuere antiquarum rerum monumenta undique
terris diffusa vestigare perficiam. Hinc ego
rei nostrae gratia et magno utique et
innato visendi orbis desiderio. Epist. Boruele
Grimaldo (ins. Targioni, Bibl. Naz. Firenze):
«cum et a teneris annis summus ille
visendi orbis amor innatus esset ...»
Del resto tutta 1' opera di Ciriaco e
una serie di variazioni di questo
appassionato motivo: summus ille visendi
orbis amor, antiquarum rerum monumenta
vestigare, quae in dies longi temporis
labe . . . collabuntur . . .
litteris mandare. La sete di conoscere
il mondo, il bisogno di vincere
spazio e tempo, di riconqui- stare
ogni piu lontano frammento d'umanita e
di sottrarlo alia morte, e insieme
questo senso concrete del passato trovano
in lui una espres- sione singolare.
Nella medesima epistola a Leonardo Bruni abbiarno in sieme notizia di
un'iscrizione inviata da Atene (ex me nuper Athenis) e della difesa di Cesare contro il
Bracciolini spedita dall'Epiro (ex Epyro
hisce nuper diebus. Cosl, appunto, il Riiegg,
(«der Humanismus ist eine formale, nicht
eine dogmatische Revolution»). neva il
colloquio come forma espressiva esemplare.1
E se la let- tera deve essere
considerata velut pars altera dialogi,
Fattenzione si polarizza sul dialogo: ed
in forma di dialogo e in genere
il trat- tato, di argomento morale o
politico o filosofico in senso lato,
che rispecchia la vita di una umana
respublica e traduce perfetta- mente questa
collaborazione voita a formare uomini
ccnobili e li- beri», che costituisce
1'essenza stessa della humanitas rinascimen-
tale. La quale celebrandosi nella societa
umana tende a persua- dere, a far
culminare ogni incontro in una
trasformazione degli altri attraverso una
riforma interiore raggiunta per mezzo della
politia litteraria.Limiti e prolungamenti del
colloquio ci appaiono da un lato la
notazione autobiogranca, dalTaltro il pubblico
discorso, 1'orazione, che attraverso la
polemica arriva all'invettiva. I cancellieri
fiorentini, Salutati e Bruni, ci ofFrono
esempi insigni di questo intrinsecarsi di
letteratura e politica, di questa prosa che
deU'efficacia e potenza espressiva si fa
un'arma piu valida delle schiere
combattenti. La lode famosa di Pio II
alia saggezza di Firenze, e ai suoi
dotti cancellieri le cui epistole
spaventavano Gian Galeazzo Visconti piu di
corazzate truppe di cavalleria, non e
che la proclamazione del valore di
una propaganda fatta su un piano
superiore di cultura in una societa
educata ad acco- gliere e a
rispettare la superiorita della cultur.
L'incontro di po litica e cultura a
Firenze e a Venezia ritrova la
valutazione della «retorica» di un
Poliziano e di un Barbaro, e giova
a defimre un'epoca che cercava i suoi
titoli di nobilta al di fuori dei
diritti del sangue. La « virtu», che
non e certamente un bene ereditato, e
sempre intelligenza, humanitas., e cioe
consapevolezza e cultura. Anche quando,
nelle discussioni non infrequenti sulP
argomento, si riconosce il valore della
«milizia», s'intende una sottile dottrina,
ove il valore personale del capo e
intessuto di sapienza. Federigo da
Montefeltro — e poco ci importa se
il ritratto sia fedele — e
profondamente addottrinato, e sa che i
poeti descrivendo le bat- taglie possono
divenire anch'essi maestri delParte della
guerra. Alfonso il Magnanimo reca seco
al campo una piccola biblioteca, e
pensa sempre a poeti e a filosofi,
e sa che la parola bene adoprata,
ossia veramente espressiva, e piu potente
di ogni esercito. i. C'& appena
bisogno di ricordare che si tratta
dei titoli delle opere di Matteo
Palmieri e del Guazzo. E ancora il
titolo di un'opera signifi- cativa, quella
di A. Decembrio in cui si rispecchia
la scuola del Guarino. II suo motto,
racconta Vespasiano da Bisticci, era che
«un re non letterato, e un asino
coronato ». II che non significa, si
badi, che ser Coluccio fosse un vuoto
retore, o Alfonso un re da ser-
mone, ma che la cultura era, essa,
viva ed efficace e umana, e perfetta
espressione di una societa capace
d'accoglierla. L'uomo che nel linguaggio
celeb ra veramente se stesso -- l'uomo si
manifesta uomo essenzialmente nella parola ,come
si costituisce in pienezza definendosi
attraverso la cultura (le litterae che
formano la humanitas), cosi raggiunge ogni
sua efficacia mondana mediante la parola
persuasiva, mediante la «retorica» intesa
nel suo significato profondo di medicina
dell'anima, signora delle passioni, educatrice
vera dell'uomo, costruttrice e distruttrice
delle citta. Tutto e, veramente, nel
Quattrocento retorica)), sol che si ricordi
che, d'altra parte, «retorica» e umanita,
ossia spiritua- lita, consapevolezza, ragione,
discorso di uomini; perche', veramente, il
secolo dell’umanesimo e il Quattrocento, in
cui tutto fu inteso sub specie
humanitatis, e humanitas e umano colloquio,
ossia tutto il regno delle Muse
figlie di Mnemosine — che e il
piu vero e il piii bello dei miti.
Con semplicita francescana frate Bernardino
da Siena, che vede in ser Coluccio un
maestro e in Leonardo Bruni un amico,
scriveva cristianamente le medesime cose:
«non aresti tu gran piacere se tu
vedessi o udissi predicare Gesu Cristo,
san Paulo, santo Gregorio, santo Geronimo
o santo Ambruogio? Orsu va, leggi i
loro libri, qual piu ti piace .
. . e parlerai con loro, ed
eglino parleranno teco; udiranno te e
tu udirai loro». E, come dice
altrove, le lettere ti faranno «signore».
II grande Valla par- lera di un
sacramentum\ il modesto Bartolomeo della
Fonte dira di un divinwn mimen: quel
«nume» che da agli uomini anozze e
tribunali ed are. Per questo le litterae
sono una cosa terri- bilmente seria,
e la responsabilita di un termine
bene usato & gravissima, e non
v'e posto per Fozio. Per questo la
poesia in senso vichiano e da
cercarsi la dove si traducono e si
consegnano i discorsi essenziali per la
vita delFuomo. i. Cosi FLORA,
Umanesimo, « Letterature moderne», i, 1950,
pp. 20-Ecco — secondo il Fonzio —
quello che ottiene la parola: «fidem
inter se homines colere, matrimonia inire,
seque in una moenia cogere viribus
eloquentiae compulit». Per tal modo
quella «poesia» che talora & lontana
dai versi e dalle novelle, e presente
ed altissima nella pagina di un
filosofo o nell'appassionata invettiva di
un politico. La dolcezza del dire
(dulcedo et sonoritas verborum), la luce
della forma (lux orationis), che si invoca
per ogni espressione di vera umanita,
vuol far «poesia» di ogni umano
discorso; e nel momento in cui riesce
a tanto toglie ogni privilegiato dominio
alle dettere oziose. Perfino un oscuro
erudito come Giovanni CASSI d'Arezzo sa
dirci che in tal modo nell'eloquenza
si unificano tutte le umane attivita,
e tutto in essa si umanizza dawero, e
non perche come taluno ha fan- tasticato,
si celebri solo il letterato ozioso,
ma al contrario perche 1'uomo e
presente in ogni momento dell'agire:
perche, faccia egli il matematico, il
medico, il soldato o il sacerdote,
sempre e innanzitutto e uomo, e il
suo sigillo umano imprime ad ogni sua
opera umanamente esprimendola, ossia rivestendola
della lux ora- tionis.* Di qui l’importanza
centrale che vengono ad assumere le
trat- tazioni sulla lingua, sulla sua
storia, sulla eleganza? ove la discus-
sione grammaticale si trasforma di continuo
in discorso finissimo di estetica: e
quel trapassare dal vocabolario, e magari
dal reper- torio ortografico — basti
pensare al Perotto o al Tortelli —
nel- Panalisi critica e nella dissertazione
storica. Mentre, contemporaneamente, la storia,
che intende farsi vivo specchio della
a vita civile)), e per eccellenza
eloquente discorso, ossia prosa politica e
trattato pedagogico-morale. Bellissima cosa &
infatti — come afferma Bruni —
raccontare 1'origine prima e il progresso
della propria citta, e conoscere le
imprese dei popoli liberi (est enim decorum
cum propriae gentis originem et progressus,
turn libe- i. « Quasi unum in
corpus convenerunt scientiae omnes, et
rursus tem- poribus nostris . . .
eloquentiae studiis studia sapientiae coniuncta
sunt» (da una lettera del Cassi al
Tortelli, contenuta nel Vat. lat. e pubblicata
da GAMURRINI, Arezzo e rUmanesimo, Arezzo, Cristelli,
miscellanea in onore del Petrarca
dell'Accademia Petrarca). 2. A proposito
delle eleganze del Valla scrivera il
Cortesi, De hominibus doctis, ed. Galletti,
Florentiae, Giovanni Mazzoni, conabatur Valla
vim verborum exprimere et quasi vias
... ad structuram orationis». rorum
populorum... res gestas cognoscere). Cortesi, in
quel felice dialogo De hominibus doctis,
che e una vera e propria storia
critica della letteratura del secolo XV,
appunto di- scorrendo delle storie del
Bruni, batte su questo incontro della
verita con 1'eleganza, che e tutt'uno
con queH'armonia di sapienza ed eloquenza
che Benedetto Accolti celebr6 quale dote
precipua dei Fiorentini e del Veneziani
del suo tempo nel dialogo De prae-
stantia virorum sui aevi. Per la
stessa ragione per cui tutto sembrava
divenir dialogo, tutto anche e libro
di storia; e storia e, ancora,
colloquio con le eta antiche, con i
grandi spiriti del passato. II Bruni
nell'intro- duzione ai Commentarii confessa
che la grande letteratura clas- sica
fa si che i tempi lontani ci
siano piu vicini e piu noti dei
tempi nostri (mihi quidem Ciceronis
Demosthenisque tempera multo magis nota
videntur quam ilia quae fuerunt iam annis
sexaginta), e dichiara che e compito
della storia immettere nella nostra vita
e nel nostro colloquio il passato,
farlo vivo con noi (quasi picturam
quondam . . . viventem adhuc spirantemque).
Matteo Palmier i in- nanzi alia vita
di ACCIAUOLI ci insegna che la storia
e una specie di immortalita terrena
di quanto in noi e, appunto, vita
mondana; la storia & culto e
salvezza di quella parte mortale che
le lettere redimono da morte dilatando
la societk umana oltre i limiti del
tempo e salvandola dalPoblio e dal
destino.2 Ill Si aprono qui,
tuttavia, a proposito della prosa latina,
due que- stioni fra loro strettamente
connesse e che sembrano in qualche
modo, gia nella loro impostazione, venir
contrastando con quei i. Cosi nel
De studiis et litteris (in HANS
BARON, Leonardo BRUNI Aretino hu-
manistisch-philosophische Schriften, Leipzig). Una
giusta valutazione dell’opera storica di BRUNI
presenta B. L. Ullman, Leonardo BRUNI
and humanistic historiography, « Medievalia et
Humanistica » (e, per quanto si e sopra
osservato su retorica, politica e storia,
son da vedere i tre saggi di
HANS BARON, Das Erwachen des historischen
Denkens im Humanismus des Quattrocento,
«Hist. Zeitschrift», vol. 147, 1933; di RUBINSTEIN, The Beginnings
of Political Thought in Florence: A
Study in Mediaeval Historiography, « Journal
Warburg Inst. »; di CANTIMORI, Rhetoric and
Politics in Italian Humanism, «Journ.
Warburg Inst.», i, 1937). 2. « Corpoream
vero partem non om- nino negligendam
ducunt, sed tamquam suam in terra
recolendam, ideo- que desiderant illam
oblivioni et fato praeripere ...» caratteri
stessi che si sono voluti definire:
come, infatti, parlare della «umanita» di
una produzione che si serve di una lingua che nessuno ormai usa
e che, dunque, gia nel mezzo espressivo pone
come suo canone l’imitazione; in che modo
una filosofia mimetica, ricalcata su modelli ciiceroniani,
poteva ol- trepassare i limiti della
erudizione? Ma i due gravi problemi, del latino umanistico e dell’imitazione classica,
gia tanto dibattuti, hanno oramai offerto
anche 1'avvio a una soluzione. Quanto
infatti si obbietta intorno alPuso del
latino, in luogo del volgare, e ad
una presunta frattura che si opererebbe
rispetto alia tradizione trecentesca, deve
essere corretto con Posservazione che i
generi di prosa a cui ci riferiamo
— orazioni, trattati, epi- stole politiche,
dialoghi dottrinali — avevano sempre fatto
uso del latino. Non e quindi esatto
dire che da un presunto uso del
vol gare si torna al latino; e
vero invece che al latino medievale
defi nite barbarico, e cioe goto o
parigino, si oppone un altro latino
che si determina e si definisce
rispetto ai modelli classici. II quale
latino, che si dichiara — come dice esplicitamente
il PLATINA — integrate da tutta la
piu feconda tradizione postciceroniana, ivi
compresi i Padri della Chiesa, intende
rivendicare i diritti di una lingua
nazionale romana contro Puniversalita di un
gergo scola- stico (lo stile parigino),
ed innanzi tutto nel campo di una produzione costantemente
espressa in latino. Giustamente il SANCTIS sottoline la frase del VALLA
che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al latino gotico dell’uso medievale. La quale
« nostra lingua romana degl’umanisti, che si precisa
con caratteri propri cosi rispetto al
latino classico come a quello barbaro,
va vista per quello che essa
veramente e, anche rispetto al volgare:
«un nuovo latino, in cui la
complessita antica cede il posto alia
scioltezza moderna)). Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che
si collocava chia-ramente nel tempo
defmendo i propri rapporti cosl col
mondo antico come con il Medioevo; il
latino deigrandi umanisti, lungi dal
rappresentare una battuta d'arresto o un
momento di invo- i. Cosi nella
prefazione alle Vite, che riportiamo per
intero. Rilievi utili in proposito ha
il Sabbadini sia nella Storia del
ciceronianismo (Torino, Loescher), come nel
Metodo degli umanisti (Firenze, Le Monnier).
luzione, si colloca nella storia
stessa del volgare. Il latino insegna al
volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime
ne’ filosofi umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei
suoi trapassi intuitivi, della sua eloquenza
interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto
si traduce quasi materialmente nel fatto
che gli autori spesso scrivono 1'opera
loro in latino e in italiano. Non
sempre si e posto mente al fatto che
dal Manetti al FICINO gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni.
E come il loro latino e davvero una
lingua low., cosi il volgare che
adoperano non e per nulla oppresso da
una imitazione artificiosa di modelli classici.
Giungiamo cosi a quello che forse
e il punto piu delicato ad intendersi
dell'atteggiamento di questi quattrocentisti: Vimita
zione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti
rispetto agli autori classici sia
alimentata da una preoccupazione storica e
critica; che essi siano dei filologi
desiderosi innanzitutto di comprendere gli
autori del passato nelle loro reali
dimension! e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo
defmisce il senso di quella imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT
dichiara nettamente la parita di valore
fra i nuovi autori e i classici.
Poliziano nella polemica col CORTESI, che
e un testo capitale, confutera tutte
le istanze del ciceronianismo, e proclamera
il valore di un'intera tradizione aff
errata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA
ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus
quod diversion sit»). Ma dira soprattutto
1'enorme distanza fra una poesia che
fiorisce come li- bera creazione su
una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas facit, haec simias.SPONGANO, Un capitolo
di storia della nostra prosa d'arte,
Firenze, Sansoni, E cosi sono spesso
notevoli le version! di scrittori celebri
come latinisti: TAurispa che traduce
Buonaccorso da Montemagno, Donate ACCIAIUOLI che
volgarizza il BRUNI, e cosi via. interessante
ritrovare, distesi e volgarizzati, i
concetti di un Valla e di un
Poliziano nei filosofi francesi. Per esempio
Joachim du Bellay, scrivendo a meta
del sec. XVI, dopo aver tratto dal
Valla il concetto che Roma fu grande
per la lingua imposta all'Europa non
meno che per l’impero (“la gloire du
peuple Romain n'est moindre - comme a
dit quelqu'unen l’amplifacation L'Umanesimo e
in questa singolare imitazione-creazione, come
1'ha chiamata RUSSO: l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini
nell'operoso sforzo di raggiungere una
sempre pifc alta forma di vita. Di
qui, appunto, il particolare carattere
delle sue piii felici espressioni letterarie. de
son langaige que de ses limites»)>
eccolo riprendere POLIZIANO: «immitant les
meilleurs aucteurs, se transformant en eux,
les devorant, et apres les avoir bien
digerez, les convertissant en sang et
nouriture ». Solo cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore.
Autrement son immitation ressembleroit celle du singe.
Cfr. WEINBERG, Critical prefaces of the
French Renaissance, Northwestern University
Press, Evanston, Illinois, Russo, Problemi
di metodo critico, Bari, Laterza, GARIN, Eugenio
Antonio Nacque a Rieti il 9 maggio 1909, figlio di Francesco e di Teresa
Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia
in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel
Valdarno; il padre – allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con
Giorgio Pasquali, che scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un
giovane e valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo
greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura
e quasi improvvisa – morì il 26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne
stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente,
pesanti responsabilità. Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e
un'adolescenza assai difficili e tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare
i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere,
dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di
particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di
vivere e di lavorare. Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati –
comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio
assiduo e «disperatissimo», la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia,
la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla
facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col
massimo dei voti in filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler,
preparata sotto la guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche
gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva
insegnato il padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto
1908, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio
1930. Garin era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella
città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta
l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un
ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella
facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto
di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì
rapporti con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai quali
restò legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher, Nicolai
Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni della sua
formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M.
Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane
Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei
per maturità e sapere. In quegli stessi anni, Garin conobbe due
maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità
intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che
lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta,
confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano 1942). Dopo
aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli anni 1929-30 e
1930-31, Garin, ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e filosofia
riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fece nel 1931 il concorso per
l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per «sedi determinate», e lo
vinse, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da Augusto
Guzzo. Prese servizio il 16 settembre dello stesso anno come professore
straordinario di filosofia e storia presso il Liceo scientifico Stanislao
Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934, quando – dopo
molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia scientifici – fu
trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e
storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci. Gli anni palermitani
furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani e
intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante
volume Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato a Firenze nel
1937, ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in gran parte il suo
primo libro di argomento umanistico, servendosi delle «eccellenti biblioteche
pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo
Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero,
l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro
'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla
per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV [1999], 6, p.
732). A spostare Garin dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese
verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di
fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli
stessi anni stava studiando il Bruno 'inglese' sulla scia della importante
monografia su La morale di Giordano Bruno, pubblicata nel 1924. Ma alla
base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la
centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella
ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la
dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il
significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, Garin, in un testo degli
anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è
conservata presso il Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa), a
segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si
concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia
filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione
sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia
del mondo. È in questo contesto che si inseriscono sia il libro su Pico
sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica
(in La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146) in cui questo intreccio di
motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica
di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un
consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle
risalenti a Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami
alla interpretazione di Konrad Burdach – messa in circolazione in Italia, nel
1935, anche da Delio Cantimori –, a quella data Garin era su un'onda assai
diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i
suoi lavori su Giovanni Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico
della filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare fin dal 1932
con un saggio su L’etica di Giuseppe Butler (XXXIII, pp. 281-303). Non si
trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio,
nella importanza che già in questi anni Garin cominciava ad assegnare alla
tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con
toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni (il saggio su Una fonte
ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a
essere ripreso e profondamente modificato nel 1958, uscì originariamente in La
Rinascita, III [1940], pp. 202-232). Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una
forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai
principali riferimenti filosofici di Garin in questi anni: René Le Senne,
Gabriel Marcel, Etienne Gilson, Louis Lavelle, forse il più importante di tutti,
quello al quale si sentì a lungo più vicino. Sono tutti autori di
area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni
differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben
presente negli scritti storici di Garin sul Rinascimento di questo periodo, pur
mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto
forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo
bibliografico del libro su Giovanni Pico). Mancano, invece – con l'importante
eccezione di Ernst Cassirer, presente già nel libro del 1937 – riferimenti
altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Martin
Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri
importanti esponenti della generazione di Garin, come Luporini, suo amico fin
dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che
per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico. È una mancanza
che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una
componente centrale della formazione di Garin, e che essa – insieme al pensiero
inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività
scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di
presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta
insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli
Enciclopedisti. Il primato della cultura di matrice francese era, del
resto, un tratto diffuso della generazione di Garin e, in modo particolare,
dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di
notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era
bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di
Arrigo Levasti e Piero Marrucchi, una personalità notevole, alla quale Garin
rimase sempre legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando
quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come
Carlo Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta
attenzione. Tornato a Firenze alla fine del 1934, nell'anno accademico
1935-36 ebbe un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e
filosofia. Nel 1937 ottenne, poi, la libera docenza in storia della
filosofia. Nel 1938, quando per effetto delle leggi razziali Limentani
dovette lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà decise di non
chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a Garin, come
il miglior discepolo di Limentani. Nei modi possibili in quei tempi
difficili, Garin espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si
era formato, tenendo, il 30 gennaio 1940, una conferenza presso la Biblioteca
Filosofica di Firenze in cui attaccò a fondo ogni forma di storicismo –
identificato con il relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della
lotta, e dell'‘ostacolo’, sulla scia di Le Senne; ribadendo, dall'altro, e con
massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore,
che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire.
Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio, pubblicato
in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Ludovico Limentani
(1884-1940), Firenze 1941). Aveva, intanto, cominciato a partecipare a
concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere nel
1949, quando risultò primo ternato in quello per professore straordinario alla
cattedra di storia della filosofia dell'Università di Cagliari (la commissione
era formata da Antonio Aliotta, presidente, Eustachio Paolo Lamanna,
segretario, e da Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Ugo Spirito).
Precedentemente, nel 1938, nel 1942 e nel 1949, aveva partecipato, venendo
dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente,
dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli (quest’ultimo si svolse
in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della
prima). Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni
furono però fertilissimi dal punto di vista scientifico: oltre a una serie di
saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Giovanni
Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto intenso), Garin pubblicò due
importanti antologie: la prima, Il Rinascimento italiano (Milano 1941),
commissionatagli da Gioacchino Volpe e stampata nella collana dell'ISPI; la
seconda, Filosofi italiani del Quattrocento (Firenze 1942), uscita come
pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in
entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda
negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della
inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione
quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento:
una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla
critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei
primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora
pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani del
Quattrocento, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di
Coluccio Salutati. Sono anni, e temi, nei quali la nota religiosa
risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo.
Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia
di testi tolstoiani – Ultime parole –, nei quali è affermato con nettezza
il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo
economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso Garin a ricordare nel
1954 che anni prima, nel pieno della guerra, aveva attraversato una vera e
propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul
terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del
linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a fra Girolamo Savonarola,
un autore che gli fu sempre carissimo, ma che nel 1943 arrivò ad affiancare al
Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.
In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione
dei testi fondamentali di Giovanni Pico della Mirandola: De hominis dignitate,
Heptaplus, De ente et uno (Firenze 1942); Disputationes adversus astrologiam
divinatricem (ibid. 1946-52) un'impresa imponente, che contribuì a mutare in
profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del
Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che Garin avrebbe
proposto nel libro del 1947, Der italienische Humanismus, pubblicato nella
collana diretta da Ernesto Grassi per l'editore Francke di Berna (ristampato
poi nel testo originale presso Laterza nel 1952). Furono lavori resi
possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante
di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni: Enrico
Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico nell'ambito
dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal Regio
Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale Garin fu anche
segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a
tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo scientifico Leonardo
da Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo
lavoro. Garin sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra
storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e
la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è
però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua
lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo un
periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come
appare chiaro dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò
infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai
iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno
dei principali intellettuali di riferimento. Alla base di questo netto
spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura
politica. Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le
Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la
rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti,
direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo
tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia
sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955
(ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e
sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto
allora da Ugo Spirito). Dal punto di vista strettamente politico,
per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai
venuto meno, interesse religioso di Garin: era infatti profondamente laico, non
laicista. Riteneva necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e
ciò che è di Dio, anzi pensava che dalla confusione dell'uno e dell'altro
potesse derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il
partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta
di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che
durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo
giudizio, a corrompere il carattere morale degli italiani. Perciò considerò
negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma
fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una
scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con
il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, Garin vide in esso la
forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello
Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova
forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per
una autentica esperienza religiosa. I due piani – quello culturale e
quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella
concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche
sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di
Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi nel 1947 (si tratta dell'opera: La
filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di
Vallecchi nel 1945: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi).
Le Cronache di filosofia italiana del 1955 erano, in effetti, un'altra
cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al
tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Norberto Bobbio, nato
anch'egli, come Garin, nel 1909, e autore, nello stesso 1955, di Politica e
cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A
considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel
livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi
con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti
differenti. In Garin, assai più che in Bobbio, era infatti presente la lezione
di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico
(Bari 1959) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al
primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul
piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Palmiro
Togliatti rilevò, nel 1955, nella sua recensione a Cronache di filosofia
italiana (Rinascita, 1955, n. 6). Non solo: la lezione di Gramsci, in
forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che Garin
dedicò al Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla fine degli anni
Sessanta del secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di
Gramsci e Garin fossero, proprio nel merito, profondamente differenti.
L’UMANESIMO CIVILE, IL ’68, IL TRAMONTO DI UN MONDO Quando
si parla di Eugenio Garin si pensa, in genere, alla sua interpretazione del
Rinascimento come 'Umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di
motivi: in primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda
del mutare dei contesti storico-politici; in secondo luogo, a cominciare dagli
anni Settanta Garin riformulò in modo profondo la sua interpretazione,
dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al
nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e
rivoluzioni: movimenti culturali dal 14. al 18. secolo, Roma-Bari 1975: uno dei
suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento
italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni nel 1961, nel
quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo
civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Coluccio
Salutati a Bartolomeo Scala, pubblicato originariamente in Rivista
storica italiana, LXXI [1959], pp. 185-209). All'interpretazione del
Rinascimento come Umanesimo civile Garin lavorava, in effetti, fin dagli anni
Trenta, in convergenza con le ricerche di Hans Baron, del quale nel 1938 fece
pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una
funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che Garin
tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo
religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il
quadro mutò in modo deciso, e l'Umanesimo civile diventò il motivo
dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente
lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento(Milano-Napoli 1952). I motivi
messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi
energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche,
cui dedicò nei primi anni Cinquanta due saggi fondamentali; ma essi ora
venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio
sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo
luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –,
dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e
'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini
come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni. Ne scaturì, in quegli
anni, una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale
discipline come la retorica, l'arte della memoria o esperienze filosofiche
prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il
lullismo. Su questo sfondo, Garin si pose in termini nuovi rispetto
agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri
della scienza moderna, sforzandosi di «mostrare come un moto di cultura
strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane fra
Trecento e Quattrocento debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento
scientifico moderno» (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita
civile nel Rinascimento italiano, p. V, pubblicato con Laterza nel 1965: una
linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi,
anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico,
coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico). In questa
accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di
Gramsci, che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che Garin dedicò,
negli stessi anni, alla filosofia contemporanea, specie a quella italiana. Sono
importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana tra '800 e '900
(Bari 1962); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani del XX
secolo (Roma 1974), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della
presenza, e della influenza, di Garin nella cultura, e anche nella politica,
italiane. Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare
un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui Garin riuscì a
stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e
non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e
fuori l'Università, in Italia e all’estero. Nel 1952 era diventato professore
ordinario di storia della filosofia medievale presso l'Università di Firenze
(insegnamento che aveva tenuto per incarico dal 1941 al 1945 e dal 1947-48 al
1948-49); nel 1955 era poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di
storia della filosofia presso la stessa Università. Riconoscimenti,
e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università.
Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria',
dal 1948 ne era anche segretario generale; il 23 luglio 1965 fu eletto
socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, diventandone socio nazionale il
23 novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette dalla British Academy la Serena
medal for Italian studies (gli ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrisse,
con orgoglio, il 5 luglio 1975 al direttore della Scuola Normale comunicandogli
la notizia – erano stati Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli).
Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, Garin era, a suo
modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni
Cinquanta e per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli
era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività
scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che
gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne
anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma il 3
giugno 1960, pubblicandola poi in volume (La cultura e la scuola nella società
italiana, Torino 1960). Negli anni successivi la situazione mutò
profondamente; quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrinò e Garin
si distaccò, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e
politici che, a cominciare dal 1968, avevano cominciato a scuotere il paese fin
dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi
la vera e propria rottura, si produsse alla fine del 1971, quando – si legge in
una lettera del 16 novembre al preside della facoltà di lettere, Ernesto Sestan
(minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore) – fu costretto a
interrompere la lezione per il «contegno oltraggioso e provocatorio di uno
studente del 2° anno». Fu una scelta assai meditata, anche se amara, quella
di lasciare l’Università di Firenze, che era stata fin dagli anni giovanili la
sua Alma Mater, trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola
Normale Superiore di Pisa come professore – e anche questa scelta è
significativa – di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrisse il 22
giugno del 1974 al direttore della scuola, Gilberto Bernardini, sarebbe stata
quella «la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un lungo
insegnamento» (minuta, ibid.). Questo non significa che da quel momento
si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella
italiana. Anzi: nel 1983 pubblicò, con l'editore barese De Donato, un libro
importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità,
riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in
generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia del
Novecento, nelle sue varie diramazioni. Ma il libro non ebbe un successo
paragonabile a quello tributato nel 1974 al volume sugli Intellettuali italiani
del XX secolo. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e
i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e
rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta
scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una
crisi che investiva lo Stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un
intero mondo stava cominciando a finire. Tanto più colpisce, in questa
situazione, il lungo saggio che nel 1991, in controtendenza, Garin dedicò
a Giovanni Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche.
Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984
era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore
emerito della Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza
dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. Era dunque
diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale,
e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento
'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confrontò con Gentile nella
lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua
scelta. Non era un'impresa facile: i rapporti di Garin con Gentile e con
Croce furono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il
tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine
generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a
Gentile: basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia
del 1945, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere
come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce.
Certo, come dimostrano le Cronache, il suo giudizio sul neoidealismo italiano
si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato; ma la distanza
di Garin dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa
coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione.
Alle origini, le ragioni di quella scelta stavano precisamente qui: sul
piano filosofico Gentile apparteneva a quella filosofia della libertà, specie
di matrice francese, in cui il giovane Garin aveva riconosciuto il carattere
principale del pensiero del nuovo secolo e anche le proprie radici, sia
filosofiche sia religiose. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto,
volontà. Erano i motivi che erano presenti anche nel giovane Marx, quelli che
gli avevano fatto apprezzare Gramsci, sentire affine la ricerca dei Quaderni
del carcere, e che, nel volume del 1991, sottolineò anche in Gentile, vedendo
anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel
nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà. È per
queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che Garin fu, invece, in
sostanza, lontano da Croce, pur apprezzandone il rapporto stabilito tra
politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del
circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la
intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiutava la dissoluzione
dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale.
Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso
negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si esprimevano un distacco, e
un dissenso, perfino di ordine generazionale – non vennero mai completamente
meno. Nel 1966, in occasione del centenario della nascita di Croce, scrisse un
bel saggio sui suoi rapporti con Renato Serra (Serra e Croce, in Belfagor, XXI,
1, pp. 1-13) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ebbe esitazione a
schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Con il
'68 iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere,
in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di Garin, che operò
mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione
dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della
sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale;
anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come
appare nel Ritratto di Leonardo Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia
Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo, XL [1970-72], pp. 1-17 ), mentre
assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal
libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al
Cinquecento (Roma-Bari 1976), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège
de France fra l'aprile e il maggio 1975. Fin dall'inizio della sua attività
Garin aveva dato rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche,
sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono
centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere
astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in Garin, un convincimento
di ordine teorico. A lungo era stato persuaso che nella cultura
europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiamava la 'linea
Pico-Sartre', secondo cui l'uomo «non ha una natura (una "specie",
una "forma"), ma […] è un atto che si sceglie» (per riprendere una
sua battuta contenuta nella lettera a Leonardo Amoroso del 17 luglio 1991
[minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa]). Era un
convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del
primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si
infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri
fiorentini, pensatori come Pomponazzi e, soprattutto, Leon Battista Alberti,
sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata
dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna
vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un
microcosmo in che modo lavorava Garin, e quanto fosse profondo nella sua
ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da
una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti
variazioni e mutamenti. Alberti era stato infatti sempre al centro della sua
attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile,
mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali
esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus
deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e
ripresa nel De fato da Pomponazzi. Sono precisamente questi temi, e
queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate
dalla scoperta che aveva fatto di alcune Intercenali inedite di Leon Battista
Alberti, pubblicate su Rinascimentonel 1964), che attrassero Garin quando si
convinse che la linea Pico-Sartre si era infranta ed era stata sconfitta. Né è
facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi
che fin dalla fine degli anni Sessanta stava travagliando il mondo storico, dandogli
progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della
cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie
che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il
Rinascimento e l’Illuminismo. In un intreccio profondo di
autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo Garin sono solcate da toni
assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi
scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte
era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà
perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente
originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante
tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua
esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un
secolo. Quando morì, a Firenze il 29 dicembre 2004, non aveva
smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a
fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta
parte della sua esistenza. E. G. Il percorso storiografico di un maestro
del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio
2002, a cura di F. Audisio - A. Savorelli, Firenze 2003 (si vedano in
particolare i saggi di C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico della
filosofia (1929-1947), pp. 15-34 e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. su Giovanni
Pico della Mirandola, pp. 65-92); G. e il Novecento, numero monografico del
Giornale critico della filosofia italiana, 2; M. Ciliberto, E. G. Un
intellettuale nel Novecento, Roma-Bari 2011; E. G. Dal Rinascimento
all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O.
Catanorchi - V. Lepri, con Premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento
di E. G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in
collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 25-27 febbraio
2010, a cura di S. Ricci - G. Vacca, Roma 2011. Grice: “Don’t expect
philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis. But like
Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor figures,
to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s Storia
della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more
difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford:
‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del
novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these
monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should
not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come
umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e
il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del
rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e
garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo
sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano,
umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano,
troppo umano – The Swimming-Pool Library.
Grice e Garroni –
l’implicatura di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on
Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception
(‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua
attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come
intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo
lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica,
grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni
cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte. Insegna a Roma.
Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La
crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento
dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione
della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza
di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura
Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo
linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle
riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia
Einaudi.Cura Benedetto, Bottari, Melis,
Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non
speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni
artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad
una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza
del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la
portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che
trascendono lo stato empirico delle scienze e vivono operanti nel meglio degli indirizzi
novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre
opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica.
L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza);
“Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio
uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla
"Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della
semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso
e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica.
Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire”
(Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari,
Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro
Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario.
Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio”
(Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul
cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Edoardo Bruno e
Alessia Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno,
Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen
quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e
della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti
morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e
della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata del 1961, tratta da Rai
Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui Garroni parla del
Bauhaus e intervista Zevi e Gropius
Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica;
Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non
speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche. Treccani L'Enciclopedia
italiana". Legalità / Creatività.: Garroni legge Kant di Romeo Bufalo, in
Studi di estetica, Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). - Nacque il 24
nov. 1826 a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del
marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina)
Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri
(frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero
il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del
L., Ippolito. È probabile che il L. abbia frequentato le scuole
elementari a Collodi, dove risulta ospitato fino al 1836 dagli zii materni
Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze);
l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel
seminario di Colle di Val d'Elsa. Nell'agosto 1842 decise di interrompere gli
studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di
retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il
corso nell'autunno del 1844, trovò subito un impiego nella libreria Piatti di
Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere
agli studi. La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti
di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali
G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal
giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere
notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità
della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore
dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato
tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che già nel 1845 ottenne l'autorizzazione
alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne
accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e
come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da
C. Tenca, dove il 29 dic. 1847 apparve il primo articolo firmato del L.,
L'arpa. Nel marzo 1848 il L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio
Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e
combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle
Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità
d'osservazione e descrizione. In estate il L. tornò a Firenze e dovette
trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla
malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per
interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario,
commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa
attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico
democratico Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò
numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi
anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata
"fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava
caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino"
e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che
"mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava
tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini
generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel
giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani, p. 68). Nella
primavera del 1849, con il ritorno dei Lorena nel Granducato, il L. dapprima
rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma
la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno
dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La
figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico
milanese l'Italia musicale, per il quale nel 1850 compì un lungo giro tra
Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a
collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi
impegni giornalistici) e il 1852, quando perdette definitivamente il suo
impiego. Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si
intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del
periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I.
Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica
musicale, teatrale e letteraria (tra cui, nel 1854, una feroce stroncatura del
poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione
negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose
umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica
convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T.
Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo.
Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il
valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere,
p. LXXX). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo
Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P.
Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo
pseudonimo di Yorick. Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di
pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni
giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli
altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente,
in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al
programma della Lente, 1856). Il L. coltivava anche ambizioni di
scrittore teatrale e nel 1853 compose il dramma in due atti Gli amici di casa
ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del
romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano (1854-55) di farlo
rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté
pubblicarlo (Firenze 1856), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Sempre nel
1856 scrisse e pubblicò (ibid.) Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno.
Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione
dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a
Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di
giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C.
Collodi, Opere, pp. XV-XIX), il genere "popolare" del romanzo e quello
"borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che
procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della
narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o
curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.
Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si
dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I
misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857,
preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e
spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo
volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice
alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto
fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina,
moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente
espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.
Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua
intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse
l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da
G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze
e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa nell'ottobre del 1857 la sua attività di
segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove
ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione
amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico
del periodico L'Italia musicale. Nella capitale sabauda nell'aprile del
1859 si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla
guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu
posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a
collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione,
diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo
a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli
venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e
quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri,
uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di
dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani
filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione
di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di
Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il
sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a
Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del
professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando
come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione (dal 15 maggio 1860) del
quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e
direttore (fino al marzo 1861, mentre il fratello Paolo ne era
l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale
interrotto nel 1849, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo
del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo
annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté, nel giugno 1881,
chiese e ottenne di essere collocato a riposo. Le non onerose
incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con
crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore
teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860,
recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il
Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice
del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale
delle opere di Dante. Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle
porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo,
direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa
dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si
tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza
fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da
Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica
illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per
migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C.
Collodi, Opere, p. XCIII). Sempre nel 1861, ne Il Lampione, apparve la
commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata (probabilmente nel 1867)
con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno
trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli
amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di
commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime
consenso ricevette la vivacità linguistica del testo. Al teatro il L.
continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio
(dal 1862 faceva parte della Società d'incoraggiamento teatrale e il 23 sett.
1867 nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla
Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Nel 1870
pubblicò a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata
per la prima volta al teatro Niccolini nel 1872, rivolta non tanto alla
condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia
attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo
attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta
Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; al 1872 risale inoltre
la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con
scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta
in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel
Fanfulla nella primavera del 1873 con il significativo sottotitolo Bozzetti e
studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata
lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio,
dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il
"vero" che si prefiggeva il L., più che quello del naturalismo
letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente
chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana. Del
resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel
quindicennio che va dall'Unità al 1876 (in particolare in La Nazione, La
Gazzetta del popolo e, dal 1871, nel Fanfulla), la sua attenzione di notista
politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con
toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti
e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici
e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua
legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso
forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi,
costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della
Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30
genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva
alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la
paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola
dalla carta geografica del Regno d'Italia. A questa oltranza polemica,
pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del
ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli
politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti. In
primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui
il L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della
propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai
titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi.
Ricordi dal vero (Firenze 1881). In esse riunì, senza alcuna revisione,
semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza
autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche
della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli
narrativi" (Asor Rosa, p. 554) a formare un antinaturalistico ritratto
"alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal
vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei
"profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).
Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai
fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più
chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo nel 1868
fu nominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la
compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro,
dette scarso contributo. Il L. si indirizzò, dapprima casualmente e
occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più
convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di
illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e
insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente
pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo",
dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della
superficie" delle cose (Asor Rosa, p. 555), dal quale prendevano le mosse
i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della
letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella
svolta fu offerta nel 1875 al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei
fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica,
che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le
favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La
versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con
stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle
fate e le illustrazioni di E. Mazzanti. Da allora, pur riprendendo la
collaborazione al Fanfulla (1878) e continuando la sua attività di critico
teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura
scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito
i due libri di lettura Giannettino (1877), che sin nel titolo riprendeva il
fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini (1837), e Minuzzolo
(1878): entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla
scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a
riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due
protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).
Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per
l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina
a cavaliere della Corona d'Italia e nel 1880 ricevette da A. Conti, assessore
alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo
per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione
di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e
sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa
editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla
figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore
(1880), seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel
1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino (1883);
L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino (1885); fino a La
lanterna magica di Giannettino (1890). Con la loro formula innovativa questi
testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre
apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica
Istruzione (cfr. Raicich, p. 74 n.): le diverse discipline, infatti, erano
esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente
dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e
rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e
"naturale". Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate
la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di
Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L.,
che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di
cui era animatore e che era stato fondato nel 1881 da F. Martini con
l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. Il L., ormai stanco
e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un
testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la
consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di
luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al
27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la
presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il
successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a
proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le
avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal
cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare
durante tutto il 1882 per concludersi (con il XXXVI e ultimo capitolo) nel
gennaio 1883. Velocissima fu invece la pubblicazione in volume, che uscì nel
febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti;
sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione
nel 1886 (lo stesso anno in cui E. De Amicis pubblicava Cuore), una terza
(1887) di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione
uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad &
figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto
personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo
consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu
alterato da refusi e banalizzazioni. Se ci si limita alle sole
circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque,
può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso"
risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace
formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della
"bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa
carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il
suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni
teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del
giornalismo della seconda metà dell'Ottocento. In realtà,
nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del
capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente
coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita
e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore
satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano
l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi
scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è
condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e
mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la
celebre fiaba è narrata. Di tutto ciò non si accorsero né i
contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo
crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre
la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne
il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della
critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e
A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro
della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita
e la carriera del suo autore. Negli anni della composizione e
pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla (fino
al 1897) e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i
bambini, di cui divenne direttore nel biennio 1883-85 e nel quale pubblicò
racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due
parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima
confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il
teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso
Paggi. L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora
viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni
successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel
fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo
lavoro. Il L. morì a Firenze improvvisamente, la sera del 26 ott.
1890. Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e
lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e
Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze nel 1892) gran parte
delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai
testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta
raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere
(private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità
del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di
salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo
Lorenzini [Collodi nipote], pp. 70, 74). Le non molte carte sopravvissute
furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di
Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte
Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso
l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede
della casa editrice Paggi (cfr. M.J. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle
carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno
internazionale,( 1974, Pescia 1976, pp. 381-403). Altri documenti sono presso
l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e
presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi
giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze 1981;
Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di
R. Maini - M. Zangheri, Firenze 2000). Tra le testimonianze biografiche
contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla
della domenica e nella Domenica fiorentina, 2 nov. 1890; i profili premessi dai
curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G.
Rigutini, Firenze 1892, pp. V-XVI; a cura di I. Cortona [Lorenzini], ibid.
1911, pp. III-XL); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in
La Lettura, marzo 1907, pp. 184-190; F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze
granducale), I, Firenze 1922, pp. 168 s.; inoltre P. Lorenzini, Collodi e
Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere
del Collodi, Milano 1993; B. Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari
1993; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano 1995,
pp. LXVII-CXXIV. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato
Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume
(Firenze 1948); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle
Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C.
Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e
delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la
ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat,
Firenze 2003. De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni
di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A.
Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura
di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad 1890 -
l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti
stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F.
Tempesti (tutte pubblicate a Milano) nel 1972, nel 1983 e nel 1993, corredate
da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa
nella raccolta di Opere, a cura di D. Marcheschi, cit. (pp. 359-526), con ampio
corredo di note (pp. 916-1003). Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con
introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano 2002) con
introd. di P. Italia (pp. VII-XXII) e prefaz. di V. Cerami (pp.
XXII-XXVII). Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica)
alla Bibliografia Collodiana (1883-1980)di L. Volpicelli (Pescia 1980), da
integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi (pp. 1119-1130,
aggiornata al 1994), alla consultazione del catalogo della Biblioteca
Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio
(on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di
Pescia. La storia degli studi critici sul L. (in gran parte contributi su
Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla
fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, a cura di
G.E. Viola - F. Rovigatti, Roma 1990, pp. 55-64; Pinocchio tra due secoli.
Breve storia della critica collodiana di R. Bertacchini, in C. L.- Collodi nel
centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia( 1990, Roma 1992, pp. 121-164.
Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica
collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie,
in Revue des deux mondes, 15 febbr. 1914, pp. 842-870; P. Pancrazi, Elogio di
Pinocchio [1921], in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze 1923,
pp. 201-205; B. Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V,
Bari 1939, pp. 361-365; P. Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia 1942; A.
Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano 1944, pp.
177-195; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze 1945; A. Baldini, La
ragion politica di "Pinocchio" (1876), in Id., Fine Ottocento.
Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze 1947, pp. 118-124; P. Pancrazi,
Capolavoro scritto per caso[1948], in Id., Scrittori d'oggi, 5, Segni del
tempo, Bari 1950, pp. 165-171. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio
della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi,
a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi
collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976; Pinocchio
oggi. Atti del Convegno pedagogico,( 1978, Pescia-Collodi 1980; "C'era una
volta un pezzo di legno". Atti del Convegno "La simbologia di
Pinocchio", Pescia( 1980, Milano 1981; Folkloristi italiani del tempo del
Collodi(, Pescia( 1982, a cura di P. Clemente - M. Fresta, Montepulciano 1986;
Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, ( 1989, a cura di
F. Tempesti, Firenze 1993; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del
Convegno internazionale,( 1990, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze 1994;
Scrittura dell'uso al tempo del Collodi( 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze
1994; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia( 1995, a cura di P.F. Bernacchi, Firenze
1997; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda,( 1995, Lucca 1999. Per
il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca
Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con
introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, s.l. [ma Firenze] 1990 e le
citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il
catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi
nel centenario. Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di
grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma 1996,
pp. 3-7, 71 s., 74, 231; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi -
G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia,
Pisa 1996, pp. 279-314; E. Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in
Id., La letteratura come amicizia, Roma 1996, pp. 137-146; M. Gómez del Manzano
- G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci 1996; A. Asor Rosa, Le
avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria
italiana nel tempo, Torino 1997, pp. 551-617; P. Citati, Il ritratto di
"Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano 1997, pp. 148-160; G.
Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse,
in Scuola e città, XLVIII (1997), pp. 13-23; M. Farnetti, I notturni di
Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico,
Pasian di Prato 1997, pp. 71-86; G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano
1997; D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri
trasgressori del senso comune, Torino 1997, pp. 170-175; F. Tempesti,
Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a
cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 115-137; V. Spinazzola, Pinocchio
& C., Milano 1997 (in partic. pp. 9-97); P.M. Toesca, La filosofia di
Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in
Forum Italicum, XXXI (1997), 2, pp. 459-486; L. Pizzoli, Sul contributo di
"Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani,
XXIV (1998), pp. 167-209; R. Randaccio, La "Legge shandyana del nome"
nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, IV (1998), pp.
59-69; R. Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, 1999, n.
2122, pp. 244-253; G. Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in
Studi cattolici, XLIII (1999), pp. 522-526; R. Campa, La metafora
dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca 1999;
Sterne e Collodi, Lucca 1999 (testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F.
Tempesti); E. Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle
guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su
viaggi e letteratura in Italia, Udine 2000, pp. 69-84; T. Iermano, Da
Parravicini a De Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra
Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, 2000, n. 2, pp. 345-362;
M. Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma
2001; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano 2001; S. Moret,
Pinocchio e le "pinocchiate" in Francia, in Levia gravia, III (2001),
pp. 77-88; L. Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi
piemontesi, XXX (2001), 2, pp. 295-314; M. Villoresi, La letteratura poliziesca
e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in
Archivi del nuovo, 2001, n. 8-9, pp. 65-83; M. Scollo Lavizzari, Della
disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, s. 5, ottobre-dicembre 2002, n.
20, pp. 322-339; F. Geymonat, Una grammatica di buon senso, in C. Collodi, La
grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003, pp. I-XVIII; C.
Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, ibid., pp. XIX-XXII;
O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e
filologia (1961-2002), Roma 2004, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due
giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa( 2004 (in corso di
stampa). D. Proietti Ho intervistato Emilio Garroni il 21 settembre
2004, presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio
relatore Prof. Leonardo Amoroso, di scrivere una tesi sull’estetica di Garroni.
Garroni, molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e
mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi1. 1. Prof.
Garroni, nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla
semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi
sono occupato molto prima di estetica che di semiotica. Ma quando ho cominciato
ad occuparmi di semiotica, l’interesse non era rivolto solo alle opere d’arte,
anche se l’occasione fu questa. Perché mi sono occupato di semiotica? Sono
stato attratto anch’io nel vortice della moda della semiotica, cominciata nei
primi anni ’60, forse negli ultimi anni ’50. Ma forse avevo anche qualche
motivo serio per farlo. Provenivo dalla cultura estetica imperante in Italia
fino a tutti gli anni ’40, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata
all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come
l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo
stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie
in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i
tentativi che furono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti
particolari, nell’architettura da parte di Bruno Zevi , nella musica da parte
di altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché restava pur sempre
quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si poteva
sapere, come pure era nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte fosse
veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte
riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto
questo intuizionismo mi urtava. Non a caso mi avvicinai in un 1 Questa
intervista nasce dunque come appendice alla mia tesi di laurea, ovvero:
Fiorenzo Ferrari, Estetica e filosofia in Emilio Garroni, tesi di laurea
discussa presso l’Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Corso di Laurea in Filosofia, relatore prof. Leonardo Amoroso, a.a.
2004-2005. 2 Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino,
1949. Intervista a Emilio Garroni 2 primo momento a Galvano
della Volpe, citato già nel mio primo libro del ‘643 e ampiamente discusso
insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Galvano
della Volpe? Perché in lui c’era l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un
uso specifico del linguaggio: in lui insomma l’opera si presentava come
analizzabile, ed effettivamente della Volpe conduceva analisi semantiche,
piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi
semantiche si occupavano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto4, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Cesare Brandi, che non fu mai un semiotico,
anzi fu un accanito antisemiotico, e tuttavia poneva le basi di un’autentica
analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzavo e apprezzo tuttora
moltissimo Brandi, che ho sempre letto fin dall’inizio, fin dagli anni ’40. Insomma:
mi interessava di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare,
sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura comunicativa. Ero
tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di
prendere pezzi materiali di opere e classificarli come segni (per esempio,
nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato
invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si
dimostrò anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzavo cioè di
produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si
conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non
materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali
costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica
leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua
costituzione. Non pretendevo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di
un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è
un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere
opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho
intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono
accorto che quel lavoro poteva forse essere interessante come mero esperimento,
ma non portava a niente. In realtà non portava a niente né la semiotica
materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria
crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica5, libro semioticamente
troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica6, che è
una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più
decisa, anche se già più che affiorante negli scritti precedenti, verso altri
orientamenti. Una precisazione importante: mi sono distaccato dagli studi di
semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire:
avevo tentato di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per
i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma
analoghe, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto
che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una
parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale, ma nell’uso, poi, il
linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono
convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di 3 Emilio Garroni, La
crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma, 1964. 4 Galvano della
Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano, 1960. 5 Garroni, Progetto di
semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e
applicativi, Laterza, Bari, 1972. 6 Garroni, Ricognizione della semiotica. Tre
lezioni di, Officina Edizioni, Roma, 1977. Intervista a Emilio
Garroni 3 più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per
esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica,
inoltre, l’approfondimento del pensiero di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre
occupato di Kant e in particolare della terza Critica, almeno dagli anni ‘60 e
anche prima, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che andavo
maturando una mia interpretazione di Kant, essa era sempre più in collisione
con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono
analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici.
Ma questo è un altro discorso. 2. Come reputa di inserirsi nella tradizione
kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili
in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi
interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è stato ed è
Scaravelli. Scaravelli dà un’inter- pretazione fulminante della terza Critica7,
mettendo in evidenza cose che non erano mai state viste, e che invece, dopo
aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un
autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: Baratono, che
sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come
un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza8. È insomma una parziale anticipazione di Sca- ravelli. Un
ultimo riferimento notevole è Vittorio Mathieu, che è giunto a risultati
analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum9. Questi sono i miei più
importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato
anche molte opere di stu- diosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da
Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un
certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani
si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio Marcucci, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica»10. Con
Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i
suoi libri e i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se
non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale
dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma
spesso è più 7 Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in:
Luigi Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del Giudizio» (1955), poi in
Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze, 1968. 8 Cfr. Adelchi
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, in «Logos», X, 1-2, 1927. 9 Vittorio Mathieu, La filosofia
trascendentale e l’ «Opus postumum» di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino,
1958; Immanuel Kant, Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna,
1963. 10 Garroni, Silvestro Marcucci, Lettere kantiane, in «Studi di estetica»,
V, 1979-80. Intervista a Emilio Garroni 4 proficuo non essere
d’accordo, che l’esserlo11. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee,
ho letto il suo libro su Kant che apprezzo molto12. Per esempio, ci siamo visti
in occasione di un seminario kantiano a Palermo13, e abbiamo parlato a lungo. E
ancora Makkreel, che ho conosciuto a Cerisy La-Salle14, e La Rocca, che mi
interessa molto. A proposito di Cerisy, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo,
chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che
stavamo entrambi traducendo la terza Critica15, rispettivamente: Critica della
capacità di giudizio16 e Critica della facoltà di giudizio17. Ma dovrei
ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre
stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Di Giacomo, Montani,
Catucci, Velotti, che ha scritto un bel libro che si occupa largamente di Kant,
recentemente edito da Laterza18. E soprattutto Miki Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e
nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. La Rocca è un caso
per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è
per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme
oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio
stesso della facoltà del giudizio19. Eppure Kant dice, mi pare più volte e
chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della
facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da
quello. Il caso di La Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di Desideri,
che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’
complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è
uscito un suo libro20, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione,
che a lui sta bene, al contrario di La Rocca. Ebbene, 11 Cfr. Garroni, Estetica
ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni,
Roma, 1976 (2a ed. con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano, 1998);
Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, in «Physis», XIX, 1977. 12
Leonardo Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, 1984.
13 Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a
Palermo, Grand Hotel des Palmes, 9-10 ottobre 1998. Tema del convegno:
Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di:
Alexander G. Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica,
Palermo, 1998. Hanno introdotto la discussione L. Amoroso, M. Ferraris, E.
Garroni, L. Russo. Partecipanti: M. Carbone, G. Carchia, P. D’Angelo, G. Di
Giacomo, R. Diodato, E. Ferrario, D. Goldoni, T. Griffero, P. Kobau, G.
Lombardo, E. Mattioli, M. Mazzocut-Mis, P. Montani, P. Pimpinella, L. Pizzo
Russo, R. Salizzoni, S. Tedesco, G. Tomasi, S. Velotti. La relazione di Garroni
e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica
Preprint», 54, 1998. 14 A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel
International (www.ccic-cerisy.asso.fr). 15 Il Colloquio su L’Esthétique de
Kant si svolse nel giugno 1993. Gli atti sono stati poi pubblicati in: AA.VV.,
Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1998. 16
Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano,
1995. 17 Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H.
Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999. 18 Stefano Velotti, Storia filosofica
dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari, 2002. 19 Cfr. Claudio La Rocca, Soggetto e
mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia, 2003. 20 Fabrizio Desideri, Il passaggio
estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova, 2003. Intervista a
Emilio Garroni 5 curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con
lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del
genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo libro che questa
idea gli è venuta leggendo una serie di libri, fra cui il mio, ma anche quelli
di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In
ogni caso posso dire che con Desideri sono «idealmente» in rapporti di
discussione. 3. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia
dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso21 si prendono in
considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per
un certo verso anche in Senso e paradosso22, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come «estetici»
scritti prima del XVIII secolo, rilettura nella prospettiva del «senso» che è a
Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con
quali limiti? Non ho mai scritto una storia dell’estetica, né mi è mai venuto
in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a
uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata
in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che
non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è
costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni
opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso
molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi
chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo
tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei libri, somiglianze, identità
parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui
quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non
si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che
però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche
modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella
e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è
nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai
problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica23, dove sono usciti alcuni
ottimi libri, per esempio quello di Paolo D’Angelo sull’estetica della natura e
dell’ambiente24. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di
opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di
tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma
coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un libro di
Guastini sull’estetica antica, particolarmente interessante, perché riesce a
chiarirla senza mai dimenticare che la filosofia antica non possiede una vera e
propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché
i suoi 21 Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano, 1992. 22
Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza,
Roma-Bari, 1986. 23 La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed
appartiene alla collana «Biblioteca di cultura moderna». 24 Paolo D’Angelo,
Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza,
Roma-Bari, 2001. Intervista a Emilio Garroni 6 problemi erano
alquanto diversi25. Ebbene, in quel libro si vedono bene, come le dicevo, e
differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia
dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma
piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e
che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio
soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio ultimo
libro, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa
intenzione26. 4. Nei suoi più recenti saggi27, Lei lamenta il fatto che l'arte
contemporanea non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di
senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In
che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte contemporanea
propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte contemporanea ho poco
da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di
arte e storia dell’arte, occupandomi fin dagli anni ‘40 dell’arte antica e
moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca.
Negli anni ’60 mi sono avvicinato di più all’arte che si stava facendo allora e
ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano28. Ma
questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie
traversie intellettuali, non sempre testimoniate in libri e saggi, che mi hanno
portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato
sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate
e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano
casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino
adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama
l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità
tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi
tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure
sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di
oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano
sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche
in quelle opere ci sia spessissimo un te- 25 Daniele Guastini, Prima
dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari, 2003. 26
Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari, 2003. Pochi giorni
dopo l’intervista, Garroni mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che
sarebbe stato davvero il suo ultimo libro: Garroni, Immagine Linguaggio Figura.
Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari, 2005. 27 Cfr. Garroni, Relazione
interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al
Convegno della Biennale Lo scambio delle arti nel ‘900, Venezia, 1998, poi in:
Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, cit.; Garroni, Senso e non-senso,
conferenza letta a I Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di
Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, novembre 1993,
poi in: Garroni, Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda,
Castrovillari, 1994. 28 Garroni, Enrico Crispolti, Alfredo Del Greco,
Biblioteca di Alternative Attuali, Roma, 1962; Garroni, Arte mito e utopia: 11
dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma, 1964; Garroni, Il mito
negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma, 1964; Silvio Benedetto, Amore
Uno: 6 acqueforti, presentate da E. Garroni, Il Torcoliere, Roma, 1966; Silvio
Benedetto (104 opere dal 1963 ad oggi), Galleria d’arte internazionale Due
Mondi, Roma, 1966. Intervista a Emilio Garroni 7 levisore,
quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul
fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando
in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per
il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di
talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la
verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I
talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri
tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali.
Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia
degli artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono
all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine
televisiva o telematica. 5. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad
Heidegger e Wittgenstein) è John Dewey. I riferimenti a Dewey, pur
significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di
Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni
sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e
Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato
detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti del
XX secolo. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri
importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io ho
trovato motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in
Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e
riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo
spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso
della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo,
che non cita più nessuno: Carabellese. Carabellese è stato per me un
insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito
filosofico era stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e
lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione
qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità29. Confesso di preferire di
gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà.
Quella era la sua caratteristica principale. Io ho tentato di ispirarmi a quel
metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito
Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica
precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non
un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma
certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello
del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla
esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con
l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo
in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una
crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è
stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma
soprattutto per alcuni 29 Sul problema interno della filosofia, cfr. Pantaleo
Carabellese, Che cos’è la filosofia?, in «Rivista di Filosofia», Anno XIII, 3,
1921. 30 Per le critiche alla semiotica, cfr. Cesare Brandi, Segno e immagine,
Milano, Il Saggiatore, 1960. Intervista a Emilio Garroni 8
aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo
sche- matismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere
d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi31, l’Architettura barocca32, il Duccio33,
eccetera eccetera, per rendersene conto. 6. Da sempre Lei ha alternato alle
opere filosofiche, opere di narrativa34. C'è stata un'influenza tra i due
ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato
che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi
imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti,
e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori
della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, «convinti». Non è
uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non
nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i
due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che
scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è
arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in
fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non
serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di
fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici.
Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da
parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata.
Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera
comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo
nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo
del libretto Racconti morali35: «lontananza» e «vicinanza». Ebbene i miei
personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al
mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile,
e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli
oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da
lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che
intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata,
saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte
intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono
fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che
non hanno capito 31 Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma, 1945;
Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi,
Torino, 1956; Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino, 1957. 32 Brandi,
La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza,
Bari, 1970. 33 Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze, 1951. 34 Garroni, La macchia
gialla, Lerici, Milano, 1962; Garroni, I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, 1963;
Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma, 1990; Garroni,
Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma,
1992; Garroni, Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma, 1994.
Garroni si dedicava non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni
dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: Garroni, Doriano Fasoli, Il
mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma, 2005. 35 Garroni, Racconti morali,
cit. Intervista a Emilio Garroni 9 ciò che io chiamo «il
guardare-attraverso». E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del
genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a
quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici. 1. Emilio Garroni non è stato
soltanto uno dei filosofi italiani più impor- tanti del secondo dopoguerra, ma
anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte
alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati
di concentrarsi – per i fini di questo focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni
Momenti di filosofia italiana – sui suoi contributi più convenzionalmente
etichettabili come “filosofici”, quali quelli dedicati all’interpretazione del
pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore
e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto
di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica,
gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta
affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi –, i numerosi saggi, sempre
incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla
verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò
in effetti fa- re solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero
se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di
rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o
passione dominante di Garroni, e che il titolo di una lunga intervista concessa
a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il
mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e
la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a
essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o
com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di Garroni, curata da A.
D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale
Emilio Garroni” E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione,
Edizioni Associate, Roma 2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad
essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del
corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi
rielaborato questo testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La
mente, il corpo, le cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il
dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli,
Milano 2006, pp. 27-36. 268 Il senso dell’esperienza: Emilio
Garroni e l’estetica come filosofia non speciale prendere la stessa
attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in
Garroni alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel
titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la
pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o
dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da
Garroni, ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma
pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi
che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine
vigente delle cose. Tutt’altro: per Garroni, come vedremo, il senso dell’espe-
rienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per
niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente
paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per
chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua
seconda parte, “l’estetica come filosofia non speciale”), è bene ricordare che
per Garroni l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina
con un proprio oggetto epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di
possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle
ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte,
semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per
Garroni, infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua
possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì
un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività,
che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito
di «guardare-attraverso»6 le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul
dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso,
Garzanti, Milano 1992 (seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in-
troduzione di S. Velotti), pp. 245-270, testo presentato originariamente al
convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed
epistemologia delle scienze umane” (Siena, 23-25 settembre 1988). 5 Cfr.
E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza,
Roma-Bari 1986, in particolare p. 179 ss. 6 Garroni usa il termine
“guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale
traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philo-
sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M. Anscombe and R. Rhees, Blackwell,
Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche,
Torino, Einaudi 1967, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i
fenomeni [die Erscheinungen durchschauen]: la nostra ricerca non si rivolge
però ai fenomeni, ma alla ‘possibilità’ dei fenomeni»). 269 Stefano
Velotti risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali
e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte
di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il
com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo «guardare-
attraverso» i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il
cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa
questa volta da Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni
aveva frequentato da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per
Garroni un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della
filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla
quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare
un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire,
però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci
permette di intravedere l’urgenza anche contingente,
socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che
Garroni non considerava affatto un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni
aveva lavorato per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati
alle arti, in parte ad altre questioni (ricor- do, per esempio, un bel
documentario del 1960 su Adriano Olivetti, con quella che divenne la sua ultima
intervista). Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la
RAI di allora fosse cultu- ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono
tanti i programmi che potrei citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e
Sessanta: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di
capolavori, Arti e scien- ze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato
come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Adriano Seroni e
Leone Piccioni, diventato programma televisivo dal 1963 (come “settimanale di
lettere e arti”), più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui
comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li
dell’epoca (Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi,
Giuseppe Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di
spicco)8, per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse
tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e
paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A. Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia
di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in
TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza 2014. 270 Il
senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non
speciale Gadda (tra il 1950 e il 1955) o, più tardi, di Andrea
Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di Umberto Eco, che di Garroni sarà,
negli anni, un costante interlocutore. Garroni dà conto della sua attività
televisiva in un’interessante in- tervista del 1994, da cui voglio prelevare
solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo
atteggiamento inflessibil- mente volto al capire: un curatore o conduttore di una
trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì Garroni – deve essere certamente
colto, «ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti
figura- tive, della musica, oltre che colto, anche intelligente»9. Sembra, e
forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno
stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qual- cuno,
precisa però subito Garroni, che sia «capace di far vivere un testo, di
cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di
singolare che i più per pigrizia non vedono affatto»10. Emerge qui
quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la
semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto
costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una
prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa,
controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica
che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella nell’esistente,
dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima
particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima
riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente –
di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo
compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le, culturale ed
etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica
come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court, benché spesso
praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla
letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del
linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando
B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche
l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo
assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e
narrativa. Garroni esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli
anni 9 L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino
1994, p. 275. 10 Ibidem. 271 Stefano Velotti
Cinquanta, a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera
singolare, La macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer,
riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che
indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice:
«Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un
dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni
metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro
filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso
soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo
autoritratto di Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o
non più tanto giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo
un secondo autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I
curatori della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due
nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario
Luzi, i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat-
to semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e
«humour». Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche
socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione
per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono
nato a Roma nel dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e
approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia,
tanto più che certa piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le
sue tenerezze. Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for-
mazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura
apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi
sono laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962.
Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito
dell’associazione “CiEG - Cattedra internaziona- le Emilio Garroni” 12 Ma, come ha scritto A. D’Ammando
all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il
circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di Emilio
Garroni – Tesi di Dottorato in filosofia discussa alla “Sapienza – Università
di Roma”, febbraio 2019), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi
semantica delle arti, «[s]i potrebbe affermare, in proposito, che “crisi”, al
pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una parola cara al pensiero di Garroni,
almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto (quanto mai
incerto e problematico)». Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica
come filosofia non speciale con la quale intrattengo ancora
rapporti abbastanza scialbi. Ho pubblicato saltuariamente saggi, note e
recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate,
settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio lavoro scientifico oggettivo
dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla
mancanza di tempo. Da molti anni collaboro infatti alla tele- visione dove ho
fatto un po’ di tutto dedicandomi prevalente- mente in questi ultimi tempi alla
redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente
divulgativi13. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre
trent’anni dopo, su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei
persona- lità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una
visita a un museo. Garroni scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma:
Non so se fosse possibile negli anni trenta – con la cultura licea- le
imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire,
non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai
modesto – che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente
formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano erano per- lopiù
ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse stret- tamente
tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e
di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un
atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è
riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. A
otto-dieci anni, ero in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia
famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, e fui
condotto più volte da certi miei zii, che si ritenevano intenditori d’arte,
alla Galleria nazionale d’arte moderna [...] Voglio solo dire che quella
galleria fu, negli anni trenta, il luogo della mia diseducazione. Il fatto è
che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a
formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre,
non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche
edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia
allontanato per sempre dalle arti figurative. [...] [Così che la] Galleria
nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante
dei miei zii, di farmi capire 13 E. Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto
di copertina. 273 Stefano Velotti come non si
guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabi- le, come andare in
bicicletta14. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro
rapidità credo siano indicative del modo in cui Garroni si situava nei
confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica – per
cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione
più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche
eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo Carabellese – che, al di là degli
esiti del suo «ontologismo critico», Garroni considerava «uno dei pochi inse-
gnanti che ho avuto all’Università che fosse anche un grande filosofo»15 –
perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più
significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi Scaravelli – per l’inter-
pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare Brandi. Era stato
infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver criticato sia
Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero) per non aver
colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con cui la
filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua
possibilità, le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava
così l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui
sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del
Croce) continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo
oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma
soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono
questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa
dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici-
smo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma
non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non
si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa
dimostra16. 14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis
(ed.), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte,
Manifestolibri, Roma 1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli,
Il mestiere di capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo
critico. Primi saggi II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp.
78-79. 274 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica
come filosofia non speciale Il problema della riflessione sul
senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso
della filosofia» nel suo libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso.
L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che
Garroni abbia scritto, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo
pensiero. Lì Garroni cita Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica
di Croce dello stesso anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza
legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se
stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si
conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare
concreti e storici. Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un
luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e
complementarità delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono
in quello che Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia».
Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non
risol- ta, formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della
filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo
luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da
Carabellese]; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e
questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese
insignificante]17. Garroni fa notare che il rischio che correva Carabellese,
che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo
frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il
suo “problema interno”, come una sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su
un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una me- tafisica, o un
sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»),
perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e
trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le
esigenze di Carabellese e di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come
«risalimento», o come quel «guardare- attraverso» che risale dalla concretezza
dei fenomeni, dall’interno dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro
condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia
da qualche parte, e senza 17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131.
275 Stefano Velotti però neppure vederla disciolta
nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque
come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di
un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni riassumeva
così la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la propria
stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori
del mondo»19. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da
Garroni come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a
posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di
stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista.
Negli anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano
raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era
stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro
introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come
«epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non
critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è
certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye
view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose
nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il
mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi,
presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di
fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva
l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary
Putnam – per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo;
immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non
escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione
op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il
neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra,
cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze,
culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che
avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere
di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the Mirror
of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G. Millone
e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani, Milano
1986, p. V). 276 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e
l’estetica come filosofia non speciale rare piuttosto la filosofia
come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche
ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto
guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente
come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco
sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle
determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua
totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa
pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di
esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o
guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì,
essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il
solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in
quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del-
l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che
Garroni ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla
scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante
domande determinate, ma che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del
domandare in genere23). Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione
di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme
antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di
giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo:
(1) Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne
potrebbe disputare (decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui
appena accennata, viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di
Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad
alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto
potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi
realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology),
che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”.
277 23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132. Stefano
Velotti (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti,
ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe
neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con
tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure
essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa
Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella
seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e
il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per
esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare
quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che
annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della
facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia
stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure
realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente
previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive
e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto
entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere
«un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti
poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana,
enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso
del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni
sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e
non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone
l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in
zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà
di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e
l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p.
241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et
al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89.
278 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale 27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p.
105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché
altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e
intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il
linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso
tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora
altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi-
zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega
in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni
linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le
comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione
di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che
esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni
arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione
della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura
dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo
e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica
presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in
questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni
sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo
motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia
[kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma
tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto
determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che
Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio
della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la
ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e
tuttavia sono altrettanto indispensabili 279 Stefano
Velotti alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza
d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro-
cede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e
unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile
se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della
totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di
“una conoscenza (di oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di
rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi
di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una
conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso
della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà appunto
solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in generale
senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente
nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa
totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a
priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa
esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con
un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante
quel Gemeinsinn (senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci
assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e
delle conoscenze), il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non
è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione,
cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena
sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa
precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire
(esteticamente dunque) l’interna indeterminatezza del determinato30. «Sentire
l’interna indeterminatezza del determinato» è uno dei modi per capire in che
modo il paradosso fondante della filosofia fa della fi- losofia, come estetica
non speciale, una riflessione sul senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare
sul piano linguistico, possiamo dire in- fatti che dare significato ai concetti
è determinarli, per esempio me- diante uno schema empirico o trascendentale,
sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento
all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza,
che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in
Rorty), proprio in virtù di un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111.
280 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale 6. Il gioco delle parti tra senso e
significati, e tra senso e non senso, è affrontato da Garroni in molte altre
occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza del 1988, poi
pubblicata in appendi- ce al volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso,
con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto
distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di
senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati
possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione
di senso che rende possibile e traspare in ogni significato determinato, non
rischiamo infatti di «parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere
varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non
altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso?». Come se la filosofia critica,
spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la
sensatezza che esso condiziona [...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a
tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a
ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio
concreto di questo problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far
fronte l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile
rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia
infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di
sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente
inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro
serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto
la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con-
cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro-
pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un
nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica.
Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso,
cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo
imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis
Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre
l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e
tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso
– veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of
Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli
ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281
Stefano Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire:
che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come
non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla
[...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse,
ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici
estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del
“prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso
in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di
esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni
Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che
non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una
«regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare –
può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare,
inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo,
breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti
inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro
bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la
sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e
internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato.
Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine
interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto
“schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di
poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo –
rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che
nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che
elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le
«immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci
sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno
sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura.
Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine
linguaggio figura, cit., p. ix. 282 Il senso dell’esperienza:
Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sizione
indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di
“figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro
tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un
concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della
semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito
cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si
estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è
senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in
corre- lazione con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle
funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur
sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello –
Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in
tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che
distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da
un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un
chiodo con un martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di
uno scopo preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una
famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe
essere chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la
nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in
relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà
dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di
un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza
degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle
immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione
e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non
fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non
sensibile, 37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p.
70 ss. 38 Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A
Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una
formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra
operazione e metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla
perce- zione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella
proposta da Garroni – è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un
confronto, su questi temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G.
Ferrario (ed.), Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp.
149-170. 40 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283
Stefano Velotti dunque distinte dall’immagine-segno
materialmente intesa, la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente
statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure»
(per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è
considerata da Garroni come il venire in primo piano di questa dimensione
metao- perativa – una rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza
scopo» – interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo
«ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano» vengono in primo piano
questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa
a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se
non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come
quella di «aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente
di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche
il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere
e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di
riconoscimento degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe
(che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito «solo
percettivamente» da «un insieme di casi effettiva- mente sperimentati o di
oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via
crescente»42. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati
da una minima somiglianza e tal- volta da nessuna somiglianza, ma solo da un
cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile
in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al
padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la
funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infan- zia, o
nelle ipotesi relative a una “infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero
magico”, se, come nota Garroni, [A]ncora oggi, nello stesso pensiero
occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli
oggetti transizionali di D. W. Winnicot in Senso e paradosso, cit., p. 274. 42
E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 11. 43 Ibidem. 284
Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non
speciale sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un
certo sen- so la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato,
dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra
opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe
pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e
condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un
l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla
questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi”, e così via44. 8.
Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di Garroni, molto
diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e
«humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di
Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante
eco. È un polittico dipinto da Garroni tra il 1983 e il 1984, sulla soglia dei
sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica –, composto da
13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione
privata 44 Ivi, pp. 12-13. 285 Stefano Velotti Alcuni
comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vis- suti come oggetti
estranei e familiari a un tempo. Figurano anche stru- menti di studio e di
affezione – dalla Critica del giudizio a Tempo e rac- conto di Ricoeur –,
“cose” amate, come il Dissonanzen-Quartett di Mozart (che dà anche il titolo a
un suo romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure
presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46. Quando dicevo
che la passione dominante di Garroni era quella di capire, di comprendere,
pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione
filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul
corpo e su “cosa si prova ad essere un homo sapiens”. Un’operazione chirurgica
diventa nelle mani di Garroni un’oc- casione per elaborare, anche
operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e
intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire
soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover
essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere
in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le
corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra
determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è
possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo libro47, mirare a
cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il
deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di
apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva
intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non
riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo
aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci
sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti?
Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi,
quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno
perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso
estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento
non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46
Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A.
Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni,
pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15
dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del
Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33.
286 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale viene meno neanche nel caso di un risveglio
depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli
og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti
indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il
riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede
presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il
nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene
depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe
esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia
cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose
del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito,
languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato
di Garroni, tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento,
si lascia anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del
venten- nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a
cambiare i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si
è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto
l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma
soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di
cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo
politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49. La
“facoltà dell’immagine” di Emilio Garroni e il suo contributo alla
ricerca contemporanea sulla percezione , i “contenuti non
concettuali” e l’immaginazione . 1 L’ultimo
libro di Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura 2 , è in
parte una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi
trent’anni prima in Ricognizione della semiotica 3 . Da una
rielaborazione dei problemi abbozzati in questo volume del 19 77, e grazie
a un’assidua interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano,
Garroni arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della
sensibilità e dell’intelletto in termini di «“facoltà
dell’immagine”» 4 , da un lato, e di linguaggio e concetti, dall’altro.
Nonostante Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo
il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma
kantianamente irriducibili dell’esperienza umana , lo statuto del
linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva
all’interno di tale esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine
interna», che deve essere considerata «la premessa e la garanzia della
realtà del significato delle parole del linguaggio» 5 . Naturalmente,
1 Relazione tenuta al convegno di studi “Emilio Garroni:
determinazioni e dissonanze”, Chieti, GARRONI , Immagine Linguaggio
Figura. Osservazioni e ipotesi , Roma-Bari, Laterza 2005. 3 I
D ., Ricognizione della semiotica. Tre lezioni , Roma, Officina
1977. 4 I D ., Immagine Linguaggio Figura , cit. p. ix,
dove Garroni precisa: «Chiamerò complessivamente ‘immagine interna’ sia
il precedente di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto
attualmente prodotta (pe rcezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o
ricordata -rielaborata (immaginazione), per distinguerle complessivamente
dalla ‘figura’ esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. […] Perciò […]
mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le ‘facoltà
dell’immagine’, tale da riunire in sé sensazione, percezione,
immaginazione». 5 I D ., Immagine Linguaggio
Figura , cit. p. 57non bisogna cadere nell’errore di considerare le
«immagini interne» come «fig ure», ( Bilder ,
pictures ) che avremmo nella mente. Garroni conosce bene la critica
wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si
potrebbe considerare la teoria dell’«immagine interna» come una lunga e
meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di
attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività
percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto
è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente
l’articolo che Garroni ha dedicato a Minisemantica
di Tullio De Mauro 6 nel 1998, caratteristicamente intitolato
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare 7 . Sia sul
versante della percezione e dell’immagine, sia su quello del linguaggio e
dei concetti, troviamo infatti in quest’articolo quella
correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che
Garroni ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il
«paradosso fondante» della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune -
di cui Garroni parla prima nella voce i Paradossi dell’esperienza
scritta per l’Enciclopedia Einaudi , e poi in Senso e
paradosso 8 - non è altro che un’a ntinomia inevitabile,
modellata sull’antinomia della facoltà di giudiz io della terza
Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e
indeterminatezza è al centro sia della trattazione della facoltà
dell’immagine, sia della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un
verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto nell’ultimo libro certi
problemi già impostati in Ricognizione della semiotica
– creando 6 MAURO ,
Minisemantica , Roma-Bari, Laterza 1982. 7 E
MILIO G ARRONI , L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare , in A A .V V .,
Ai limiti del linguaggio , a cura di LEONI , GAMBARARA ,
GENSINI , PIPARO , R AFFAELE S
IMONE , Roma-Bari, Laterza 1998, poi in E MILIO G ARRONI ,
L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica ,
Roma-Bari, Laterza 2003, pp. 89-115, da cui cito. 8 E MILIO
G ARRONI , I paradossi dell’esperienza , in
A A .V V ., Enciclopedia Einaudi ,
vol. XV, Sistematica , Einaudi, Torino 1982, pp. 867-915
; I D ., Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non
speciale , Roma-Bari, Laterza 1986così un asse verticale, o di profondità
temporale, all’interno de lla ricerca stessa di Garroni; per altro verso, però,
vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati
in Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea,
soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito
della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della “
filosofia linguistica ” , infatti, - o, se si vuole , con l’apertura
della linguistic turn al non linguistico –
quest’area di ricerca emersa negli ultimi 40 -50 anni ha permesso di
riscoprire il problema della perc ezione e dell’immaginazione, creando
ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente
interconnesse: dal problema della natura della mental imagery
9 a quello dei cosiddetti “contenuti non concettuali” della
percezione (in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la
cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da Garroni); da
quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose
prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico
all’immaginazione. A lungo considerata in area analitica come
una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a
questa parte l’immaginazione è al centro di molte aree di ricerca: se ne
parla i n relazione ai “giochi di far finta” ( games of make
believe ) 10 – sia nel campo delle arti
che in quello più generale dell’esperienza comune 9 Cfr.
l’ampio contributo di NIGEL J.T. THOMAS ,
Mental Imagery , in The Stanford Encyclopedia of
Philosophy , (Winter 2011 edition), a cura di ZALTA , URL =
http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/mental-imagery/. Si tratta
di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano
Thomas dedichi uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascen
dentale dell’intelletto della prima Critica : aggrappandosi
alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è «un’arte nascosta
nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in
grado di strappare alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agli
occhi» (B181), Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, «in
attempting to grapple with problems about the nature of mental representation
that the Empiricists had failed to solve, left the process of image formation,
and the nature of image itself, deeply misterious» (ivi, p. 14). 10
Cfr. WALTON , Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts , Cambridge (MA), Harvard University Press 1990
(trad. it. di NANI , Mimesi come far finta , Milano, Mimesis
2011- , alle ricerche sull’autismo (considerato da alcuni come una “patologia
dell’immaginazione”), a quelle sull’empatia e sulla simulazione, ai
cosiddetti “paradossi della ‘finzione”, della “suspense” o della
“resistenza immaginativa” , e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una
nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: u
n’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una “ricostruttiva”
e una “creativa” , e così via 11 . Immagine Linguaggio Figura
è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori
o ad altre ricerche contemporanee. Ma è tutt’altro che un libro
estemporaneo o isolato. Anzi, Garroni lo ha potuto scrivere liberamente,
quasi “di getto”, solo perché erano almeno trent’anni che andava elaborando
quei pensieri. Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella
filosofia analitica, sotto l’ombrello di etichette generalizzanti,
che identificano certi assunti teorici di fondo nei confronti dei quali
occorrerebbe definirsi – nel caso della mental
imagery , per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello
fotografato dall’annoso e fuorviante dibattito tra sostenitori delle
teorie “analogiche” e delle teorie “proposizionali” -, la
riflessione di Garroni sembra condotta in isolamento, e risulta difficile
da collocare sotto un’etichetta univoca. Mentre non credo che le
etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei
problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di Garroni
e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi
gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di
Garroni in quel dibattito – che nel bene e nel male è
sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi,
ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che
lì, magari, non sono contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito
delle teorie “enattive” ( enactive ) della percezione e
delle 11 Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione
in ambito anglosassone negli ultimi decenni, e le relative indicazioni
bibliografiche, rimando a VELOTTI , La filosofia e le arti.
Sentire, pensare, immaginare , Roma-Bari, Laterza 2012, in
particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una “terza via”
– non computazionale - rispetto a quelle “analogiche” e
a quelle “proposizionali”. Come che stiano le cose rispetto a
questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni
di Garroni e le teorie della percezione, delle immagini mentali,
dell’immaginazione – nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico,
estetico, artistico – è un lavoro ancora da fare. Qui
offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti “contenuti
non concettuali” della percezione, cominciando però dallo sviluppo
interno al pensiero di Garroni stesso, e in particolare d all’insoddisfazione
per la semiotica denunciata nel ’77 . Alla domanda se «la semiotica
[sia] sufficiente a se stessa», Garroni rispondeva di no, perché la semiotica
non poteva indagare «il problema delle condizioni» grazie a cui «un qualcosa
diviene segno» 12 . Lì Garroni invocava la costruzione di una «semantica
trascendentale» come metateoria di una «semantica empirica» e di una «semantica
logica», e indicava il suo «oggetto specifico» nei «significati
trascendentali», cioè negli «“schemi dell’immaginazione” , affrontati in sede
di schematismo trascendentale nella Kritik der reinen Vernunft » 13
. Garroni, d’altra parte, già avvertiva – avendo pubblicato
l’anno prima Estetica ed epistemologia 14
– l’insufficienza dello schematismo trascendentale della
prima Critica , valido solo per (le condizioni de)la
conoscenza in genere ( überhaupt ), ma non per comprendere la
conoscenza effettiva o determinata, e rimandava al « principio
trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo » 15 indagato da Kant
nella terza Critica. Nella Premessa a Immagine Linguaggio
Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, il
12 GARRONI , Ricognizione , cit., p. 33. 13 GARRONI
, Ricognizione , cit., p. 37. 14 E MILIO G
ARRONI , Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla Critica
del Giudizio di Kant , Roma, Bulzoni 1976, nuova ed. con una nuova
Premessa, Milano, Unicopli 1998. 15 GARRONI ,
Ricognizione , cit., p. 38, c.vo nell’originale.vero e proprio tema
centrale del libro, ha preso forma attraverso « l’assiduo ripensamento
del co siddetto ‘schematismo’ kantiano» 16 . Dunque, una continuità con
l’opera del ’77, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo
schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa
decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo
piano sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare
la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella
terza Critica chiama «esempio» - e lo schematismo
«simbolico» – quello che funziona per analogia, in
relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo
delle cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del
nostro lin guaggio 17 . Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili
grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza
Critica – tra uno schematismo «oggettivo» e un
«libero schematismo», si intrecciano sempre nella produzione effettiva di
enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico.
Già nella Ricognizione della semiotica Garroni metteva in chiaro
come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione
ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di
ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si diceva: Il ‘referente’ non è
la cosa s tessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle
e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’
‘operazione’ a sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può
essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre
manipolazioni delle cose, cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli
immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e
parlarne 18 . 16 GARRONI , Immagine Linguaggio Figura ,
cit., p. ix. 17 Cfr. KANT , Critica della facoltà di giudizio
, ed. it. a cura di E MILIO G ARRONI e H
ANSMICHAEL H OHENEGGER , Torino, Einaudi 1999, in particolare §49 e
§59, e l’ introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI
, Le inferenze del giudizio riflettente in Kant: l’induzione e
l’analogia , “Studi kantiani”, XXIV (2011), pp. 11 -48. 18
G ARRONI , Ricognizione , cit., p. 69.È evidente, mi pare,
che «l’operazione» di cui si parla include anche la nostra nativa
attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della
costituzione, della natura e della funzione delle «immagini interne». Distinte
dalle «figure» (che non possono essere altro che elaborazioni,
esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono
innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre
diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un
homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella
testa”. Figure nella testa non ce ne sono. È invece questa operazione
percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche
se naturalmente non pretende di dare una spiegazione , in
termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui
la nozione di metaoperatività introdotta in
Ricognizione della semiotica 19 e poi ripresa, anche
terminologicamente, in tutta la sua importanza, solo trent’anni
anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, Garroni anticipasse uno
dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di
“metarappresentazioni” 20 , ma che in Garroni si es tende già all’intero ambito
dell’operare umano (un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo,
cognitivo). In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica
– che per Garroni è sempre implicata nelle funzioni di primo
livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione
che può essere solo interna al linguaggio di primo livello –
Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi
o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del
19 G ARRONI , Ricognizione , cit., p. 70
sgg. 20 Cfr. A A .V V.,
Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspectiv e, a cura di SPERBER
, Oxford 2000genere stimolo- risposta da un’operazione che
include già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un
martello è sì un’operazione determinata, concreta, e dotata di uno scopo
preciso, ma – come operazione umana –
contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni
possibili (qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno “schema
operativo” ): “ piantare questo ch iodo”, per l’uomo, suppone “piantare
i chiodi in generale” , cioè un comportamento operativo –
metaoperativo rispetto a quello – volto alla
fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il
“piantare chiodi in generale” suppone ul teriormente l’“ operare in
generale in vista d i possibili variabili operative” , cioè un comportamento
specificamente metaoperativo. 21 Persino l’operare per prova ed
errore – tipico del comportamento animale non umano - suppone
nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare per prova ed errore. S
appiamo che proprio l’attività artistica è considerata da Garroni come
l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa
dimensione metaoperativa non è altro che una riformulazione della
kantiana «conformità a scopi senza scopo». La terza parte di Ricognizione
della semiotica è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi
artistici, che linguaggi propriamente non sono, non solo in quanto privi
di un codice, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività e
da una metaoperatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui Garroni
lì parla brevemente – dall’architettura alla musica,
dalla poesia alla narrativa alla pittura – sono indagate a partire
dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di
per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i
prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di “
stile ” viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici
metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene
caratterizzata come una condizione 21 GARRONI ,
Ricognizione , cit., p. 94nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott
ha chiamato «transizionali» 27 , di quelli che Michael Dummett ha chiamato
«proto-pensieri» 28 , che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi
– a partire da Gareth Evans 29 –
chiamano “contenuti non concettuali” della percezione (c ontraddicendo,
dunque, l’idea fatta valere da Maurizio Ferraris secondo cui la
tradizione kantiana avrebbe decretato l’equivalenza tra epistemologia e
ontologia, cioè l’assimilazione di tutt o il reale, di quel che c’è, a
quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri “schemi concettuali” , gettando
così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo
nietszscheano secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, e di
qui del p ostmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo
secondo cui niente è fuori dal testo, e così via) 30 . affidata a un
principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto
all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa».
27 Già in Senso e paradosso , cit. p. 274, GARRONI si
era riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott
(«mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni
oggettuali», obbedienti a «“quel principio di confusività” […] che violerebbe
appunto “il principio aristotelico di non contraddizione”») accostandoli da un
lato all’ Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale
unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza
estetica una sua manifetsazione esemplare: «Non c’è esperienza ben determinata,
apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di
transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti
transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si
legittima […] anche la creatività […] che viene esemplar mente e più
tipicamente esibita oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione
estetica, da ciò che chiamiamo “arte” ed “esperienza estetica”» DUMMET ,
Origins of Analytical Philosophy , Cambridge, Harvard University
Press 1994, ed. it. a cura di PICARDI , Origini della filosofia
analitica , Torino, Einaudi 2001, cap. XII: «Il
proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato
dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di
non essere separabile dalle attività e circostanze presenti. […] non
possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base
di apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei
proto-pensieri» (ivi, pp. 138-139). 29 EVANS , The Varietis
of Reference , Oxford University Press, Oxford 1982. 30 Di FERRARIS
, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo
il Manifesto del nuovo realismo , Roma-Bari, Laterza 2012. Per una
discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come « unità
costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in
dichiarata corrispondenza a « quell’unità estetica delle rappresentazioni
di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft » 22 .
A questo punto abbandono il libro del ’77 per vedere come queste problematiche
vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel libro del 2005. Il
nuovo strumento teorico che Garroni ha messo a punto, al di là del riferimento
al principio di una «conformità a scopi senza scopo» quale senso e sentimento
comune (il Gemeinsinn kantiano), è la nozione di «immagine
interna», proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della
terza Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una
nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo 23 , ma viene
reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che
Garroni chiama complessivamente «facoltà dell’immagine» , che è
responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia
delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del
mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in
quanto riprodotte o ricordate- rielaborate). Quella che nel ’ 77 veniva
chiamata per lo più «operazione» è qui inn anzitutto l’attività di questa
«facoltà dell’immagine» , dal livello senso-motorio e non ancora associato
effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con
linguaggio e concetti, ma pur sempre all’interno di una non riducibilità
dell’una dimensione all’altra. Sensazione, percezione e immaginazione
sono tutte «immagini interne» costitutivamente dinamiche, non fissabili
in un’ icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile,
dunque distinte dall’immagine -segno materialmente intesa, che Garroni chiama
«figura», e che è invece sostanzialmente statica. 22 G ARRONI
, Ricognizione , GARRONI , Immagine Linguaggio
Figura , cit., p. 18 sggUna delle nozioni di maggior interesse che emerge
subito – assente, direi, negli scritti precedenti
– è quella di «aggregato». Si tratta di qualcosa di
pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere
– in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto
– il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di
classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali). Un aggregato è invece costituito «solo
percettivamente» e costituisce «un insieme di casi effettivamente sperimentati
o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via
crescente» 24 . Un aggregato può essere costituito da oggetti assai
diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza,
ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro
un’unità non chiaribile intellettualmente di tipo affettivo, emozionale,
fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amat e, preoccupanti,
esaltanti” 25 . Mi sembra di poter dire che Garroni stia cercando di dar
conto, con una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una
“sintesi dell’apprensione” 26 , ancora priva di un’unità conc ettuale,
della comune radice di 24 GARRONI , Immagine Linguaggio
Figura , cit., p. 11 25 Ibidem. 26 Ma G
ARRONI segnala una revisione tendenziale dell’estetica
trascendentale kantiana a un livello molto più radicale e produttivo, già
da Senso e paradosso , (cit., p. 226): «Con la riflessione estetica
della Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione viene in
primo piano: nasce u n nuovo schematismo – lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione
– come capacità originaria di organizzazione delle percezioni.
Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva
Estetica trascendentale , nonché la stessa Logica
trascendentale , della Critica della ragion pura . Per
esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione (non più soltanto ‘produttiva’ e ‘riproduttiva’, ma
anche ‘creatrice’), non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una ‘materia’ sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra «aggregato» e «oggetto transizionale», mi sembra che uno degli
esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci adito
ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive Garroni, «prima che il
linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione
di un’intelligenza prev alentemente senso-motoria», si può
ipotizzare che si producano, nel la manipolazione degli oggetti, […]
riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti disposti.
Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo
come un vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una
cope rtina o un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti
d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della
madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo
esterno non ancora propriamente conosciuto e dominato; e così via. In
questi casi l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura
tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi
se non fosse preceduta da quello. 31 Se queste forme
prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono però contrassegnate
da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione concettuale, ci si
può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia evolutiva e
se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune
specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie
di animali non-umani. A questi, infatti, Garroni riconosce non una vera
«percezione interpretante» – come quella umana -, ma
neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un
«mondo» 32 – come avevano fatto Scheler e Heidegger
sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per l’ambiente
sensoriale della zecca, ma sarebbe diff icile dire la stessa cosa di un
cane o delle grandi scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI
, Storia filosofica dell’ignoranza , Roma-Bari, Laterza 2003, in
particolare i capp. 3, 4 e 7. 31 G ARRONI , Immagine
Linguaggio Figura , cit., pp. 12-13. 32 GARRONI ,
Immagine Linguaggio Figura , cit., p. 44Un mondo, senza darne qui
un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un
senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile
anche agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo
in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva,
svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non
caratterizzante propriamente una co siddetta “immagine del mondo”. 33
Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli
animali non-umani perché è diventato forse l’argomento più forte
portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione 34 .
Questo confronto tra le posizioni di Garroni e quelle dei sostenitori dei
“contenuti non concettuali” (un’espressione che Garroni non usa mai)
richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione tra l’
«aggregato» e i «proto -pensieri» di Dummett, una nozione elaborata proprio per
dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie
sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia
necessario, anche per Dummett, distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di
diventare pensieri, o “vocati’ a diventarlo, e quelli che non lo sono).
Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di Garroni sulla
irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di
tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero
di Garroni sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di
pochissimo interesse. Il fatto è che Garroni mette in luce –
spesso senza portare fino in fondo i dettagli dell’analisi –
aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere
molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di
quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un
generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti
concreti 33 G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura
, cit., p. 44-5. 34 Non solo in E VANS , cit., ma
soprattutto, tra gli altri, in PEACOCKE, Does perception have a
nonconceptual content? , in “Journal of Philosophy”, 98 (2001), p p.
239-264 e I D ., Phenomenology and nonconceptual content , in
“Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in F REDERICK
D RETSKE , Naturalizing the Mind , Cambridge (MA), MIT
Press 1995che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in
termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già
accennato, riguarda proprio i contenuti non concettuali. Il secondo
riguarda invece l’indeterminatezza delle immagini mentali A. È
indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della
linguistic turn a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare
di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che
trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonostante
la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti
della questione che una riflessione filosofica come quella di Garroni aiuta a
scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non
concettuali sono svariate: 1. La possibilità, riconosciuta da Garroni con la
nozione di «aggregato», di rappresentare nella percezione stati di cose
contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e
concettuale: l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o
la « l’illusione della casca ta» di Tim Crane 35 , ma l’aggregato
di Garroni, come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità
percettiva innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella
sua necessità – non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura
36 . 2. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale ha
sostenuto che il contenuto della percezione è « unit-free » 37 :
percepisco una distanza 35 T IM C RANE , The Waterfall
Illusion , in “Analysis”, 48 (1988), pp. 142-147. 36
Cfr. il capitolo 8 di Immagine Linguaggio Figura , in cui GARRONI
analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune
figure , e il «ruolo primario nei riguardi della varia
interpretabilità del percepibile» giocato dalla «indeterminatezza percettiva»
propria delle immagini interne in relazione al mondo
reale. PEACOCKE ,
Analogue content , in “Proceedings of the Aristotelian Society”, determinata
tra me e un oggetto senza per questo dover usare un’unità di misura.
E queste rappresentazioni sono irriducibilmente non-concettuali. Garroni,
di nuovo appoggiandosi – qui implicitamente - a Kant 38
, usa un’ argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci
appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia
nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione «fornisce valori
oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere
poi esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad
evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori
oggettivi è nostro [e questo avvertimento è non
concettuale: nota mia] e, tanto più, la nostra misurazione
non sta nelle cose , ma dipende da un’unità di misura
da noi stabilita idonea per l’esplicitazione [concettuale]
di quei rapporti» 39 . L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità
di misura è dunque la condizione, non concettuale (estetica, direbbe
Garroni con Kant) di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo
argomento, avanzato da Gareth Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore
«finezza di grana» della percezione rispetto alla “ grana ” dei
contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a
Garroni nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in
relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant
chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che
Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico
l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato […] una
copiosa e inesplicita materia [ Stoff ] all’intelletto,
che questo, nel suo concetto, non prendeva in considerazione »
40 ) . E l’analisi, centralissima, che Garroni dedica al libero
schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte (che sono, per
Kant, « espressioni di idee estetiche»), ma 38 V. KANT
, Critica della facoltà di giudizio , cit. § 25. 39 GARRONI
, Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 6. 40 KANT
, Critica della facoltà di giudizio , cit., § 49, c.vo mio si
allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. Garroni
precisa infatti che lo stesso schema [lo schema empirico, l’immagine
-schema o, nel linguaggio della terza Critica kantiana,
l’ «esempio» ] è possibile dentro il quadro del rapporto
dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi
tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici
percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non
sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no,
percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità 41 . Non
si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato il
rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun
concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e
anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire
da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di Garroni, la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Michael Ayers 42
, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non
si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe
circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece,
per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un
innatismo fortissimo e insostenibile. La 41 GARRONI ,
Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 98. 42 C
HRISTOPHER P EACOCKE , A Study of Concepts , Cambridge
(MA), MIT Press 1992, e I D ., Does perception… , cit.;AYERS
, Sense experience, concepts, and content –
objections to Davidson and McDowell , in R. S
CHUMACHER , a cura di, Perception and Reality: From Descartes to
the Present , Paderborn, Mentis 2004, pp. 239-262ripresa da parte di
Garroni delle considerazioni svolte da Umberto Eco nel suo Kant e
l’ornitorinco (che a sua volta si riferiva a Garroni) fornisce un modello
per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non
concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo
anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune
43 . B. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni
autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche
che le differenzia dalle figure ( pictures ) è la loro
indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di
Garroni sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è
così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione 44 è quello di sostenere
che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili a
descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig
uarda il numero delle strisce del manto di una tigre: in un’immagine
mentale il numero delle strisce di una tigre può essere indeterminato,
mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate.
In una descrizione, il numero delle strisce può essere indeterminato
(“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono
più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla mental
imagery come Thomas – insieme a molti altri
- sostiene che questo argomento non è valido, perché un’immagine mentale
di una tig re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che
uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché l’immagine mentale
svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura di una
tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria,
e 43 G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura
, cit. p. 58, sgg. 44 Tra gli altri D ANIEL D
ENNETT , Content and Consciousness , London, Routledge & Kegan
Paul 1969, pp. 135-7; PYLYSHIN , What the mind’s eye tells the mind’s
brain: A critique of mental imagery , “Psychological Bullettin”, 80
(1973), pp. 1 -25; tra i critici di questa argomentazione, M ICHAEL
T YE , The Imagery Debate , Cambridge (MA), MIT Press
1991anche una tigre reale – presente alla percezione
attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente
delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra
evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un
carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione
affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle
di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in
considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze,
colta da Garroni tra determinatezza e indeterminatezza delle
immagini interne e il loro rapporto con le
figure . L’indeterminatezza dell’immagine interna –
così come viene pensata da Garroni - non è una figura sfocata o mancante
di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se
solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione
essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è
condizionata dal fatto che è un’immagine dinamica e multimodale (visiva,
olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica, affettiva, viscerale, e così via)
e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita
o evanescente . È piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso
della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi
luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai
movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe
neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta
attivamente e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione
interpretante» sullo sfondo di un contesto – oggettivo
e soggettivo - che si allarga da quello visibile a quello non visibile,
fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con
altri oggetti e memorie percettive). I l problema dell’indeterminatezza
condizionante dell’immagine interna non è tanto se possiamo contare o
meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato,
che, per esempio, non si 45 T HOMAS , Mental
Imagery , cit., nota 31illuda di poterla considerare come l’imma gine
interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo
soggettivo e oggettivo e dal sentimento della totalità dell’esperienza in
cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini della percezione
più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento
automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi
che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per
concludere, vorrei citare per esteso quel che scriveva Garroni nel già citato
articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una
riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del
linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i
percettologi, come suggerisce l’ultimo esempio che ho portato:
Si metteva in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti [o puri
percettologi, potremmo dire]. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi,
se l’antinomia che essi inevitabilmente incontrano e si sforzano di
comporre è sempre presente esteticamente in loro e in tutti noi,
linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso,
del linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse
addirittura possibile sostenere che la cosiddetta ‘filosofia’ si inscrive
necessariamente in ciò che abbiamo detto ‘coscienza implicita del linguaggio’.
È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa
nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del
linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella
stragrande maggioranza dei casi solo una precomprensione o un
avvertimento oscuro di una comprensione, questo sembra tutt’altro che
campato in aria. Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica
che non vuole saperne, di filosofemi? Forse no, se la differenza va
cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi.
Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi
e metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino
poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile
soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza implicita che
ogni nostro uso del linguaggio […] non è solo un uso particola re […] ma
contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente
proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso
determinato, nello stesso uso effettivo , in tutti i sensi. Non sarebbe
per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista
etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una
cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? 46
46 G ARRONI , L’indeterminatezza semantica
…, cit. p. 112Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges
Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso
fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses -- mentire/mentare/meinen/mean -- messagio,
message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente,
recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gartida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone).
Filosofo italiano. According to Giamblico, Gartida succeeded Boulagoras as head
of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and
returned t the city that had been badly damaged as a result of a feud between
the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he
is said to have died of a broken heart.
Grice e Gatti – poetica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice:
“I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s
Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato
di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come
colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a
“Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli.
Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin,
sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua
filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole
filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la
filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo
nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e
l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge
universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la
filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la
scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in
“L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una
riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che
ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del
noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si
sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia
europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana,
la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella
creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di
politica, letteratura, scienze, arti e commercio. Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e
il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani.
Si è detto,ora non saprei più da chi la prima volta,e poi da mol
tisièsoventeripetutoche Gian BattistaVico autore di un sistema che I suoi
contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la scienza di
un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non aveaperquestaragione
potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù
idoneiagiudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga
mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo
giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofidelmondo, anziintuttiquelliuominichesonosi
più che mezzanamente sollevati sull'universale , si voglia sceverare due parti
es senzialmente diverse insieme , e che congiunte solo per accidente, co.
stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste
due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni e. steriori
della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene ,dagli uo. mini da'qualisiè circondato,
dall'educazionestessachesiè ricevuta, daglistudiiacuipiùsièpiegatalamente,dal
primo librochesiè letto,dalleprimeimpressioni d'infanzia, dalle seguenti
occupazioni dallafamiglia,da'parenti,dagliamici. L'altra parte
sottrattaatul te queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o
tempo determinato ma a tutti del pari,nè ha da farsullacon
alcunaspecialecondizionedivita.Laprima diquesteduepartiscen de insieme col
corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda
per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino
coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente
in ogni sistema per quanto nuovo e profondoefruttifero essosia, trovasiunaparte
che è direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole
e dell'ingegno delsuoautore, ma siancoradaquelledelluogoedeltempoincui venne fuori
,inmodochediquesticonservandosempre laspecialfiso nomia , ne parlecipa spesso
agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi, la qual
e non so p r a v v i v e m a i a q u e l l e c o n d i
zionispezialichelehannodatoorigine,eche,quandoquelleson cam biate,non ba più
niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età
posteriori,quando caduta nel dominio dell'istoria, non fapiùpartedellascienzavivaefeconda
di conseguenzeediap plicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi
all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della
vita.Concios siachènonsoloogninazione,ma ognisecolohaunasuaimpronta particolare,
ha uno special modo di veder le cose , una sua propria lo
gica,perlaqualeancheaquellecose chetieneperveredalleetàpre
cedenti,nongiungeperimedesimi procedimenti,ma peraltrevie, per altri melodi,
per argomentazioni e prove di diversa natura . L'altraparte,quasi
l'altroelementocostitutivodiognigran sis tema , è per contrario indipendente da
ogni condizione di luogo e di tempo, nonhainsénullachesiamomentaneoorelativo,ma
stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla
intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uo m o , nè alle
investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità
che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a po co a poco conquistando ora
una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, amensogneedaviolenze,ainganni
ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifiziointantodelsapere insepsibilmentema
irreparabil. m e n t e s i a c c r e s c e , a t t e s o c h e l o spirito
u m a n o n o n d ' a l t r a c o s a a i u l a t o c h e dall'opera del tempo
, va d'ogni sistema sceverando le parti false e vane e relative a cerle
determinate contingenze,va spogliando della superflua ed incomoda scoria quella
parte di eterna verità che in ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente
sua e la trasmetle come sacro deposito e in dubitabile acquisto alla seguente
,che facendone suo pro,l'arricchisce di nuovi progressi,ne'quali quelli che
vengono dopo di essa banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità
ricevuta e di accre s c e r e il patrimonio. Cos i l a p i a n t a f e c o n d
i s s i m a d e l l a scienz a c r e s c e d i secolo in secolo con non
interrotta germinazione , non altrimenti che cresce un albero fra leassiduecure
dell'agricoltore cheneinnaffiae lelama diligentemente le radici ,e a suo tempo
ne taglia colla scure i sermenti
vecchiedisutili.Questaèquell'aureacatenadicui,senon vado errato , parlava
Platone , per la quale l'un secolo trasmette all'al tro l'eredità del sapere ,
come un sacro deposito che esso è tenuto di accrescereasuopotereetramandarloalsusseguente;benchènon
tutti isecolipossonougualmenteaccrescere queldeposito,non intuttigli elementi
secondarii e contingenti che circondano i frammenti della v e rità eterna son
della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure
quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun
uomoounascuolaecheomancadicriteriooneha uno in cerloesirisolvepiù
tostoinsincretismo,ma reale edistoricoilqua lehapersuo autorelospiritoumano
stessochedisecoloinsecolova sceverando da sistemi la parle condizionata e
temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza
alterazione niusa in suo perenne dominio . Cosi il frullone abburrattando la
farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da'
tempi nondicodiArislotilemadiParmenide ediZenone diElea,sonori maste tuttavia
sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla
forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontanead
essiperdistanzadiluoghieperdiversitàditempi. Secondo queste considerazioni è
indubitato che in tutto l'insieme del sistema del Vico trovasi una parte di un
valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo
immature le menti de'suoiconleinporanei,iqualionoa neinlesero
affattoosolone frantesero e ne misconobbero la vera importanza. M a
accanto a que staun'altracenehaper laqualeilfilosofonapoletanolegasi diretta
menteco'suoitempi,echemeglio intesaeviepiùapprezzatada'coe. lanei non ha più
per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui
, come a tutti igrandi uomini,è avvenuto che per una parteè
uomoassolutamentede'suoi tempi,econessi perquella partesièmorto,dove
cheperun'altraè contemporaneo de'suoi nepoti , e per essa a se medesimo sopravvive.
Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia
dell'isto ria,come alcunisono andatidicendo,credendo cosidiaccrescere, quando
invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera grandez za di colui che
voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima glo ria,eche
soloapochi,eforseaniuno anche dei mediocrissimie mancata,sièquelladicomporreun
sistemache adaltriinunaltro secolo piacerà poi di seguire. M a grandissima si è
quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la
pienezza de' tempi non è ancor venuta , ed a cui un'altra età dovrà essere
condotta per i nuovi progressi dello spirito , comunque per altre vie , per
altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura ,
siccome appunto èavvenutoperlafilosofiadell'istoria moltotempo dopodel VICO, che
primo la presenti. Manonpotendo, com'eranaturale, presentir tutto ,procedette
senza metodo e senza principii proporziona. ti da cui dedurla ,sol per
induzione da fatti troppo speciali ,e in mez zo a tali tendenze intellettive
che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle
costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi.Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta ,a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre allanuova terrapromessa,scovertadalungida
unarditissimonavi. gatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea
potuto appro dare,manon prendernesicuramentepossesso.Quasiparechelospi
ritotravedendo dilontanolanovellascienza,avesse fattoun primo tentativo per
conseguirla , m a destituito degli altrezzi e delle armi che a q u e l l a
conquista si r i c h i e d e a n o , a v e s s e d o v u t o tempo r p e a m e
n t e mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che gli
abbisogna vano, e quando ebbeli tutti presti ed apparecchiati, ritornare
con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, eriuscirvicon
migliorsuccesso. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno si
avvicina m a ancora la primavera è di lungi ,un solitario fiorellino quasi
racco gliendoiprimicalorichesicominciano amuovereperlegelateaiuole, spuntare
tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddoebianchidalla Deve? M a quel primo
sforzo e troppo precoce della natu ra riman solo, nèèseguitoda altri
sinoacheallastagioneavanzata,nuovitorrenti di calore tutte compenetrando le
zolle più mature ,covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati
e i dossi delle colline. Qui m a g gioreèlacopiae la bellezza, ma
piùammiratoèilfiore delfebbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una
ricchezza a venire di cui tutti lar gamente godranno , m a che poca o niuna
maraviglia non saprà più ri svegliareaglisguardiassuefatti. Se poi prendiamo
quel sistema del Vico nel quale appunto ha tra scesoiconfini del
suotempodivinandol'avvenire,vitroveremoma pifestada
pertuttolapresenzadelgiureconsultonepoletano dellafine del decimo settimo
secolo , e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna
della scienza e son passati quasi nella c o scienza universale del genere
umano,ne troveremo altria cui nessuno
piùnonsaprebbeattribuirealcunvalore,echesipossondire caduti per terra e
dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche
ancorasitrovanoinsu'ramideglialberiamezzono vembre per lasciare nudo il tronco
che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire.
Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism I cui duetermininon
possonostare insieme , quello cioè di una mente ,di una ragione, di un mondo
delleideechefacollesueproprieleggiilmondo de'fatti,equellodi
unavolontàestraneadicuilascienzanonpuòtenere niunconto,es
·sendocheisuoiattiappuntoperessere volontarii non si possono sottomettere a
niuna costruzione scientifica,cioè a priori,ma sono essen zialmente
contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del lastoria è una
vera teologia delle idee divine , la qual cosa se può es
serverainaltrisistemi,appuntonelsuoèfalsa.Troveremo averegli traveduto il
principio che la storia dell'umanità si va facendo per m e z zo di
un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale,dauna
piùoscuraeincertadisèauna più chiaraepiù consapevol e, m a n o n a v e r p o t
u t o v e d e r e n é il c o m e n è l e leggi d i questo cammino , nè tutte le
sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo
di aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti , la concepi però a
rovescio dicendo che l'ordine delleideedee procederesecondol'ordine
dellecose,ilche sepureè veroinunsenso tutto psicologico eaposteriori,è
falsissimo,anzi privo affatto di senso,negli ordini dell'ontologia e
dell'istoria.Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo
modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo
mini,l'uno giureconsulto napolelanodeldecimo settimosecolo,e l'altro filosofo
divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire, e
predicente una scienza che egli stesso non in tendeacheamezzo.Ma
nellealtreoperequestadualità scomparisce, oalmenoilsecondoenuovouomo
sieclissatantodarestarquasi tutto intero il campo al primo, cioè all'uomo dotto
dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui
titolo è in capodiquestoscrittosonopiùtostodiquestaseconda specieche del la
prima , quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile
di dire , cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai
tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le traccediquello
spiritoche ha pensatoilprimo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non
parlerò delle diverse orazioni suvariisubbietti,dellequalilelatineson
tradotteinitalianodalPo. modoro , che con tanto amore si è volto il primo tra
noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure
parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente
volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delinea -la la
storia intima della mente del Vico , e vi si assiste alla generazio ne di tutto
il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non
di un principio metafisico , che dee essere la sua vera sorgente , m a più
tosto da particolari considerazioni sull'insieme del dritto romano e
sull'istoriadi Roma. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di
ragionare quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io
non m'inganno stranamente , non solo ci rappresenta più chiaro il Vico del
suosecolo,ma noncirappresentaaltrochequesto,nèmaisenzalei dee e le teoriche che
erano in voga a quell'età,e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo
non sarebbe stata concepita , nė mai , neppure iltitolo,potrebbeorasaltarenellamentediniuno.Io
non parlo delle speciali teoriche professatevi,di cui alcune si hanno o poco o
niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono al V i
co propriamente,anzi a tutta la filosofia da Parmenide al Leibnitz e dal
Leibnitz all'Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di
lui , si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto , pel
quale una volta messosi,ne ha tirato delle conseguenze
istoricheecredutodigiungereaunaseriascovertafilosologica, quan tutto riposava
sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta
l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che labase.Or ecco in che
consiste tutto ilsistema.Nell'uso di alcune vo ciemodididirede'LatiniilVicoha
vedutoo credutodi vedere un profondo significatometafisico, che dimostrava un
gran progresso fatto in questa scienzapressoilpopolo che in quelmodo parlava;
dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo , ed altre simili
egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e
che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le
adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura,se ne
veniva ad accoppiarecome perconsegnenza un'altrafilologicao istorica intorno
alpopolo che era giunto a cosi profonda sapienza,a cosi riposta dottri na da
essere autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare.Certo
ilromanononpotèessere,delqualesisaindubitatamentenon avere attesoad altro sino
al tempodiPirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di
risalire più indietro sino al popolo da cui quello di Roma ricevette con la
lingua quelle locuzioni ,e lui senza più dichiarare
popolodiprofondadottrina,epressoilqualelametafisicaavea dovuto giungere a uno
non comune grado di eccelleoza.Nè lastoria ci può la sciare lungamentein certinellascelta,
sapendosiche iduepopoliconcui iRomani ebbero ab antico più strelte relazioni si
furono i Joni della Apao. Questa serie di dedazioni ci mena alla
giustificazione nel titolo dell'o pera,dell'antichissimasapienza degl'Italiani,ciòsonoiJoni
e gli Etru schi,iquali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi
in m e tafisica,epoichèdaessipreseroiLatinigran partedellalorolingua,si trovò
questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli
metafisici,comunque ilpopolochelaparlavanefosseesso medesinioinconsapevole,
ničsipotessedasèsolosollevarea tanlaal tezza.Ne qui le deduzioni istoriche si
arrestano,anzi partendo da quel lepremesse,siècondottiassaipiùlungi,fino
acongetturarechegli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la
potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno
che lut to signoreggiavano,avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle
diquelle,ecosiportareinToscanalalorofilosofia.Quivi poiessendo s u r t o u n a
s s a i g r a n r e g n o c h e d i e d e il nome a l u l t o q u e l tratto di
mare che Lagna di Toscana fino a Reggio l'Italia,anche la lingua degli Etru
schi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i
popoli più vicini del Lazio. Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora
avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto
in Italia ad impararla , e sol dopo di essersi ammaestrato
nellametafisicaitaliana,cioèetrusca,laqualenoneraaltroche l'egi
ziana,essersistabilitoinCotrone e quivifondatolascuola.Diquila sua filosofia si
sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della
quale gran parte passò poi a'Latini,iu guisa che sc ci ha vocc latina di
filosofica signicazione,quella si dee tenere essere stala prima in Egillo,poi
in Toscana e quindi passala in Magna Grecia. Perquestomodo ne'fossilidellalingualatinasitrovatuttalasapienza
degli Etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la
anctafisica che era in voga sulle rive di Arno prima che il Tevere ba
e magna Grecia e gli Etruschi,dei quali
d'altra parte si sa che furon pc. poli dottissimi, gli uni avendo dato
nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri
facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi
aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata ,
la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e
semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima
de'Greci. gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più m a senza
allontanar ci dal sistema del Vico,anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci
al l'uso di poche parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pie no
possesso della cosmologia e teogonia egiziana. Ho
volutoinsisterealquantopiùalungosullevere pretensioni di questo libro del
filosofo napoletano ,sol perchè basta l'esporle nettamen
leperchèsenevegganochiaroilatideboliche sononè più nèman co che tutti isuoi
lati,la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a
ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna
critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e
cognato nel Vico della scienza nuova,ilquite lecondotto da altre divinazioni
più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella
de'suoi,poevade'principiiiqualinegano le basi su cui poggia tutto il libro
dell'antichissima sapienza degl'Italiani. E in fatti in quel sistema che più lo
ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei , egli riconosce tutta
l'opera del popolo nella formazione delle lingue , e quasi lo riguarda senza
ambagi come una creazionespontancadiquello,quandospiegatuttelediversitàchesono
fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o
icostumi de'differenti popoli.Ma questo principio che veduto in tutta
lasuaplenitudineesvoltosecondoilrigoredellalogicasarebbe stato fecondissimo
d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi
alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche
dellalingualatina,pertalmodochedimenticodel popolo edelmon do delle nazioni,
ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di
averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le
feccio adottare al popolo , da cui poi le c b beroineredità gli altri che la
dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non
iprincipii,comunque ancora incerti, dellascienzanuovacondussero il Vico aquestascried'idee,
ma sibbc ne la filosofia del suo tempo , contro la qualc egli in gran parte
prote stava,etuttoilgeneralmodo concuisiriguardavanoalloralecose,e
cheeglisenzasaperloesenzavolerlo,etalvoitapurvolendo ilcontra rio,avca comune
con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia del secolo
passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità
e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però
consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non
vide altra cosa che un contratto con cui gli uomini si
eranovolontariamenteconvenutifrasèdivivereinsieme per ilmag
giorcomodoelamaggiorsicurezzaditutti;nellereligioninon vide
cheiltrovatode'pochipercontenereimolti,e farlipiegare coll'au torità di esseri
superiori agli umani , a quelle cose che essi avean risoluto essere di
universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti
non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di
maggiore ozio che gli altri, i quali perloropropriodilettoeperaltruisidecideano
didarsiaquell'eser cizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura
stessa delle co se,e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che
si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo ; finalmente
nellelinguenon iscorse altro cheunsottilritrovatoeunauniversa. le convenzione
degli uomini , iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più
pieghevole che quello degli altri animali , si erano risolutamentedecisi,non
senzaesame,divolermettereaprofittoquel Ja flessibilità della gola , e
servirsene senza più a render più facili e
speditelelororeciprocherelazioni.Daquestateoricanon eralungo il cammino da
percorrere per giungere all'ipotesi,o per dir meglio,al laconchiusione del Vico,
ilquale,come primasifuimbattutoin locuzioni che g l i pa r v e r o a v e r e d
e l filosofico i n s é , s u b i t o g i u d i c ò n o n il popolo ignorante,ma
sibbene ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in
mezzo,si diede a ricercare dove doveano poter esser que'filosofi da cui eran
venuti parlari filosofici a un popo lo che non aveva filosofia , e trovolli
nell'Etruria e nella Magna Grecia e, risalendo,nellapatriade'Faraoni.Maisistemi
talvoltasoncuriosi davvero;ecuriosissimisieran questi,iquali negavanolecosepiù
ovvie, ilfatto,lastoria,lavita,l'uomo,peraccordar tuttoa'filosofi;
razzanobilissimaed'ogniconsiderazionedegnissima,ma cosipocodi sua natura
operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun
articolo. Ora ilfattosièche il popolo,equi,
intendiamocibene,popolovalquantogenereumano ospiritoumano , il popolo adunque in cerle cose non è da meno
e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello
spirito de'filosofi trovi siassolutamentepiùdiquello che ènello
spiritodiogniuomo,cioè nel popolo.E se nelle coloro menti trovasi tutta chiara
ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la costituiscono,e la
scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano,la mente del popolo per
mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non è men ri. schiarata
dalla medesima ragione , nè men costituita dagli stessi ele. menti,nè men
regolata dalle medesime leggi , conciossiache se cosi non fosse, la filosofia
non sarebbe più la scienza dello spirito umano , ma
lascienzadellospiritode’filosofi;ilche,seiononm'inganno,do vrebbe
sufficientemente nuocere alla sua importanza ;la sola differen• za che passa
tra il filosofo e colui che non è filosofo ,si è che l'uno sa
quelcheegliha,laddovel'altroloha senzasaperlo;l'unopossiedee pur possedendo e
usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli
possiede,dove che l'altro non solo possiede ma si è occupatodisapere
lanatura,ilvalore,leleggi,l'importanza,gliele menti,ilmodo dioperare,lerelazioni
e le condizionidiquelloonde egli è in possesso.
Oralelinguesoncomefigliuoledidue madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che
operano ngualmente nella loro formazione, v a le a dire delle attitudini
naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un lato, e
dall'altro della natura morale dell'uomo e delleleggisostanziali dello spirito.Dicheogni
lingua senella parte puramente esternae fonetica de'suoni,della
lorotrasformazione e cor ruzione,edel loropassaggioadaltrisecondariiederivati,eintutto
quello che riguarda l'istoria naturale della parola , segue invariabil mente le
leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto
interno di essa parola rappresenta tutti i principii psicolo gici del pensiero,
tuttiglielementi ontologici che in esso si rinchiudono,
esecondoleleggilogichedelpensierostessocoordinaedispone l'espressione
estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato , e che nelle
misteriose profondità della mente è stato apparecchiato.Certo si nella
formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e
principii razionali,e qualche cosa ci ha che si sottrae all'ana
lisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito umano ,che senza
essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua legge
determinata,risultadall'azione nė descrivibile nè determinabiledi tutte quante
insieme , e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la
vita nelle sue infinite manifestazioni.M a oltre a q u e sta parte che si
sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione
scientifica,l'edificiodiognilinguaèlegatoper la parteestrinsecaal le leggi
anatomiche e fisiologiche del corpo,e per l'intrinseca alle leg. gi morali
dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordina mento delle
parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pen siero, e cosi ogni
etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie
dellaragione ; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o meno di quel che
trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti raggiungono un'esistenza
estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più né meno di
quel che sia nello spirito nel qua leesseelecategoriedicui esse sono
l'espressionehannolaloroesi stenzaintrinsecaesoggettiva. Perlaqual cosa nonciè
nullachesia meno arbitrario e meno convenzionale delle liogue ,nè ci la lingua
di popolo così barbaro o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un
intero sistema di logica,e un intero sistema delle più recondite categorie
della ragione. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere
ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a
stratto e metafisico , senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo
progredito assai oltre nelle vie della dottrina e deHa filosofia, da cui i
Romani nè dottiné filosofiabbiano dovuto ricavarle.Già l'ipotesidel Vico
incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che
mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente
senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar
l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo
investigazioni filosofiche e istoriche del Vice sono di origine e di formazione
cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gli
Etruschi o įJonii ,o come a b bia poluto saltare altrui in mente che iRomani lc
abbiano prese dalle costorolingue,oalmenoimitatoda essiilmodo diadoperarle.Tan!e
più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine straniera,
ilmododiadoperarlenonèmaistraniero opresoinprestanzadaal tri,ma
propriodelpopolochelaparla,ilquale nell'usarne,imprime in esse il suggello
della propria nazionalità e le fa sue , senza dire che un popolo per imparare
da un altro ad usare secondo un concello metafisico lesue proprie o le altrui
parole,dovrebbe innanzi imparare
daquellotuttoilsistemadellasuametafisica,quando nonsivuolri conoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita,è naturalmente e sponta neamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo
dellaragione,echecostituiscel'essenzastessadiessaragione. PerilVico
intantoiLatiniaveanoaogni modo dovutoimparar qnelle parole e que'modi di dire
du altri popoli più dotti che essi non erano , e questi popoli non poteano
essere che iJonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui i Latini aveano
strette relazioni. Vediamo oraquelchenongiàioounaltroma tuttoilsaperedelsecoloincuivi.
viamo oppone senza paura di contradizione al più dotto napoletano del XVIII
secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame senza fermarsi in primo
luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò giustificareecheinnessunsistemaeinnessuna
ipotesi non si può difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai p e
n satoa'Joniioal dialetto jonicoper sostenerelaparenteladifiliazio netra il Greco
e il Latino, e le colonic greche di cui parlail Vico, ca cui attribuisce nella
formazione della lingua latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima
diDori.Ilfatto sloricochelastoria latina èposterioreallagrecaunitoall'altrofatto
della relazione di simiglianza fra le due lingue avca condotto alla con
chiusione che l'una lingua dovesse essere derivata dall'altra,nè lasciato
alcunluogoadubitarequalesidovesse esserelamadreequalelafi gliuola fra la più
giovine e la più vecchia. La stessa argomentazione poi avea fatto determinare
più particolarmente questa relazione di m a ternità fra il latino e il dialetto
eolico, che èquellofra'dialettidella Greciachepiù diaffinitàsihacollalingua
delLazio.Intantolenuo vescovertedellascienzadellelinguehanno
dimostratoquestaipotesi impossibile , havno scoverto nel Latino tracce di
maggiore antichità che pel Greco si nel sistema de'suoni e si
nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato attuale
delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di aslioilà ,
e talvolta anche maggiore,che è tra ilGreco e il latinotrovarsi eziandio fra le
duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno
te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai.
tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte , da cui come da comune
stipitetuttequanteesse,elealtreadessesimilidiscen dessero , allontanandosene
quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone
tutte e la general fisonomia, eilsistemagrammaticale,eilcomune
materialedelleradici,in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami
di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui
ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando , sicché la
relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è trovata cre
sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella
parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che
il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti
dell'anticaGreciachepiùsirassomigliaalLatino,ma invecedi con chiuderne che
questo sia nato da quello,si è dovuto inferirne che esso è come l'anello
intermezzo, ilpunto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima
lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali ,
molte famiglie di piante, le quali sono l'anello
intermezzofraduespeciediversedelmondoanimaleotra due diverse
famigliedelvegetabile,equasicome ilponte percui mezzolanatura che non procede
per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare
nel Latino che vi si sono introdotte direttamente dalGreco,ma
questeosonodidataassaipiù recente o sirisesconoa oggetti speciali,ad usi e
invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra
due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le
investigazioni etmologiche e istoriche
delVico.Diparolestranierecheperaccidentesienpassatedauna lin gua a un altra
ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in tutte le
lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui
sirenderagionepermezzodelfattodelleesternerelazionisenzachenulla se ne
possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che
è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno stru mento aguzzo , una capna
qualunque da scrivere,non è di origine
greca,nèsenetrovalaradicenellelingueaffinialgreco,ma èdi
patriaaffattostraniera, parendoesserenèpiùnèmanco che ilsemi ticoKalem che in Arabo
dinota la penna. Certoverisimilmente è da crederecheavendoi Greciantichissimiappresoda'Fenici,po
poli di stirpe e di lingua semitica , l'arte dello scrivere abbian preso anche
da e s s i il n o m e dello strumento d a e s e r c i t a r e , l a n u o v a a
r t e . M a dove sono le parole greche , eoliche, e joniche, come impropria
mente ilfilosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui i Latini
esprimeano non già un utensile materiale,lo strumento di un'ar te ignola prima
e poi appresa , m a i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di
cui il pensare stesso è impossibile? Lemedesimecose,ma
adassaipiùforteragionesivogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua
si sieno potute intro durreuel
Latinodelleparolerelativeadusidellavitaeacerimonie sacre , è cosa che
facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi
dall'Etruria hauno dovuto passare in R o m a , m a non èpossibileditrasformare
questaazionetuttaestrinseca,questa introduzione accidentale di alcune speciali
parole , in un'azione più internaequasi primitivadell'EtruscosulLatino.Veroèche
questa non è propriamente l'idea del Vico , nè la conchiusione a cui egli
intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione
delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del
Vico, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò
come conseguenza e coronamento della sua ipote
si,masibbenediquelladellafilosofia.Einfaltinon altrovechein questo punto egli
vide l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso
v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una
critica , che non vedea,e in gran parte non
poteavedereiveripuntidebolieimpossibiliasosteneredi tutto ilsistema. Quivi si
vede che il Vico pensava di aver fatto una stupenda sco verta istorica ,
perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi doltissimi in
cosi remotissima eti , come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici
che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina , si dovea credere
fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma
si da questa , cice dall'Etruria in quella , e quindi coordinando tutte le
parti del siste na , ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la
soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad
appararla , riuscitovi poi dottissimo , si fosse fermato nella Magna Grecia a
formar la sua scuola , sicchè quest'antichissima silo. sofia che la rappresentava
avea dovuto passare dall' Etruria nel La. zio e dal Lazio nella Magna Grecia ,
e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io
diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe parole e
modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più nella patria
deiFaraoni.Ma tuttequeste ipotesiriposano sul falsoconcelloche ogni vocedi un
contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema metafisico divenuto
popolare nel popolo che la parla , ogni sistema metafisico debba essere stato
da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè
, ma riceverlo da'Latini,eiLatini dagliEtruschi,egli EtruschidagliEgiziani, non
so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le investi
gazioni,ecercare daquale angolopiùremoto dellaterra avessedo vato venir
trapiantata sulle rive del Nilo. La scienza moderna che è meno corriva
alle ipotesi , e comunque sia spesso accusata di sognare , più riconosce
l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema , va più guardinga in
questa qui stione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli
che sono a sua disposizione ,non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino
fossero stati e donde venuteci , nè che cosa si fosse la loro lin gua ,se cioè
semitica o di origine arja ,nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà
coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva ilVico allesue
opinioni intorno all'Etruria niunoè ora cheardirebbedicrederledialcun peso o
diprenderle in sulserio. Ben sonostatialcunipiùmodernichelehannosostenute,e
avregnac chè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà
tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în
occidente,hanvolutocheiprimiprincipiidiessa fosseropassatidal l'Etruria
nellaGrecia,ma han cercato con fatlieargomenti edo cumenti che al Vico
mancavano di sostener la loro teorica ,comunque non sieno mai riusciti a
sostenerla tanto da farla aceellare almeno permediocremeuteprobabilea'piùdottiinquestematerie.
Enonha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno deisuoi ultimi
sostenitori,uomo picchissimodiabbondanteerudizione istorica,ina corrivo non so
se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni
più strane e le meno simili alle più comune .
mentericevute.Spessosièripostocome unaspeciediamorproprio Nazionale a sostenere
colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella
Grecia.quasiperaggiungereunaltroperiodo digloriaallegloriedel l'istoria
italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quantoquel
sentimentoper cui un popolosistudia diaccrescerei tesoro delle sue grandezze
non meno presenti che future o passate, diquesteperpetuarelaricordanza
nellamemoria degliuomini.Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri
Italiani non abbiamo afarviolenzaallaistoria,evolervendicareanoiquelche nonciap
partiene,tantopiùchequellodicui non sipuòdubitarechesiano stro è più che
bastevole a non farci desiderosi di altro.Or la nostra ve ra e indubitata
istoria incomincia da Peoma ; ilche mi sembra itd'an
lichitàabbaslanzaremota,eunagrandezzaabbastanza gloriosapera.
verseneacontentare.Tutto quello che è prima diRoma, e già è assat in certo che cosafosse,nonci
appartiene. E veramenteItalia nonera ancorailpaeserinchiuso tra le Alpie il mare,
nė Halianieranoi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del
Lazioo gli Etruschi, Celti o gl'Iberi,sealcun trattogl'Iberine occupavano, ma
beneeranoessiglielementiprimordialiiqualistrituraliefasiin sieme dall'opera del
tempo e dalla forza assimilatrice di Roma ,d o veano comporre il popolo dicui
ha fatto l'istoria Livio, Macchiavelli e Botta;lavoro lentoe gigantescoele con
diver se proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli
ancora; perquestaso laragionei Macedoni eran Greci,e Alessandr oche sefosse nato
du'secoli prima sarebbe stato barbaro,fualsuo Innanzi di
conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser
piùbreve,machepotrebbeprolungarsi ancora dimolto, noncredo essereinutileper megliofarcomparirelavera
naturadelleobiezioni chehomosseal filosofo napoletano, il ricordarecomeeglinon
a veapercosaaffattonuovailmodo dellesueinvestigazionietimologi che , anzi fin
dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la
lingua latina che avea già fatto Platone per la greca,ilqualedalleetimologieecomposizione
delle parolediquella avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che
l'avean parlata.SenonchesiformavailVico un conceltoassairistrettodal Cratilo se
credea a questo solo ordinato quel dialogo , il quale abbraccia tutta quanta la
quistione della lingua ,della sua origine e del suo valore,coordinandola colla
teorica socratica delle idee.Ben è vero che Platone anche delle etimologie si
occupa in quel dialogo , e che ,ove non il fa ironicamente e come per istrazio
, intende di cavare delle in . duzioni intorno a'primitivi concetti del popolo
fra cui quelle parole a . veanoavutonascimento.Ma
adonoredelfilosofoateniese,siconviene confessareche
ilmetododellesuericerchenondeviavada'giusticon fini,nèpoteacondurload
induzioniofalseoimmaginarieo arbitra rieocontrarieallagenesi delle
lingueoripugnantialla vera palura. dellametafisicacheinquellesipuò trovare.Non
abbiamnoiveduto che ogni lingua contiene in sè un intero sistema di metafisica
, ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p
o t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà della Grecia
, e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche
del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché
, collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si
macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano
riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù
irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il
carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate
nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de'Pelasgi e de' Rasena , de'
Tirreni e de'Siculi non siappartengonoa'discendenti delpopolo di GiulioCesaree
di Tra jano. polo che la parola , e che ve l'ha senza saperlo ,
depositata ? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello
spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no
nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o
opposti lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che
passano fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire
il modo in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le
cose,e ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla
composizione di essa si presen taronoalsuospirito.E sequestolavoroèancora oggi
pienod'incer tezzeedidifficoltà,seeraimpossibilea'tempi diPlatone,che fae
glicotesto?BastacheildiscepolodiSocrateabbia vedulounaverità che solo
ilontanissimi nepoti poteano dimostrare ,e tentato un lavoro per compiere
ilquale,moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto
somministrare finora tuttiimezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una
setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i
concettimetafisici,apziliattribuivaalpopolo stesso,cheegliperle
esigenzedelsuolinguaggio filosofico, chiamail legislatore, il quale
nellasuccessivacostruzionedellalinguave livenivaspontaneamente e però
inconsapevolmente trasfondendo.Në pensò mai Platone che da filosofi di altra
nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe,e quindi esser
passate a'primitivi abitatori della Grecia,che per essereancoraignoragtinonle avrebberopotutemaipiù
ritrovareda sèmedesimi. Sonquesteledue ipotesisucuièfondatoillibrodel
l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è
colpevole l'autore del Cratilo, Seiohotroppoinsistitosuquestecose, non ègià
perdesiderio eheioavessidiappiccareun'inutilegiornata colmaggiore de'filosofi
napoletani,ma siper voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere
collandare del tempo, e trasformando s i quasi in ogni secolo
lasuafisonomia,evedendo gliuomininellediverseetàsempre diver samentepurlemedesimecose,
lagrandezza de'grandiuomininon si vuol misurare dal numero delle verità che
eglino possono ancora inse guarea'lontaninepoli,acuipureessendo
grandissimi,nonpossono lalvolta insegnare più niente,ma sibbene
dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei ,
dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali
altri c a m m i p a n do sonosi arricchiti di verità ad essi rimaste ignote , e
dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi
quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e
di loccare con mano , senza che per questo si possano dir sempre seguaci
de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua
maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili
vieancheaspiri!imenoalli,quando altempocheeratuttaviaimma lura appena si era
svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii
ingegni. Chi è più grande di Aristotile ? m a quale è oggiscolarecheintutte
lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno ?
O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte
de'problemi della scienza inquelmodoappuntoincuisitrovanoproposti
nell'Organoene'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero
arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno ?
L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa ,che un uomo pec
quantograndeeglisia,perquantos'innalzialdisopra de'suoicon temporanei e de'suoi
tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle delle sue
idee, anzi esse tulle non abbiano in quellilalorora dice,siche eglinon
puòmaisepararsi dalgeneral modo d'intendere dell'etàchelovidenascere, anziappuntoperque
slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli
altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul
teleideede'suoitempiinlujsiriflollono,insiemeconquelle anche gli errori e i
pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito , nè per quanto egli se ne
distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle . Di che si vede quanto
sia grande la semplicità di coloro che siappoggianoall'autoritàde'grandi uomini
inque'punticheeglino. hanno in comune con tutta la loro generazione e che non
costituisco no la loro vera e più squisita individualità.Molle volle mi è
avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni ; o siele voi più
grande di Dante Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate
di consentire.Or cerloilcanlore de'tre regni dellamorle si fuilpiù grande uomo
del suo secolo,nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di
comprensione poelica possa venire con lui in paragone , ma
ilpubblicislaeilfilosofodelXIII secolo era figliuolo delmedio
eroeaveacinquesecolidieducazione filosoficaed isloricamenodi noi, e il
cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in
molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è
che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi ?Cerlo,che io mi
creda,niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini van .
no deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoriaingenerale.La sentenza di
Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se
s'intendeinunsenso,ma fontedimoltierrorises'intendeinun altro. Verissima è in
un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come
assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla
terra,ci rende quasi contemporanei del pas
sato.Permezzodiessanoipossiainoalloraformarciunconcello ge nerale del cammino
del genere umano ,e delle leggi ideali che presie dono alsuccedersi
dellecivilti,delleleggi,degliistituti,delle religio ni, degli stati e di tutte
quante sono le manifestazioni dello spirito u - mano.Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom prender
il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo , d e terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi
affaticalesullaterra,edivinarquellecheabbiamocollealtreche dopo di noi
bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso
veramente la sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più
stupendo ammaestra in e n t o che si possa , la comprensione della vila slessa
in tulle le sue manifestazioni, in
tuttelesuerelazionicolpassalo,colpresenteecoll'avvenire.Ma inet ta e principio
d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello edempirico,quasivolessedireche
lastoriainsegnaagliuominico. gli esempii de'tempi passati a sapere come eglino
si abbiano da con durre ne'casi agli antichi simiglianti,Il credere a questa
specie di aulorilàistoricadipendedallafalsa supposizioneche
gliavvenimenti si ripelano o si possanoripeterenelle medesimecondizioni, ilcheè
tantofalsoquanto èfalsoilcrederecheilgenereumanononsimuo va , e che l'istoria
non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la
quale anche i fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni,
sono diversissimi di significato e divalore.Ilprincipiochenienteèma luttosi
fa,nientepermanema tultosimuove,spezialmentenellastoriaenelcammino delgenereuma
no si verifica.Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si
ripete,la natura morale dell'umanità non mai.A coloro iquali dicono:
bencosìdeeavvenireperchècosìaltravoltaèavvenuto,ben sipuò rispondere che
appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo
modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da
giungere , chi è che possa pre vederlo,oqualeèfilosofiachelopossaalmeno
verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al
tempo delre de'reAgamennone,pernon salirepiù alto,equaleog gi è divenuta , chi
non si sente di naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge
il pensiero a coloro cui se parerà da
noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia
era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza , che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo , e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e
fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl' ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello
. Intanto , fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l' età più matura e quasi la virilità
dell' in tendimento , nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui
suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso
quello ch 'egli è , e quello che le altre cose sono, le quali in fino a
quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue
immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee
sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'Italia col fatto ne fanno pro va
. Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è 13 194 antichissima ,
e certo precedente alla poesia, perchè quella , oltre che confinava da presso
con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire ,
del pensiero nazio nale , lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de'
chio stri , senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte . Il quale ,
quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente
dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè
la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad
arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia
ignoti , e a compensar con usura i nostri padri dell ' ospitale accoglienza per
essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa , che
dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indi pendenza , e ,
bella delle memorie passate e del presente trion fo, ricomparire sul fortunoso
teatro del mondo, sorgendo , come Lazaro , dal polveroso sepolcro che avea
accolto il suo cadavere . So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento
degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere
stati più presto di nocumenlo che di utile alla mo derna , parendo loro esserne
stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del
pensiero mer cè l' innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane
tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può
esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de'
precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni , e che ogni secolo dee, in
quanto può , legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera,
piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo , o pretendere
superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo , e rifar da sè
l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato .Però il risorgimento
degli studi classici . e la conoscenza dell'antichità , innanzi che nuocere, ha
do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna , nè in fatto pud negarsi
che a risorgimento delle antiche lettere sieno 1 195 dovuti in gran parte i
subiti progressi che le scienze fecero tra noi . Quando si furono rotli i
cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa
l'intelligenza , quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il
pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia,
alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e
il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni
della penisola si misero a quest' opera, lavorando insieme, quale in uno e
qualein un altro modo , al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir
fuori dal loro numero il celebre triumvirato di Telesio, Campanella e Bruno , i
quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte d’Italia . Comune
ebbero la forza della volontà , l'ardire dell'inge gno e la potenza della
mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè la sua opera fu
puramente ne gativa , laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo
nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A
così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini per la
filosofia italiana , ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu
ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii . Del qual fatto non si
può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e
nella intima natura della nostra filosofia . E, in vero se, come abbiam veduto,
la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per
siffatta ma niera di studii , quando questo momento fu arrivato, la na zione
incominciò a declinare . Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea
alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante
piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e
poi la scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la
conquista era compiuta; le antiche forme di reg gimento eran cadute o avean
perduto della loro importan za; e le nostre sorti incominciarono ad esser ,
quando più e quando meno , legate a quelle di altre nazioni. Strana 196 cosa è
l'ammirazione di taluni storici , siccome il Denina , per la beata tranquillità
, per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo
dell' Italia . Più stra na ancora è la maraviglia del Tiraboschi il quale non
sa comprendere come la letteratura , le arti e in gran parte le scienze sien
volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea
l'irrequieta terra italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello
secol d'oro al nostro paese . Costoro non intendevano che quando una nazione
cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con
la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini,
allora la poesia spirò sulle labbra del Tasso , e le arti andarono ogni di più
declinando. Allora incominciò la corruzione onde il sei cento è rimasto celebre
nella memoria degli uomini , sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico
spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente
nel paese stesso che l'avea veduto sorgere , sic come la pittura cercò un asilo
in Bologna e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre Caracci, di
Guido Reni , del Guercino e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del
gladiatore ferito , o come l' ultimo canto del cigno che si muore . Egli è
facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al
tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea
da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero
veniva a perdere la nazionalità e l'indole origina le . Il medesimo senza fallo
sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso
che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta , perciocchè allora a Pla
tone e ad Aristotile sarebbe mancato il tempo di compari re , siccome mancò tra
noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può
dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita
taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra
noi Gian Battista Vico quasi a pro 197 testare in nome di tutti e mostrare al
mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo
nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti
che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano
egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il
cammino del genere umano sulla terra , e dalla meditazione d'una sola città
alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia.
Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e
poco avuto in pregio da quelli , ed è stato sol da' posteri onorato
condegnamente alla sua grandezza ; gloriosa ma pur tar da e , che è più ,
inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi , e a' sudori per
esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali
gnità li dispregia , ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo
del Vico , e immensamente a lui infe riore , comparve in Napoli l'abate Antonio
Genovesi . Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a molti sem brerà
per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im perciocchè io penso che
il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto economista non so , sia stato
più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me
desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e poco o niente avean
creduto alla sua grandeza. Genovesi poi, sendo prete , credeasi in certa guisa
mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che
veramente di più profondo trovavasi in essa , nè il più delle volte seppe
spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla
leggerezza dello stile , e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di
cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate.
Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del XVIII , credeasi
parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo , senza scorgere le
conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in
198 napzi san Tommaso , intendea come filosofo seguitare il Locke e il Cartesio
, allora nuovi e in voga oltremonti , e a cui l'alta mente del Vico avea mosso
infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in
sieme , e' travagliavasi pure a volerli conciliare , e parvegli che l'autore
del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo , e
così volea conseguir la gloria , tanto per lui ambita , di libero pensatore e
di teologo ; ma il tentativo riescì vano alla prova . Chi in fatti apra i suoi
libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme
confusione, per la quale il lettore si tro va , siccome l'autore dovea essere ,
in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme ,
ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia . E, in
vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il
sistema che si chiama dal suo nome ? quale la scuola che ha fondata ? Se pure
non voglia dirsi , come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta
to il primo che incominciasse a introdurre fra noi la filoso fia del XVIII
secolo , la quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto
di cirtadinanza . Concios siachè , spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto
legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta
presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche,
parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia ,
innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle
profonde me ditazioni era venuto meno , ei sistemi che lavoravansi oltre le
alpi , tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura
francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran
parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi
del Bacone e del Locke , e più indirettamente da quello del Car tesio . . 199
II . Renato Descartes avea continuato nelle astratte regioni della filosofia
l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte
eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea
della libertà del pensiero . Cosiffatta idea era nata da prima in Italia , do
ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle
prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile
delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello
stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si
vide fare . Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse , domandò la
libertà della discussione religiosa , il che era distrugggere la religione
medesima , la quale per sua es senza è fondata sulla fede , sulla credenza e
sul mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la
religione finisce, dove tra il credere e il non credere , tra il si e il no ,
alcuna transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione
avviene lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da'
capegli dorati , la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e
indagatore dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo
i misteri della sua bellezza , ogni prestigio è finito . Così accade delle
religioni , e tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal
se , ne son argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più
recondito e segreto dell' arca ; l ' Egitto che può dirsi per eccellenza il
paese della religione , è la patria de' simboli e de' geroglifici , e in Grecia
solo pochi savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e
diEleusi . In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una
religione e non volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo
veramente il principio cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a
quelle delle altre selte del cristianesimo , come quello che non soffre di
discen 200 dere ad alcuna transazione , ma riconosce in sè la fonte di ogni
vero , poggiandosi in sulla autorità che è potentissi ma, come quella che ha
per sè la costante tradizione e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo
spirito umano , ben fa spesso de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si
succedono e i costumi s' ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi
pare che ogni verità sia destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che
lo spirito dell'uo me sia in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il
più che a lui è conceduto all' unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero
? chi mai può dire di averlo ve duto , o chi mai potrà vederlo e indicare agli
uomini la meta di tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di
Gerusalemme a' Crociati e le coste di S. Domingoa Cristo foro Colombo ? Cotesto
continuo moto , coteste secolari agi tazioni stancano l'anima , la quale ha
sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di
trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra
le certezze e i dubbi , fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza .
Or la Riforma distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni
religione, gettandola in un pelago più con trastato ancora che quello della
scienza , e in una bolgia di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma
queste ardue pretensioni della riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio
, il quale spinse tant' oltre il desiderio della li bertà che volle quella
stranissima di dubitar di tutte quanle sono le cose create e le increate fipo
delle sue conoscen ze , delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi,
se gli fosse riuscito, di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con
una nuova voluttà a distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione
sernbrami dover esser in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno
, per aver poi l'illusione del creare , e , che è più strano ancora, creare
partendo dal dubbio ; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente
dinamico, 201 Che cosa è egli quindi avvenuto ? Cartesio dovea egli so . lo
ricostruir da sè l ' edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che
il ragionamento gli porgea . Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti,
siccome la religione , l'isto ria , le arti, i quali non sono opera
dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli
avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza
individuale dell'uomo , quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma
sibbene da altri principii e da altri motori , a cui non si può che per diverse
strade per venire . Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà
delle cose con solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono , e'
non ginngerà mai ad avere essa realtà , quale nel fatto è, ma si quale con i
suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le
che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale . La quale
difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e
nonsolamente a quella del Car tesio a cui essa è indubitamente debitrice di si
superbe pre tensioni. Or delle due cose l' una può avvenire; o che la fi
losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che
presumendo troppo altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che
essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima
ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo
sicura del fatto suo , resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il
Cartesio , siccome suole avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute
negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe , che poi seppe altri
logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme , ma
pur legittime conseguenze delle dot trine cartesiane. Succedeva intanto in
Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in Francia , comunque le forme
potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni
scienza , il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de' 1+ 202 - sensi,
quando il Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza
dell'intendimento umano , e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che
ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazio ne . Dalla
quale , per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà mai a cavare altro
che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione
probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni
, le arti , l' istoria . Pure il Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe
o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea . Non io
vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema , nè far l' apologista
di una più presto che d'un' altra filosofia , ma mi sdegno di certi
acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a
perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non
alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì
spiegare ma negare giammai, ove non volesse , come Ales sandro fece del nodo
gordiano , non sciogliere ma tor di mezzo, negandole , le difficoltà. Pertanto
quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a
lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso , e venne
accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma come un
antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria . E veramen te sua
patria era per esso quella del Cartesio . E' si dice che ogni idea cerca per
per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha
filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo
scopo, è certamente quella della sensazione . Conciossiachè la rivolu zione di
Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e
tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta
ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue
tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni
senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le quali può dirsi che Marat,
Danton , Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti
discepoli del Locke, del Condillac, del Voltaire e dell' Elvezio; sebbene al
fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di
tener saldi certi altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita
le umane società . Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'Italia
legata oggimai a' destini della politica straniera ,cercò ezian dio fuori disua
casa una filosofia bella e fatta , e potè leg germente trovarla , siccome
l'abbiamo descritta , in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero
della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le
per noi , come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio
vigore nella patria di Gregorio VII e di Dante . Vero è bene che la filosofia
della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e
compiu tamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per in sinuarsi nell'
universale, e produrvi certa maniera di debo lezza morale che è l'effetto della
mancanza d' ogni idea più elevata e più generosa . Ma comunque avesse avuto fra
noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure , come dicevo più sopra, le più
alte menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè
non avessero saputo di scostarsene del tutto.Solamente più tardi e quando già
quel la filosofia incominciava a venir meno nella sua stessa patria, si videro
comparir tra poi i libri di Paolo Costa , di Mel chiorre Gioia e del napolitano
Pasquale Borrelli che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre
menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la
patria di Dante , Michelangelo e Vico . I due ultimi, scri vendo in una lingua
a mezzo barbara , intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la
parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le
teoriche del Cabanis , mercè qualche dottrina , già forse combattuta e
dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico il Costa , purista ma
pedante in letteratura , crede che la me 20% desima lingua che era servita a
Dante per narrare i tre re gni misteriosi della morte, e descriver fondo a
tutto l'universo ; la medesima lingua che era servita al Macchiavelli per disve
lare i segreti della politica del medio evo , e al Vico per di vidare il
passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome
l'Alighieri avea fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a
raccontare le lepide trasformazioni della celebre statua , che a forza di odor
di rosa dovea tornare uomo , come quella dell'antico Prome teo , mercè la
fiamma del sole . Tolta per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole na
zionale , la letteratura di rimbalzo dovea sentire i cattivi ef fetti dello
stato morale del paese . Già essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII
secolo , la sua fulgida stella era tramontata , e quel soffio divino che ne'
secoli prece cedenti avea animato le nostre lettere parea si fosse ritira to
dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per
la qual cosa il XVIII secolo , trovatici in queste condizioni, ci polè
facilmente vincere , chè la strada era fatta, aperta la breccia , e agevolmente
si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra , un nuovo ad un antico vi zio
. Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua
morta la quale non potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee
del secolo , nè agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno,
sic chè bisognava al postuito rifarla , provvedere che ringiova nisse e
sopperire alla sua manifesta povertà . Non è chi ignori come l'abate Cesarotti
si fu il massimo campione di questa infelicissima scuola , e come con questo
scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle
lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto , bisognava di
necessità che , secondo il corso ordinario degli umani eventi, ritornasse
indietro. E già nella Francia in un altro ordine 205 di cose una maniera di
reazione era incominciata , concios siachè l'opera dell'impero può affermarsi
non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni prossima mente
passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della rivoluzione stato
era distrutto e che pur meritava di esistere. In Italia , strana cosa ! questa
reazione incominciò dalla lingua . Già poco innanzi il Parini, l'Alfieri e
qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la servitù
dell'imitazione straniera , ma poichè il male non era an cor venuto a quel
punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro, le
loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de' loro
con temporanei , perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non possono
riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle, e la
pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon più
mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare ciò
che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale . Vero
è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion generale
furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e regalati, per
più derisione, de’ titoli di pedanti (che forse erano) e di pu risti . Ma tutto
fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar qualunque eroe ,
e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che costoro, non si
credendo che i paladini delle parole , combatteano veramente , senza pur
sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero , e, se eran pedanti ,
significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni
della filosofia. III . Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale
contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota Calabria s' intese
risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del senso e le sue
eccessive pretensioni. Colesta 206 da voce era quella del barone Galluppi da
Tropea , rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la
sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente
ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato , cioè la sua polemica col
sensualismo dal suo sistema . Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d'
essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più
ampia opporre alle minute investigazioni del Condillac,delTracy e degli altri
di quella scuola . Cotesto è il vero merito del Galluppi , e per questo solo
gli è dovuto un posto nell' isto ria della filosofia italiana. Vero è che le
sue armi erano il più delle volte domandate alla scuola scozzese , o eziandio à
quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali egli volea
combattere ; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito , nè l'obbligo che la
filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in
cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema del Kant, e comunque non
manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a penetrare
compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della
psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu parsene
seriamente . Certo è , come innanzi vedremo, che altri è riescito meglio di lui
nell' investigar la mente del fi losofo prussiano e nel misurar tutto il valore
e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di
essere stato il primo,eziandio in questo , non può negarsi al calabrese. Quanto
poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche delLocke e in parte
da quelle del Reid, non credo che volendo esser giusti si potrebbe parlarne con
alcuna ammirazione . Conciossiachè debolissima è la sua psicologia , e quasi
nulla l' ontologia , la quale egli spesso non sa distinguere da quella , e sì
confonde stranamente le quistioni che all'una e all'altra scienza si
appartengono. Più confusa eziandio è la logica , che egli discerne in logica
pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione che in niun modo
non saprebbe sostenersi , è riescito a trattar della prima delle pure forme del
raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di quistioni di psicologia
e di ontologia, che non sapea come allogare altrove . Non parlo dello strano
metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per la psicologia e l'
ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi chiaramente tutta
la debolezza delle sue teoriche , è l'applicazione che pure si argomenta di
farne alla morale e all'estetica . Nell'estetica , per esempio, di cui si
occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà , senza punto
curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere , s'in trattiene
a sostener l'opinione , un po' veramente troppo vo luttosa , che il bello può
esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da quelle della
vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra certi sensi
più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi altri che
servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può dirsi ,
più spirituali . Del resto e' si può dire che il Galluppi non ha veramente una
certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se pur l'ha , dubito forte non
sia quella del Blair e del buon padre Soave , autore di un'intera enciclopedia
d'istituzioni elementari per l' educa zione della povera gioventù italiana ,
filosofo , matematico , grammatico, relore, novelliere , moralista e Padre
Somasco, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad
infestar co' suoi libri , i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto
poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, il Galluppi non può dirsi che
siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia , e chi
volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui , come al trove,
trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni
passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe
un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori
l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensie ro ,
e l' opera morì ia sul nascere . Se in questa , come nelle 208 altre cose ,
l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto
gran fatto ; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta.
E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in
terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a
persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore
dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di
agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano . Davvero mi sembra enorme
non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di
Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi
sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e
conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore , con una rovinosa
metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in
poco più di un' egloga. Del 1830 il barone Galluppi fu chiamato a dettar
lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli , e la scelta del governo
fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si
aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi
gigantesca tra noi , e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno
avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni
di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è
stata delusa , ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di
durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata ? quali le verità
che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare
della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politi ca , all'economia ed
alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è
feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel
circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo
nome a cui aspira , e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di
scuola. Or tale si è quella del professor na politano. Però non dee arrecar
maraviglia se le sue parole uon hanno avuto un eco , se il suo insegnamento è
stato per duto , e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuo la ,
non ce ne ha pure uno di cui si possa dire : costui conti nuerà l'opera del
maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era
prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per
sedici anni sulla cattedra. IV . Non ricorderò che di volo i nomi del Mancini ,
del Tede schi, del De Grazia e del Winspeare. De’quali i due primi , si
ciliani, non possono dirsi , e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè
interi nè profondi, dell' eclettismo francese, e, poveri non meno di erudizione
che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che
non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , cala brese di
patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla
filosofia , ed ha , già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe
un'opera in cui intende a richiamare in onore e il Locke e la filosofia
dell'esperienza , ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do
vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto , e
che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter
l'autore , a sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo , e l' un
principio del suo siste ma in opposizione con l'altro . Il barone Winspeare,
giureconsulto di rinomanza in Na poli , si è ancora egli rivolto agli studi
della filosofia, e come frutto delle sue meditazioni ha incominciato da tre o
quat tro anni a pubblicare una sua opera col titolo di Saggi di filosofia
intellettuale. Della quale il primo volume, che l' au tore ha chiamato
Introduzione allo studio della filosofia, con tiene un compendio dell' istoria
di cotesta scienza da Talete in fino al Kant . Il secondo col titolo di
Dizionario della Ra gione , dev'essere un dizionario di filosofia che si
proponga 14 210 lo scopo di fermare per sempre le parole della scienza e il
loro significato , affine di renderne il valore così certo e in dubitato come è
quello delle matematiche, e distrugger così alla loro sorgente le quistioni e
le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno della filosofia.
Imperciocchè e' sembra che l'autore abbia per ferma la celebre opinione di
quasi tutto il XVIII secolo , e che ora alcuno non oserebbe di sostenere, esser
cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che controversie di
parole, sicchè, fermato bene il valore di queste , abbiano quelle immantinente
da cessare . Il terzo vo lume poi dovrà contenere una traduzione de' Nuovi
Saggi del Leibnizio , nella quale il traduttore si propone di dare un vero
modello della lingua filosofica italiana, ancora così povera tra noi ( non
credano i lettori che io esageri) , pro ponendosi di più di venir mostrando ne'
suoicomenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di vieto e di rancidu
me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco . Ancora qui non fo quasi che
ripetere le modeste parole dell'autore . Da ultimo il quarto volume dovrà
contenere un'esposizione del sistema del Reid . E qui immagini il lettore il
sistema del fi losofo scozzese , che non suole esser creduto , ch' io mi sap
pia, de' più oscuri ed astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone , in
un gran volume in quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già
venuti alla luce. Secon do il Winspeare e' non ci ha che due uomini al mondo a
cui la scienza abbia veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse
, già sono trenta secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia l'anno
di nostra salute 1710. Questi due uomini sono Socrate e il Reid . Solo il
Leibnizio potreb be esser terzo tra costoro , ma egli è troppo lordato di me
tafisicume per essere accettato interamente dall' illastre giu reconsulto ; e
però, come è detto , e' si propone di purgarlo . Salvo adunque il greco , Jo
scozzese e il tedesco , così purificalo , tutti gli altri uomini che han
consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i
loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ov 211 vero
s'ingannano per difetto di giustezza di mente , ovvero si lasciano strascinare
dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è
sopra tutto ordinata ľ opera del Winspeare. Innanzi di lasciar Napoli non posso
trascurar di ricordare il nome di un uomo , forse poco conosciuto altrove, e
che eziandio tra noi non risuona molto , ancorchè il meritasse . Ma in tutte le
cose la fortuna è signora , ed anche per giun gere alla gloria è necessaria
certa maniera d'impostura. Co stui è l'abate Ottavio Colecchi, il quale, sendo
già profondo matematico , allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si
potè star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in
quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella
filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e
a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. Il Colecchi seppe
penetrarvi così addentro , che quasi le fece sue proprie , e spesso osò
modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che
egli ha acquistata col suo autore , ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto
la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in
sieme le loro dottrine . Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente
da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della
filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e
l'altro dove distin gue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen
ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine
; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il
sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi . Cotesto è
forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque
sia assai più antico della critica della Ragion Pura . Il Leibnizio, fra gli
altri, avea già insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte
quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua
propria essen za ; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma
teria , han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo
spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo
scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una
pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa
figura , ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del
Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più
elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo
del Fedone, nel quale narra , come tutti sanno , della morte di Socrate e delle
cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta
, dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò
pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con
l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due
leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la
concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero ,
questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che
quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta
disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui
le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza
assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo
attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello
, del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono
confondere con gli obbietti sensati , a cui si trova che solo per contin genza
alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil
raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a
riflettere , e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se
non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento 213 per
cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo che, ogni volta
che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono
risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti , i quali pur erano in
lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella , lasciata la sua
celeste dimora , discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il
divino Platone , il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi.
L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo , si è
la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne
conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose . Teorica
d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo
ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità ,
ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine
del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua
propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello . Chi concede
questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser
tenuto per kantista, siccome io affermo del Colecchi , quali che fossero in
parti secondarie le loro di vergenze . II Colecchiha pubblicato un gran numero
di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha
raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso
prende a combaltere il Galluppi , e se il faccia con buon successo , e se gli
avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo.
Conciossiachè il si stema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe
resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due
volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche , di cui mi riesci
di aver le bozze di stampa per le mani , poichè il libro non potè veder la luce
. Cotesta este tica , come tutto il sistema del nostro filosofo , è quella me
desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo
spirito possa alquanto rinfrancar le for 214 - ze . Egli è quasi che
inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende
misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa
esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze
, con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello
e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel
cada vere , o quello della luce nelle tenebre . V. Mentre questa fortuna si
aveano in Napoli le discipline filosofiche , nelle altre parti d'Italia non
mancarono di esse re , ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que
sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i
Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in
manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra
filosofia , la quale in fino dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì
della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il ra zionalismo ha
dominato , qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica;
quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente
diviso il ter reno . E in vero mentre nell'una parte venivan su la scuo la di
Pitagora e quella degli Eleatici, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea
in Roma, che può dirsi il paese per ec cellenza della politica, della guerra e
della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono
ravvi cinando , e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò
l'indole vera della filosofia italiana, che è insieme speculativa e pratica ,
come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni , e , se
intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde
però di vista la terra . Se non che è innegabile che non ostante il
ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu
mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron sempre più
razionalisti , e più pratici quel li del settentrione ; testimonii il Vico e il
Bruno da una parte, il Macchiavelli e il Pomponazzi, per non citarne in fioiti,
dall'altra . Ora al nostro vivente , come dicevo , il fat to inverso si è
veduto avvenire , chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla
psicologia , e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino
all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni , venuto meno a noi
, si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono l'abate Rosmini , Terenzio
MamianieVincenzo Gioberti . Antonio Rosmini ricorda in certo modo i nostri
buoni fi losofanti del medio evo , i quali chiusi fra le mura di un chiostro ,
alternavano la vita fra la preghiera e la meditazio ne , e vedeano scorrere in
silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della
scienza . Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di
Nova ra, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una
fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era
già conosciuto per altri scritti di fi losofia speculativa e di diritto
pubblico e naturale , quando nel 1830 pubblicò per le stampe una sua opera
sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine , per la
forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto
dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere
allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce.
Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo
stile e delle parole . Il problema che l'autore principal mente discute in
questo suo libro è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più
specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della
conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza
. Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi
obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a render
lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della
- 216 - terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare.
Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno
venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che egli
ama , l' inimico che odia , le catene che legano i suoi piedi o l'oro che
brilla nella sua scarsella , e' non si dubiterebbe pure un momento di di
chiararlo mentecatto , e condurlo di presente all' ospedale dei matti . Or la
filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad
ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de'
poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della
scienza , anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol
già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene
rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo
pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della
conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi
, o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa
con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che
esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar
quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè
medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con
una rassegnazione da disgradare un anacoreta , e a conchiudere che il genere
umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose . O alliludo
! Or l'opera del Rosmini è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta
quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii
sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati , i
quali tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed
erudizione . Di scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella
mente; quistione strettamente legata con quella della realtà della conoscenza,
e fa vedere in una maniera non tolta da altri , come i filosofi di lutti i
tempi sono andati errati in questo , o per eccesso o per difetto , dappoichè
alcuni non vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito , ed altri
cre dettero di vederne in maggior numero che veramente non sono . Lontano
dall'errore degliuni e degli altri , il Rosmi ni ne ammette sol' una , cioè ľ
idea dell'essere , forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e
necessaria dello spirito , la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè , ma
bene da tutte quante le altre è supposta , come quella che alla loro formazione
è necessaria . Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che
essa rinchiude il con cetto dell'esistenza , anzi è l'esistenza medesima ; per
suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza,
da' concetti a ' fatti. Non io qui intendo di difender l' una ovvero l'altra
opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di
riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra . Quale
si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà ? Noi non
sappiamo le cose , e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa
all' obbietto da quella rappresentato ? su qual ponte si supera la distanza che
è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto al
Rosmini, non è punto diversa dalle altre , e indarno vi dibattereste a
dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale
e necessa ria , non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta
medesima natura , sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione
con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta ,
anzi rimane tultavia intera , po tendosi opporre all'idea dell' essere le
medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per
sostenere il con trario . Vero è che l'autore , dopo cinque faticosi volumi ,
con una rara, non so se io dica superbia o modestia , dichiara che non è
leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in vano si è studiato,
per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e intelligibile . Non tacerò
che a taluno è sembrato di vedere nell' opi passa dall'idea 218 - e nione del
Rosmini una pericolosa teorica da cui agevolmen te si può sdrucciolare nel
panteismo . Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache
siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore , e che
se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far
discendere dalle sue opinioni , certo pon indugerebbe pure un momento a
ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole
le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi
estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si
potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per
que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultima mente non
bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che
troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero
che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da
per tutto. VI . Terenzio Mamiani della Rovere del 1834 pubblicò in Pa rigi
un'opera di filosofia intitolata : Rinnovellamento dell'an lica filosofia italiana.
Oltre al nome dell'autore che già ri suonava nella nostra penisola , cotesto
titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul libro del
Mamiani . Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio nazionale , e
quasi una bella virtù cittadina nell'idea di ri chiamare in onore e in vita la
nostra antica filosofia . La ste rilità pedantesca de' nostri filosofi non avea
fatto escir le loro scritture dai limiti della scuola , e privatili così d'
ogni ma niera di popolarità in un paese in cui gli uomini consa crati
specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi, perchè levi
gran grido nell' universale un libro di malerie così speciali ; ma questa
difficoltà il Mamiani riesci a superar felicemente . Or vediamo qual sia la sua
idea . - 219 I filosofi italiani del XVI e del XVII secolo , non solo sono
slati primi nell ' ordine del tempo a incominciar la guerra contro la
scolastica , da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna , ma ancora sono
entrati innanzi agli altri per la profondità e dottrina con la quale seppero
eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative
possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osser vazion della natura
, da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui il
pensiero moderno mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni , e
della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità . An cora
fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere,
si posero animosamenle in quella , e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro
metodo , riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne ' tempi
posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose
sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare , ma molte sono
eziandio accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e
noncuranza . La fi losofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli
per tirarne tutto il buono che vi è , e far tesoro delle altis sime verità che
soventi volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo
gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera
incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero
alacremente continuarla , e in vece di tener die tro astraniere filosofie e
trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non
potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si
adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile
tradizione d'una scienza pur nata fra essi . Le altre parti del libro del
Mamiani son destinate a svol ger la vera natura di questo metodo , che ,
secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a molti può parere non
acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire , e che a me sembra
egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne
viene mostrando l' appli cazione a parecchie quistioni speciali , che egli si
studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi.
Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del
risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome il Mamiani l'
intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia
sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro
ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo
dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia .
L'idea del Mamiani si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni
filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita
liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una
particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri , e che
siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non
rispettare come up dono della Provvideoza, e di non custodir gelosamente come
un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si
mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e
nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e
d' intendere e di rappresentarsi le cose . Gli obbietti sì del mondo fisico che
del morale , si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno
ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il medesimo , esser considerato
in mille guise diverse , e produrre , secondo queste diversi tà , mille diverse
impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate ,
tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e
mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio , esercita vastissimo
impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha cosa che possa esser
considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti
accidenti , da cui ogni letteratu ra direttamente sorge , facendo ritratto
dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di
realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e Y opera dello
spirito , e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a
restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se
ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gli Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri , di considerar gli stessi fatti generali
, sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a ' faiti ed
è quindi più sperimentale o empirica ; differenze che trovandosi nell'indole
della scienza, mostrano che ci ab bia da esserne un'altra corrispondente
nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na
zionalità della filosofia , sendo però necessario di far due os servazioni su
tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un
intero isolamento scientifico , ov vero credere che ogni idea straniera possa
esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na
zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la
terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il
genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob
bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle
plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte
e sicuro di sè medesimo , le darà a sua insaputa quell' atteggiamento
particolare ,e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo
dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni
consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile , e che quindi debba
riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella
filosofia . Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori
arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non
avvedendosene , in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se
un paese è debole e corrotto , se già ha perduto la sua indole nativa , i
consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità
nelle al tre cose,non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più
presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti . Del resto ho
voluto dir queste cose più presto a proposito del Mamiani che contro di lui
perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi
all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori ,
certo gl' Italiani d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi
lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la
scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto
quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve
rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più.
Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando
se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. VII . Eccomi finalmente arrivato
a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere
una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo dell'abate Vin
cenzo Gioberti, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro
estremo della penisola . Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar
la sua opinione e 223 11 giudicarlo a sua posta , onde egli si è trovato
esposto a ' più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle
noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida
ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si
lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte , a' nuovi ed a'
vecchi pre giudizi , dirò franco il mio parere per un uomo di un merito
grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben
giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar
sentenza , perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi
nuovi schiarimenti e la prova del tempo . Intanto per por tare in fin da ora un
giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare
sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se
condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti
e quasi niente della terza . Come scrittore, il Gioberti appartiene senza fallo
alla no bilissima schiera de'Botta, de’Leopardi e degli altri che in questi
ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di
renderle l'antico splendore , la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo
ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati , e che le aveano negato la
fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni
di quello in cui noi viviamo , e che ancora regnano appo la maggior parte de '
filosofi di cui innanzi è discorso , la cui lingua , e più ancora lo stile , si
penerebbe a crederlo italiano , e si direbbe compassionevole , se la pretensione
non non lo rendesse più tosto ridicolo. Il Costapuò dirsi il primo che in
questi ultimi tempi abbia trattato di filosofia con cor rezione di lingua ed
eleganza di stile, ma oltre a questi pre gi , non si può dire che abbia nessuna
di quelle doti che co stituiscono il grande scrittore . La medesima cosa può
affer marsi del Mamiani la cui lingua è pura , lo stile esalto ed elegante ma
invano si cercherebbe altro nella sua prosa . Il Rosmini , senza aver nè l'uno
nè l'altro di questi pregi, è di una tale abbondanza, che e'si potrebbe
comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza chiedergli il sa
grifizio pur d'una idea . Tull'altra cosa è del Gioberti nelle cui pagine si
trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è ricchezza smisurata ,
nobiltà e vera eloquenza , tanto che si potrebbe citar de' passi da valer come
modello da imitare . Conservando il tipo originale e l'antica grandez za della
nostra lingua , e’la tratta pur tultavia come la lingua d'un popolo che è ancor
vivo , che ancora ha uno splendido posto nel mondo, e che forse a nuove e più
luminose sorti è destinato da Dio . Chè nella nostra penisola accanto a quelli
che nel fatto della lingua si lasciano andare ad ogni maniera di novità, ci ha
degli altri che per paura di corromperne la natia purezza , non si vorrebbero
allontanare da' limiti del tre cento , e si spaventano d'ogni innovazione ,
come se fosse morta la lingua parlata da ventiquattro milioni d'uomini . Niuno
di questi rimproveri non può farsi al Gioberti, a cui niente manca per esser
giustamente allogato tra gli scrittori di prim'ordine . Pure non saprei negare
che, sia effetto del l'ardente immaginativa, sia naturale impazienza e
difficoltà di contenersi , si abbandona talora un po ' troppo alla sua ine sauribile
abbondanza, sì che si sarebbe inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi
aleun poeo declamatorio . Non su che spirito di sofisma viene talora
segretamente a turbarne l' ordinaria chiaroveggenza , per modo che per volere
aver troppo compiuta vittoria de' suoi avversarii e spingerne le opinioni alle
più lontane e assurde conseguenze, scaglia con tro di essi ogni maniera di
opposizioni e di ragioni e di ar gomenti , della cui perfetta convenienza si
potrebbe talora dubitare. Ma questo non giunge ad oscurare per niente gli altri
pregi grandissimi che sono in lui . Dalle cose che abbiamo così brevemente
discorse intorno alla presenle filosofia italiana, si può vedere come i nostri
filosofi, attenendosi strettamente solo alle questioni psicologi che , ovvero
non osando che modestamente occuparsi di quelle di altra natura , si son tenuti
lungi da' più alti problemi ontologici sull'origine , l' essenza e le leggi
della realtà , quistioni in cui risiede tutta la grandezza e l'importanza della
filosofia e che l'hanno sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel
medio evo. In questi ultimi tempi i Tede schi sono stati i primi ad avvedersi
che la scienza si era messa per vie troppo ristrette , e che per renderle il
suo antico valore bisognava senza più ricondurla sul terreno che altra volta
avea occupato , da cui le modeste pre tensioni della psicologia l'aveano
scacciata , e in cui solo potea incontrarsi con quelle quistioni che più
potentemente importano al genere umano, e riacquistar così la vita e l'im portanza
primiera. Quest' obbligo la scienza deve indubitata mente a ' moderni Tedeschi,
quali che siano state le conse guenze a cui sono giunti . Il Gioberti ha tenuto
il medesimo cammino , ma con mezzi alquanto diversi , ed è venuto a
conchiusioni di ben altra natura . Anch'egli vuol giungere ad una scienza più
compiuta che esca dalle aridità psicolo giche, e che, piena del senso della
realtà e della vita, cerchi di pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa
e d'ogni fenomeno , riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine
reale della generazione. Movendo dalla teologia cri stiana, egli si è sforzato
di ricondurre la scienza all' ontolo gia , in modo da conservarla d'accordo con
la religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli
gione nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la , egli , per
opposto cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto
sottomettere la filosofia alla religione , in guisa che fosse questa obbligata
a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola
sin letica , la quale , benchè d'accordo col Cristianesimo , anzi, appunto
perchè è di accordo con esso , spiega l'uomo e l'u niverso e le loro relazioni
con Dio , onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la
natura , le società e le civili istituzioni , la scienza a l'arte . Io non mi
fermerò su ' varii punti del sistema , nè sulle varic applicazioni che egli va
facendo del suo principio , nelle quali dimostra una potenza di mente mirabile
e delle conoscenze non punto ordi narie , ma non posso tacere che soventi
volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del
sistema, e a certa smania di costruzioni a priori , le quali son certamente del
dominio della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione.
Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè
Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e
per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere
a taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si
possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E
chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero
assoluto della legge ha termine , e quello dell' arbitrio , del capriccio e
dell'accidente incomincia ? Certo è giusto di volere co' principii razionali
spiegar le leggi e le . generalità delle cose, ma è strano il pretendere di
spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale
d'ogni avvenimento , d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni
onda che la forza de'venti scaglia contro le rive , d'ogni foglia che la brezza
dell'autunno fa . cadere dal ramo ; allora si potrebbe ripetere il detto di Na
poleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo . Vediamo ora qual
sia la formola suprema e creatrice del sistema del Gioberti. Ogni filosofia ,
egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee
necessaria mente smarrire la diritta via . Siffatla nozione , come quella che
si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che
però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica , cioè al
panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le
esigenze della scienza , nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera
natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è
la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di
escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre
le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al
panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire , chi ben guardi la
troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione dell'essere in
astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di cansar l'errore
, è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione che sia nello
stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto
al nostro spiri to , non potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione
dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta
ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un
dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è
facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto , considerandolo siccome
concreto e creatore , perchè l' essere così conside rato rinchiude in sè l'idea
di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte della natura di quello ,
ma che essendo un libero prodotto della sua volontà , è legato con esso lui
mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio
da cui partirebbe lo spirito , cioè l'idea dell' essere puro e necessario che
crea l'esistenza contingente, e questa verità -principioprodurrebbe un
principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire
dalla nozione astratta dell'essere , è partito da quella dell'essere che per
mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso
il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con
questo mezzo ha evitato ilpan teismo , ponendo il concetto della creazione come
il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via
questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto
che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana
, ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di
costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè
un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ?
228 Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella
dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza
assai vicina a quello della ne cessità della creazione ; se poi si considera
essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di
farla discendere dal concetto dell'essere , e dedurla da esso ; anzi , essendo
essa libera e volontaria , il principio si dovrebbe esprimere altrimenti,
dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe
domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere ? domanda a cui è
difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla .
Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto , la formola a priori è
distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col quale si verrebbe a dire che
l' essere ha voluto crear l'esistenza , perchè esiste , e che l'esistenza
esiste , perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon
de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il
concetto della creazione, e allora si giunge diritto , come inpanzi dicevamo,
alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa
discussione, che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo di passaggio, ma
osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina del Gioberti.
Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi
rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire ,
noi possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni , le quali si
disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza . L'una, che è la meno
seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè
all'avvenire, ma sogna caldamente il passato , i secoli scorsi e quasi il secol
d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che
nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato
pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni , al
cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. Il Gioberti non può
essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e il suo modo di
vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e
del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano cammini , ma non crede che
lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri ; nè dubita che lo spirito
progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il
passatonon è per lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca
davere senza vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia
altamente conto come di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere
presente, e che non venga punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni
si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il
principio delle sue opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo
crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il
medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole
per questo la ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica
italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo
tutte le utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da
chi voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi
. Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è
neppur tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco
maggiori della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello del Ro smini e
del Gioberti, degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese.
Un'osservazione però sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo
discorso, cioè che se ci ha de sistemi e de'filosofi italiani, non ci ha però
una filosofia o una scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti
universalmente, poichè dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha
le sue proprie , e nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola
forte ed upita da contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver
fatto osservare a pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi
e dei drammaturgi in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare
l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto
a' sistemi filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in
cui tutti o almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere
ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così
solleciti di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni,
con l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla
co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i
filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il
pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia
gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano
nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania .
Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi
ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare
de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que'
sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde
applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli
interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto
per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per
sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in
caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà
e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de'
Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di
avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la
filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è
mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno
, tace profondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi
intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono
di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha
ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi
per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a
ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma
che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non
vive , e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren
dere. Io non so se le poche pagine scritte da Stefano Cusani giungeranno
a'posteri, e molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei
sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che
ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di
mente veramente filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità
degli anni avrebbe forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria
. Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo ,
perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe
potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e
splendidamente sperare di sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno
degno degli antichi e de' nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi
confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia ,
non che spenta, affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di
Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford!
He is a man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And
Gatti, being the snob he was, would rather be seen dead than referred to as
merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and
his passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would
not speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on
Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them:
“Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is
talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good
– he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato,
and there are references to some obscure philosophers in his prose – about
which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords:
poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane –
il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Gaudenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. He wrote an important work on the theory of music that
survives in parts.
Grice e Gaudenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo italiano. The philosophical interest of his essays lies in his
discussion of natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that
through the use of reason anyone could come to a knowledge of his moral
obligations.
Grice e Gauro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Gauro appears to have been a pupil of Porfirio, who may have
dedicated one of his essays to him.
Grice e Gedalio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Gedalio was a pupil of Porfirio, who dedicated his
commentary on Aristotle’s Categories to him.
Grice e
Gelli – sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like
Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing
semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s
tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I
often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua
expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for
Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least
to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Matteo Palmieri, che era
tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante
lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la
quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo
di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli
studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re
ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son
così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di
Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo. Esercita per tutta la vita il mestiere di
calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket
amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e
poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa,
anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari.
Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in
qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici
Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne
approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu
console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di
Adamo, tratto dal canto XXVI del Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente
lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del
bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo
indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri
compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono
quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta
probabilmente all'influenza sul Gelli degli “Antiquitatum variarum volumina
XVII”; un falso confezionato da Annio da Viterbo, e quella della superiorità
della lingua fiorentina sulle altre. ---
nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e
recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che ebbero
grande influenza sugli interpreti di Dante durante tutto il Cinquecento fiorentino.
Altre opere: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca
di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9
di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di
Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La
Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra
lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Il Gello sopra un
luogo di Dante, nel XVI canto del Purgatorio della creazione dell'anima
rationale”; “La prima lettione di Gelli fatta da lui l'anno, sopra un luogo di
Dante nel XXVI capitol del Paradiso”; “Il Gello sopra un sonetto di M. Franc.
Petrarca”; “Il Gello sopra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto
Della Sua M. Laura” “Il Gello sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di M.
F. Petrarca, Tutte le lettioni di Gelli, fatte da lui nell'Accademia
Fiorentina, Letture sopra la Commedia di Dante, Delmo Maestri, Opere di Giovan
Battista Gelli, POMBA, Claudio Mutini, I dialoghi morali di Giambattista Gelli
in "Storia generale della letteratura italiana V", Federico Motta
Editore, Delmo Maestri, op. cit. Claudio
Mutini, op. cit. Giovan Battista Gelli,
Dialoghi, Scrittori d'Italia 240, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G. B.
Gelli, Società tipografica de' classici italiani, B. Gamba,, G. B. Gelli, La
Circe, Venezia, Tip. d'Alvisopoli, G. B. Gelli, La Circe e i Capricci del
Bottaio (Milano, Silvestri); A. Gelli, Opere di G. B. Gelli, Firenze, Le
Monnier, C. Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); C. Negroni,
Letture edite e inedite di sopra la Commedia di Dante, Firenze, Bocca, A. Fabre,
La Circe di G. B. Gelli, Torino, Tip. Salesiana, M. Barbi, “Trattatello
dell'origine di Firenze” di Giambattista Gelli (nozze Gigliotti-Michelagnoli),
Firenze, Tip. Carnesecchi, A. Ugolini, Le opere di Giambattista Gelli, Pisa,
Tip. Mariotti, C. Bonardi, Giovan Battista Gelli e le sue opere, Città di
Castello, Tip. Lapi, A. Ugolini, G. B. Gelli, Scritti scelti, Milano, Vallardi,
U. Fresco, G. Battista Gelli. I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco. M.
Bontempelli, G. B. Gelli. La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto
editoriale italiano, I. Sanesi,Opere di G. B. Gelli (Torino, POMBA, R. Tissoni,
G. B. Gelli, Dialoghi, Bari, Laterza, A.
Corona Alesina, G. B. Gelli, Opere, Napoli, Fulvio Rossi, Bonora, “Retorica e
invenzione” (Milano, Rizzoli); A. Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico
degli italiani. che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe
una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela, la quale piu
che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti produce quanto
e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu
tilieui, pieno. 0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di
questo pius ellamipare? sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi,
questi fratiminori hanno questo costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez
sarameglioleuarji, machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, chemirincrefcera,
ma iopotreiuedere, fel'animamiauolesseparlar meco. Anchoracheiocomincioadubitare,
chefe joseguito ,elanonmifacciimpazzare, & non èdafarsebeffe, perche secondo
me, tutiqueiche impazzano, impazzan' nel'anima, nelcorpo, et cosi faràforsequestamiaàmeseiole
credo cosi ognicosa. Eccoelam' hacominciatoàdire, chesi puoesseresauioe dotto senza
sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io la dicessi fraque stidoti moderni,
iosareiucelatopropriocomeun. gufo, iopermenonho mai sentito dire, cheesipos
faeferefanio in volgare, ma pazzofibenesetnon OVELLA lasquiladisanta Croceco
E una dimostratione grandißima d'undisagio nonpicolo, esarà dunque beneraddormentarsi
unpocobenecheiltempochesidorme,ècomeper
duto,anzièpocomeno,chesel'huomofufemorto, Operò S 0 an
zanottechel'hucmoéapuntoinJulbuondeldors mire; benche àloro cheneuannoàleto comeipol
tidae'pocanoia, niente di manco nell'uniuersa lefar . i fi n'homaineduto
huomoalcunochenefiaftatofat tostimagrande, se non sa qual cosa in grammatica;
ficheiononleuòcosicredere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque
meglio uedere seelauolese ragionare al quantomeco, & potrò dimandarnela, Animamia,
ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar'ancshotamane un poco insieme A. Di gratia
Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç
coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili,
& bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti
et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio
punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue,
ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu?
startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che
mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. Opensaquelo che
egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò
cotefto, coueggoche Idioda pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la
penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli
diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla let
poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno,
che egli eraprufa tica, à un huomfoareunpaiodizoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che
tuuienià vorare per la piu graue, & piu faticosa cosachpeo To tessedargli
studiare mezo Aristotile, eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Eglièiluero,
ma il fato la sta contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il
superfluo, che è quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, &
lo tiene sempre occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi
del poco; perche chifacosigurue con pochi pensieri ,et è lieto il piu del tempo
uatoinme, quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia
a la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a
forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran maestri,
Giufto, feglihuo 2.1 il gode al 1 da teàtes per che lo studiare e naturale,
Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione sua, & bra 'illauorare gliè'una
penitentia. G. E bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua,
eo - doueeladesideradiritornar'; & fappi Giusto che il maggior bene, &
la piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho
pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro minifussindicotestauogliatuti,
che bisogn arebbe pochicheglirestano, ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo,
laqualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo filosofo di Diogene, che cheesiseruissinda loro, perche e'non sono se non
le moglie immoderate, ò della degnità, ò del poter ben mangiare, & bere suntuosamente
uestire; che fanno, cheunb uomo ,che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci,
ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; & delrestone dorme la metà) uendeque
essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequellocheuolena, Orche tue
togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna,
machesegle leuaffed'innanzi,percheglitoleusilsole,laqual
cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una
cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor
giaseruo,honorandoglioubbidendogliperòfem pre,comequeglicherēgonointerrailuo godi
Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,&
non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancarjem
pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; & sappi certamente che non è stato
alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia
altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati
daglı huominiera noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso lamenteunacosa,e
quelleprimieramentedeside ra.Verbigratia, unpoucrostropiatodesiderasola
mentediesersano, dapotereguadagnarsilauita, pernonhauereàireaccatando; chréfano&
non hanulla, hauerdichepoteruiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente,
has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo, & chi haquestohauer
qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; & dipoessere Principe, &
chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, &
nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un
pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorareunpocosarebbeunpiacere, mafem
prezcomehoàfareio, chehopocoènulla;e >
cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A.
Eccochetufaipurancortu,comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti
manch'egle? A. Cinquanta ducatid’ıntrata. & staremmipoiaffaiacconciamente. A.
E quandotuhaueßicotestoanchorpoitimanchereb bequalchealtracosa,e
desiderereftıla, cometu faihorquestaperchecometuhaidetodatsetesso,
inqualsiuogliastato, sihasemprequalcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo
79 tha, dhauersiacontentare; nientedimancopoi
quandotul'haitunonticontenti, macomincia. de siderarneun'altra; ficheprudentementediseun
trattou nuostro Cittadino, aunocheentrauainun disordinegrandissimo per comperareun
podere', cheglieraaconfino.Tudonerestipensare, chetu haihauercanfini, e
checomperatoquesto, tun'ha raiaconfinoun'altro, delqualetíuerralamedefi 2 ma
uoglia.G. Iocredocertamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno
cheinun'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori
fidianzifudatoal'huomoperpenitētiadesuoipeç Cat . t A . si di quegli ce hanno
le uoglie disordinate, & chenon sicontentanodiquclchesiconuie
nealostatoloro,comehauena Adam , quandogli duuennequesto,maachisiaccomodail camminar
patientementein quellauitacheeglièstatochia mato;nonauuiengiacoli, G. Comenò, hauen
doioaniveresolamentedellauorare, checom’iodir 2 , qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella
faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'erapurRe, cometusai, chiamò
questifimilibeati, & fappifinalmentequesto,che
quantepiucosefihajatantepiufihahauercura; Brèmoltopiugraue &
faticosoilpensierodigo Hernarelecosesuperflue, cheladolcezzadelpolle derle; &
quantipiuserpiòpiulaworatorisihatan tipin , cheognibuo mon'haunramo; benfai,
che èl'hamaggioreuno cheun'altro; Ma ecciquesta differentiadaifaui,a imatti; cheifauiloportancoperto,
& ipazziin manodifortechelouedeogn’uno. G.Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte
stesso, quanteuoltefetuandatoaspasopercasa,po nendoipiedinelmezodemattoni,&
cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte,&
fommiposto à contarei corenti del palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o
dimmiunpoco, setuhauesifattocotestecosefuo riifanciullinontisareb boncorsi dietro,
comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero;car non uòpiu negare dinonhauere
ilmio capriccio anch'io;anzitengohoraperuerißimoquelprouen
bio,cheiohopiuvoltesentitodire, che tiprunimicisiha,comebendiceuaquelPhilosofo,
Mi lasciamoandarequestiragionamenti,e'mipa rechenoin'habbiamoparlatoàbastanza, Tornia
moun pocoàqueglidihiermattina,chenoilasciam 2 momperfetti; perälchetudubitauidianzi,chese
tumicredesi,ionontifaceßitenerepazzo; come
seancortunon'hanesilatuaparte,comeglialtri. G.
Otoquest'altrafeelatipiace;cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono; Ma
che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0
sela pazzia F A. lotiuodireancorapiula, chetutrouueraipo
chihuomınıalmodochehabbinolasciatofama, che setuconsideribenelauitaloro, nonhabbinoqual
cheuoltaportatoilramoloroscoperto,maperche ceglieriuscitolorobenfato, nesonostatilodat,ima
iononuòchenoifauelliamopiudiquesto, torniamo alragionamentonostro, dimmiun pocodondehar
tusaputo,chenonsaigrammaticaa nonhaistu; diato,cheilauorarefuffedatodaIddio .G.
Si quanto à le parole; maapenetrar poibeneisensibilogna altro. A. Eibafta, che tunonharestidificulànelintendereleparolė;
masolamentenella inteligentia de'fenfi; laqual cosasel'hanno ancor quegli, che le
leggonoingre coo in latino che tu non ti credesiche
dereunalinguayé's’intendinoancututigliAu.
tori,tuttelescientiechesonoinquela,perche àfarequesto, bisogna l'aiuto de preccettori
de fuffeundolorein ogni casasisentirebbe stridere.'! ,anostropri
mipadriperpenitentia& paritionedeladisúbi dientialoro? G. O non
losaitu,chelaitanteuol teletomcoquelitBibiacheioho.A. Ocomela intenditu? G. Perche
non uuoitu cheiolainten da? non sartucheel lae in volgare? A s i sò. G.
Operchemenedomandi? A. Perfarticonfeffa
requelchetuhaidetto,eccodunquecheselescien tic, & la feritura facra fußıno
in uolgare,tulein tenderesti per inten. 2 you 4 2 gli interpreti, anche pors'intendono con fatica
grande, simile auuerebbe medesimamente, s'elefußınoinuolgare; maamebastaperhora,
chetuconosca, chenonsonolelingue,chefanno glihyominidoti, malescientie;&
che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E tperò
non si puo egli esere dotto senza intendere la lingua latina, douee lefontut
te, cheuuoituim parare nellanoftra A. Mera 1 cede Romani che ne le traduffono, se
la lingua Latina ne è ricca; & colpa de Toschani, chenonhan no maifatto conto
de la loro, feelane è pouera: G. ilfatostà, felacolpaviendz la lingua, che non sia
tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßinoscriuere. A. Oefe ne fa di nuouo;
e mettonfiinuso, dimanoinmano secondoibiso-. gni.G. oèeglilecitofarede le parolenuoueina
un alingua? A siinquellechenonfono morte; G dacoloro solamente dichielefono propri.e
G. Etqualichiamitumorte? A. Quelle che non siparlano naturalmente in luogo alcuno;
comeso-, nohoggi, la greca, e la latina, e in questaàco lorocheniseriuonpoer non
esere elalaloronatit à propria, non è lecito fare parole di nuouo. G. O
percheno nè egli ancor lecito à queiforestieri,che la fanno? A. Perche non elsendoelalor
naturale; non lefanno in modo chel'hab in gratia, se la natura producesse
tutte le sue coseper fette, non bisognerebbe l'arte, & fel’artepotese farle
perfettedasestessa non bisognarebbe lana tura,machebisognapiu,non , e gli Hebrei
dagli Egitti, non haitumar sentitochee'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata
detta prima mai Romani, chi erano altri huomini, & d'altro giudicio, che non
sono hoggi I Toscan, amandopiuleca
Ponmente alcuneche n'hannofattecerti moderni nella nostra, comemedesimitàgioucuolezza,
mar, cigione& fimili.G. Tugiudichiadunqueche
nonsarebbeerrorefarnenellanostrae? A. Non dechilaparla naturalmente, anzisarebbecosalo-,
deuole. Dimmiunpoco, credituchelalinguagre ca, òlalatina, fusincosiperfete &
copiosediuoce. bolidaprincipio, comeelefurnopoi nel colmoloro, & quando fiorirnoinlorotant
ipregiati scrittori? G 'No ncredere. io. A. Sianecerto,perchee
nonsiritrouacosaalcuna 2 fra queste che sonoeserci tatedanoi; chesiastatenelprincipio,
òprodotta perfettadilanatura, òritrouatada l'arte;perche sequestosipotesefare, l'unadilorofarebbeinus
no; che fecionoancordelepa rolenuoue Cicerone Boetio seeuolseromettere. Nella lingua
Romina le cose di Philosofia, & di Logica? G. Che le cauorono da altre nationi?
A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno daglı Hebrei
OPINTO feloroproprie (comeègiustoragioneuole)che
Paltrui, studiauansolamentelelingueesterne,per Canarne, seuieranulla di buono,
arrichirnelai loro. G. Inueritàcheinquestomiparecheefuf finomoltodalodare. A. Ricercaunpocobene
tuttelecoseanticheconuedraichesitrouapochis fimi Romaniche
.G.Inquestomeritonoeglinoalquantod'ef ferescusatinonessendo come tudiquella la lingua
loro.A. Anzimeritono d'essereripresi doppiamente, non ti ricord aegli haucrmai sentito
dire cheM. Catoneleggendocerte cose scritedaA l bino Romano in lingua greca, t&
rouādonelprin cipiochesiscusauadelnonhauerlescriteconquel laeleganzache doueua,
dicendoche era cittad in. Romano Ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua greca;
non, o lofare. G.Veramentechequestesonoragions tantouerechei opermenonsapreicontradirti.
i A. Vedi quanto I Romani cercauano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar
recareinquelaqualchebela opera,chesotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani
in latino, chenonè la lingualoro. perche
faccinoquantoeifannoeinonfiuedemaineiloro scrittiquelcandore,ne
quelostilechee'neilatini proprii 2 . solamentenonloscusò;masene vise, dicendo herAlbino,tuhaiuolutopiurostoha
wereàchiedereperdono d'unoerrorefato,cheno > 3 coloroiqua
lihaueuasottopošoconlaforzaqual che Cità,è qualche prouincia àl'imperio Romano.G.
Oani mieapensieriueramentesanti,& parole degne d'un Cittad in Romano, perchel'ufitiouerode
Cnta dinièsemprein qualunchemodosi puogiouareàla patria ala qualenoinonsiamomanco
obligati, che, apadrıQ àlemadrinostre. A. Et perquesto è hoogiinpregiotanto la lingua
loro, cheritrouan dosiinquellabuonapartedelescientie,chiuuole,
acquistarle,bisognaprimacheimparı;quelladoue, seinostri Toscanitraduceßinomedesimamětequel
lenellanostra,chidesiderad'imparare,non hareb, beaconsumare quattroòseideprimisuoimigliori
anniinimparareunalinguaperpoterpoicolmez:
zodiquellapassarealescientie,oltradiquestolefi imparcrebbonopiufacilmente
conmaggiorfis curta, perchetuhaiàsaperequestocheenons'im
paramaiunalinguaesterna, inmodocheelasi plega bene,comelasuapropria, &
fimlmente al'imperiolovoqualche Cità,òqualche
Regns, chequestosiailnero, leggafiilproemiochefaBoe
tionellasuatradurrionedepredicamentideAria, Storiledouee 'dicecheessendohuomo consulare,
et non atto à la guerra ,cercherebbe di instruire i fuor Cittadini conladottria;
chenonfperaudmeri faremanco, neejeremenoutileàquegli,insegnan dolorol'ari de la
greca fapientia,che 2 e 2 non si parlamaitanto sicuramente,necontantai
facilità,a setunonmicredi, pontrenteaquesti. chetuconosci, chedannooperaà la lingua
latina, chequandoe’uogliono parlareinquellaèparpro-,
priocheeglihabbinoàaccattare le parole, contan-> tadificultà, etantoadagiofauel'ano.
G. Tudi; ilnero, maquestodeRomanifucertamenteunmo) dobelissimo, àtradurenellalingualoro,dimolte
cosebele; acciochechedesiderauaintenderlefuf se forzato à impararla,
cosielaueniseàfpar-, gersipertutoilmondo.A. Enonfecionsola mentequesto; mainmentrecheétennonol'impe
riodelmondo,eilafaceuanoancoraimparareàla maggior partede loro sudditi quasi per
forza. G. Et comefaceuano? A. Haueuano fattoperlegge,
chequalseuolesseimbasciaderenonpotesseellere uditoinRomaseeinonparlauaRomano,
oltre àquestochetutelecauseche perla qualcosatuti Nobili di qualsiuogliare
grone, & tuttigliAuuocati,& tutti Procura
forieranoforzatiadimpararla.G. Oiononmi
marauigliopiucheRomadiuentassesigrande,fe. Teneuan diquestimodine l'altrecose.
A.Diquelo nonuoloragionarti, perchelecosebelle che causa noditutoilmondo, ne fanno
chiara testimoniázs: 11 EMA 3 siagitauanoinqual a fiuogliapaese, sotoiloroGouernatori,&
turtii i procesisi douessino scriuere in lingua Romana; F irü
.nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo,ne Latino
(come io t'ho deto)chsecriueffeingreco,f& e purecen’e's
nostatisonopochissimi,G.Odondehannocauato
aduncheiToscaniquestausanzadiscriuereingră matica, perdireamodotun A.
Daloinordi natoamorproprio,n o n delapatria,òdellalin
gualoro,imperòchecofifacendo,fisonocredutief
Jerestatitenutipiuualenti
àchiunqueleconfidera.G. O costume'uerämen telodeuole, ò Citta diniueramenteamatoridellapa
trialoro.A. Oquesto costume Giustononfuso lamente de Romani; madituttelealtregenti:cer
capurequantotuuoi, chetunontrouerai quasi mai Hebreo me quel Medico che iobaueuagia?ilqualeperpa
rore dotto, mi ordinaua certe ricctte con certinomi tanto difusati, chemifaceuonmarauigliare,
infra lealtreiomi ricordounamattina chemiordinòno
sochericetaperquelapostemationfeaicheroheb bi,doue infral'altrecosene
n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro,e un'altraAl tea, per le quali
mi credettii oche bisognasse mandare pereseinqueste Isolenuouega porlunaera.
Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altraMal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil
mondo, fetuconsideribene,nonèaltro,tutto,che unaciurma, mafer Toscani attende fino
a tradur. N . G. Chefannoe',co > 2 2
relefcientienellalorolingua, 10nonfodubbioalcu no, cheinbreuissimotempo, elauerrebbeinmag
giorre putationecheelanonè, percheefiuedeche zao bontà gliauuiene solamenteperlabellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggimoltoatesadefide
rata ,& questo fuanaturale,laqualcosanonconoscen doiforestieri, ben sepessocoluolerlatropporipulire
laguastano,ondeauuienproprioàlei,comeà unadonnabela, checredendosifarpiubellaconil
lisciarsi,piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentrecheecerca
noperfarlapiuornata di fareleclausulesimilia quelladelalatinaevengonoàguastarequelasua
facilità & ordinenaturale, nelqualeconsistela bellezzadiquella,
oltreaquestopiglierannoal cuneparolenfatequalcheuoltadal Boccaccio, ò dal
Petrarca, benche divado, lequaliquantomancole
trouanousatedaeßi,tantopaionolorpiubele; co efarebbongouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer
chio,& fimili, perchee'nonhannopernatura
neiluerosignificato,neiluerofuononell'orecchio, le pongonquasiinogniluogo@bene
spesofuor dipropofito, & cofileuengonoàtorelasuabel lezzanaturale. G. 1odubitochefee'nonglisan
noimmitarein altro,e’nonsipossadirelorocome dise PippodiferBruncllescoà Francesco
dela Luna, che uolendosiscufared'unoarchitrame,ch'e
olihaueuafattosopralaloggiadegl'innocenti, chelaruvigneinsino in terra, coldirechel
'haueua Cauatodeltempiodesan Grouanni,glirispose,tu,
l'haiimitatoappuntonelbrutto.Maselalinguae diquella perfettionechetudizdonde uiene,
chemot tidiquestiliteratibiasimantantocoloro,chetra duconoqualcosainquela? A : Etconcheragio
mi? G. Diconchelalinguanonèatta,nedegna chesitraducainleicosesimil, &
chesitoglielo void riputatione, & auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeerle
ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad esprim e r e i concetti, G i
bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal
trimenti,queichel'usanolefanno,sichenonmial. legare piuquestascusa,cheelanonuale.G.
O qualcagioneadunchepuoesere,cheglimuonaa direchelecoseche liscono, fitraduconoinuolgarefiauui &
perdondiriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno,cheeracagioneditantial
trimali, malainuidiamaladetta,e ildesiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli
altri. : G. Certamenteiocredochetudicailnero,perche
iomiricordocheritrouandomiaquestigiornidoue eranocertilitterati, &
dicendounocheBernardo Segni haueuafattouolgare la Rhetoric ad Aristotele, unodilorodise
cheeglihaueuafatoungran male; & domandacodelaragionerispose,perche:
enoistabene,ch'ogniuoloarehabbiaasaperequel lo, che un'altro fiharaguadagnatoinmoltianni
congranfática;supelibrigrec. latini. A.O paroledisconuenienti. Iononnodirfolamentea
u n Christiano, ma a chi u n c h e é huomo, sapendo che quanto noisiamoobligatiadamarciascunocagio
uarcl'unà l'altro, etmoltopiual'animachealcon
poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelointendere.G.
Maftafalda e mi ricorda chediconoun'altracosa.A. Etches G. Diconochelecosechesitraduconod'unalingua
inun'altra, nonhannomaiquellaforzanequella bellezza, cheele hannonellaloro. A.
Eleron hannoanche quellanellaloro, chel'hannonel’als tre,percheognilinguahalesueargurie,&
lefue. capresterie, laToscanaforsepiuchel'altre,et chinenuol sedere,leggadoue Dāte,òrl
Petrarcha handettoqualcosachel'abia anchoradetoqual che Poetagreco, òlatino,etuedràchepassaronlor
dimoltevolteinnāzi,etcherarissimifonquelliche Jonrimasti.adietro.G.
Si,maneletradutionifa debbe attēderepiualsensochealeparole. A.1056 che si traducepercagionedelesciēze,
etnõperue. Derla forzaèlabellezzadellelingue, etse'non gr | fur
fecofiiRomani,cheteneuonlalorlinguaperlapru bella del modo,nöharebbonotradottolecosediMa
goneCartaginese,& dimoltialtrinela loro, nei
nonlofaperaltro,senonpen chelecose fueessendoconferuaredallelettere,che
non uengonmenoleuoci,fienointesedatuttoil mondo G.
Tugiudicheadunchecheilcondurre lescientienelanostralinguafiabenee?Ai An
ziaffermochenonsiposafarcosapiautilenepin lodeuole, perchelamaggiorpartedeglierrorina sconodal'ignorantia,&
douerebbonoiPrincipiat tenderci, conciòsiachesienocomepadridepopolis
Etalpadrenons'appartienesolamente
Grecfimilmente chfeurontantsouperbi,& tan 92 tofiuana glorianadellaloro,chechiamanontut
tialtrebarbare,quelledegliEgittij;odeCaldei.
Nientedimancoesidebbecercareneltradurre
oltreal'eferfideledidirlecosepiuornatamente
chesepuo,eoperòènecesarioaunochetraduce Saper benel'unalingual'altra,G
dipoipoffe derbenequelecose,òquelescientiechseitraduco 30, perpoterledirebene Gornatamentesecondo
imodidiquellalingua, percheàuolerdirelecose
inunalinguaconimodidel'altre,nonhagratis alcuna,da se questofioferuaffe,iltradurenonfaa
rebbeforsetantobiasimato- G. E diconooltredi
questochesifacontroal'intentionedel'authore. A. O
comepuoesserequestochesifacontro àl'in tentionedellauthore.A. Ocomepuoessereque
Stose chiunquescriue gouernare ifigliuoli,mainsegnarloro coregerli, seno
2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquestoditutelecosee'douerebbonals
mancofarlodiquele chesononecessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A.
Leleggi,cosilediuineco mele humane. G. Et cheutilitàarecherebbeque
stoaglihumani?A. Comecheutilita! quantofa rebbonoeglinpiuamatori&
piudefenforidele coseappartenentialaReligioneChristiana?sele
cominciasinoàleggeredaputi,etdimaninma nofi esercitasinoinquele,comefannogliHebrci;
la qual cosa non si puo fare, non leh auendob entrở dotteinuolgare,&
beneacconcie:G Nonma rauigliafeglihebreifannotutisiben'parlaredel
lecosedelaleggeloro,òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnonleggeredilorofigliuoli
ò insule letere di mercantia,òınsucerteleggende
danopoterimpararuisucosanessuna;doueedoue
rebbonolaprimacosainsegnarloroquello,cheap partienea l'esere Christiano,sapendochequeleco
sechesimparanoneprimianni,sonoquele,chesi ritengono sēprepiuche l'altrenella memoria.A.
Etoltreaquesto,conquantapiureuerentia, attentionesisarebbeàgliuficidiuini
see's’inten defequel chedicono. G. Certamente che questo èuero. A.
Dimmiconchediuotione,òconcheani mololo danogli huominiIddio,nõintendendoquel
chesidicono,tufaipurilfauellaredeleputte,ca de papagalinonsichiamafauellare;mammita
gratiadisam Girolamochetraduseloroognicosainquellaline gua; comeueroam. Store
della patriafunt.G. Cene tamente Animimia, chequestainaopinionemi piacemolto.A.
Ellati puòpiacerecheelaé'an choradi Paulo Apostolo, chescriveàCorintiche
doueuonoancoresidirealcuniloroofitijinhes breo,com.diroloidiora
Amen,sopralabenedition uostra,seeglinonintendequelchesidice che
fruttonecauerae’mu? G. o dachevenne adun
que,chequandoquestecosefuronocanatelaprima
uoltadihebreo,elenonfuronomoffeinvolgare? A. Perche all'horaperlamescolanzadelemolte
gentiBarbare,cheeranoinqueitempiperlaItas tia, noncieraaltralinguachelalatina,laqualefuf
seintesa,quafipertutto,Guedichee'nonsitrous
fcrituraalcunadiqueitempifenoninquestame
tione di suonosolamenteperchee'nonintendono
quelcheesidicono(conciosiachefanelareproa priamentesia esprimereparole,chefagnifichinoi
conceti, quello, cheintendecoluichefanela) adunqueilnostroleggere, òçantaresalmi,nonin
tendendo quelchenoicidiciamo,èsimileaungrac
chiarediputte,ècinguettaredipapagallinesoia ritrouare alcunaaltrareligionechelanostra,che
tengaquestimodi,imperòchegli Hebreilaudande noiddiainhebreo,i
Greci,ingreco;iLatini; in latino, conglisciauoniinistiauone, volgare, cosilesacrecomeleciuili.A. Dala
maritia de Preti, defrati,chenonbastandolos
roquellaportionedelledecimechehaueuaordina, toloroIddioperlegge,àuoleruiuertantofurtuo:
Jamente comee'fanno,celetengonoafcolecce deuendonoàpoco poco,comesidiceàminuto,
inquelmodo, peròchee'uogliono,spauentandogli huominiconmillefalfiminacci, iqualinonsuonan
cosinelaleggecomeegliinterpretano',dimas niera che egli hannocanatodimarioà
pouerises colaripiuchelametadiquel > desima, chseonolecosesacre,maquestobastu,circa
àleleggidiuine.Veniamohoraalehumanefe ele,
fonoquellechehannoàregolareglihuomini,& secondo l'arbitrio delle qualisidebbeuiuere,
perche hannoelenoaesereinunalingua,chesiintenda perpochi? I Romani che le feciono,
& n'ebbonotā te da Greci,nonlefecionperòinaltralinguache laloro;&
cofisimilmenteLigurgo,Solone, & gli altri, che dette noleleggiatuttala
Grecia, nonle fecionperòinaltralingua,cheinquelacheusana noipopoliloro .G.O
s’elefonocosinecessarie cometudi, dondeuienėcheelenonsitraduconoin che
eglihaueuano. G. Eh questo èunmalechemiparechesidia nonsolamenteàisacerdoti,ma
aognuno,anzi noncehnom chepensiadaltrofenoninchemodo
&potefjecauareedánaridelescarfeled'altri,e sto metterglinelasua,egliebëuero,chei PretieFra
ti, egoi Notaichelofannoconleparolesonpiuuse lentideglialtri. A.
Ehimeenosarebbeuenuto lorfatrocosiagevolmente,seglihuominihanesi
nohauutopiucognitione delescrituresacre,
chee’nonhanno.Etlacagionechenonfitraduco no l'humane, è fimilmentelampietàdimolti
dotto rij@ auocati,checiuoglionuenderelecosecommu ni, & perpoterlo farmeglio
,hannotrouato questo belghiribizzo,cheicontrattinonsipoßinfarein uoloare, mi solamenteinquelalorobelagramma
tica,chelaintendonpocoeglino,comancoglialtri; somemurauigliocertamente, chegli huomini
hat binmaisopportatotantouna cosasimile,sotola qualesipuofaremilleinganni. G.
Etchee'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile,cheefifaces finonella nostra lingua,perchel'huomointende
rebbequelchee'facese,& cosii testimoni quello cheeglihannoàtestificare&
vorrebbonouederlo fcriuereal'hora, nòchepigliaßinoinomisolamēte, et poilodestēdesinoinsulprotocoloàloro
piacimë to, mettendoàogniparolaunacetera,chesecondo me nonèaltro ch'ununcino, dovenon
intendendo quelchefifaccino,bastalorosolamentediresi,ego nonpensanoalec onditionichespessouisicomprë
dono; dondenasconopoimillepiatt. A , Etper questomicredoiochelofacino;ondetiuodirque
' G47 totu uuoi. Ma de Preti,ede Fratinon udio gia chetudicamale; perchesecondocheio
hointeso purdaloro, enons'appartieneàisecolari,ilripren dergli ftochenoinon
cipoßiamomancodoleredeSacere dotic,ordegli Auuocati, ches ifarebbonoisuddi
tidique I Principi, cheuolesinucderelorol'acquç GilSole.G.
Diquestitilasceròiodire. A. Eccounadiquelle opinionicheficre deil mondoessereuera,pernonhauerl'intendimen
todelleletere sacre. Dimmiunpoco,nonsiamonoi tutifigliuolidiDio,e conseguentementefrate.
glidiChristo? G. Sifiamo. A. Etifrategls nonsonoequaliin quantofrategi? G.
Sisono. A Adunque ancora noicomeChriftianifi gliuolidiDio,fiamoequali, e àl' unfratelos'ap
partieneriprenderel'altro.G. Corestoèuero;ma eglihanno quella degnitàdelsacerdoria,
cheglifa piudegnidinoi.A. Oqualpuoesseremaggior
dignitàchel'eserefigliuolidiDio;uuoitucheilmi norlumecuoprail maggiore? eglièmaggiordegni
tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, iqualisonoofituidatida Dio,
& fannogli huominiministridiDio,tusaipurecheeglièpiues
ferfeigliuolod'unprincipe,cheesseresuominifiro. G. Adunque io sono da piu che il
Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali;
mapoiperesesreta toeleto particularmětedaIddio,persuominiftróz
eglivieneaesereinuncertomododapiudite,per la qual cosa tu debbihonorarlo,cometuomaggiorez
manonperquesto peròtièprohibitodipotereriprē dereglierrorichee'fa, c &ommettecomehuomo,
e come Christianopurch'efifacia,conquellari uerentiacheinsegnalacaritaGloamoredel
prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempioin PauloApostolo, il qualedicecheriprese
Pietro, che era fuo maggiore,percheeglierariprensibile
subitoòeglimiraculosamětecadeuamor to,òeglin'eraportatodaDrauoli farebbe da far
loro comequelsoldato, che hauendotoltoàun Fratelametà dicertopanno,
cheeglihaueuaaccattatoperueftirsi, etminaccian doloil FratedirichiedergliloildidelGiuditio,gli
tolequelresto;dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, iouoglioancorquest'altro
.G. Inueritachequestatua opinionenonmidispiace, maiononuogiadırlaz percheoltreàl'autoritàegli
hannoancoralaforza,& fannodipoiconl'arme, ueggiēdochenonuaglionpiuloroles communiche;
come nella primitiua chiesa ; chequädoeimaledina nouno,di
senonhaueßinoaltrearmi te che cheleloromala ditioni, e .G. Ehime, che
nonpossonoancorfaredeglialtrimiracolich'eifa Ceuano. A. Benlodises.Thomaso d'Aquino
quando essendogli detto da Papa Innocētio,cheha .A. Certamen e ' OK
gustatopartequádoe' furapito elterze Çıelo) dicellechenodesiderauaaltro, che
2 Heuaunmontedidanariinnanzi,& contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo
piu dire come el ladiceuaanticamente; Argentum & aurumnon eftmihi, Eglirispose;Ne
anchefurge etambula. GOtufaitantecoseanimamia, chetumifaiueramë temarauigliare,
& seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; comehai
tufatoàsaperlesẽzame; chemihaipurdetto, che noisiamo una cosa medesima, et chementrechetu
seiunitame co non puo operarefenoninme?A .O Giufto, quesatarebbe
cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di,
tempo che tunadiale facende tue G. ohime. tudi il uero, egli edichiaro affatto,
oh come paffa uiailtempoche l'huomo non seneauuedde quando sefa, ò si ragiona di
qual cosa che piacia altrui. V andoio consider
tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E GIOYAN BATISTA GELU SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA.
AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno GIOVAN BATISTA GELLI. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina;
ed, a gli amici non si può né
debbo negare cosa alcuna che giusta
sia, mi sono risoluto in tutto porlo
in iscritto, ma semplice e puramente
come e'
nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica:
disse egli, e
risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la
sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi
alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, GeUo mio caro, esser sommamente vero quanto
disse il Cosimo Bartoli, contemporaneo del Gelli, e
uomo di molta dottrina e di molta fama
a' suoi tempi. Fu ambasciatore per Cosimo
I alla Repubblica di Venena. 1a c^ere
die lasciò son degne di escer tenute,
pia che non si fa, in
pregio. diyinìssimo nostro Dante in
persona di Adamo nel XKYI del
Paradiso: Che nullo effetto mai
razionabile, Per lo piacere uman, cbe
rinovella Seguendo il cielo, fu sempre
durabile. Gonciossiach' io ho veduto
dispiacerti oggi si fattamente ciò che
Fanno passato tanto ti piacque, che
con ogni tao stu- dio e ingegno hai
pur fatto quasi che forza di non
esser di nuovo eletto in quel piccol
numero e scelto, che debbo ordinare e
formare le regole di questa lingua ;
non per vie- tare o tórre ad alcuno
la libertà e la facoltà di parlare
e di scrivere a senno suo, ma
solo perchè, essendoci alcuni Accademici
assai differenti ne la pronunzia e ne
la seri tia- ra, chi vorrà pure
apprendere la vera e natia lingua
fioren- tina, abbia almanco dove ricorrere
a vedere il modo e la forma de
V una e de V altra cosa
comunemente iisata in Fi- renze. Il che
nascendo pur da sincerità di mente e
da de- sio di giovare altrui, non può
essere giustamente se non lo- dato. E
perchè le «ose degne di loda si
debbon sempre far volentieri, non so io
veder la cagione che ti abbia fatto
cosi fuggire una impresa tanto onorata.
Ricordandomi^ averti sentito più volte
dire, che tu porti si grande amore
a questo nostro parlare, il quale,
quando egli è favellato puro e senza
mescuglio di forestiero ne la nostra
pronunzia propria, ti pare si bello,
che tu non puoi in maniera alcuna
credere o ima- ginarti che e' fusse
più beilo udire o Cesare o Cicerone
o qoal altro Romano si sia, che alcuni
di veri e nobili citta- dini di
Firenze, i quali per la loro grandezza
abbino avuto il più del tempo a
trattare di cose gravi, e a
mescolarsi poco col volgo, che ha
lingua molto più bassa e parole tìIì
e plebee : dove, per V opposi to,
costoro hanno parole scelte e facili, che
oltre a la naturale dolcezza, di
questa lingua, apportano un certo che di
grandezza e di nobiltà ; e massima-
mente quando essi parlatori hanno atteso a
le lettere, eser- citandosi ne gli studj,
come ne' tempi de la tua fanciallezza. Qnesto
periodo soTercfaiamente lungo è guasto
andie per questo gerundio ; invece
del quale dicendosi ricordami, tornerebbe
meglio. erano Bernardo Bucellai, Francesco
da Biacceto, Giovanni Canacci, Giovanni
Corsi, Piero Martelli, Francesco Vettori e
altri litterati che allora si
raganavanoaTorto de'Rncellai, doye to, quando
ponevi tal volta penetrare io maniera
alca- na, stavi con quella reverenza
e attenzione a udirli parlare tra
loro, che si ricerca proprio a gli
oracoli, E di più mi ricorda ancora
averti sentito dire che andavi si
volentieri, quando ci venivano ambasciadori,
a udirli fare V orazioni, essendo in
qoe' tempi usanza che parlassino la
prima volta pubblicamente. Di che sopra
modo ti dilettavi, si per la dif-
ferenzia che tu senlivi tra le lingue
loro e la nostra, e si per
udire la maniera de le risposte che
si facevano o per il Gonfaloniere che
fu un tempo Piero Sederini, o per
il segre- tario de la Signoria, che
era messer Marcello Virgilio, uo- mo non
meno elegante e facondo ne la nostra
lingua che ne la latina, e non
manco bel parlatore che si fosse Pier
Soderini. Sovviemmi oltre a questo, che
vivendo Ruberto Ac- cia joli e Luigi
Guicciardini, andavi spesso a starti con
loro, dii;endo che, oltra i dotti
ragionamenti, essendo e T uno e r
altro litteratissimi, ti pigliavi si gran
piacere de lo udir- gli favellare,
parendoti che e' si fusse cosi ben
conservata in loro la grandezza e la
bellezza di questa lingua. De la qual
cosa lodi ancor oggi Jacopo Nardi per
le lettere che e' ti scrive ; e
messer Francesco Vinta, agente ora de
lo illustrissi- mo ed eccellentissimo Duca
nostro appresso la eccellenzia del signor
don Ferrante Gonzaga, parendoti (secondo
che tu affermi) che egli, ancora che
Volterrano, scriva in quella pura e
sincera lingua fiorentina
che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, Gello mìo caro, per parermi tutte,
contrariea quanto oggi ti ho visto
fare, mi inducono a maravigliarmi si
grandemente di questa tua mutazione, che,
se non eh' io considero che tu
sei uomo, cioè variabile e mutabile
come è la natura di tutti, io
non saprei quello che avessi a dirmi
di te, se non (parlandoti piacevolmente
e liberamente, come noi sogliam fare insieme)
che tu medesimo non sai ancora quello
che tu ti voglia. Gelli. Messer
Cosimo mio carissimo, voi mi siete
venuto a dosso improvisamente col principio
d' una orazione tanto consideraia e
cosi bene affortificata da tante praoTe,
ehe io non 80 qoasi donde avenni
a pigliare il Inogo o la via da
poter rispondere. Tattavotta, concedendoTÌ quello
che è da concedere, cioè che io
sono umuo, la natora de' quali non
è fidamente yariabile e matahile, come
yoi diceste, ma e tanto sottoposta e
atta ad errare, come voi forse
voleste dire e per modestia non lo
diceste, che, si come canta la santa
Chiesa, ogni nomo è mendace e pieno
di errori ; e negandovi, per Topposito, ciò
che è da negare, cioè che tale
malamente sia nato in me dal
non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi
rispondo, per isgannarvi, che se mai
approvai per vero quel detto che
Umvìo dMe mnUar proposito^ lo approvo ora
e tengo verissimo; poiché, eletto io
ancora lo anno passato (come voi dite)
a dare regola a questa lingua, co-
minciai a considerare la cosa miAio più
diligentemente che io non aveva fotte
sino a qnell' era. Bartoli. Egli
è il vero che questo detto è
molto spesso in bocca a quegli uomini
che pare che abbino qualche qua- lità
più de gli altrL Nientedimanco,
se e' si considera bene il significato
di questo nome Sapiente, non pare a
me che e' si debbia cosi approvare
questo motte come tu di'. Perchè, non
volendo dire altro lo esser savio, che
le avere una vera scienzia e
certissima cognizione de le cose, a
chi è savio, perchè egli ha di
già conosciate il vero essere di
quelle, non accade mutar proposito. Perchè
il mutarsi conviene so-lamente a colui che
senza aver conosciuto 0 vero, rùsolutosi
troppo tosto, vede poi finalmente, o
per sé e per T altrui ammaestramento, di
avere errato; e non volendo mantenersi
nel preso errore, è costretto a mutar
proposito. OeìU. Voi dite il vero.
Ma il conoscere perfettamente la verità
de le cose non è si agevole,
come voi forse vi imaginate:
anzi, per il contrario, è tanto difficfle,
che alcuni filo- sofi usaron dire che
di ciò che dicevan gli uomini non
era vera cosa alcuna ; ma che
quello che e' chiamavano vero, era
quel che pareva loro. De la quale
opinione non è però da curarsi molto;
si perchè e' si leverebbon via tutte
le scienzie ; e si ancora per
averla e dottamente e argutamente riprovata
e annullata Aristotile col dire che
non essendo vera cosa alcuna, veniva
ancora similmente a non esser vero
qael che dicevano eglino. Sì che, se
bene si paò chiamare solamente savio
chi conosce le cose secondo il vero
esser loro, e' non è però
inconveniente che a questi tali ancora bisogni
a le
volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità,
per la occasione almanco de' tempi: i
quali continovamente vanno si variando
tutte le cose, che assai manifestamente
si vede esser tal volta bene il
fare uno effetto in un tempo, che
in un altro non è ben farlo.
Benché questa non è propriamente la
causa per la quale io ho mutato
proposito ; ma solamente lo aver
considerata la cosa molto più che io
non. ave va prima, e lo averla
discorsa fra me medesimo molto più
diligentemente che in sino al- lora.
Bariolù E con quali ragioni ?Perché
io so molto bene che il discorrere
non è altro che una esamina che
fa sopra le cose quella nostra parte
superiore, da ia quale noi acqui- stiamo
il nome di animali ragionevoli,
considerando non meno ciò che fa per
una parte, che tutto quel eh'
appartiene a V altra. GeUù Le
ragioni e le diflicultà che non solo
mi hanno fatto levar via V animo
daquesta impresa, ma ancora giudicarla quasi
impossìbile, sono e molte e molto
potenti; e quanto più vi pensava
intorno, più mi se ne offerivano sem-
pre a la mente de l’altre nuove. Di
maniera che io posso dire, che e' sia
avvenuto propriamente a me in questa
cosa, come avviene a chi vede da
lontano una torre o altra cosa
simile; che quanto egli la riguarda
più di discosto, tanto gli pare minore
e più bassa; e dipoi, appressandosele,
quanto più la guarda da presso, tanto
gli apparisce continovamente maggiore e più
alta. Cosi ancora io, mentre che io
stava lontano al mettere in atto
questa formazione de le regole, me la
imaginava piccola cosa ; ma quando poi
tentammo porla ad effetto, quanto più
la considerai, tanto più mi parve
difficile. Imperocché, dovendo principalmente
esser questa opera d'una Accademia
Fiorentina, mi si appresentava subito a l'
animo, che e' bisognava che ella
fusse con tanta arte e con tal
dottrina, che gli uomini non avessino
a dispreizarla. e ridendosi di noi
e di quella, dire con Orazio in
nostra ver- gogna: Parturient tnontes;
nascetur ridieuhu mtu. Sovveniyami dipoi,
che questo nome di Accademia era per
generare ne gli animi de le persone
una espettazione tanto grande, che e'
sarebbe al tutto impossibile il corrispon-
derle: laonde, ove egli è consueto
non solamente scusare gli errori che
qualche volta si riconoscono ne le
composizioni de' privati, ma difendergli
arditamente, affermando che chiunque opera
merita di esser lodato, in questa
nostra im- presa comune avverrebbe tutto V
opposito. Perchè i forestieri, che ci
vogliono esser maestri, per far vero
il detto del vulgo che t più
dotti manco sanno, si porrebbono con
ogni industria a cercar di attaccar
lo uncino ; e gli errori, ancora
che minimi, chiamerebbono sempre gravissimi.
E il farla in ogni sua parte
con tanta considerazione, che alcune cose
non potessino esser chiamate da molti
errori, credo che sia al tutto
impossibile. Bartoli, O questo perchè?
Getti. Pela diversità de' nomi e
de le pronunzie che si traevano per
le città di Toscana ; ciascuna de
le quali pregiando più le sue cose
che quelle d'altri, stimerebbe e ter- rebbe
errore quello che in Firenze sarebbe
regola. Ma per meglio esplicarvi ancora
questo capo, mi bisogna comin- ciarmi da
un altro principio. Ditemi chi fa l'
una l'
altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole?
Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo
quelle innanzi che queste; e non
essendo fondate queste m altro, né
avendo altra pruova che le confermi,
se non r autorità di esse lingue?
GeUL E da questo, essendo egli
come egli è vero, nasce che e'
non si può far regola alcuna che
sia veramente rego- la non solo a la
lingua toscana, ma ancora a la
fiorentina: e uditene la ragione. Tutte
le lingue del mondo sono, come voi
vi sapete, o variabili o invariabili.
Le invariabili sono quelle che non si
mutarono mai, per tempo o cagione
alcuna, ma da quel di che elle
ebbero principio, insino a che elle furono al mondo, sì favellarono
sempre in qoel me- desimo modo: come
è quella che gl’Ebrei stessi chiamano
sacra, cioè quella de la Bibbia, la
quale dal suo nascimento sino al di
d' oggi si è conservata sempre la
medesima ap- punto. E se bene Esdra,
loro sacerdote, dopo la servitù ba- bilonica
vi aggiunse punti ed accenti per
farla più agevole a leggere, non mutò
egli per questo né lo idioma né
la pro- nunzia; laonde la medessima lingua
favellano ogfl^i tutti gli Ebrei, in
qualunche parte del mondo e' si truovino,
che fa- vellarono i loro scrittori, e
particularmente Mosè, il quale è il
più antico che elli abbino. La qual
cosa è veramente maravigliosa : perché,
non si mutando quasi le lingue per
altro che per mescolarsi que'cbe le
parlano con genti d'al- tro idioma, quale
è quella che dovesse essere più
alterata e più variata che la ebrea?
Gonciossiachè i Giudei, dopo la cacciata
loro di Jerusalem, sono già MGGGG
anni, senza regno, senza patria e
senza luogo dove fermarsi, sieno andati
continovamente errando sino agli estremi
fini della terra, e mescolandosi, a guisa
di peregrini, con tutte le generazio- ni
che il sol vede sotto il suo
cielo. E nientedimanco quella lor lingua
é per tutto quella medesima. Bartolù
Ger lamento che ella è cosa fuori di
natura, e che non può attribuirsi se
non a Dio. Il quale, avendo dato
la legge in quella, e fattovi
scrivere tutte le cose sacre e
divine, ha voluto, per indubitata
testimonianza de la santis- sima fede
nostra, che ella duri incorrotta sempre.
GeUi, Di queste dunque si fatte
lingue non occorre che noi parliamo,
essendo manifestissimo a ciascheduno, che
elle possono agevolmente ridursi a regole,
o pigliandole da gli scrittori o
prendendole pure da l’uso, perchè è
tutt' uno. Ma le lingue che io
chiamai variabili non si favellano sem- pre
in un modo; anzi vanno variando e
mutandosi di tempo in tempo, quando
in peggii^ e quando in meglio,
secondo gli accidenti che accaggiono in
quelle provincie a chi elle sono e
private e proprie, é secondo che
e'vi vengono ad abitare genti d' un'
altra lingua: come avvenne, verbigrazia, in
Italia, ne la venuta dei Gotti e
Vandali, a la lingua lati- na. E
queste tali, od elle sono morte, cioè
mancate, e non si hagionambnto intorno
alla lingoa; parlano più in laogo
alcuno, ma si truovono solamente su pe'
libri de gli scrittori; od elle sono
vive, e si parlano an- cora e usano in
qualche paese, come è, verbigrazia, a
Firenze la lingua nostra. Di queste
ultime due maniere tengo io per cosa
certa che le morte si possine
agevolmente mettere in regola; ma de
le vive, che e' non sia solamente
difiQcile il farvi regola alcuna perfetta
e vera, ma che e' sia quasi al
tutto impossibile. Bartoli. £ per che
cagione? Gellù Dirowelo. Né voi né
altro mai di sano intelletto mi
negherà che, avendo a farsi regole d'
una lingua, e' non si deU)a pigliarle
da lei, quando ella fu favellata
meglio che in alcuno altro tempo;
essendo cosa pur ragionevole, quando si
hanno a pigliare per regola le
operazioni d'una cosa, pigliarlequando ella
opera meglio; il che le avviene quando
ella è nel suo perfetto essere. E
chi sarebbe mai quello, se non forse
qualche stolto, che avendo a pigliare
per esemplo le operazioni d' un uomo,
pigliasse quelle che e' fa ne la puerizia,
quando i sensi suoi interiori, per
essere di troppa umidità ripieni quelli
organi ne' quali e' fanno lo ufizio
loro, non potendo porgere a lo
intelletto la facultà che a perfettamente
operare gli è necessaria, non ha esso
uomo libero l’uso de la ragione, e
vive più tosto secondo la natu- ra,
che secondo la mente sua? o veramente
le azioni che egli fa in quella
parte de la vecchiezza, ne la quale
i sangui, per il mancamento del caldo
e de V umido naturali, raffred- dati
e diseccati più del dovere, non
somministrano a' medesimi sensi gli spiriti
atti ed accomodati a le loro operazioni?
Ninno certamente, mi penso ; ma sì
bene quelle che egli fa ne la
sua età migliore: la quale indubitatamente
sarà nel mezzo e nel colmo de
la sua vita; come poeticamente lo
mostra il divinissimo nostro Dante, dicendo
essersi accorto, che la vita nostra
era una oscurissima selva di
ignoranzia : Nel mezzo del cammin
di nostra vita ec. Bartoli. Bella
certo e dottissima considerazione. Ma sta
saldo, Gello; e prima che tu proceda
più oltre, dimmi: come si potrà egli
trovar già mai, parlando, come e' pare
che la faccia, propriamente ed
esattamente, questo colmo de la vita
e questo essere più perfetto, ne le
cose generabili e corruttìbili? Le quali si
come misurate dal tempo, essendo sempre
in moto continolo, non vengono a
stare già mai in uno stato medesimo,
se non in uno instante si
indivisibile, che e' non è possibil segnarlo
in maniera alcuna: per il che viene
a essere- più che impossibile, che e'
vi si troovi dentro fer- mezza. Gellù
Confesso io ancora che questo è vero
, se voi intendete per la fermezza il
mancare^d' ogni moto. Ma questo non è
quello che io voglio inferire. Anzi
dico, che in tutte le cose le
quali dopo il principio loro salgono
al sommo e sapremo grado de la
loro perfezione, conviene di necessità
concedere, avanti che elle comincino a
scenderne, un certo spazio di tempo ;
nel quale elle non salghino e non
ìscendi-no, ma stiano, in quanto ad essa
perfezione, quasi che ferme, e in uno
stato medesimo: essendo di necessità che
in fra due moti contrari si truovi
sempre un po' di quiete; perchè altrimenti,
o non finirebbe mai l'uno, o non
comincerebbe mai l'altro moto. E questo
lo potete voi chiaramente cono- scere in
un sasso tratto a lo in su; il
quale, poi che con la sua gravitade
ha superato la forza di quella aria
che, fessa violentemente dal braccio di
chi lo trasse, correndo con grandissima
celerità a richiudersi perchè quel luogo
non restì vóto, continovamente lo pigne
in su, se egli non si fermasse
alquanto, non tornerebbe mai a lo in
giù. Goncios- siachè, non si fermando,
egli anderebbe sempre a lo in su;
e andare in su e tornare in giù
in un tempo medesimo (rispetto a la
natura de' contrari, che non patisce
che eglino stiano insieme in un
medesimo tempo, in un subietto medesimo)
non è possibile. Adunque egli è
necessario in tutte le cose che dopo
il principio loro hanno accrescimento e
dicresci- mento di perfezione , che e'
si ritraevi tra V uno e l'
altro nn certo spazio di tempo, nel
quale elle restino di acqui- starne
più, e non comincino ancora a pèrderne:
il qual tempo è chiamato da' filosofi
lo stato, ed è cosa osservata molto
da' medici ne le infermità umane. Ma
se voi volete vedere ancor meglio
questo che io dico, leggete quella
parte del Convivio del nostro Dante,
dove e' tratta de la etÀ del’acino,
e resteretene capacissimo. Bartolù Orsù,
sta bene: ma che vnoi ta dire
per questo? GeUi, Yo'dire, tornando
al nostro proposito, che non si
potendo sapere ne le lingue vive
quando sia questo loro stato e questo
colmo de la loro perfezione, egli non
si può ancora conseguentemente farne regole
perfette e intere. Perchè, se bene
e' si può sapere mediante gli scrittori
di quelle quando meglio che mai elle
si siano favellate per il passato ,
nessuno è però che si possa
promettere per il futu- ro, che insino
a che elle non mancano, elle non
si possino favellar meglio, e cosi
che e' non possino surgere' ancora alcuni
scrittori che le scrivine molto meglio.
Come potete voi mai sapere quale sia
il mezzo o lo stato d' una cosa,
de la quale, se bene voi avete
il principio noto, voi non potete
però non solamente sapere quando abbia
ad essere il fine suo determinatamente,
ma né anco imaginarvelo per con-
ìetture ; come forse la vita e
de V uomo e di molte altre
cose, le quali quando sono arrivate a
la lor vecchiezza, agevolmente si può farne
la coniettura quando abbia a essere
la morte loro; non essendo però di
quelle, a chi è concesso da la
natura il rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe e
le pianle la primavera. Ma le lingue
non sono di queste. Resta dunque, non
si potendo saper lo stato de le
lingue che vivono, che e' non se
ne possa ancora formar regola alcuna
ferma e vera: il che non avviene
de le già morte, come ne avete
lo esemplo chiaro ne la latina. Ne
la quale considerando i gramatici cbe
ne hanno scritto quale fusse stato il
processo suo, e giudican- do, come è
il vero, il colmo di quella essere
stato ne la età di Cesare, Cicerone
e Virgilio ; perchè ne' tempi di
Ennio e di Plauto si vede che
ella era ne lo augumento, e in
quegli poi di Svetonio e di Tacito,
nel discrescimento, fondarono tutte le
regole loro sopra il parlare di
Cesare, Cicerone e Virgilio, affermando che
ciò che si dicesse per lo avvenire
ne la maniera de' sopra detti, sempre
sarebbe detto bene e lati- namente, e
massime secondo Cesare e Cicerone ;
per esser lecito e conceduto a' poeti
lo usare spesso molte cose ne' versi
loro, che non si comportano ne la
prosa. Ma questo non si può
fare ne la lingua fiorentina, e molto
manco ne la toscana, che vivono ancora, e
non hanno scrittori da fondarvi lo intento
sno, non si sapendo se elle sono
ancor per- venute al colmo de V arco.
Bartoli, E se questo non si può
fare per via de gli scritti, chi
vieta che e' non si faccia almanco
per via de lo uso? GeUi. E
di quale uso? Oh questa è l' altra
difficultà, e non punto minore de la precedente.
Bartoli. E perchè? GeUi. Perchè
ne' tempi nostri non avviene di
questa lìngua quello che ne' tempi
de' Romani avveniva de la la- tina;
che essendo propria d'una nazione che
dominava allora ad una grandissima parte
di questo mondo, era tanto stimata e
onorata da ciascuno de' soggetti loro,
e in Italia massimamente, che e' non
si trovava nohile alcuno e da farne
stima, per qual si voglia città, il
quale non si ingegnasse di parlar la
lingua romana. SI perchè chi non
sapeva era da essi chiamato barbaro,
cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora per ì
bisogni che occorrevano giornalmente ne le
faccende é private e publiche; avendo
comandato i Romàni in tutte le loro
Provincie, che e' non si potesse
agitare causa alcuna criminale o civile,
né far procèsso od ìnstrumento alcuno,
se non in lingua latina. Ad
imitazione de' quali, per quanto io
n'ho inteso dire da Amerigo Benci,
che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia,
e come voi vi sapete, oltra le
pratiche mercantili ha qualche cognizione
ancora de le speculative, ordinò il
padre di questo re, che e' si facesse
cosi in franzese per tutto il dominio
suo: il che osservatosi fino ad ora,
ha tanto migliorata e fatta più bella
e ricca quella lingua, che è una maraviglia a chi
lo considera. £ il re che vive,
Arrigo II, imitando le vestìgio del padre,
oltra il fare osservare quello ordine,
fa ancora e carezze e cortesie
grandissime a chi traduce in essa, 0
fa opera di arricchirla e farla
perfetta. Bartoli. Bella impresa e
degna veramente d'un principe, amare e
onorare la sua lingua: atteso massimamente
che nessuna può sormontare e venire
in riputazione senza il favor del
principe suo. Non sarebbe dunque
stato diflScile a ehi avesse voluto
mettere in regola la lingua latina in
que' tempi ehe ella era yiva, poi
che gli bastava osservare solamente Io
uso e il modo che tenevano i
cittadini romani : p^chè non era in
que' tempi ehi ardisse pre^rre la sua
lingua a qoeUa, e non confessare che
la vera pronunzia e il vero modo
del favellare era quello de' Romani,
altrimenti detto latino. Ma non può
questo avvenire a noi de la nostra,
essendo in To- scana tanti
principati e tanti signori; li stati de'
quali, se non in tutto, hanno pure
in parte ciascuno, come io dissi in
quella mia traduzione a lo illustrissimo
e reverendissimo Cardinale di Ferrara,
qualche favella e pronunzia propria, varia
e diversa da tutte le altre, e
parendo a ciascuno che la sua sia
meglio. Perchè noi non ci abbiamo
imperio alcuno cosi grande, che e'
muova (come i Romani) le città sottopo-
steli a cercare spontaneamente di favellare
e onorare quella lingua che favella
chi le comanda. Gonciossiachè, quando ben
la Toscana tutta fusse comandata da
un signor solo, lo imperio suo, per
avere ì confini si presso, non
sarebbe mai di tanta grandezza, che
e' fusse oiiorato e temuto quanto era
allora quel de' Romani. Imperocché i
suggetti a loro, essendo privi d' ogni
speranza di scir mai di tale servitù,
non aveado principe aieuno a lo
intorno dove ricorrere quando e' pensassero
di ribellarsi, erano necessitati, se non
per amore, almeno per timore, a far
ciò che piaceva à' Romani. Bar Ioli. Io
cedo, e confesso, quanto a la
grandezza e forza romana, che egli è
vero tutto quel che tu di'. Niente
dìmanco, e' si vede pur manifestamente
ne' tempi nostri, che molte persone
di quakhe spirito, i»8i fuor d' Italia
come in Italia, s' ingegnano con molto
situdio di apprendere e di favellare
questa nostra lingua non per altro
che per amore. GelU. Egli è
vero che quello che ne la età
de' Romani faceva la forza, lo fa
oggi la bontà e la bellezza di
questa lingua. Ma perchè coloro che
la desiderano e cercano per loro
stessi come cosa buona, la appetiscono
edamano in quella * Intende la
tradniione dell' operetta di Simone Porzio
del modo di orare cristianamente. Qui
parla di cose dette nella lettera
dedicatoria.maniera che si desidera ed ama
il bene, ella è ancora dipoi
seguitata e adoperala come esso bene,
cioè da ì meno, e non da i
più. Ma datò che e' fosse il
vero che ognuno cer- casse di favellare
in lingua toscana, e desiderasse che
e' se ne facessi regole, donde si
arebbe poi a cavarle, non ci essendo
ciltade alcuna che signoreggi tutta
Toscana? Perchè i Luc- chesi, i Pisani,
i Sanesi, gli Aretini, e qualunque altra
città di questa provìncia, direbbe sempre
che la vera lingua e pronunzia losca
fusse veramente la sua; e il cavare
una parte di esse regole da una
città e V altra da un' altra, sce-
gliendo, come dicono alcuni, il meglio, per
fare un composito di tutte quante,
sarebbe cosa molto difiScile, e poi
forse anche non approvata e non
osservata, non ci essendo chi la
comandi. Bartoli. Oh, io non penso
però che il luogo donde cavare le
regime abbia molta difBcultà; non essendo
se non raris- simi que' che volendo
imparar la lìngua piglino altri autori
che Dante, il Petrarca e '1 Boccaccio
; i quali essendo pure tutti e
tre di Firenze, mostrano assai
manifestamente donde sì debba imparar la
lingua. Non ostante che alcuni, poco
amici per avventura del n<Mne nostro,
hanno voluto privarci del Petrarca e
del Boccaccio, facendo questo ultimo da
Certaldo e quello altro Aretino, senza
avertire che ser Pe- tracco padre di
messer Francesco, come cittadino che egli
era, ebbe per moglie una de'Ganigiani,
e luogo tempo fu cancelliere alle
Riformagioni ; e che il Petrarca stesso
dice di sé medesimo: SMo fossi
stato fermo a la spelonca Là dove
Apollo diventò profeta, Fiorenza avria
forse oggi il suo poeta; e che
Matteo Villani dice ne la Cronica che
e' seguitò dopo Giovanni suo fratello
: « Questo anno furono coronati poeti
due nostri cittadini fiorentini; messer
Francesco di Petracco, vecchio; e Zanobi
da Strata, giovane. E che il
Boccaccio, nel suo libro de' Fiumi, quando
e' ragiona de l'Elsa, dice: et quum
oppida plura hinc inde ìabens videai,
a dexlro, modico elatum tumulo, Certaldum,
vetus msiellum, Unquii: cujus ego
libens memorùiffi celebro, sedes qtUppe et
natole solum nu^o- rum meorum futi,
anUquam illos susciperet FloretUia eives.
GelH, Egli è vero che, non si
stimando qaanto a la lin- gna, altri
scrittori che questi fiorentini, rispetto
(credo io) al non si esser trovato
mai in queste altre favelle, non
sola- meate ehi gli pareggi, ma nò
par chi si appressi loro, e' pare
certamente da confessare che la lingua
fiorentina tenga il principato ne la
Toscana ; nìentedimanco. BartolL Sta fermo,
Gello, e non dir cosi; che noi
ci recheremo a dosso una invidia
troppo grande. Perchè e' non si può
nò debBè negare che ne' tempi nostri
medesimi non ci siano stati de'
forestier, * e fuor di Toscana, che
abbino scritto in questo idioma si
eccellentemente, che e' ne sono stati
lodati.. Geìlu Si, ma se voi
avvertite bene, vedrete che i più
celebrati fra questi tali sono selamenle
quegli stessi che hanno saputo più e
meglio imitare gli scrittor fiorentini ;
e non son però stati molti : e
di questi ne avete alcuno, che per
aver si bene imitato ed espresso i
concetti altrui con gli stessi modi e
parole de gli autori, que' dotti de L’Orto, pigliando
la metafora da quegli scultori che
attendono più a improntar V altrui
che a sculpire di loro artifizio,
usavano di dir tra loro: costui ha
formato. Ma voi ci avete ancora un'
altra cosa, che dimostra meglio
epiù chiaramente quel che voi dite:
che tutti o la maggior parte de'
forestieri con- fessano e acconsentono
tacitamente, che la lingua che e'
cer- cano e tengon buona ò solamenle
la Fiorentina; io intendo di quella
che favellano i nobili e veri
cittadini fiorentini che hanno qualche cognizione
o di lingue o di scienzie ; e
non di quella che usano i plebei,
e gli uomini che hanno cognizione di
poche altre cose che di quelle che
si conven- gono loro come animali. Perchò,
non vi crediate però che la plebe
di Roma, quando fiori la lingua
latina, favellasse con quella leggiadria
che facevano e Cesare e Cicerone.
Bartolù Certamente no ; anzi si
legge di Cicerone, che i Romani
stessi lo ammiravano, maravigliandosi grandemente
* H monicipalismo a que' tempi
faceva non conoscere che non son
forestieri fra loro quelli che abitano
il paese fra le Alpi e il
lilibeo. SOtt de la 8oa
eloquenzia. Ma quale è questa cosa
che ta volevi dire? GeììL II non
si esser trovato ancora scrittore alcuno
di Toscana, che abbia avuto ardimento
a dire di avere scritto ne la
sua lingua propria, come dissero Dante
e il Boccaccio, r uno nel Convivio,
e V altro nel Decamerone, e come
fanno ancor oggi molti Fiorentini. Di
maniera che e' non si truova opera
alcuna, che si dica scritta in lingua
Pisana, Sanese, Lucchese, Aretina, o di
qual si voglia altro luogo toscano: e
pure hanno avute queste città scrittori
di non piccola fama. Laonde non può
avvenir questo per altro, se non
perchè questi tali conoscono molto bene
la lor lingua naturale non esser
quella che si stima oggi e pregia
cotanto. E se bene essi hanno ancora
imitato gli scrittor nostri, quanto è
loro stato possibile, e' npn V hanno
però voluto confessare aper- tamente e
liberamente, giudicando, per avventura, che
ciò non fusse molto onor loro. Anzi,
perchè se e' l'avessero chiamata Fiorentina, e'
non sarebbe parato loro avervi parte
alcuna o pochissima , e' l' hanno chiamata
Toscana o vulgare; volendo, col chiamarla
cosi, dare a intendere a le persone,
che ella si parli vulgarmente per
tutta la Toscana. Il che si vede
che non è vero. E altri dipoi
non Toscani, per avervi ancor eglino parte, l’hanno
chiamata italiana. Bartolù Sta fermo.
Cello, che Dante ancora egli fu di
opinione che ella si dovesse chiamare
Italiana, in quel li- bretto suo De
vulgari eloquerUia, se io mi ricordo
bene. Gellù Ehi messer Cosimo, non
vi ho io detto più volte che
cotesto libro non può essor di Dante,
ma che e' conviene che qualcun altro
l'abbia finto, sotto il colore di
quella promessa che ne la Dante nel
suo Convivio? Il che non può veramente
esser nato da altro, che da lo
avere troppo arden- temente desiderato chi
ne fu lo autore, che V onor de
la lingua fusse generalmente comune di
tutta la Italia , e non particulare di
Firenze solo. Ma se voi forse non
ve ne ricor- date, avvertite che
que'litterati de l'Orto de'Rucellaì,dispuT tando,
ne la venuta di Papa Leone, col
Trissino (perchè egli fu che ci
condusse la prima volta questa opera}
sopra lo essere o non esser ella
di Dante, gli facevano centra MifiioMAMBaro
irtouio alla limooa* quella, non
variati né alterati in maniera akona,
come omo, Urrà, mare e simili ;
e ana grandissima quantità di quegli altri
dove si varia scrfo una lettera, come
leggo e aequa, che a' Latini son
lego e aqua, GeUL Questa fo,
come dite voi, nua esposixione assai
stravagante, e da uomini che, desiderando
introdurre cose nuove, volsero mostrare che
ciò fusse fatto con qualche motivo
ragionevole. Ma non è già venuta di
qui la diversità della pronunzia, la
quale molto prima si variò, che e'
venisse a campo si stran precetto.
BarioU. E donde venne dunque la
orìgine? GeUi, Dicono alcuni diligentissimi
osservatori de le cose di questa
lingua, e io lo confermo con esso
loro, che in alcune città e luoghi
particolari di Toscana, per naturale proprietà
si costuma di mettere Vo in quelle
parole ne le quali in Firenze si
mette l' u; di maniera che, dove noi
di- ciamo suslanza, singutare, particulare,
speculare e specular- tivo, quivi si dice
sostanza, singolare, parlicolare, speco- lare
e specoUUivo: e cosi ancora di
mettere Ve dove noi altri mettiamo V
i, costumandosi ordinariamente dire in Firenze,
principe e UUerato; e quivi prendpe e
letterato: la quale pronunzia arreca a
gli orecchi de' Fiorentini un suono cosi
sgarbato e tanto spiacevole, che e'
non si traeva tra noi chi l' usi,
se non alcuni, e ben pochi, che
per proprio comodo loro seguitano la
pronunzia così fatta ; non si curando
non solamente di dare od accomunare ad
altrui quello che era solamente de'
Fiorentini, ma di adulterare e imbastardire
una lingua mantenutasi pura e schietta
sino a' di nostri, e solamente bella
e leggiadra, quando manco vi si
accompagna voci o pronunzie di forestieri.
Bartolù Certamente che questa, né a'
tempi nostri né a quegli de li
antichi, per quanto se ne vegga da
le scritture, non fu mai pronunzia
fiorentina. £ chi non lo crede,
avvertisca e osservi bene, come coloro
che fecero stampare
in Firenze quel Cento novelle, avuto
poi univer- salmente in tanta reputazione e
tanto pregiato, essendo tutti cittadini
fiorentini nobili e veri, e avendo
cotanti testi antichi e buoni, e tra
gli altri uno che é oggi in
guardaroba di Sua Eccellenza, scritto,
vivendo ancora il Boccaccio, da uno de'
'Mannelli, e non solamente copiato da lo
originale de lo anlore, ma riveduto
ancora e corretto da lui medesimo; avyertisca,
dico, e osservi, come sempre dissero
principe^ liUerato, iustanzia e partieulare,
come ordinariamente si dice in Firenze.
Getti, Ritrovandosi, adunque, in Padova
alcun di questi tali nel principio
deHa Accademia de gli Infiammati, dove
non era per buona sorte alcuno
veramente Fiorentino (che e' non sarebbe
forse seguito questo disordine); e mettendo
in uso col favellare e con lo scrivere
questa lor naturai pronunzia, scoperta però
primieramente fra gli Intronati; i Lombardi
e i Yeniziani, che cercavano di
pronunziare toscanamente, credendosi che quella
fusse la vera, cominciarono non solo a
celebrarla, ma ad usarla, ed a
trasferirla ne le loro stampe. A la
qual cosa si aggiunse presto che
alcuni altri non Toscani, per ispogliare
la Toscana di questa gloria, cominciarono
a mescolare in essa molte parole, le
quali, al giudizio mio, né si
favellarono nò si scrissero mai in
Toscana; e oltre a questo, cercarono
ancora dì mutarle nome. £ perchò se
ella si dicesse lingua Tosca, essi che
erano forestieri non ci avevano parte
alcuna, cominciarono a chiamarla chi, come
il Trissino, Cortigiana, e chi Itala o
Italiana, come il reverendissimo Sadoleto;
persona dottissima veramente e eloquentìssima, ma
appartata e in tutto aliena
da questa professione. E di costoro non
voglio io veramente dir cosa alcuna; ma
solo che io mi maraviglio oltre a
modo di alcuni Toscani, che avendo
molto più rispetto al comodo proprio,
che a la verità, per la servitù
forse che e' tengono con alcuni di
questi tal,sono concorsi a chiamarla
Italiana essi ancora l non si curando
di vendere per si vii pregio l'onore
e la gloria propria; e non avendo
avvertenza che
i Genovesi, i Milanesi, que' del Lago Maggiore, i
Bergamaschi, una gran parte de' Romagnuoli,
i Marchigiani, i Norcini, gli Abbruzzesi,
i Pugliesi, i Calabresi e altri infi-
niti popoli de la Italia, fanno fede
manifestissima a chiunque favella loro, che
a gran torto ò posto nome a la
lìngua nostra Italiana. E come
potette più in cotesti tem|M (lasciando
or le querele da banda) V antorità
di cotestoro, che ifoella de' Fiorentini,
se il principio de la lingua e
il fonie è in Firenze, e fondato
in sa gli scrittori fiorentini? GtXtL
I Fiorentini, attendendo in cotesti tempi
quasi tutti a la mercanzia, a la
quale sempre è stata molto inclinata la
città nostra, e forse |mù per bisogno
che per natura, rispetto a la
magrezza del paese ; non davano opera
alcuna, se non pochissimi, a la lingua
latina, e molto meno a la greca
; e cosi non venivano a considerare
la propria » e a riconoscer l'arte
e lo studio che avevano usato in
essa Dante, il Petrarca e il
Boccaccio: anzi, quando leggevano questi
autori, attendevano pio le istorie, che
altra cosa. Di maniera che, se vi
ricorda bene, crono molto più stimati
allora i Trionfi del Petrarca, che le
Canzoni e Sonetti suoi. Ma In alcune
altre città toscane, dove per la
fertilità e grassezza del lor paese
non è il guadagno si necessario,
attendendo que' cittadini a gli studj
de le buone lettere, cominciarono a
considerare molto (Nrima di noi ne'
nostri scrittori la bel- lezza di questa
lingua, e ad osservare ne lo scriverla
quelle terminazioni e quelle concordanzie
de' singolari e de' plura- li che
que' nostri avevano usate. Bene è
vero che per la lor favella natia
pronunziando non come noi, e mescolandoci
ancora qualche parola de le loro, ce
l'hanno condotta a r essere che voi
medesimo vi
vedete. Lo avere adunque i nostri atteso a la mercatura
e non a le lettere , e la moltitudine
de' travagli che sempre ci sono stati,
fecero per lungo tempo restare in
dietro e quasi che perdersi interamente
gii avvertimenti e l'arte usata da' tre sopra
detti ne la nostra lingua; e i
primi che cominciassero in Firenze a
riosservargli, e ne la fovella e ne
la scrittura, furono quegli stessi
litterati che usavano a l'
Orto de' Rncellai. E ricordami che e'
non potevano restare di maravigliarsi di
alcuni litte- rati poco avanti la loro
età, che avevano composto in versi e
in prosa di questa lingua senza
alcuna osservazione; parendo loro impossibile
che, avendo pur veduti gli scritti di
que' tre famosi, e' non avessero
aperti gli occhi a le loro
osservazioni, e non si fossero accorti
in quanta corruzione fosse incorsa
la beHìssima lingua che noi inrliamo.
Da co- storo avvertiti Cosimo Rocellaì,
Lnigfi Alamanni, Zanobi Baondelmonti, Francesco
Guidetti e aiconi altri, i qaali»
praticando con esso Cosimo» si trovavmo
spesso a rOrU» con qoe' più vecchi,
c«ninciarono a cavar foori le dette
consi- derazioni, e a metterle tanto in
atto, che la lingua n' è poi
tornata in quel pregio che voi
vtdele. BarloU, Tu di' il vero,
GeUo mio caro; perchè e'mi rioor* da
che da venticinque anni in dietro non
erano versificatori io Firenze, se non
tre o qoattro; a' qnali, senza avere
altri- menti oensiderazione akana di terminazioni
di parole , di concordanzie di numeri,
o d' altra cosa che faccia bello, ba-
stava solamente che e' rimassero e fusser
versi. £ chi lo vuol vedere e
toccar con mano, legga le rappresentazioni
che si facevano in que' tempi: le
quali quando io considero chenti elle
sono, e quanto non solamente poco
verisimili, ma impossibili e mostruose, mi
fanno tenere per di poco giudizio e,
per dirla cosi fra noi, molto goffi
tutti coloro che potevano stare a
udirle ; e mi iinno credere che
se elle si
facessero oggi cosi, i fanciulli, non che altri, uccellerebbono si a la scoperta i
compositori, che e' se ne rimarrebbono
in- teramente per lor medesimi. eretti.
E da che vi pensate die nasca
questo, se non da r essere oggi
in Firenze cosi gran numero di
persone che hanno bonissima cognizione de
la lingua latina e greca? le quali
essendo state necessitale ne lo impararle,
a vedere i veri poeti, hanno assai
chiaramente conosciuto che cosa sia poesia,
e quanto sia verbigrazia, centra i
precetti de Tarte il ridurre tutta la
vita di uno uomo, o pur le
azioni di venticinqoe o trenta anni,
in due o tre ore di tempo
che si consuma nel recitare. E a
cagione che e' non si abbia a
dire de' casi loro quel motto di
Orazio Delfinum silvis appingit, fluctibus
aprum, non hanno solamente lasciali
cotesti errori, ma sbanditili ancora in tuUo
da le loro composizioni, e si sono
ridotti a quello uso buono che
avevano i Latini e i Greci. Olire a
questo, avendo appreso per via di
regole quelle due lingue. 31S
miaoiiAanno ummo aua c4HMM6eiido quante
e quali nano le parti del pariare,
e in cbe modi elle debbino accompagnarsi
, cominciano a favel- lare tanto rettamente
e con tanta leggiadria, che io mi
persuado gagliardamente, la nostra lingua
esser molto Tidna a quel sommo grado
de la perfexione, oltra il quale non
si può salire. BartoU. E se
cori è, die cosi la tengo io
ancora, perehè non si può eDa adunque
mettere in regole, e farla perfetta
alilittoT GM. A le cagioni che
io ve ne ho di già assegnate,
si aggiagne questa altra ancora, che
non è di poco momento: ed è il
non avere in su che fondare e formare
esse regole; eonciossiachè in su gli
scrittori non si può, non avendone
noi alcuno che si possa tenere per
bello e per buono tutte quello che
egli ha usato. Perchè, cominciandoci da
qne' tre primi che sopra gli altri
sono approvati, Bante, oltra lo esser
poeta, ebbe dal secol suo rozzo e
duro molte e molte parole lasciate oggi
in tutto da Y uso. H medesimo
avviene al Boccaccio, nel qoal sono e
modi e parole che, se ben fìiron
belle in quel secolo, l' oso di oggi
non le riceve. E il Petrarca,
se bene ha la sua lingua assai più purgata, per essere (come io dissi in Dante) poeta, per le molte licenzie che a'
poeti son concedute, non è materia conveniente a formarne le regole per la prosa. BarUAL Io non so, Gello mio, come questo sia da concedere; perchè, se bene da que' primi due, rispetto a le licenzie
poetiche, non si posson trar buone regole, il Boccaccio è por tanto bello e tanto pregiato universalmente, ch'io non so perchè tu lo sfugga. GéUU. Il
Boccaccio, per quanto ne dicono questi suoi, si imaginò di usare i tre stili: l’alto, nei
Filocolo; il mediocre, ne la Fiammetta; e il basso, nel Decamerone. Il che se bene gli successe o no, non ci accade ragionarne ora. Basti
che la più approvata de le sue cose è il Cento novelle; opera beila certo e piacevole, ma non da essere in tutto imitate
rispetto ad alcune costruzioni che, per non esser piaciute a Toso, son restate del
tutto in dietro, e ad una infinità di parole che sono oggi aborrite e fuggite da gli scrittori: come, yerbigrazla,
bwma pezxa ìa Intogna, gravenza, abUawBa, niquUoso, avaecio, autorevole, contezza, deliberanza, sezzaio.
M a che
sto io a contarle a toì che ri faceste sopra la tavola
y e le notaste già taile quante?
BartoU. Certamente queste si fatte voci non solamente si usano oggi da molto pochi, ma elle non sono
ancora più
accettate per fiorentine, e pare che elle offendine
altrui r orecchie, se pur si truova
qualcuno che V usi. Getti. Non
si possono adunque le regole toscane
cavare da gli scrittori. Bariolù
Gavinsi le fiorentine (che de V altre
non tocca a noi) da l’uso di
FirenzeGeUù £ questo anche mal si può
fare; dovendosi (come io dissi non
molto avanti) pigliar V uso non
d'ogni tempo, ma de la età dove
la lingua fu nel suo colino. Il che non possiamo saper noi altri,
poi che e la è viva, e va
a T insù ; avvenga che voi
forse, come alcuni forestieri, vi
persuadia- te che ella fusse nel sommo
grado ne la età di que' tre
scrittori. Bartolù Questo no; anzi
tengo per fermo che ella fusse nel
nascimento, e che ella avesse quasi
principio da essi tre, per essere
stati Dante e 1 Petrarca i primi
in questi paesi che cominciassero avere
tanta notizia de la lingua latina più
de gli altri uomini, che e' ne
furono chiamati suscita- tori e ritrovatori;
come apertamente si può vedere nel
pri- vilegio conceduto ad esso Petrarca,
quando publicamente fu coronato nel
CamfMdoglio: e il Petrarca e il
Boccaccio de la greca, de la quale
non si aveva in Italia notizia alcuna
ne la età loro, se non piccola
e defettiva. Laonde bramandola questo ultimo sommamente, condusse a Firenze un Greco, per quanto si legge ne la sua vita, che glie la insegnasse,
e una quantità di libri greci,
lasciati poi da lui stesso dopo la
morte a la libreria del nostro Santo
Spirito. Costoro adunque, mediante la
cognizione di queste lingue, cominciarono a
parhire rettamente e ordinatamente, migliorando
e inalzando tanto il nostro idioma da
quello che egli era, per quanto veder
se ne può in que' che scrissero
avanti a loro, che noi possiamo
liberamente tenere e dire, che il
vero nascimettto e principio di
questa libgtta fa solunente dalor tre:
ma che e' non foron già poi
segniti né imitati ne lo allegarla
secondo i modi posti da loro,
imperoceliè chi venne dopo, non essendo
dato a gli stadj^ noA eomiderò
lecostrocioni e le terminazioni osate da
lèro» e iMcMla di tempo in tempo
cadere in ^ella barbarie die iMd
eenllm- mo non son molti anni. Ma
io dico bene> che poi the g^i
uomini hanno ricomincialo a considerarla,
come fecero qnegli de r Orto, e
ad osare i modi de tre nostri Inmi ella
é tanto migliorata a poco a poco,
che io la tengo oggi nsolto piA
bella universalmente, che eOa non era
ne' tempi loro ; e che se
eglino scrissero cosi bene allora (^il
che fn molto più da impotare a
lo ingegno loro che a 4a bontà
de la Ikigoa), scriverebbero molto meglio
oggi : non essendo necessitati da la
povertà Òe la lingua, che oggi^ è ricchissima^
ad osare quelle parole che più non
piacciono, eqoe' modi ohe son fuggiti
da' nostri orecchi ; di modo c^e
nel volto ancora del Petrarca non si
scorgerebbero q«e' pochi avvegnaché pic^
eolissimi nei, che i ben purgati
giudizj vi riconoscono. GelU. Io
credo che voi giudichiate bene, e che
la cosa stia come voi dite. Ma io voglio
andare un passo più là, e dire,
che essendo ancor vìva la lingua
nostra, e in maggiore speranza di
avere a vivere, che eUa fosse fom
ancor mai, egli non si può affermare
che la nstnra (la quale iton si
stracca e non invecchia mal, anzi, se
bene ella varia talora alquanto, è
por sempre quella medesima) non possa
e non abbia ancora a produrre de
gì' ingegni simili a loro; i qoali,
trovando la nostra lingoa in molto
maggior perfezione che non la trovmrono
i sopradetti, serivino non solamente bene
cernie qoelli, ma forse ancora assai meglio
di loro» Bartolù £ questo similmeiite
mi par di credere, essendosi veduto ne' tempi nostriche in quaiuncàe faciità, e particnlarmente ne
la architettura, pittura -e scoltura, ha
la nostra città generati aiconi che
non solo haano paseggiaU i famosi
antichi, ma forse ancora avanzatili in
^oalohe cosa» GellL Non si poò
donqoe dire dM ella sia ne lo
stato Mio>
veggendosi come di giorno in
gèomo olla va «i soo augomento; e
potendosi agevdmente far conieltara da te cose
che soprareiigoDO, ehe ella abbia ancora
a farsi più ricca e saolto più
beUa. MartoU. E q«ali Mm questo cose Gello?
GeUù Molte e molte sono, messer
Cosimo; e dae sopra tatto l'altre.
L'nna de le quali è la moltitadine
grande di ei^oro che oggi si danno, in
Firenze a la lingna latina e greca;
i quali imparando quelle con regola,
avellano dipoi ancora reg<^tamente la
nostra, e con leggiadria; e da questi
imparando gli altri, mossi da quello
ingenito desiderio ohe ha ciascuno di
non volere, in quello che egli può,
essere in maniera alcuna soprayanzato da i suoi pari,
faranno di mane in mano la lingua
più bella più onorata, si col parlare
e si col tradurre, arrecandoci le scienzie
e V arti che elli imparano ne l'
altre lingue. L'a&tra è il cominciare
i principi e gli uomini grandi e
qualificati a scrivere in questa lingua
le importantissime cose de' governi de gli
Stati, i maneggi de le guerre e
gli altri negozj gravi de le
faccende, che da non molto in dietro
si scrivevano tutti in lingua latina.
Perché, non vi date a intendere ehe
una lingua diventi mai ricca e beila
per i ragionamenti de' plebei e de
le donniciuole, che faveUan sempre
(rispetto a lo avere concetti vilis6imi)di
cose basse: chò e' sono solamente gli
uomini grandi e virtuosi, quelli ehe
inalzano e fanno grandi le lingue;
imperocché, avendo sempre concetti nobili e
alti, e trattando e maneggiando coae
di gran momento, e ragionando bene spesso
e discorrendo sopra quelle in prò e
in contro, persuadendo o dissuadendo,
accusando o lodando, e talvolta ancora
ammo- nendo e insegnando, fanno le lingue
loro copiose, onorate, ricche e leggiadre.
Per queste due cose adunque, ancora
che altre cagioni non ci fossero, si
può giustamente sperare ^M la nostra
lingua abbia a essere ancora un
giorno tanto pregiata appresso molti che
nasceranno, quanto sono oggi appresso di
noi e la greca e la latina. £
conseguentemente concludo, che non essendo
ella ancor pervenuta a lo stato suo,
non se ne possa far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de
giovanetti, se bene
gli soniigliono interamente quando e' son fatti y
non vi corre però gran tempo che,
cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia
la effigie, che non lo somiglia più, né
apparisce più qnel medesimo. BartolL
Orsù, pongbiamo per le tante cose
allegate da te, cbe a r Accademia non
si convenga il fare queste regole :
vuoi tu però affermare al tutto, che
una persona privata e particolare, lasciando
favellare ad arbitrio loro qualonche città
e luogo de la Toscana, senia
difettargli o ripotargli da meno per
questo, non possa almanco da i tre
primi nostri scrittori e da T uso
di Firenze formare le regole, che a'tempi
d' oggi insegnino favellare rettamente
a'Fiorentini stessi, e a chi pur
volesse imitar? GeìU. Oh questo no,
messer Cosimo; perchè io mi credo pure,
che un solo, in suo nome proprio
e non di Accade- mia,
con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente
le possa fare. Bartoli, E con qoal
ordine? o in che maniera?
Geìli, Dirovvelo: ma perchè voi mi
intendiate più
facil-mente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha
due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de
le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste
e tessute insieme l' una parola con Y
altra, che si chiama ordinariamente la
costruzione. Di queste due parti la
materiale, o de le parole, non tengo
io per molto difficile a metterla in
regola; ancora che ella abbia forse
bisogno di lungo tempo, rispetto a lo
aversi a fare un vocabolista di tutte
le voci che si usano, come aveva
già cominciato il nostro Norchiaio, prima
che morte gli troncasse il volo. Ma
de la costruzione, o
volete dire de la forma, ne la quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria de la lingua, e appresso
di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri
vicini, non so io come ella possa
mostrarsi meglio che da gli esempi
de' tre scrittori Bartolù Oh Gello,
e' mi ricorda, a questo proposto de
la dolcezza de la testura del parlar
nostro, che messer Alessandro Piccolaomini, persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai,
ritrovandosi in casa mia, e leggendo
aicani scritti dì questi nostri, rivoltatosi
a me, disse: come può e' mai
essere, messer Cosimo mio,
che non essendo le patrie nostre più lontane
V ttna da V altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le
clausole cosi dolci e gli andari
tanto piani e si ordinati,
quanto gli veggiamo e sentiamo in voi
Fiorentini? GéìU. £ voi vedete bene
che tutti costoro che fino ad oggi hanno
fatto le regole del parlar
toscano, distendendosi ne le declinazioni
solamente, si hanno passato la costruzione
senza parlarne se
non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formarequeste regole,
non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate le parti de la orazione, e dimostrate le declinabili
e le indeclinabili, e gli esempli de'
verbi, massimamente con quella diversità che
è tra l'uso moderno e quello che
e' dicono de' nostri antichi, me n'andrei
tutto a la costruzione.
Ne la quale, consistendovi (come ho detto)
tutta la importanzia di questa lingua,
vorrei io certamente usare
una diligenzia più là che estrema, togliendo
da' tre sopra detti tutto quel che
fusse ben detto. Il che, al giudizio
mio, solamente sarebbe quello che V
uso di oggi si ha man- tenuto;
essendo l’orecchio nostro inclinato naturalmente
a lasciar sempre le
cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun
de' tempi passati, attribuisco molto a l'
uso, non di Mercato e del vulgo vile, ma de' nobili e qualificati de la nostra città, come io dissi poco di sopra. Bartoli. Questo è appunto l'
ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, donò a lo illustrissimo signor Don Francesco
de' Medici primogenito di Sua Eccellenza. Gellù Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente
r anno passato, quando eravamo in questo maneggio: e perchè e' mi parve sempre che egli avesse trovato la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa
fatto ciò che fosse possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli ha tenuto.
Ma perchè non le comunica egli ora mai con
la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, Geiio, che io ne Tho tanto contaminato
che egli finalmente mi ha dato non
solo esse reg(^9
ma e libera e pimia licenzia che
io ne &ccia la vof^ia mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,
che di tanto son convenuto col Torreatmo.
GM. Sollecitate dunque, messer Cosimo mi,
perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè
noi siamo oramai vicini a l'ora
de la nostra cena, rimanetevi con Dio,
che a casa sono aspettato.
Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. GellL Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi
in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa.
Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom
di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo mio
onorando, il ragionamento
che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice
ricordandovi che il GeUo è vostro. Di Firenze. Come ora
si direbbe importunato, o seccato. Velia
Crusca non è con questo significato. Io non
credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri
virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali
sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare
ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia
seusaalcuna.Ma perchèforsequalcundiquest'altriuditoripo trebbeingiustamente
incolparmidipresunzione,essendoioil primo che dopo due si dottissimi e
famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Andrea
Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta
onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio
io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei
valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca
demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale
sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non
dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei
maggiori Accademici, che per esercizio nostro,per esaltazione di questa nostra
lin gua nativa,e per imparare a esprimere in quella inostri con cetti, ciascuno
di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia
ilprimo a dar principio a così lode devole,eseionon me
neinganno,utilissimoesercizio.Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi
mancano nella 2^ T. La 1a T., ingiustamente potrebbe. 3 La fa T.,
auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo
augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono
più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con
ordine e questa senza,ed essendo l'or. dine della natura 'andare sempre dallo
imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia ? nella
creazione dell'uomo, dove e l l a fa primieramente un pezzo di carne , il quale
è solamente animato d'anima vegetativa come le piante,da im e dici chiamato
embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva*lo fa animale,e
finalmente gli dà l'anima razionale,la quale è l'ultima perfezione sua),dovrà
senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo,da che io,che
sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se
dunque voi non,udirete oggi da me cosa degna de'passi spesi da voi a venire in
questo luogo,non mancherete però di venire a udire quest'altriche dopo me
leggeranno ; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di
gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que.
stie di quelli vi ristorerà largamente.La lezione nostra sarà unluogodiDantenelXXVI
capitolodelParadiso;ilquale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso
molto al pro posito nostro,essendo questa nostra Accademia stata principal
mente ordinata per utilità di questa lingua,o per dir meglio, usando le parole
stesse del nostro Boccaccio nella quarta gior nata,di questo nostro
fiorentino,volgare. Presterretemi adun que grata udienza come avete cominciato,
se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i
qualisenzacomparazionecaveretemaggiore dilettoSemaggior frutto.Ma vegnamo alla
nostra lezione. La 1a T.,di quella. ?
verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca
sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a
T.,che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.
conosciuti,dico,iviziiepurgatosi”da essi,asceseper contem plazione sopra
i cieli alla gloria de'beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre A d a
m o, 4 come desideroso di sapere, lo . dimandò di alcune cose ; fra le quali fu
questa,che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual
fusse lo idioma o vero il linguaggio nel quale, quando ei fu fatto da
Dio,egliprimieramente parlò.Allaqualedimanda rispose Adamo in questa maniera:
La lingua ch'io parlai fu tutta spenta Innanzi che all'opra 5
inconsumabile Libero, sano e dritto 3 è tuo arbitrio, Fosse la gente di
Nembrot intenta.6 Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman,che
rinnovella, Seguendo il cielo, fu sempre & durabile. Avendo il divino
nostro poeta Dante, poeticamente parlando, nel suo discendere allo Inferno
conosciuto tutti i vizii e i p e c cati, che cosi per malizia e per matta
bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere,ed
essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli era
tornato1in quello stato della innocenza nel quale fu creata da Iddio l'umana
natura ; là dove la parte nostra inferiore, irra . zionale e mortale, alla
superiore, razionale e immortale, stava obbediente, nè punto ardiva la
sensitiva e carnale, dalla origi nale giustizia regolata, levarsi e combattere
contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli fu detto: fallo fora non
fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero,dritto,sano. •La
1aT.,purgato. * La 1a T., Adam . 5Cr.oora. 8Cr.lagentediNembrotteattenta. • Cr,
affetto. 8Cr.semprefu. Opera di natura è ch'uom favella;' Poi fare
a voi,secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, Donde
s vien la letizia che mi fascia. Elle*sichiamò poi,eciòconviene; Però che l'uso
umano 5 è come fronda In ramo,che sen va,ed altra viene. Da queste parole di
Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni.La prima è,come la sua
linguasispenseemancò tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre
; cosa molto contraria alla volgare oppenione.La seconda,la ragione perchè si
mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe
fare,dove egli adduce alcuni esem pli in confermazione di quanto egli ha
detto,come largamente si vedrà nel nostro ragionamento.Cominciamo ora adunque a
esaminare la prima,con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra
sufficienzia. Avendo l'onnipotenteIddio,nellaproduzione delmondo,creato tutte le
cose insieme con l'uomo,non perchè elle fossero in lor medesime solamente, maperchèelle
fosseroancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non
tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle,bisognò ch'egli le
.creasse nel loro perfetto essere.Dalla quale ragione mossi dis sero alcuni
dottori ebrei che il mondo fu creato di settembre; perciò che allora pare che
tutti gli alberi,insieme con l'erbe, abbianocondottoaperfezioneifruttiloro.Fu
adunque(lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più
per fetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al
corpo,sano,bene complessionato,e di età di trenta o tren
+Cr.Operanaturaleèch'uom favella. 2Cr.El. öCr.Onde. M a , cosi o cosi,
natura lascia Un : s'appellava in terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso
de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6 tacinque anni, secondo la maggior
parte dei dottori, acciò che ei fusse atto alla generazione.E in quanto
all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può
na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero
di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro.
Con questa cognizione pose Adamo inomi
convenientiatuttelecose,secondolaloronatura;eformò uno idioma,o vogliam dire
uno parlare,con ilquale ei po tettemanifestareaidescendentiisuoiconcetti.Ma
qualfusse questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno scrit tore.
Gli Ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo
dice che alla edificazione della torre di N e m brot si parlava in terra d'una
sola lingua, dicono questa essere stata la loro, ed essersi così dal principio
del mondo miraco losamente conservata intera e incorrotta (la qual cosa a nes
sun'altra è avvenuta giammai "), per avere parlato Iddio sempre -ma i a
Moisè e a g l i altr i suo i profeti in quella ; e questo è ancora confermato
da loro'con l'autorità dei loro Cabalisti,la quale può molto appresso di
loro.Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge
a Moisè sopra ilmonte Sinai,egli:glidesseancoralainterpretazionediquella, e gli
manifestasse molti altri profondi misterii, contenuti e n a scosi sotto la
lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primolibro.Ma dicano
ch'egliglicomandòsch'einonscri vesse altro che la Legge,e l'altre cose dicesse
a bocca a quelli che reggevano ilpopolo.Per laqual cosa,disceso dal monte,
solamente le rivelò a losuè;e Iosuè dipoi a i settantadue più vecchi del
popolo;e quelli dipoi per ordine successivo le re velaronoailorodiscendenti.E
questadicanoesserelascienza Cabala,che non vuol dire altro che ricevuta a bocca
per suc cessione. Questa oppenione ebrea ha molte difficultà. Primiera 1
giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso.
* Cioè, dicono ; cosi, appresso , scrivano per scrivono, e simili.
5La14T.,eglicomando. mente,sicomescrivanoiloroTalmudisti,'e'non
parech'eisia vero che questa lingua ch'egli usano,e nella quale è scritta? la
Legge, sia la lor prima e antica lingua.Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote,
nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica,5 temendo che se gli
avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse,
ragunò tutti i savi loro; e fece scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano
appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere
stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e
dell'antica favella loro, e tro varono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali
sono quelli ch'egliusano oggi;equesto ancorapare,chesentaS.Girolamo nel prologo
sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio parlo in
quella, non è d'alcuno valore; i m però chè quasi tutti i loro scrittori, o la
maggior parte, sopra iProfetidicanoIddiononaverparlatomai aquellivocalmente, ma
quando egli ha voluto manifestare qualcosa o a Moisé a aglialtri,avere loro
formato nella mente uno concetto,per il quale egli hanno inteso pienamente la
volontà sua.'L'autorità Cabalistica,dalla servitù Babilonica in qua,non ha
avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la
loro natura ch'è molto superstiziosa,come scrive Apuleio nel primo libro
de'Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da iloro
Cabalisti),che sono manifestamente contro alla lorleggeecontro alla ragione
naturale;come sileggenelloro TalmutBabilonico,ilqualenonèaltrocheunoraccoltodi
sen tenzie dei loro sapienti di quel tempo.Aggiugnesi ultimamente a questo, che
secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ebbe così nome da Eber
figliuolo di Sem ,figliuolo di Noè , al quale nella divisione della terra toccò
l a Giudea ; il c h e ·La 1aT., pererrortipografico,ha
Tamuldisti;diquilosconciodella2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto.
i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà.
delle. 6 La 1a T., I Caldei,o vero Assirii,dall'altra parte
dicono similmente che la lor lingua fu la prima che si parlasse mai ; e
certamente ellaètantosimileallaebrea,come diceSanGirolamo?nelpro logo di sopra
allegato,ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle fussero già stateo una
medesima.E in confermazione di questo adducanoquesteragioni,conl'autoritàdiBerosoCaldeo,'ediMna
seae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che non si truovano
scritture innanzi al diluvio,se non nella lingua loro;e queste esser certe cose
di astronomia, insieme con la pre dizione del diluvio scritta da Enoc,figliuolo
di Iared,bene cin quecento anni innanzi a quello,in certi pezzi di terra cotta,
ac ciò che leacque non l'offendessero.E similmente dicano essere nel
MonteGordeo’inArmenia,incertisassi,dovedopo quellosifermò l'arca, scritte in
quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose;"e illuogo ancor
nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano
a questo,che Abramo,ilquale fu primo a dare principio al popolo ebreo, fu da
Dio primamente cavato di Caldea.Plinio pare che fusse ancor egli di questa
oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12
T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea
Damasceno.Anche nel Giambullari,Origine della lingua fiorentina
(Fir.,1549,p.19),trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno.
Mnasea,geografodellafinedel3°sec.avantia Cristo, e Niccola di Damasco o
Damasceno, storico dei tempi di Augusto, sono citati,insieme con Beroso Caldeo
e con Girolamo Egiziano,da Giu seppe Flavio nel primo libro delle sue Antichità
Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. fu'circa trecento anni dopo
ildiluvio.Si che ei pare più ra gionevole, ch'ella avesse principio allora
quando ella ebbe il nome,ch'ellasifusseparlataprimatantotempo.E così,come voi
vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle
1a T. La 1a T., S. Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo
manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Giuseppe Flavio, loc. cit., lo
chiama Monte de'Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne:la
quale non di manco non è senza molte diffi cultà. Imperò che molti istoriografi
degni di fede, e particular mente Iustino nel secondo della sua Istoria,tengono
che la prima terra che fusse abitata sia la Scizia,e conseguentemente la lor
lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro Dante,parendogli che ciascuna
di queste oppenioni fusse dubbiosa e incerta,sicome per il testo si vede,fu
d'un altro parere diverso ; e a ciò lo indusse la esperienzia, maestra delle
cose.Imperò che vedendo egli per lescritture le lingue di tempo in tempo variarsi,
in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che morirono
cinquecento anni sono, risuscitatitornasseroallelorocittadi,eicrederebbonoche
quell fosserodastranegentioccupate,perlalinguadaloro discor dante.E non potendo
però per questo persuadersi che dal prin cipiodelmondo
allaedificazionedellatorre diNembrot,dove corsero circa due mila . anni, sempre
si conservasse un m e d e simo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che
quella lingua,la quale eiprimieramente parlò,sispense e mancò tutta, innanzi
che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale
risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza,tanto
da alcuni Lombardi lodato,e tra dotto (per dire come loro) in lingua italiana,
non è di Dante, ma da qualcuno altro stato cosi composto,e col nome di esso
Dante mandato fuora.Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua,che
parlasse Adamo,fuquella che usano oggi gli Ebrei, e che ella durò insino alla
edificazione della torre di Nembrot ; dove qui dice Dante il contrario. Oltr'a
di 5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il
quale Dante nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo
iomai che Dante non avesse vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto
stata . ? Le stampe hanno dalloro ;ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro.
i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT.,dumilia. dice . sentite e
scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione.Or
vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere
uman,che rinnovella Seguendo il cielo, fu sempre ? durabile. Rende la ragione
Adamo perchè si mutino e variino i par lari; e comincia da questa dizione che,
dicendo che nullo effetto razionabile,cioè nessuna cosa fatta dall'uomo, il
quale si chiama animal razionale,per lo piacere umano,cioè per il desiderio e
per loappetitoumano:questovocabolopiacerehanellanostra lingua duoi significati;
primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte
quelle cose che noi de sideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la
diletta zione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per
loappetitochenoiabbiamodiunacosa;sicome noiveggiamo usarlo dal Boccaccio in
molti luoghi,e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec,dove ei
dice:cheper disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed in questo
significato l'usa qui Dante, dicendo:per lopiacere umano,cioè per ildesiderio
umano,che sirinnova esimuta,seguendo ilmoto del cielo, fu sempre durabile.E qui
con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti
effetti dell'uomo, si come sono le scritture,le statue e la fama, Che trae
l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come disseilnostroPetrarca,lequaliduranotantotempo,che
gli uomini,per non vedere ilfineloro,l'hanno chiamate eterne; ma non però sono
durabili sempre.La qual cosa mirabilmente espresse Dante medesimo in un altro
luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi
in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte. 1 Cr.affetto.
2Cr.semprefu. ö Cr.Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5
Cr. Che dura. E cosiharendutolaragioneperchèiparlarisimutino.Ma per
maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello
che l'uomo si chiami razionabile,e in che modo le sue voglie, seguendo i moti
del cielo, si mutino. D e vetedunque
saperecheilCreatorediquestouniverso,perfarlo più bello ch'ei poteva, fece in
quello di ogni sorte creature ; e quelle dispose tra loro con tanto
ordine,cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le
cose,e salendo di grado i n g r a d o in s i n o all'ultima forma, ch'è Iddio,
il quale 1 dà l'essere a tutte,che ifilosofi l'assimigliarono a i numeri;i
quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro
inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o
furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono :
quelle che furono da lui create incor ruttibili,e in certo modo eterne, ed
ebbero tutte le perfe zioni che si convengono alla loro natura insieme con lo
essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello
dell'angelo.Imperfette poi si chiamono quell'altre,che furono da luicreate
corruttibili e mortali,e che non ebbero da prin cipiotuttalaloroperfezione,ma
sel'hannoacquistataconil moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a
tutte le alterazioni che arrecano seco imoti celesti; si come sono, tra i
corpi, le piante e gli animali, e tra gl'intelletti, quello del l'uomo,per
essere col suo corpo mirabilmente unito.E questo fece il sommo Fattore, perchè
a questo universo non mancasse alcuna sorte di creature, acciò che le perfette
con la loro bel lezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione
di esso Iddio sommo,e le imperfette, poste a lato a quelle,ci ren dessino la
loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. L a qual cosa veggiamo noi
che usano ancora 6 nei loro canti i m u . sici,mescolandovi delle consonanze
imperfette, perchè quelle r e n dino poi le perfette più dolci e più grate a
gli orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo
io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno. ascoltanti.Ma perchè questo sommo benefattore
e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia
scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e
un desiderio ardentissimo che a quella le ti rassi; si come agli elementi uno
valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla
terra lo andare alcentro,ealfuocoalconcavodellaluna,làdoveegliève ramente
fuoco; (imperò che,come noi abbiamo da Aristotile nel primo delle Meteore, questo
che noi veggiamo non è fuoco, m a è una soprabbondanza di calore,sicome è
ilghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno
principio in trinseco,' per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e po
tessero generare dell'altre simili a loro;? e agli animali uno principio di
moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero
nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro
salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a
cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai
filo sofi natura, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e
principio quel moto,per il quale egli acquistano le loro perfezioni.E desiderando
similmente ancor che l'intel letto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli
diede una po tenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acqui
starla,chiamata dai filosofi discorso o vero ragione.Imperò che l'intelletto
dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi
principii,insieme con ildesiderio dello inten dere,ch'è lasua
perfezione:iquali,sìcome noi abbiamo da Ari stotile nel quarto della sua Prima
filosofia,' sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti
gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro,come sarebbe
questa:egliè impossi bile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non
sia; perchè ciascuno intelletto,subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La
1aT.,uno intrinsecoprincipio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T.,
valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia. 40. Vol.II. cosa è non essere,sa
che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara
per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro Dante nel suo
Purgatorio: Da questa cognizione intellettuale de iprimi principii,come da cosa
nota,partendosi l'intelletto dell'uomo,con una potenzia ch'egli ha va
discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose
ch'ei non intendeva,ed empiesi di intelligibili,doveprimaeracome una tavola
rasa;ecosìviene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra
lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato ra zionale, così come
quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con
la natura, son chiamate n a turali. Questo nome razionale ? non si può dare
all'Angelo, a n cora ch'egli abbia lo intelletto,per essere quello • d'una
natura pura intellettuale; la quale fu creata da Dio con tutte le sue
perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non
sel'haacquistare conalcunasuaoperazione,comel'uomo);e che oltra di questo è 8
di tanta virtù,che quando Iddio gli a p presentasse qualche nuovo
intelligibile, ei lo intenderebbe s u bito per semplice lume
dell'intelletto,nel modo che intendiamo noi iprimi principii,e senza alcun
discorso,e tutto perfetta menteinunoinstantee in uno tempo
indivisibile;enonprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intellettonostro
ne l’in tender suo,o per non essere di tanta perfezione; m a farebbe in quel
modo che fa uno lume,quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina
tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo
dicano alcuni teologi che gli Angeli che peccarono non si sono mai potuti
pentire ; i m p e r ò c h e ne l'intender suo, non è nella 1a T. Però là
onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La
1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha:perchèegliè. ·La18T.,enonsel'haavuteacquistare.
5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc. intendendo quegli
ciò ch'egl'intendano per semplice 'apprensione d'intelletto, lo intendano
immutabilmente, e senza mai potere variareemutare illoro intendimento;sicome
ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi intendiamo per semplice lume
d'intelletto, come sonoiprimiprincipii;ilchenon avviene di poi di quelle che
noi intendiamo per discorso di ra gione.E peròsichiama l'Angelo creatura intellettuale,
el'uomo creatura razionale e discorsiva. E perchè,in quanto al corpo, l'uomo è
composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre
cose sotto la luna, la quale m a teria è obligata e sottoposta alle alterazioni
che inducano i moti celesti in lei,egli è da quegli insieme con l'altre cose di
versamente disposto.Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli
il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la
primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione
nostra altrimenti è disposta in uno tempo,e altrimenti in un altro;onde l'anima
nostra razionale,in quanto ellaè fondata in su questa nostra complessione
corporale,altre voglie ha in un tempo,e altre in un altro. Imperò ch'ella è
tanto mirabilmente unita con quello,che l'operazioni che ancor totalmente
dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto;
onde dice il Filosofo nel primo Dell'anima, che chi dicesse : l'anima mia
odia,o l'anima mia ama, sarebbe come dire:l'anima mia fila,ol'animamiatesse.E
seciònonfusse,cioèchel'anima seguisse la disposizione del corpo,egli ne
avverrebbe,sicome apertamente pruova Galeno in una operetta ch'ei fa di questa
materia, che l'operazioni degli uomini sarebbero tutte a un modo medesimo;3di
che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro
sustanzia,e,come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un
medesimo modo e d'una medesima virtù;ma pigliano poi diversi costumi, secondo
la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,
1La1aT.,perunasemplice. 4 La 1a T.,con manifesto errore,mutabilmente. 3La1aT., a
un modo. e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per
i moti celesti.E questo basti per la seconda parte del nostro ra gionamento. Or
vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte
Adamo a una tacita obiezione, che se gli sarebbe potuto fare; la quale
Ma,cosiocosi,naturalascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali
parole voi avete a considerare che l'uomo è c o m posto di due nature,o vogliam
dire di due parti;con l'una delle
quali,laqualeèl'animaincorporea,immortale,razionalee li bera,egliè simile
alleIntelligenzie celesti;econ l'altra,laquale è ilcorpomortaleeirrazionale,èsimileaglianimalibruti.E
ciò fu dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto
in questo universo delle creature irrazionali,corporee e mortali, e delle
razionali, incorporee e d i m mortali , e non volendo che siandasse da l'uno
estremo all'altro senza mezzo,le fu necessario fare l'uomo, che con una parte
communicasse con 1 Opera di natura3 è ch'uom favella; può,non leggesi
nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa.
Potrebbe dire alcuno:A me non pare che questa tua ragione, Adamo,conchiuda e
sia bastante;imperò che tudi'che iltuo parlare mancò per essere effetto
dell'uomo, e gli effetti dell'uomo col tempo mancano tutti,per esser esso uomo
,ch'è la loro causa , caducoemortale;enessunoeffettopuò esseredimaggiorperfe
zione che la sua causa. Questo è ben vero, che gli effetti che procedano
semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; m a il parlare non è di
questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà naturale;'
le quali così fatte pro pietànon siseparano mai dallaspecie loro,sìcome
lacalidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di'tu ch'ei
mancasse per esser suo effetto ? Alle quali parole così risponde Adamo:
queste, e con un'altra con quelle . E però il parlar suo, insiem e con
l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramentesi
può considerare come sua proprietàna turale; e questo è il parlare istesso in
genere,non si ristrignendo piùaunomodocheaunoaltro;'einquestomodoeglinon
mancherà mai all'uomo,ma sempre che saranno uomini,sempre parleranno;e di
questo non parla qui Adamo.Secondariamente si può considerare come cosa
dependente dalla parte libera e r a zionale dell'uomo ; e questo è il modo del
parlare (e non il par lare),come sarebbegreco,latino,o toscano;e in questo modo
è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gli uomini.E
però disse il Filosofo che i nomi sono stati posti alle cose,secondo ch'è piaciuto
a gli uomini.E questo è quello chedicequiAdamo,chemancòemutossi.Onde
diceneltesto: Opera di natura è ch'uom favella, cioè : egli è cosa naturale
all'u o m o il parlare ; m a così o così, m a più in questo modo che in
quello,natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi
piace;chè cosi si gnifica questo verbo.Il quale è verbo provenzale,che a quei
tempi era in uso ; e dal medesimo Poeta ancora fu usato,? nella medesima
significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che fu nei
tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole del
Petrarca ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione.Ma per maggiore
dichiara zione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il
parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad
alcun'altracreatura,ese egliènecessarioono;imperò che la natura, così com'ella
non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. '
La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La
1aT.hasolo:ancorausato. Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al
corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3
ancora mai, non è nella 1a T. forza, per volerlo fare più prudente
che alcun altro,donde gli bisognò farlo di più temperata complessione),ne
avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agli altri
animali.Oltr'a di questo,avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto
e ilminimo tra le intelligenze,come noi abbiamo dal Filosofo nel libro
Dell'anima,e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e
dell'altro,le fu necessario concedergli il parlare, con il quale ei potesse
chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione
dell'anima. Voi vedete,inquantoalcorpo,ch'einasceignudo,ehassia ve stire della
pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case,dov'ei
possa difendersi da quegli incommodi che arrecano'seco le varie stagioni
de'tempi.Vedete ancora di poi,in quanto all'anima,che gli bisogna apparare molte
cose,se non necessarie allo essere,almanco al bene essere della sua vita,
senzalequaliellasarebbemiseraeinfelice.Ilchenon avviene a gli altri animali;'
perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi
convenienti alla lor vita ; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale
instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a
conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi
figliuoli, sa per natura fare il nido ; e di poi, veggendogli nati
ciechi,vaacercare lacelidonia perguarirgli. E le formiche similmente sono da
lei spinte,quando ifrumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli
nelle lor buche. Che bisogno adunque avevano glianimali di parlare? Chè, seeisono
d'una specie medesima,hanno bisogno di sìpoche cose, e tutti a un modo,e son
spinti dalla natura a cercarle:e se ei sono di varie specie,non
convengonoinsieme. Ma all'uomo è egli certamente stato necessario ;imperò che
egli ha bisogno di tante cose,e quanto al corpo e quanto all'anima,che nessuno
se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino
insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a
T., Il che a gli altri animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a
cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno. si saria potuto fare
senza questo mezzo del parlare,con ilquale l'uno possa manifestare all'altro i
suoi bisogni ; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo,come quella
che non manca mai'nellecosenecessarie.E peròèquichiamatodalPoetail parlare
operazione naturale dell'uomo, cioè necessaria alla n a tura sua.E se alcuno mi
opponesse,dicendo che ci sono an cora de gli animali che parlano,si come gli
stornegli, le gazze, i papagalli,e non solamente l'uomo,si risponde che il loro
non èparlare,ma èunaimitazionedivoce;imperòcheeinonin tendono ciò che ei
dicano,e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate,o a
proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse : C o m e di'tu che
il parlare è solamente dell'uomo ?non abbiamo noi nelle sacre lettere,in molti
luoghi, ch'e'parlanoancoragliangeli?dicocheilparlarenon s'appar tiene all'angelo,come
angelo.Imperò che gli angeli sono spiriti, e sono loro manifesti iconcetti
l'uno dell'altro; ma se eglino alcuna volta hanno parlato, ei l'hanno fatto per
manifestarsi a noi e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercoti
mento de i quali hanno formate le voci o vero suoni,e con la lor virtù le hanno
poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la
quale coi suoi strumenti natu rali faceva la voce,e l'angelo la terminava e
faceva significativa. Avete du nque veduto come il parlare è solamente
dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della qual
conclusioneioprobabilmentecavo una particularlodedellano stra lingua;equesta
siè,ch'ellasiapiùpropria all'uomo,che alcun'altrachesiparli.E chequestosiailvero,lopruovocosì.
Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo la sua natura, tanto
glièanco più facileemen faticosa; il parlare nostro gli è men faticoso e più
facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio, e più secondo la natura sua.E
che La 1a T. ha:imperò cheei no nintendonociòcheeidicano,cheèil
propriodelparlare.E cheeisiailvero,avvertitechee'diconosempre quelle parole
ecc. i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.
questosiailvero,ponetementechenessunalinguaèpiù fa cile a imparare,che la
nostra.Pigliate uno che non sappia altra lingua che
lasua,emenateloinTurchia,nellaMagna,fraSpa gnuoli,Francesi o Schiavoni,o tra
quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne
dimostra la esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in
uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per
altro, che per la facilità d'essa, e per la pro prietà ch'ella ha con la natura
umana.Un'altra cagione si po trebbe forse ancor dire che fusse quella, per la
quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa siè,per avere
tutte le sue parole che finiscono in lettere vocali ; le quali per essere, come
scrive Macrobio, quasi che naturali all'uomo, si mandon più facilmente alla
memoria che l'altre,e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse
ancora quella m a ravigliosa bellezzach'ellaha, scrivendo Quintiliano,chequante
più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono.
Seguita Adamo ilparlar suo;e per confermazione delle cose ch'egli ha dette
adduce per esemplo,che innanzi ch'ei morisse, gliuominimutaronoilnomeaDio;edoveprimalochiama
vano Uno,gli posero nome El.Nelle quali parole ei fa quella bellaargomentazione
cheilogicichiamanoamaiori;laquale io credo che noi potremo ? chiamare dalla
parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare
che la sua lingua mancò, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e
immutabile in tutto questo universo, a mio tempo mutò nome, che credete voi che
facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si
variano ? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò
sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna
operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto
dotta e tanto bella, che io 1La1aT.,eifaunaargomentazione. 2 Così le
stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La
1aT.hasolo:conciòsiachel'usoumanocontinovamentesimuta. Pria ? ch'io scendessi
all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel
Purgatorio,o vero nel Limbo,dove andavano tutte l'anime di coloro che crede
vano l'avvenimento di Cristo.Ambascia è quella infermità che iGreci e iLatini
chiamano asma,e ancora da noi toscanamente si chiama asima;la quale è una
difficultà di alitare, che, se condo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere
ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a
rinfrescamento del cuore),e ripieni di materie grosse eviscose;'o veramente
nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro
De'luoghiinfettidicech'ellapuòancorprocedereda infiamma zione di cuore;e dà lo
esemplo di coloro che hanno la feb bre,e di coloro che si sono affaticati nel
correre, i quali, per avere acceso ilcalore nel cuore ed eccitatolo,'patiscono
que sta difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in
luoghi che non abbino esito,o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa
difficultà, si dice per similitudine che gli hanno l'ambascia. Ora perchè
ilLimbo,come voi avete da Dante medesimo, è un luogo appiccato con l'Inferno
nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra,per esser ripieni di
vapori,che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà,
dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè,al Limbo tra
gli altri santi padri.Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il
seno di Abramo ; e la cagione è , perchè Abramo fu il primo,che lasciati
gl'Idoli venissi al cultos perme nonsapreichealtralodedarmele,senondirech'ella'
è di Dante ; perciò che io non ho mai visto ancora autore al cuno che in questo
l'avanzi.Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc.
?Malela2aT.,Prima.3 La 1a T.,di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo.
5 La 1a T., venne al vero culto. di Dio;onde gli fu promesso che
del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che
morivano,andando in questo luogo, si diceva che gli andavano a riposarsi nel
seno di A b r a m o, cioè nella promissione che fu data da Dio ad Abramo. Dice
adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio,
Donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine
(imperò che, come noi a b biamoin San Giovanni alXVIIcapitolo, altrononèvitaeterna
chevedereIddio), era chiamato dagliuominiUno.Ilqualenome
glifupostodaqueglipersimilitudine,eper alcune proprietadi cheha l'unità con
Dio,sìcome è,essere semplice,indivisibile, non essere numero, ma principio di
tutti,e mantenere tutte le coseinessere;perchè,come voi avete da
Boezio,tantoèuna cosa,quantoellaèuna;lequalituttecosesonoinDio.Im però che egli
è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo,ma
principio di tutte,e mantienle in essere continuamente ; e molte altre
proprietà simili al l'unità , comesileggenelladottrinapitagorica.E
perògliposerogli uominiquestonomeUno;perchènonpotendoporglinomi che
significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il Padre , se non
ilFigliuolo,come noi abbiamo in San Matteo allo XI ), gli ponevano di quegli
che significano ? qualche sua proprietà. Dipoi,lasciandoquestonome
Uno,lochiamaronoEl,cioèDio; il quale nome gli fu ancora posto per una proprietà
sua. I m però che considerando gli uomini la maravigliosa potenza de le opere
sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritro vando infra
l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superiquelladelfuoco.Onde
diceiltesto:Ellesichiamdpoi. Avvertite che tuttiitesticheiohovistidicano:Eli
sichiamo poi; ilche non può stare;imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28
T., ha ;ma la lezione è mal sicura,poiché il passo nella stampa è guasto, e
potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta
edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T., significavano.
donde la sentenza non quadrerebbe a dire:ei si chiamò poi Iddio mio.Anzi
sichiamò El, che vuol dire Iddio.E per fare il verso intero disse Elle,e non
El,come ei devea;e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usò nel XXIII canto del
Pur gatorio lo m , dicendo : Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El
fu ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è adireEl,quanto
potenteeconservatore.E per questa cagione una gran parte degli angeli,per essere
stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso,hanno
incluso nel nome loro questo nome diIddio El; nè senza quello si possono nella
ebraica lingua proferire, si come è Gabriel,che vuol dire grazia o vero virtù
di Dio, Raf fael,medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri.La qual
cosa non è senza gran misterio,come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente
esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'uni versalissimo'Agrippa.Di
poiseguitailtesto:eciòconviene,e questa è cosa conveniente;però che l'uso umano
Dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i c o stumi dei
mortali alle fronde.Imperò che,come voisapete,le fronde si generano e cascano
da gli alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle,
appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi
abbiamo a suf ficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la
disposizionecheilcieloinduceneinostricorpi.E questobasti per dichiarazione di
questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di
sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della
quale somma mente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The
issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is
considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is
to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is
confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity,
-- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet
he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or
‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I
latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti
fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but
he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite
a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’
to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled)
--. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the
cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’.
Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare
all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a
cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are
different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was
the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani –
and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords:
sulla difficultà di mettere in
regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect,
dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la
lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellari; Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gellio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Lucio Gellio – Arrian dedicated the discoruses of Epitteto
to Gellio, who presumably took at least an interest in the Porch.
Grice e
Gemmis – il console – filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi).
Filosofo italiano. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of
how an Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is
derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’
‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do
reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian
illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de
Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de Gemmis
e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di Gioacchino,
rettore dell'Altamura, di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera
della Sommaria, e di Giovanni Andrea, Consigliere della Suprema Corte di Giustizia. Si trasferì in Napoli affidato al prozio, il
potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studia dai più prestigiosi
precettori. Fu allievo di Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una
cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre
illuminista. Si laurea a Napoli, il ministro Maddalena lo introdusse negli
ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale con
la clausola di aggiungere il suo cognome, obbligo mai rispettato dai
discendenti. Morto il pro-zio, e nominato dal sovrano giudice a Cava de'
Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunzia alla carica per ritirarsi a
Terlizzi, per stare vicino al padre malato. Qui si dedica ai suoi studi di
filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente
primario dell'illuminismo. Istituì una Accademia, vero e proprio cenacolo
culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di
conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale
perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere, ma gli
incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento
epistolare di Genovesi. Sposa Caterina Lioyi, di nobile famiglia di orientamento
massonico. Fu governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di
molitura che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fonda il
Conservatorio delle Orfanelle a la scuola pubblica con reale approvazione. Fu
inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento
dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi.
Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R.
eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de
Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia,
sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla
cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. De Gemmis scrive
numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per
modestia e che oggi sono andate perdute, salvo “Tavole cronologiche della
Storia Universale” (Napoli, Stamperia della Soc. Letteraria e tipografica).
Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta,
Mezzina, Cabreo de Gemmis, Biblioteca Provinciale de Gemmis, Bari Ruggiero Di
Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli meridionali del '700, Gangemi Editore, Roma. FERRANTE
DE GEMMIS Figlio di Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di
Cannavalle, fu fratello di mons. Gioacchino de Gemmis, rettore dell'Università
di Altamura e di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della Sommaria.
All'età di undici anni si trasferì nella capitale affidato al prozio, il
potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studiò grammatica, eloquenza greca e
latina, logica e matematica dai più prestigiosi precettori dell'epoca. Fu anche
allievo dell'Abate Antonio Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne
una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del
celebre illuminista. Laureatosi in diritto all'Università di Napoli il ministro
Maddalena lo introdusse nella pratica forense e negli ambienti più esclusivi
della corte partenopea istituendolo, alla fine, erede universale con la
clausola di aggiungere il suo cognome al proprio, obbligo mai rispettato dai
discendenti. Morto il prozio nel 1752 fu nominato dal Re giudice a Cava de'
Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunziò alla carica per ritirarsi a
Terlizzi nel 1754. Qui si dedicò ai suoi studi di filosofia e diede vita ad una
fervida attività culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo
della regione. Istituì una Accademia a Terlizzi, vero e proprio cenacolo
culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di
conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale
perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere ma gli
incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche
all'incoraggiamento di Antonio Genovesi. Ebbe un grave incidente per la caduta
da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salvò la vita.
Prese in moglie nel 1757 Donna Caterina Lioy di Terlizzi. La nobile famiglia
Lioy, di orientamento massonico, si trasferirà in quegli anni a Vicenza dove
avrà i natali il nipote Paolo Lioy. Fu governatore di Terlizzi e promosse il
riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che
aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fondò il Conservatorio
delle Orfanelle nel 1769 e nello stesso anno aprì le scuole pubbliche con reale
approvazione. Fu inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento
dell'amministrazione della Città, divenuta regia nel 1774. Ebbe sette figli,
tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R. eserciti e governatore
militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de Samuele Cagnazzi,
fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi con Pietro
Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui discendenza avrà
origine il ramo di Gennaro de Gemmis. Scrisse numerose opere letterarie e
filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi sono andate
perdute, salvo il libro storico intitolato "Tavole cronologiche della
Storia Universale" pubblicato a Napoli nella stamperia della Soc.
Letteraria e tipografica nel 1782. Ne scrisse la biografia Vitangelo Bisceglia
pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Morì a
Terlizzi, largamente stimato, il 21 aprile 1803, e fu sepolto nella cappella
nobiliare de Gemmis di Terlizzi.Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keyowords: il
console, tavola cronologica della storia universal. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gennadio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marsiglia)
– Gennadio argues that the divine is the only incorporeal being, but that both
souls and angels are material.
Grice e
Genovese -- tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the
philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!”
Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with
Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely
what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly
synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes
on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia
a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria
dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da
allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per
la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli
individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della
rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola
di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in
“Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno”
(Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura
scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla
funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo
di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra
scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse
per la teoria dei sistemi. La forma
compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù
occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Bollati Boringhieri), e:Un
illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino,
Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di
Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica
dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca
hegeliana. Questa linea è approfondita,
in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo,
nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino
e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la
teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione,
potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi
la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare
ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il
destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi”
(Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e
intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello
della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono
dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva”
– keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il
mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta
il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma
epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia
una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in
una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o
apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso
diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma,
Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto,
insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono
le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis).
Altre opere: “Modi di attribuzione” (Napoli,
Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione
impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto).
“L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un
saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a
disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a R. Genovese, leGiulio
Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La
Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. “Genovese è quasi costretto non
semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno
con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili,
indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci
sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare
luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il
sopravvento». I.Ledueleggendetroianaeromulea.– I.Ilprimopopolo,ossia
iRamni,iTiziieiLuceri.– IV.Laplebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia
tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones
historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des
cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla
distanza di mezzo secolo (1), la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo
antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti
fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia
tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione
recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad
Amsterdam nel 1685,equelladella Dis sertation beaufortiana ad Utrecht. Storia
di Roma narrate da R . Bonghi, Manifesto
di Brioschi, Giorgini e
Minghetti.QuestitresignorirecanoilseguentegiudiziosullaStoriaRomanadiB.G.NIEBUHR:
Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta
col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo
studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio
dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non
sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della
critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione
tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto,
con trapponiamo quello del Savigny e dello Schwegler, la cui competenza insiffatto
argomento non èscono sciatadaalcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così
parla della storia romana del Niebuhr:«L'opera del Niebuhr ha impresso alla trattazione
della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der
Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen
-- Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni
ricerca nel campo Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. 13 I. I critici:
loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I. ragione, aparernostro,
del Niebuhr; che, cioè, questisi propo nesse più d'inspirare l'amore allo studio
delle antichità romane,che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera
del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto secondoscopo;quantoall'altro,delde stare
l'interesse per lo studio delle antichità,esso rampollava natu ralmente dal
primo ; mentre la critica del PERIZONIO e del Beaufort, pel suo carattere
negativo, non poteva prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però
ilconcorsodellacritica fosse, dopolacomparsadel l'opera del Perizonio, generalmente
ammesso,esso non fu usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne
giovarono per ret tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione
romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che
è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra
questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e
Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire
des Romains”). Gli altri scrittori, e sono il maggior numero, si divisero in
due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del NIEBUHR, all'altraisuoi
correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai quali spiccano le
due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di
due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale
romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la
tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue variant. Poi, nel
paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico,
diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a
crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la
sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della
leggenda e del mito, e fissate del secondo le categorie diverse (mito
etiologico, etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i
singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi
delleantichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge:« La Storia Romana del
Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione
allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il
fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segnò l'indirizzo e diede
il più fecondo impulso (Seinerömische Geschichte,eingrossartiges,injeder
Beziehung classisches Werk,ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der
bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern
Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben
hat). alla leggenda, quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb
bano aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta
classificazione Schwegler cogliesse sempre nelsegno. Ma dobbiamo pur dichiarare
che in essa nulla apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che
si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli
argomenti con cui c o m provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati
a sproposito. L'opera di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a
parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo delMommsen
ètuttol'oppostodiquello dello Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso
in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della
tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che
estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro.Non vi è dubbio che questo
m e todo presenti maggiori attrattive dell'altro,perocchè escluda ogni processo
dimostrativo; ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo
segue ; e offre più largo campo alle censure. La Storia romana del Mommsen ne
incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera
fosse da tutti rico nosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande
profitto della critica storica, perchè essa diè occasione al Mommsen di
lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia romana, mercè una serie di
monografie storico-critiche, che egli raccolse col titolo di “Ricerche romane” –
“Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova in questi ultimi giorni un
am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni
aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il
chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri
che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa lettera egli
dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta nostra non
avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse intrapreso di narrarla.Veramente,
gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici,
e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a
quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i
nomi di ORIOLI, di UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui opere
dimostrano, che noi non ci eravamo con tentati, come afferma il Bonghi, di
tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen . E se la letteratura nostra
mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine inspirate che sulla storia
romana dettarono il MACHIAVELLI e il VICO, per ismentire il basso concetto che
il Bonghi reca della storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non
contiene sufficiente materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura
l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando,
come si è detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la
critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di
storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca
della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di
avere scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di
congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo
che acuisce il desiderio di averesott'occhi la seconda parte del volume, che
avrebbedo vuto comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il
subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo
scompagnare le due parti, come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai
lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo
confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio
mi abbia reso in certo modo fa migliare questo studio. Dopo illavoro
diligentissimo di Schwegler, a me era parsa meno necessaria quest'opera di gran
pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione,l'esameminu
tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò solo non si rimane l'opera
sua nel volume pubblicato,ma qua elàeglifuindottodallo sviluppo della sua
analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della
seconda parte dalla prima è ancor più deplorata.Senza di essa noi avremmo,per
esempio,chiaritosubito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso
sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico,anoi è parsa
mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla.
Eccola con le parole stesse dell'Autore : « Del rima
nente,ènecessario,dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una
leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia
abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema
l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente
che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più
svariate. la storia sia stata. Terza, come la leggenda sia nata. Noi
abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba
essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi
molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne
abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla
terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente
perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può
misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per leggenda? Ciò che noi chiamiamo
leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma,
mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della leggenda è questo. Cioè,
il ricordo di un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di
canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per
modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della
leggendaèadunque storico. Il mito, invece, è tutt'altra cosa. In luogo del
fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda, nel mito abbiamo come
elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e
sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. Ora, nella tradizione
romana leggenda e mito trovansi mescolati insieme, e il lavoro della critica
consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi
dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo
lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello
fatto dal BONGHI nel primo volume della sua opera, e già tentato da molti. Ed è
in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il
presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la
ragione che BONGHI dà di questa fermata. -- Succede, dice BONGHI, non
addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello
de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è
spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola, preformata.
L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza
del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia,
quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro.Fatti certi
dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati
da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del tempio federale di
Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio : il
trattato federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo
trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito
dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città
latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi
sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori
dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale
qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor
oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora
com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con
quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai
più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti
in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi
esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il
lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di
ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il
fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la
sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima
di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi
che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del
tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges
tribuniciae e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo
problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come
avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è
fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E
mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena
del suo racconto, la troiana è indubbiamente importazione straniera. Però non
tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento
che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione
con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi
Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio
favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi
storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, furono segnalati e
lumeggiati dall'autore dell’ “Eneide.” Infatti,mentre presso idue primi,le
lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i
popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe.
Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una
guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti
politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età pre-romana. Quel Turno che
negli altri racconti figura come capo dei Rutuli, nell’ “Eneide” comparisce
come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa
stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea, An tenne,
Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gli Aurunci,i
Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il
consiglio d’Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal
tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E col loro ausilio, conquista Laurento.
Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa di Enea,
chiaro apparisce il contenuto storico di esso.Ivi troviamo adombrati, da un
lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e
dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla
servitù straniera.Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle
città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la
primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta
nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Set timonzio. Così per mezzo
di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei Sabini sul
Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il cui contenuto
storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel presentarciidue
popoli,latinoe sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul Settimonzio, e
riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in
guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti
nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi aveano
dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO.
Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua
libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione
popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli ha strappato dal capo
il lauro dei prodi. Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva
nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la
critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE
ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'èparsafuoridiluogo,ve
niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due
leggende,tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia
pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non --
Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli »
Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la
boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini,
a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di
instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo
immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la
fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si
figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un
fondatore epo n i m o . Una città che no ma vasi Roma, dove a a dunque, secondo
il concetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina
al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione
semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è
indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolse dallo storico Antigono. «
Antigonus, italicae historiae scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove
conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo
all'articolo Romam . La tradizione romulea, nella quale l'eponimo ROMO diventa
ROMOLO e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla
dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da
Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso ENNIO non la conosce
che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla madre di Romolo, Ilia,
Enea per padre. Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col
poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne
questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione
psicologica del fatto fu data già da VICO in quella boria delle nazioni, le
quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano
loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la
capitale cagione che indusse i romani, quando andarono in cerca di origini
fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama
strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di
Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via
che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa
inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri
impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica, inter
venne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa
in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo popolo greco,
il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori dei
Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione. Similmente,
quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per
condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino , nel
pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col
nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due
leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in
seno Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella
propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche
dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più
antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore,
e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie
greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite
Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente
collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei
fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel
suo esilio la famiglia degli Eneadi. Già nell’ “Iliade” è fatta allusione a
quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e
splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla
perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla
progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende
troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e
dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea. Già ENNIO
presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia era risorta in Roma, e non
andrà guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della
potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la
maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto
di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in
un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto
all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di
congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso
Julo, che comparisce nella genealogia degli Eneadi, or quale figlio, or quale
nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato
introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande
fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel
nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo
ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda
quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò
facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir
di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m un quesia
dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprese per bocca di
Caio GIULIO CESARE, ch'esso avea nel suo seno una progenie di celesti, e che
dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel
cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo
questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu
decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo
stupito, che la sua famiglia eraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae
maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum
est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere
Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum
qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote
state sunt reges » (1). Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non avea
che 32 anni di età , e non avea fatto ancora il suo ingresso nella politica
militante, comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che
avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la
origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di
rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo
vediamo stretto in lega con Pompeo , e SVETONIO, Caes ., avviato a compiere il
cammino trionfale che da Farsaglia lo condurrà a Munda, e metterà nelle sue
mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che
se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta
per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto
per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che fosse nata nello
stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città
greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano,
mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione
riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti
e di consuetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile,
senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda
troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli
oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria
destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini
fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come
la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo
conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per
legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante
della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si
spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del
suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo
semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle
sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre
tribù, e pose a ciascuna il nome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose
pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a
quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro i Sabini,il nome di
Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria
a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di
Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la
tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è
rispetto a quella III. del terzo. Il Lucumone di CICERONE
diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo
dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di
Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa
co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta
origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine
dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la derivazione dei Ramni da
Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei
nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la
origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il
nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine
etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione
romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco,
e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi
abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza
etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto
positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere
tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di
due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi
del gran ceppo italico,chePrima della pubblicazione della Storia Romana di
SCHWEGLER ,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli
storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der
Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte
der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,Römische
Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des
römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio,PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi
popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina,
anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER,
Römische Geschichte, –da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung
des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer,
Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere
la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären),
sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine
latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e
dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le
fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione
nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che
Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna
qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere
chiarito il significato del nome di questa terza tribù. Lucere vuol dire
risplendere; Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben
si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro
patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid
dimostra,a immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei Raseni. Noi
diremo gli argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri ; indi
ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro
provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la
origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una
tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che pas sati
sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati
fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza
tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi.
E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce
etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di
Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta
bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il
nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo
di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in
quanto che fu desunto dalla ubicazione geografica di Roma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma
in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto,
che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per
modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo
concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il
contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso
latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo
che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa
di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a
Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe
uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica
dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità, avvertita
e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei
costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della
origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove
intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono
dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero
dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la
lingua latina dovrebbe somministrare la chiave per decifrare le inscrizioni
etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da
assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due
diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co
stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele
eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la
straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità
della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni
religiose di Roma. Se i Luceri fosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana
conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di
divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle
due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi
culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e
Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo
culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in
che,rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei
Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco
esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal
l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la
compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato
d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi
che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che
quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore
aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità
dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc Taties Ramnesque
viri, Luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i
Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e
dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli
stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli
assegn ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il
Palatino, il Capitolino, il Quirinale e il Celio (il Viminale e l'Esquilino
furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati
; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni. E il
Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagl’Albani. Ora, se questi
ultimi ebbero per loro stanza il Celio, non saprebbesi davvero dove collocare
iLuceri,quando non siammettesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa
cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in
sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi
etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il
carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo
carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta
per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la
frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della
patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il
duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano (1). Se nel sabino
prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di
sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale.
E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento,
ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa
la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei Ramni,
dei Tizii e dei Luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro
comparisce, come parte costitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di
essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia
dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua
via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci
proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro. I Romani non erano
ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo
attesta Catone per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE
dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire
romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata
particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten
Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier
und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte,
Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom
Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER,
Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum
Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange,
Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer,
Berlin. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto della
origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che la
plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da
ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto in
cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo
fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi
riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda
l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un
assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato
romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della
condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del
patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso
modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè, nei primi tempi dello Stato romano, la clientela,
caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua
dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e
comprendeva ilceto nella sua generalità,quelladellaclientelaimpe gnava
giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò
esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che fosse
ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure
politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa
condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro era assai diversa.
Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre
ilplebeo possedeva su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine
suffragio); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo
divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei
conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora,
questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente
spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al
modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e
l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò
la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un
impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il
cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che
egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure
Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se
l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza
cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiil dominio
del Settimonzio. Gli abitanti primitivi di quella regione devono avere formato
il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via
ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef
fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e
degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già
l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi
vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena
applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie
imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane,
traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso
della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in
modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti?
Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi ramni formato
il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani.
Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel
loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri
popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicassero in tutto il suo rigore
il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse
usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della
importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi
come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e
beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non
dimentichiamo che questi plebei son Latini. La tradizione stessa ci dice quando
e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La
distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio ,
portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a
vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice
di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha
trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente
dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque
Con latinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina
humanaque omnia in meam populique romani dicionem? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda
del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.] egemonia
sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto Anco Marcio. Non è dubbio
che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti
fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a
base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a
luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa
vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti? Gli storici
antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice CICERONE, quum
Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto
di CICERONE, osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum
priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti
nellacittadinanzaromana: «tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem
acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale , che fa materialmente introdurredaAncoinRoma
questivinti, eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia .
In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in
contestabile, chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato. Ma
lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto
tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti
Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da
Roma contro i Latini, e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse
fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se la conquista
d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la
formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri.
Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine
adAnco,e promette, che procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione
di una condotta rispetto a'vintinei re di Roma, cosi diversa da quella che per
molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè
insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione
di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti
sul gravissimo tema della ori [Lo fece abitare la “les Icilia de Aventino
publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta
di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che
sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , DeRep., Liv.] gine della
plebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del
Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, laquale, oltre ad avere il suffragio
delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe
fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè
indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate
dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente daiclientie dai
liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione
in più modi. Ora, essa ci dice che Servio Tullio, per poter avere l'appoggio
della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittà i rurali, e per bocca di
CATONE ci dice che gl’agricoltori formavano il nerbo della fanteria romana.. Ma
un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze
plebee, ossia i comizii tributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato
(nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di
mercato (trinundines) prima di essere messa a partito Anche la condotta tenuta
dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli
storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e
patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che
attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il
commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerarono in « Ex agricolis viri
fortissimi et milites strenuissi migignuntur -- Catone, De re rustica , Praef.,
MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas,
ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso
rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque
consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a
singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su
l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'Esposizione
Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli
economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce
sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta.
Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su
gli uomini e su le cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto
dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo
la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la
libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ;
essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo
affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico
consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla
terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai
consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi stati. Ma la terra non è
per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E
questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli
porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della
vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare
il campo da Siracusaerifugiarsia [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo
pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo,che
sebbene la genesi di quel ceto non possa essere chiarita in tutti i suoi particolari,
tuttavia hannosi dati positivi, I quali rilevano di che elementi fosse formato,
e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una
generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci
dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della
plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai
secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare,
erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per
effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la ro vina di
Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso.
Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli
dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento
che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo
fisico, dinaturadeleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano
cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono
mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva
dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le gerarchie
sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un
altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico
d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e
comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che
la sua pace.Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria
! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma
questa materia in luogo di essere per luiunmistero,èinvece una rivelazione.
Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può
trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche
sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli
può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi,
ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora
sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può
chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai
possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa
rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? » guerre civili,
come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità conjattura della loro
libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanimeepaziente della plebe
romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne facesse
maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco
patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le
quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo
educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del
mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle
teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo
alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle
forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie, e facile creare una simbolica,
per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura
fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale
al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel
fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre,
quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per
ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più
popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi
di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la
nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa
dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a
Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for
mazione del primo stato. E clienti diventarono i prischi abitatori di quella
contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato
romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu
fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba
Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar
si volle all'antica metropoli; sial'interesse político,che
consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le
città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione
portano per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro
consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa
larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più
ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che,
rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se
eccettuisi Alba Longa, che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città
latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza
vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento
eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti.
Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che
iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore,
vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel
fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella
connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine
all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non
poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni;
e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive
istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma
ebbe rafforzato il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei
ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono
rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine
sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare
la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella
forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere
un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due
circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur
essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio
gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato
di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da
pleo, plenus). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un
organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà
che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio,
al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di
ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che
aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima
breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione
della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione
di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta
la persona litàgiuridicacheimplicavailjus commercii,essanonavrebbe po tuto
pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la
riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata
la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution,
self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical
illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Genovesi – logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione
del Genovese). Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a
good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli
giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi
reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in
that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates
taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly
the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not
teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is
possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate
that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to
actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for
something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.”
– and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice:
“Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any
writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the
natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation
and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and
sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a
palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Figlio di Salvatore, calzolaio e
piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango. Il padre lo indirizza
in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò Genovese,
un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia
peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. Nel corso degli
studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò
l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il
figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri
Agostiniani dove seguì gli insegnamenti filosofici di Abbamonte, appassionandosi
al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal
quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasferì a Napoli, dove
intraprese dapprima la carriera forense, che lasciò presto. Fonda una scuola
privata di metafisica e teologia. A Napoli fu in contatto con Vico e ottenne la
cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae”
furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento
dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e di Benedetto XIV per
conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento
della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra che era stata tenuta
in passato da Vico. L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con
il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a
mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio
e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui
si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle
istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione
camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che
Genovesi divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi
accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti
di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia
di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi
di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché,
sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e
coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che
si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo
caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà
in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di
Genovesi e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi.
Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo,
cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della
filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale
italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della
pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato di
"oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les
Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale
dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità
di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi
splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici
e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi,
feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non
pensare più a queste materie.» Per tale motivo, abbandona la metafisica e
si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve
servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene
che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e
la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue
lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra
istituita appositamente per lui di “commercio e meccanica” a Napoli da Intieri.
Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi
periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì
infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i
contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento
fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di
conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini
e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi
all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i
mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono
esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di
debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero economico
è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile e considerate una delle prime opere di
filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme
fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del
protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne sempre le sue lezioni
in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere
stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per
essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in
italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio
dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è
ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo
un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem
adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi
dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere
filosofiche; Lettere Accademiche;
Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per
i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari,
che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero politico,
Giuffrè, Peter Jones, Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario;
Genovesi, Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University
Press,.Antonio Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. 10 maggio.
Lucio Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Le Monnier, Chines,
Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di Genovesi, Pensiero
politico, Davide Alessandra, Antonio Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo
meridionale, su historiaiuris.com,. M. Bonomelli (a cura di, Quaderni di
sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede
bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa,
Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico
Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Economia
civile, Il Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, Antonio Genovesi e il suo
mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite in soffitta. Saggi
di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Giuseppe
Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, G.
Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere
accademiche di Antonio Genovesi, L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau:
le autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, D. Ippolito, Antonio Genovesi
lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica, C.
Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi,
Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di
Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio,
Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M.
Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di Antonio Genovesi nell'edizione di
Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e
sociali, Wolfgang Rother, Antonio
Genovesi, in Johannes Rohbeck, Wolfgang Rother: Grundriss der Geschichte der
Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Rosario
Villari, Antonio Genovesi e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo
sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo
analitico di Antonio Genovesi, Studi economici, 2V. Gleijeses, Napoli nostra e
le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Pietro Napoli Signorelli, Treccani,
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale
Italiana. Opere di Antonio Genovesi /
Antonio Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Antonio Genovesi,. Luigino Bruni,
Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Saverio Ricci, Genovesi, Antonio, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. 13 novembre. Corrado Barbagallo, Antonio Genovesi,
Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. Antonio Genovesi 1 2 non è uno
di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al pensiero
filosofico. A paragone del grande Giambattista Vico, che si gloria
di aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue opere
con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come uno di quei mille
ammiratori, più o meno sinceri, che il Vico ebbe tra i suoi contemporanei
e tra gli uomini più illuminati delle generazioni successive; i quali
ebbero un certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no
con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare tra le parti
accessorie del suo sistema, ma pei quali i problemi originali posti e
risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero senso. Se pertanto nella
storia del pensiero il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’
nostri occhi di storici che han penetrato il significato di quei
problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬ viazione. Quella
vena speculativa altissima nello scolaro Discorso tenuto al Teatro Verdi
di Salerno, il 17 gennaio 1932, ì n occasione del monumento inaugurato lo
stesso giorno a Castiglione del Genovesi. L’illustre Vico, uno de’
fu miei maestri, uomo d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di
Comm., Napoli, Il nostro Vico nella Scienza Nuova, libro
maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬ terie [su Omero] facciano
onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Mi¬ lano, Classici italiani, ALBORI
DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada,
abbandonando gli ardui argomenti con cui s’era cimentato. Ma
il paragone col Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in
verità appartengono a due piani storici, da uno dei quali non si passa
all’altro direttamente. Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i
problemi del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per
vedere quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa, con diversi
interessi spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato sempre al
cielo, e lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno se non
come uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge
alla sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si
assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai
dolori della vita quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del
dramma che egli ama studiare e nel cui studio concentra infatti le
energie più potenti della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra
i coe¬ tanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di
questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬ mente, sia a questo mondo
legato così strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo,
scrutato con sguardo penetrante fino al profondo, aspiri
appassionatamente a intendere il significato, e in questo mondo
appunto agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,
col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol vederlo sub specie
aeterni, come mondo che è sempre lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che
assume bensì aspetti sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove
con immutabile legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo
che si agita intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle
città e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli, per
tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del popolo e l’educazione
dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi
della feudalità e della manomorta; il problema della moltitudine
degli ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi
la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria- lista in difesa
dei diritti dello Stato; e via via tutte le questioni che erano
all’ordine del giorno nella Napoli del tempo, o che uno spirito alacre
ricavava da quelle a cui la pubblica opinione s’interessava. E poiché i
paesi allora alla testa della cultura europea erano insieme
Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in quelle lingue i
più letti, celebrati e discussi, ecco quelle lingue, insieme con le
classiche, a cui il Vico si era limitato, studiate e possedute con animo
pronto a seguire il movi¬ mento della letteratura straniera in ogni campo
di ri¬ cerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente
l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accade¬ mico della
scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove ancora il Vico, modernissimo
per la sostanza de’ suoi problemi, arcaico per la forma (lingua ed
erudizione) E la modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬
lismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre cittadino di
Napoli. Genovesi guarda più in là del Garigliano e del Tronto. Egli si
sente italiano; e come italiano, partecipe dell’unica società europea
della cultura. Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio
mondo tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e
dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre della scuola
della letteratura e del pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza
d’interessare gli uomini, tutti, al sapere e al lavoro dell’
intelligenza. Siamo, come dicevo, in un piano diverso da
quello della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-
nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per risorgere in forma
più adeguata alle sue esigenze più profonde. Ciò che è tante volte
avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero
sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e corpulento,
e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per ridiscendere tosto al
concreto della realtà che con quell’astrazione ha cercato di definire e
più perfetta¬ mente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,
e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto dell’essere che
tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di ogni esistenza e di ogni luce.
Il progresso è pur sempre in certo modo regresso; e se si volesse andare
avanti, avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto. Bisogna
a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare la terra per rialzarsi.
Toccare la terra, s’intende, come l’Anteo della favola, da gigante che ha
già la forza per rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di
co¬ scienza filosofica. Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual
fosse il suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso
sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che pubblicò
innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire
Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per giustificare la nuova via
per cui egli si metteva, dopo aver anche lui pubblicato i suoi libri di
Logica, di Me¬ tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi
stessi libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze
innova¬ trici del Genovesi e il carattere dominante del suo pen¬
siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a dare un sommario
cenno ; ma ancora non è avvenuta la radicale conversione per cui la mente
dello scrittore, dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali
una ma¬ teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma
storica, e ritrovò propriamente se stesso. In questo Discorso il
Genovesi propugna una sorta di filosofia « reale », com’egli dice, e cioè
pratica ed applicativa: come dire una filosofia non propriamente specu¬
lativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati filosofi
della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì la ragione come quella
che << più di tutte le nostre doti ci rassomiglia a Dio », « la
sola cosa, per cui l’uomo si solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la
ragione, «arte universale » governatrice di tutte le arti e strumenti
onde l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬
zionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il benessere. Ma ne
addita nelle astratte speculazioni e schernisce i deviamenti già nell’antichità
derivati appunto dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni
oziose, sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e
l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione fallace.
« Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬ gliono più
stimare quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici. I don
Chisciotti della repubblica delle lettere, combattenti con gli
indistruttibili giganti delle chimere, per la gloria vanissima di
sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima,
ed usur¬ parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca
fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’
secoli assai più vicini buona parte del- 1 ’ Europa ».
Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una « filosofia
tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i legislatori, i padri,
i sacerdoti delle nazioni, studiosi di etica, economica, politica;
persuasi anch’essi, al pari di tutti i buoni cittadini, che, « come
partecipavano a’ comodi della società, così dovevano aver parte alle cure
e alle fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i
tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio fosse un
nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬ nita di coloro che
sono «peste del vero sapere e della virtù»; «i quali si credettero nati o
per garrire inutil¬ mente, o per disputare di cose inintelligibili, o per
met¬ tere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni, le
leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Ven¬ nero i
grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei poeti, o
mercanti de’ propri»; vennero i metafisici, «Penelopi della filosofia,
implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle loro mani »
; verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli
alla ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie
gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto
». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto che richiamò la filosofia
dal cielo in terra e a cui infatti gli uomini devono di sapere che tutto
quello che si vuole intendere essi non lo possono cercare se non nel
pensiero, cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui
se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella possessione dell’uomo
essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova menzionare altri che
Aristippo e Diogene il Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a
scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e
l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone e le entelechie
di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole di ragione » degli altri più
celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si
può leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-
l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze di carta, che
stimano del più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con
i Giganti distruttori del- l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce
fuor del nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra
cosa, fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ». In
questa caricatura della storia della filosofia super¬ fluo avvertire lo
strazio che il Genovesi fa delle più im¬ portanti dottrine dei maggiori
pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico
documento degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e
insieme dello spirito che la moveva:«La materia prima, che
Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi, fu di sì vivi e vaghi
colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni altri, che divenne una
Divinità, la quale poi il più empio e il più freddo de’ filosofi del
passato secolo, si studiò di adornare con un sistema geometrico ».
Allu¬ sione a Spinoza, che pure Genovesi aveva studiato con grande
interesse ’. « Alle quali cose quante volte io penso », conchiude
il nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori, i
pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman genere si
sostiene, abbian potuto tollerare in pace una razza di uomini, i quali,
lungi di dar loro il menomo ri¬ schiaramento e aiuto nel tempo medesimo
che de’ frutti della loro industria godevano, pare che si ridessero
delle loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di altra
specie, fatti da Dio in forma umana per servire a’ loro piaceri ».
Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura- zione dalle
fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che « si poteva essere filosofo
con assai gloria, senza essere peso inutile agli altri uomini ». Lo
studio della natura, l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni
», la geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande
onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe il suo Ercole, uccisore
dei mostri che la infestavano. L'Italia ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase
lungo tempo chiusa a questa nuova scienza, forse perché con maggior
vigore questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin-
1 Cfr. la sua lettera a R. Sterlich; dove racconta come potè
studiare, quando aveva 28 anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti, fam., ed.
Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬ boni,
doveva promuovere. Genovesi ha qui un concetto che rammenta l’hegeliano
spirito del mondo. « Egli è veramente un certo Genio, che discorre per le
nazioni, e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello
che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e le belle arti ». Ma
questo Genio, secondo il Genovesi, « vuol essere sempre
accarezzato, sollecitato e alimen¬ tato. Può dirsi che la curiosità, la
più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la
gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi e
’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’ali¬ menta ».
Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬ deva a Napoli le più
propizie condizioni create dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo
Regno. Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,
delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta. Ma « un certo
lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia
attaccato agli scrittori. La ragione non è pervenuta ancora alla sua
maturità: è ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore
e nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile. Bisogna
che diventi pratica e realtà; come può solamente quando « tutta si è così
diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come sovrana
regola, quasi senza accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la
cogni¬ zione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia,
ed in Dio non ci sono Enti di ragione»: cioè le astrattezze che si
annidano nel cervello dei filosofi. I dotti napoletani hanno bensì
coltivato lo studio delle leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei
dialettici: questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla
vita. Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il
Genovesi, c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore; e c’è cattivo
gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più
grandi quando sono ammirati come incomprensibili, che quando stimati
come utili. La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli
da sedici anni) aveva dimostrato al Genovesi che Napoli era un
semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori ingoiavano
avidamente la nuova filosofia prima di di¬ gerir la vecchia. Avvezzi alle
sottigliezze vane e alla « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano
per fare il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano
già trasformato la cultura inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo
dunque « una volta la seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione
al giusto desiderio della parte più grande degli uomini, i quali ci
vogliono men contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il
divin dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere non
è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al
popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬ minato, e non seguito nella
sua naturale ritrosia alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento
tenace alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle
osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere in¬ gentilito,
rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi operare su di esso non
con le leggi che non cambiano gli uomini, sì con la « savia educazione e
coltura di questa sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia
a sbucciare dal suo guscio ». Curare l'educazione. È uno
degli articoli principali dell’apostolato del Genovesi 1 ; poiché i
contemporanei, a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le
piante 1 Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di
Comm., parte I, cc. VI e Vili; e Logica, Senza educazione «oltre¬
ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove
avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬
uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura
ne’ loro giardini, che non i figli. E raccomandava la massima
diligenza nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,
mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto
vivo che ce ne ha lasciato: « I maestri di scuola pongono poca cura
a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti
d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto,
che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che
gentilezza: la loro lingua è più fre¬ quentemente un gergo corrotto de’
vari dialetti del nostro Regno, che la bella e nobile della pulitissima
Italia: final¬ mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più
puro e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar
assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il cuore. Un
solecismo o barbarismo in lingua latina è da loro più severamente punito,
che molti a’ gentiluomini sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi
solecismi di ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano
e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono senza
misericordia, e gli trattano più da servi, che da figli: tutte cose più
atte a fare o stupidi o villani o zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli
nel sapere, nelle virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi
ben anche spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito
dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri
ragionevoli : che i fanciulli si curan colle mazze». 3. — Un
filosofo che parla questo linguaggio umano, familiare, e che pensa come
s’è veduto, dei filosofi e dei loro sistemi, evidentemente non è un
filosofo di professione. Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire
più e meglio dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente
an¬ dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle Si
che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e
venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬ stidio verso le
questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro cervelli, certo
potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se
ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità, appena se ne
presenti l’occasione. L’abate Genovesi, nato nella terra di
Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di
filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per due anni
filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa
di moda allora nel Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle
ecclesiastico, obbligato ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli
ordini minori nel 1730, promosso suddiacono nel settembre '35.
Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario di Salerno, vi
rimane due anni, studiando per suo conto con gran fervore ; finché nel
'37 sarà ordinato prete J'e un’eredità allora conseguita gli consentirà
di recarsi l’anno appresso a Napoli, per appagare in quella Università
e nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli la
sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò molti corsi; tra gli
altri, fino al *41, quello di Giambattista Vico; di cui, ci racconta un
anonimo biografo, aveva già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il
perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù,
ebbe l’onore della sua amicizia » Insoddisfatto della filosofìa che
s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua scuola privata;
finché nel '41 il Cappellano Maggiore monsignor Galiani, che era l’uomo
che poteva intenderlo, gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università
Metafìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza 1
Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor. nap.,
1924, p. 261. 2 Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e dettava agli alunni,
come volevano i rego¬ lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne
nacquero gli Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi;
il primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico con
cui la dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro ai protestanti),
per le novità che conteneva, per le con¬ cessioni che faceva al
razionalismo, per quello scetticismo moderato che vi dominava, procurò
all’autore ire e per¬ secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una
serie di contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il suo
animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno,
monopolio quasi esclusivo dei frati. Ma ecco che nel '44 il
Galiani gli viene in aiuto pas¬ sandolo dall’ incarico di Metafisica alla
cattedra ordinaria di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno
del Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con grande
efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬ dernità della
dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬ stioni trattate. Pure alla
Metafìsica nel '45 s’aggiungeva in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa
in latino. E queste opere si ristampavano e si diffondevano in
Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva scrivere a un
amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬ logi e frati, non può
piacere ai fìsici e ai matematici, come neppure piace a me. E con tutto
ciò, la Logica e la Meta¬ fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e
in quasi tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché
questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel loro andamento
eclettico e largamente informativo ben s’adattavano alla tendenza media
degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi
nella tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera
1 Leti, jam., II, 67. e farsi una filosofia senza compromettersi;
ma, come si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche
i due libri De iure et officiis eran nati dalla scuola e per la scuola
(in usum tironum) ; e del pari altri due brevi compendii latini di Logica
('5 2) e di Metafisica. Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una
scuola a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬
blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non scriverà più
latino. Che gioia quando fu istituita per lui, nell’ Università, la
cattedra di « Commercio e Economia », fondata dal suo vecchio amico,
facoltoso e autorevole, il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di
macchine agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla
toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il Genovesi si
sentì davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel
pubblico per il nuovo insegnamento ; ma potente altresì l’estro del nuovo
insegnante e l’im¬ peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5
novembre del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento
nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della cultura
napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬ sta del Genovesi fu la
prima cattedra istituita in Europa di Economia politica: dovuta, s’intende,
non al semplice intuito d’un privato ma al movimento degli studi che
la situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto. In una
lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a un amico 1 : « Nel dì 5
corrente feci il mio discorso pre¬ liminare, 0 sia l'apertura alla nuova
Cattedra del Com¬ mercio con uno straordinario concorso, tuttoché io
non avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente aver
mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che dissi. Con
tutto ciò il discorso fu ricevuto con applauso, e subito diffuso per
tutta la città. È stata Leu. falli., I, 108.
bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire,
che dopo averlo letto n’aveva perduto anche l’originale.... Il giorno
seguente cominciai a dettare. Grande fu la meraviglia in sentir dettare
italiano ; sicché, essendomene accorto, nello incominciare la
spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar
di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola è stata
sempre piena in guisa che molti non ci hanno trovato luogo ; ma la
maggior parte sono uditori di barba, e di vari ceti. Gli scriventi sono
circa cento.... Gran moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i
ceti domanda¬ vano libri di economia, di commercio, di arti, di
agri¬ coltura ; e questo è buon principio ». Da questo corso,
che il Genovesi proseguì finché le forze gli bastarono (morì il 23
settembre 1769, ma un anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la
cat¬ tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia
di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della
nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di
amore del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬
zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬ mercio della
Gran Bretagna di John Cary con un Ragio¬ namento del Commercio in
universale e lunghe e impor¬ tanti annotazioni del Genovesi sul commercio
del Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il
laborioso scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle
sue opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche, che
arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammira¬ zione del Baretti 1 ;
e del '59 le Lettere filosofiche ; come 1 Da leggere l'articolo
che gli dedicò nel 2 0 numero della Frusta Letteraria: dove il Baretti
giudica il libro con questi termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra
le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua, io non
ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, del '64 le
Lettere accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di
filosofia. E volle scriverlo per i giovani (com’egli stesso faceva sapere
a un amico) « che son curiosi di sapere se le scienze potessero così
parlare italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬
tivo che mi muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho
nondimeno per vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di
scienze e di arti nella sua lingua è barbara ». Perciò in Francia
nell’età di Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in
francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si
cominciava a fare in Germania. Dove non si scrive nella propria lingua,
dice il Genovesi, si accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma
questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da antiquari d’onde
non tralucono che pochi tenebrosi raggi. E nelle stesse Lezioni di
Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e di
vera scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio, sublime
ed aggiustatissimo pen¬ satore Antonio Genovesi ». Al Baretti
non andava lo stile del Genovesi, seguace della scuola toscaneggiante del
Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui asso¬ lutamente, e questo è lo
stile suo.... perché troppo a studio intralciato e rigirato si, che non
poche volte abbuia il pensiero. — Com' è pos¬ sibile, ho detto tra me
stesso mille volte leggendo queste sue tanto stimabili meditazioni, —
com’è possibile che un uomo il quale è una aquila quando si tratta di
pensare, si mostri poi un pollo quando si tratta di esprimere i suoi
pensieri ? Come mai un Genovesi ha potuto avvilirsi tanto da seguire i
meschini voli terra terra di certi secchi e tisici uccellacci di Toscana
? Eh, Genovesi mio, adopera gli abbin¬ dolati stili del Boccaccio, del
Bembo e del Casa quando ti verrà ghi¬ ribizzo di scrivere qualche accademica
diceria, qualche cicalata, qualche insulsa tiritera al modo fiorentino
antico e moderno; ma quando scrivi le tue sublimi Meditazioni, lascia
scorrere velocemente la penna....; e lascia nelle Frammette e negli
Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬ gevolissimi libercoli i tuoi
tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte quell’altre cacherie e
smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram- maticuzzi vorrebbero
tuttavia far credere il non plus ultra dello scri¬ vere ». 1
Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico » che una
nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti,
nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i
libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere da
una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una
picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del
lume delle lettere.... Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre
idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in
un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze
saranno in un gergo stra¬ niero alla maggior parte del popolo, avremo
sempre, dice il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo
perduto, molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né
ha possibile di avere delle buone teste ». Con questo ideale di una
scienza che penetri il popolo per svegliarne e metterne in moto tutte le
forze morali ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando
furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica istruzione ed
egli a tal fine invitato a scrivere un Piano di riforme 3, non dimenticò
nelle sue proposte le scuole del popolo —; voleva metodi razionali e
semplici perché fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c
ai giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬ chia
letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬ feconda, si
rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle arti più necessarie alla
vita; e voleva, come sè visto, libri in italiano, attraenti e di facile
lettura. Ma aveva pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il
popolo dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle
coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne Per questo
Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A.
Genovesi, Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a
quel rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli
uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli era l’apostolo.
Tutto il suo sistema riformatore era in¬ somma ispirato a una
filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati
di Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬ ranei e
più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬ zione che della Logica
volle curare, nel 1832, il Romagnosi), sono entrati a far parte della
letteratura filosofica nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi
non ri¬ cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e
prepararono. Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista,
e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina L’uomo per essa è immor¬ tale.
Per essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a
viver felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza.
Essa è energia ( energetico , dice Genovesi) perché è anche passione,
cuore i. Non 1 Come empirista, Genovesi, pur non ripudiando ogni
metafisica, insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche
speculative alle questioni essenziali per una concezione sana e morale
della vita. Insi¬ stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano.
Vedi Gentile, Stona della filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano,
Treves, ’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza di
Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬
chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità
delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in
special modo la lett. del 2 aprile 1763 a P. Saffiotti. Vedi
Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la
passione; una passione infatti si combatte con un’altra passione. E
poiché ogni essere è ragione, e soffre e aspira a godere, essa, non
essendo individuale, ma comune e universale, stringe in un vincolo di
amore gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in
una concezione leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché
anche per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici di
cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali, attive. E tutte le
qualità sensibili dei corpi non sono altro che fenomeni, nostre
sensazioni. Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in
tutte le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi. In noi
questa forza si svela nella ragione, che è prima di tutto coscienza,
affermazione di sé. Questa forza è attiva e tende perciò a svilupparsi,
ad estendere il suo dominio, a trionfare. Il mondo non è, infine, se non
questo svol¬ gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere
è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è benessere in cui lo
spirito viene ritrovando e procuran¬ dosi le condizioni più favorevoli al
suo sviluppo ; è amore degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene
adempiendo in comune il destino della sua natura, la libera vita
della ragione. Questa la fede del Genovesi. Questa la
sorgente dell’en¬ tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo
dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,
infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della
potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi,
animando i giovani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la
feudalità in fa¬ vore dei lavoratori della terra e della nascente
borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il
pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione;
contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse
il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione.
Antonio Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu un educatore di
rivoluzionari, che quando scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o
crederanno di obbe¬ dire alla voce del vecchio maestro accogliendone
una scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso
incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di una grande fede
idealistica ancorché astrattamente gia¬ cobina, santificata dal martirio
0, uomini di grande accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco,
con più profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi, ne
trarranno argomento a una più realistica concezione politica della
libertà necessaria al popolo napoletano: poiché vedranno come il maestro
aveva veduto, che questa libertà non poteva essere vitale, se non era
forte della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato
infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un
corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia
unificata dal Galanti, il più fido dei discepoli del Genovesi, passò al
Cuoco, e dal Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era
stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬ memorazione io non
potrei meglio concludere che rileg¬ gendo una sua pagina del 1757, a
proposito della sicurezza necessaria al commercio, e impossibile senza
una fiotta militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno
di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia:
«Vorrei io», scriveva nel detto anno il Genovesi, «in questo luogo dire
un pensiero, che ho sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo
tut¬ tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1
Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni, Le
origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬
sina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬
scono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque parte
sia per prendersi da chi non guarda più in là del proprio utile.
« A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del suo sito,
e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella altre volte fatto e
fa eziandio, tuttoché divisa e come dilacerata, si converrà di leggieri,
ch'ella tra tutte le na¬ zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché
il suo clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito
rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più perspicaci e
accorti e destri e capaci di scienze e di arti e duranti di gran fatiche,
e oltre a ciò più amanti della vera gloria, i suoi popoli, di quel
ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro
al- l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma dive¬
nuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono ? Ella non è stata
di ciò causa la sola mollezza, che le con¬ quiste de’ Romani
v’apportarono; perocché questa mor¬ bidezza, che le ricchezze e la pace
v’avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo
avvi¬ limento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante e
sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo primo nome e
l’antico suo vigore. « Gran cagione è questa della ruma delle
nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti
principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la quale hanno spesse
volte, e più ch’essi non vorrebbero, sperimentata e al comune d’Italia e
a se medesimi fu¬ nesta, volessero meglio considerare i propri e i
comuni interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ri¬
dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire il vigore degl’
Italiani. « Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra
delle formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri. che
la facessero stimare e rispettare non che dalle po¬ tenze d’oltremare,
che pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli che sono in
Europa. Ella non vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la natura
le ha cir¬ coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il
suo. Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le
industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e
la pristina bellezza prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori
di tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto platonico. E
mi pare che i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri
gelosi, che per massime vecchie che son passate ai posteri più per
costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle
cagioni di reciproci timori, che pote¬ vano una volta essere ragionevoli,
sono ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si
considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le
cose sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla
concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e vero interesse
suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da riunire i gelosi
? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà che ti condusse
in terra. Ti volga al tuo diletto almo paese » ». Al
Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬ tori italiani del
Settecento, spetta il merito di essere stato il più italiano di tutti.
Egli scosse il petto dei giovani, e vi infuse una fede nella civiltà che
è scienza ed è libertà. Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non
c’era, ma co- 1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna,
Napoli, 1757, II, p. 35. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa
nelle sue Letture del Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed
egli l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua
voce si riper¬ cosse di generazione in generazione, finché l’Italia
venne. E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la
letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬ zando l’accademia e
l’ozio ancorché dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella
cultura, a servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla
morte. Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente
sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni
cupidigia e pretesa mondana; libera la ragione, rispettata come cosa
sacra la scienza, e la scuola che la promuove. E di là dal breve confine
della provincia, per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata,
consa¬ pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del
Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome; perciò devono
annoverare Antonio Genovesi, lui così modesto, così riservato e chiuso
tra la scuola e i libri, tra i padri della patria. E nella scuola
italiana particolar¬ mente deve esser ricordato come esempio ed
ammonimento contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre
rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio
Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal suo frizzo,
hanno cambiato veste, e non natura. E contro di essi bisogna ancora
combattere, ancora difendersi. Perciò Genovesi è vivo. GENOVESI,
Antonio. - Nacque il 1° nov. 1713 a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi),
piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito
dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo
benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e
viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola
proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e
socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella
società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla
carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada
percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione
intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta
sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato
a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio,
praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici
anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica,
per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di
un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico
cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste
incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P.
Zambelli, La formazione, pp. 797-916; la seconda al 1755: Vita di A. G., in
Illuministi italiani, pp. 47-83) ci trasmettono il ritratto di un adolescente
vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità
intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica.
Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un
altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta
la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il
nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre
sorvegliava attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La
rigidezza paterna ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si
innamorò, ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire
che questo amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose
il trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti,
mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur
profondamente addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e
possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto
e animato, gli offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che
migliorò la sua preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e
il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo,
spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio
dell'arcivescovo di Salerno G.F. Di Capua, che ne aveva apprezzato le doti
esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il
seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote nel Natale del
1737, l'anno seguente, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da
uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera
forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il
resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura.
Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione
forense, che gli parve avere "poca conformità […] con le massime del puro
cristianesimo" (Vita, p. 53), insofferente del formalismo giuridico e
dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò
le lezioni di N. De Martino e dell'ormai anziano Vico - di cui già conosceva la
Scienza nuova -, conobbe P.M. Doria, si legò di amicizia con Appiano Buonafede,
che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo
(Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia 1788,
p. 266). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La
repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai
neoplatonici di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una
traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel
1739 aprì una scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di
filosofia e di teologia", in particolare il "piano di un'etica"
(Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in
quest'esperienza - che durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che
caratterizzerà tutta l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo
d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del
docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i
giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono
l'amicizia e la protezione di M. Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del
cappellano maggiore C. Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura
newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia delle scienze e promotore della
riforma universitaria, da poco avviata. Attraverso il Galiani, il G.
ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di
materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel novembre 1745. Era nel
frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo
programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento
apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura
innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima
dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli 1743), prima
tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per
queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione
del revisore regio G. Orlandi, l'opera fu duramente attaccata dagli ambienti
ecclesiastici. La protezione del Galiani e la disponibilità ad accettare di
chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata nel 1744 salvarono il
G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a
Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario
di M. Di Sarno, bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di
Salas), primo segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono
l'attenzione di A. Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere
filosofiche sulla natura delle idee, stampate nel 1746 (poi in
Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per
la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in
collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa
physicae di P. van Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio
physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e
precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La
manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una
visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di
Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi.
L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica
Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli), che gli procurò gli elogi di
L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi totalmente perduto,
destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi
attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a
causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale
dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G. Spinelli. Pubblica
la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto XIV con l'evidente
scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento
la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli
Universae theologiae elementa. Quando, nel 1748, si rese vacante la cattedra di
tale disciplina, il G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone
probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò violente opposizioni. In
base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I. Molinari, la Curia
romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la
revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a
evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti,
ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre
provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si definiva mezzo
molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione fu assai tiepido
l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia non solo alla cattedra, ma
anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli
Universae theologiae elementa, provocando la decisione del G. di abbandonare
"studi sì turbolenti e spesso sanguinosi" (Vita). Il G.
continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva il completamento
della Metafisica con un quarto volume, dedicato al giusnaturalismo.
Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le
basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in
grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi
si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di
cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni
amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice,
gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che
in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato
nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e
cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue
multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi
esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI,
con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a
stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura
internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani e la loro
concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo
dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des loisdi
Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza
l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante
nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare
loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di
modernizzazione. Vero e proprio manifesto del programma riformatore del
gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la
novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero
fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella
villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a
Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far
rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba
orobanche di P.A. Micheli. Il G. operava così la sua scelta di campo,
presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più
attivamente impegnato nella sua realizzazione. Requisito indispensabile
per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica,
economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità
nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la
"studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da
speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di
idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio
dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva. A questa
istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne
rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università
di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia
politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500
ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa
venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e
che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La
nuova cattedra fu inaugurata il 5 nov. 1754, con grande affluenza di pubblico.
Il G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel
ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in
apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary
(Napoli). Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la
traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M.
Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato
l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol 1695), e la
traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T.
Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da
altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran
ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli
Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di
economia civile. Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo
corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano
gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de Fortbonnais. Ambedue le opere
avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in
certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e
acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi
allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione:
definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee
di un programma di politica economica per il governo, nel quadro
dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia
istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il
cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di
letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche
condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi.
Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. furono la Spagna e
l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa,
per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il
modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le
strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si
documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa
nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale,
approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni
Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a
Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una
serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e
statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento
demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà
attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare
gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di
società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società
provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del
tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo
qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso
libero dai vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione
del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave
carestia che colpì il Regno nel 1764, attraverso la pubblicazione
dell'Agricoltore sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni
sull'economia generale de' grani (Napoli; traduzione della Police des grains di
C. Herbert, Berlin 1755), da lui prefati e commentati. La fiducia nella
possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente
consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La
concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice
di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai
propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai
appariva a G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo
l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i
problemi della società civile quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione
nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione
della sua attività. Tra il 1764 e il 1769 il suo impegno politico e
culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di
funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento
universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per Tanucci e per
la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla
liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla
monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex
gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia
giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per
l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta
alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla
pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della
sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte un corso completo di
"istituzioni filosofiche per i giovanetti", in italiano, articolato
nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e
dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche(ibid. 1767).
Contemporaneamente, il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des
lois (pubblicate postume nel 1777). In questo contesto si collocano le
tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui il G.
lavorò direttamente: le due napoletane, rispettivamente 1765-67 e 1768-70 e
quella intermedia del 1768, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle
Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due
edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli
scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si
amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che
nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più
compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna,
attraverso la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali
della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in
una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni
intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti
recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche,
le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un
vero e proprio work in progress di letteratura militante. Il G. colloca
le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla
società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e
psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una
sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della
situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle
Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più
caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi
della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della
comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di
conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella
Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può
realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione
pubblica. La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769. Negli
anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate
difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti
(Napoli 1772). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree
d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle
Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà
l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata
verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai
problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON
di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti
sia la Storia del commercio(Leipzig 1788), sia le Lezioni (ibid. 1776), a cura
rispettivamente di A. Witzmann e di C.A. Wichmann. Molto più ampia fu invece la
diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola
iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle
Lezioni (1785-86), a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua
portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento
universitario per tutto l'ottocento. Edizioni: Illuministi italiani, V,
Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 3-330;
Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962;
Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F.
Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi, Torino 1977; Delle lezioni
di commercio o sia di economia civile, Varese 1977 (rist. anast. dell'ed.
Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli 1984; Se sieno
più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G.
Gaspari, Carnago 1993; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli
"Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli 1998; Dialoghi
e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E.
Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a:
Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch.
di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari
gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte
Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi, 164;
Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie
economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie manoscritte della Theologia
sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III.16; Ibid., Biblioteca
provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana,
Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.;
Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate
a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid.,
Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi
Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena,
Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid.,
Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla;
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autografe inedite alla "Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di
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politico, Milano 1966; O. Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.:
scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda
metà del XVIII secolo, Roma; M. Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del
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De Luca, Gli economisti napoletani del Settecento e la politica di sviluppo,
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della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano 1987, pp.
237-260; M. Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e
la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti
culturali, in Prospettive Settanta; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità
nell'opera manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici,
metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in
Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp.
83-107; Id., La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V.
Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso
de' governi, Napoli, Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze
economiche a Napoli nel secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini
sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino 1989, pp.
166-169, 173 s., 177-181; M.T. Marcialis, Legge di natura e calcolo della
ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson,
The Enlightenment above national context: political economy in
eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, Perna,
L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a
Napoli nel XVIII secolo, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica
per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale
--. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e
Gentile – Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia).
Filosofo italiano. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as
Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like
Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’
mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e
batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is
Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching
Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Figlio di Pancrazio Falamonica
Gentile e Violantina Piccamiglio. Venne in contatto coll’astrologia. Compose i
Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla
Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin
colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi
contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario
Biografico degli Italiani. FALLAMONICA GENTILE, Bartolomeo. - Di antica
famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei
Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto:
cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450,
da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio. Nulla si sa intorno alla sua
formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il
testamento del padre, del 1469. In una data incerta della fine del sec. XV si
trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno
spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle
attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. Fu promotore di iniziative
editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalisdello
stesso Janer, una sorta di summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia
nel 1506; dalla dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R.
Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante
membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et
Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi
di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di
Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì
l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore. Diciotto sonetti
di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana
fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere
poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta nell'edizione di
Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero
(quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce
homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de
trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela
sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de Iesus" e
cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge Maria".
Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove morì presumibilmente
in una data compresa fra il primo e il secondo decennio del sec. XVI. In
vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim anno") si dedicò alla
stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il
generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha
la funzione di proemio, il F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello
dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del
F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è
data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il
filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo.
Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della
filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione
dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli
animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul
messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina
essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo,
della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione,
de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati
("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e
della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni
dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del
paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata:
ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già
Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del
testo, che si credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Nel 1821 venne
data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia
letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di
pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non
particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa
edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre
sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero.
Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1687 (reprint,
Bologna 1971), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia letteraria della
Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della letteratura ital.,
XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del
lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e
ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del
Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M.
Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504
ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century
Valencia, in Symposium, VII (1953), pp. 375-379; P. Zambelli, Il De audito
cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L.
Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri
illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la
diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V
(1983-1984), p. 256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in
Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA
UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri
un poema di B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il
1470 e il 1490. Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di
quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua ,
che andava smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria
della Liguria dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere
conosciuto.Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro ,
p a trizio genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del
Falamonica non ha titolo; la materia diceilcitatoGiustiniani
ėtuttafilosoficaeteologica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree.
Lo stesso attesta ilsig.Spatorno. L'A.incomincia dal favellare de'Cieli; e
iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, 38
TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla età dolce e
superba , Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea che l'error m
'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti occidentali una
gran Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di
conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte ; e
Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per
man mi prese Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte mie speranze
sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me restava
spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse in una oscura valle.
Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che parlavano del
Cielo e della Terra. e > Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poiGiove; e
il Sole gli dice : Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi
ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle... Ed eccouscir del Ciel,
nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in
prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e in tanto numero
E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio ,
Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e costituisce
il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal quale si vede
sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle
sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli
Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano , morto nel 1476, ed
afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar
le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di
greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire
a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice
Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlaviaserena. Il Sole
dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto
Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon smeraldo
affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte
han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della
vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie. E le cicogne
d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà
degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia , qual
uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate
formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando
dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume , acqua e del fuoco. Nel VII
parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre
preziose ,dicendo terra , Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai
d'entrar nel mio volume : Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti
mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna ; e
fa molte dimande di fisica, elerisolvecolla dottrinape= ripatetica che allora correva.
Nel canto V parla degli elementi ; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce
si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran
giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà
vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E
contro i Medici. Falcon leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante
... La genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi
in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,
Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della
immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier,
e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina) Il
lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un
pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il
poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia
spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende ,
si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena
di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio
tutto mondano ; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando
s'aggiorna O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là
disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome
tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo
escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno
preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan
ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I
Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde
l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti I V , V e
V I trattano di cose morali . Nobil naturà , in cui si trova giunto Le
vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi
sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . Ch e per ricchezza
l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria... Seguilipochi,e non
lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da
que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna. Ed ecco allor
m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della
essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel
Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la
spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV
della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta
della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione,
seguendolanotasentenzadiScoto Più degno , più eccellente, più gentile , Di non
veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna
dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco
ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta
dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro
Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora.
Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro
ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema
ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più
decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace
rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di
quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ;
nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In
duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la
parte teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno
danno alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non
hannopiù sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno
al mondo i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura. Secondo
differenzia di peccati. A guardiade'superbistannoileoni,de'lasciviiporci;
de'golosi gli orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel
disquadrein squadre. Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel
I si parla della felicità de'Giusti. Nel IIsono ricor
datituttiipiùcelebripersonaggi dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto
diSaloinone,che secondo l'opinionedel b.Alessandro Sauli si teneva per dannato.
NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV
parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che
l'onori , Eccelsocavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e
duce Di nostra gran Liguria. Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con
Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte, Ed ogni simulacro
de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito
Il Purgatorio delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono
le anime , sono dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in
sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni
male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar
con elle ... E come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice
eterno agli Eletti, dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche
pena si perdonano all'Autoredella incomparabil Commedia. E
Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. > cheap Cerbero lascio ,
Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà
guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio
maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi
recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque , Nel V Canto si
parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori,monaci,ronitieconfessori,ediquesti
l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di
questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama
s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in
tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa
Chiesa. G. B. Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il
poema, volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi.
Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non
potevaquestaesserepiùam pia dovendo costituire parte di un articolo della sua
Opera. Ma egli ha lasciato maggior desideriodel medesimo, poi chè pare anoi,
che altri passi, e forse più felici, dovreb
b'essocontenere,se,comedicegli,questo poemadopola CommediadiDante,eprima
dell'Orlandofuriosodee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel
l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo
comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più
degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico
Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal
ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma
or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica
Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy,
Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative.
Commedia filosofica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gentile – implicatura dell’atto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano).
Filosofo italiano. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative,
prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy
of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and
‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type
of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice:
“The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s,
Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He
taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of
an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only
the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical
process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the
dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical
subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto
puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees
conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of
inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects.
Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two
Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G.
Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of
Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del
idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto
dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma
Gentile). La sua filosofia è detta attualismo. Inoltre fu figura di
spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica
Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni
partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia;
con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso
acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve,
benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di
lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un
vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di
patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa
Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi
il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di
lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore
di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci,
professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono
molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del
diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene
una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si
sposta a Napoli. Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro
matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni
Gentile junior, Giuseppe Gentile, e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in
filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il
circolo di Pojero e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa,
Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un
carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee
diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università
italiana. Insieme fondano “La Critica” al
rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione
sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio
della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a
favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la
passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più
soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”, ma quella dell'"intellettuale" militante,
che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e
culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che,
insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per
le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di
uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali,
capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture
democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi
della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più
schietti e nobili». Fonda il “Giornale critico della filosofia
italiana”. Diviene consigliere comunale
al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore
supplente alla X Ripartizione, A. B. A., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle
Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei
Lincei. Gentile non mostra particolare interesse nel confronto del
fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere
in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile,
fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge
Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al
Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale.
Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato
a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello
Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento
giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli
intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione
degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo
manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con
un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per
le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana,
specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A
Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione
dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa
3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere
tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti,
che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal
modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia
Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del
Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni
dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro
nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa. Non
mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce
un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato.
Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene
di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo
impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del
cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le
sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del
cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore
alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi
sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri,
Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo
eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia,
impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de'
Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa,
come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro
Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea
che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee
e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe,
l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e
conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente
ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli
e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
Gentile lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. Gentile replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. Gentile
respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo
un incontro con Mussolini sul lago di Garda si convinse ad aderire alla
Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia,
con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che fu assorbita
dall'Accademia. “Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente
i motivi politici per cui desideravo restare in disparte.”“Ma egli mi assicurò
che io potevo benissimo restare in disparate.”“Ma dovevo fare una visita al mio
amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti,
ostili alla mia persona.”“Negare questa visita non era possibile.”“Feci comodamente
il viaggio con Fortunato.”“Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu
commoventissimo.”“Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui
comincio a vedere qualche benefico aspetto”“Credo di aver fatto molto bene
all’Italia.”“Non mi chiese nulla, non mi fece offerta.”“Il colloquio fu a
quattr'occhi.”“La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da
me da un Direttore generale.”“Non accettarla sarebbe stata suprema
vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita.”Sostenne la chiamata alle
armi e la coscrizione militare dei giovani nell'esercito della RSI, auspicando
il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di
Mussolini. Intanto il figlio, Federico Gentile, capitano d'artiglieria
del Regio Esercito, era stato internato dai tedeschi in un campo di prigionia a
Leopoli in condizioni particolarmente severe.Federico Gentile e l'unico
ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. Federico
Gentile aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento
nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile.Gentile
elogia pubblicamente al "Condottiero della grande Germania", e
lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse.Pochi giorni dopo,
Federico Gentile, venne trasferito in un campo meno duro.Infine, gli fu
permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato: "Tu sei
responsabile dell'assassinio dei cinque". L'accusa era riferita alla
fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I.
-- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta Gentile, ricambiato. Ha
infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo
stesso Mussolini.Gentile non e assolutamente collegato con tale evento. Il
governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però Gentile
declina.“Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono
sempre disponibile.”Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime,
apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, e ucciso
isulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista.
Il commando si apposta circa nei pressi della villa.Appena giunse in auto, il
gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un libro di filosofia
– “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi
così credere un filosofo.Abbassa il vetro per prestare ascolto.E subito
raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta,
l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo
moribondo.Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve
spira.Fu un episodio che divise lo stesso fronte di resistenza e che è al
centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal
CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendicò l'esecuzione.
Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale
glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Mario Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali.Grazie al diretto intervento della famiglia, gli arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di Gentile fu da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto,
pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente
l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e
anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che
dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno
storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia”
e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What
is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto
idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento
del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”.
Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che
"tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile
sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha
individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia
forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e
delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A
distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è
opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti"
(A opposto B). Infatti Gentile ritiene la
‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica
propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A
opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel
rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di
Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto
unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della
realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La
dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto)
rappresentata dall'espressione --
intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf.
inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa
da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione
della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr.
implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una
dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale –
l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il
prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione
è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che
coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni
caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione
come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di
Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo
nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo
soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile
tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto”
né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a
differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un
"cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza,
proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un
ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è fortemente attivista e attualista (cioè
trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello
scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo
speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’
condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il
primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un
recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come
Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e
proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del
regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che
accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in
quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte
approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione
dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o
dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un
"atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini:
anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei
principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento
dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del
processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma
anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste
molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione,
ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò
dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella
di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a
grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti
tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica,
mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina
revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso
l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire
dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non
vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura
della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in
ambito lavorativo. Attraverso
l'istituzione della cooperative e la corporazione,
la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la
collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di
Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme
realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia,
progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i
problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe
(classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della
dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea
una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur
riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad
ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare
una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo
fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra
"rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la
dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo
pagano di Evola. Per l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il
Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a
causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia
derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica
della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura
economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà,
che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come
momento del suo sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con
l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il
fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa
dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori
l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia
marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana
"rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un
pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che
Gentile cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo
concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero
ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce
alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far
derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera
il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga
l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto
del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a
crearlo.Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la
pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico
della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione
deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che
realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui
non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o
tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma
affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori.
Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e
diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è
richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il
metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo
processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee)
deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune
partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore
(tutore) verso l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’
– cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale.
«Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano
la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica
istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri.
Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica
sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato
(viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo
scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il
predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu
ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e
definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in
sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e
censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione
della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di
tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a
livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’
per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli,
o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse
di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire
gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica
e messa in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce
che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla
scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le
materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al
dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di
Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne
anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di
instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu
innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni.
L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il
ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo
il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita
di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi
– l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo
fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche
Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo
("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i
licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio
dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia,
adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al
popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione
della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante
addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci.
Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile
«format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo
il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica
di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a
parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene
Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non
c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione
dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della
sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore
filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina.
Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create
l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile"
a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi
una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e
certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo
europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le
personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte
della Repubblica Italiana. L'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei
acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il
coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere
di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e
Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del
gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce
insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine
dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare
come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La
filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze,
Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria
del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra)
Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di
religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di
storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla
filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con introduzione
di E. Severino, Bompiani, Milano Di
carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il
Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio;
“Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il
tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino
Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti
del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e
Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento
della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza
filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico
del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni
Gentile Scritti per il Corriere. Note Vi
è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe
posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico
letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono
questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero
numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere
della Sera. 10 giugno.). Cit. di Geno
Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia
d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le
Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile.
Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia
contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là
di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del
ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni
Paolo Simoncelli41. Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana
Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e
il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S.
saggi cult. cont. Giordano Bruno. LE
VICENDE DELLA STATUA «De Vecchi, Cesare
Maria», Treccani Paolo Simoncelli207.
La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le
bufale, l'Opinione, 30 marzo Paolo
Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo
vano Paolo Simoncelli43. Paolo Simoncelli40. Paolo Simoncelli34. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in
“Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo23. Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo24. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile,
Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26. Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Editrice
Italiana, Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la
testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania,
in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per
salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la
grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia",
Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo
Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di
denunciarlo a Mussolini" Elio Chianesi,
La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di
vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte
le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non
lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a
nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù (). Paolo Paoletti, "Il Delitto
Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da
Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori
materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se
era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non
attraverso i due finestrini posteriori..."
Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi
che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera, «Per fare in modo che i gappisti incaricati
dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso
l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai
partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile
imbarazzo.» (Teresa Mattei)
Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica
Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio
Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, sul Corriere
della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte
impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti.
Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per
dissociarsi." Maria Cristina
Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile,
La Repubblica, 24 aprile Renzo
Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a
salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono
l'archeologo Romano302. Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così
Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera
stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli
parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma
e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva,
venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente,
come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio
in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era
levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva
seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e
rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale
giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva
aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte
del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue
convinzioni e del suo costante atteggiamento».
Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su
liberoquotidiano. 15 novembre 16
novembre ). «Attualismo», Enciclopedia
Treccani Diego Fusaro, Giovanni Gentile
Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice
hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è
compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte
la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un
dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un
agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un
idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di
religione, Firenze, Sansoni). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La
dottrina del fascismo. Nicola Abbagnano,
Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano,
Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino
Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana. Augusto Del
Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il
fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto degli
intellettuali fascisti Giovanni Gentile,
"Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università di
Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni Gentile
La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della
scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è
fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa
limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola
d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e
risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole
chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero
degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche,
quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma
soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo
nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son
valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di
commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione
delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che
finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e
professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron, Il fascismo
al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe
Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di
pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261. Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il
neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.
Il mistero di Ettore Majorana Eleonora Guglielman, Dalla scuola
per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma
Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per
una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma,
Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune
varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza
"taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista G. Gentile, La donna nella coscienza moderna,
in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le
donne nel regime fascista, G.
Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale
Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma
della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra
parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile,
Bologna, il Mulino, Martin Beckstein,
Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation
einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica
I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani Fondazione Gentile | Dipartimento di
Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla
faziosità del '900 Emanuele Severino:
Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto
Quotidiano È Gentile il profeta del la
civiltà tecnica. «I nemici di Giovanni
Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai Emanuele Severino, dalla quarta di copertina
de L'attualismo, Milano, Giunti, Nicola
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli,
"La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il
Giornale. Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani, VIII di Giovanni Gentile, la vita e il
pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici,
Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio
Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano
Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto
del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia
contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione
del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro
Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A.
Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di Giovanni Gentile,
Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile,
Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il
Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile,
Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. L’essere e
il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni
Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli, Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio
Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano,
Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio
politico, Firenze, Le Lettere, Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia,
Torino, POMBA, Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in Giovanni Gentile,
Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’immagine del fascismo in
Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei
fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino,
2009 Davide Spanio, Gentile, Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della
prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo
Simoncelli, "Non credo neanch'io alla razza". Gentile e i colleghi
ebrei, Firenze, Le Lettere,. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la
morte di Giovanni Gentile, Milano, Adelphi,
A. James Gregor, Giovanni Gentile: Il filosofo del fascismo, Pensa,
Lecce, Guido Pescosolido, Ancora sulla
morte di Giovanni Gentile. A proposito di un recente volume, in Nuova Rivista
Storica, Carmelo Vigna, Studi gentiliani, Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo,
Giovanni Gentile e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri
studi Charles Alunni, Giovanni Gentile
ou l'interminable traduction d'une politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel
Surya, Les Extrême-droites en France et en Europe Charles Alunni, Ansichten auf
Italien oder der umstrittene Historismus, in Streuung und Bindung über Orte und
Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, 1987 Charles Alunni, Heidegger, la piste italienne,
Paris, in Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour
l'interview de Ernesto Grassi), Charles Alunni, Giovanni GentileMartin
Heidegger. Note sur un point de (non) ‘traduction’, Paris, Cahier nº 6 du
Collège International de Philosophie, Éd. Osiris Charles Alunni,
Archéobibliographie. Eugenio Garin, Paris, Préfaces, Charles Alunni, Giovanni
Gentile, Ernesto Grassi & Bertrando Spaventa, Paris, Dictionnaire des
Auteurs Laffont-Bompiani, Robert Laffont Charles Alunni, Attualità, attuosità
(le vocabulaire italien de l'actualité-réalité) Paris, Vocabulaire européen des
philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, [dir. Barbara Cassin], Le
Seuil-Robert, Antonio Cammarana,
Proposizioni sulla filosofia di Giovanni Gentile, prefazione del Sen. Armando
Plebe, Roma, Gruppo parlamentare MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine,
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Antonio Cammarana, Teorica della
reazione dialettica: filosofia del postcomunismo, Roma, Gruppo parlamentare
MSI-DN, Senato della Repubblica, Pagine, Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze, Nicola D'Amico, Un libro per Eva. Il difficile cammino dell'istruzione
della donna in Italia: la storia, le protagoniste, Milano, Franco Angeli, Vito
de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività
amministrativa a Roma e linguaggio politico in "Nuova Storia
Contemporanea", Vito de Luca, "Giovanni Gentile. Al di là di destra e
sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro",
Chieti, Solfanelli,. Antonio Fede, tra attualità e attualismo, Pagine
Alessandro Ialenti, La Logica come Teoria del conoscere in Gentile. Un'opera
anticipatrice di istanze postmoderne?, Dialegesthai. Rivista telematica di
filosofia, Mario Alighiero Manacorda, Storia dell'educazione, Roma, Newton
& Compton, Vittore Marchi, La filosofia morale e giuridica di Giovanni
Gentile, Stabilimento Tipografico F.lli Marchi, Camerino, Myra E. Moss, Il
filosofo fascista di Mussolini. Giovanni Gentile rivisitato, Armando Editore, Antonio
Giovanni Pesce, La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile, in
Quaderni Leif, Antonio Giovanni Pesce, L'interiorità intersoggettiva
dell'attualismo. Il personalismo di Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Antonio
Giovanni Pesce, La filosofia della nuova Italia. Il progetto etico-politico del
giovane Gentile, Viagrande, Algra,. Vincenzo Pirro, Regnum hominisl'umanesimo
di Giovanni Gentile, Roma, Nuova Cultura,
Vincenzo Pirro, Dopo Gentile dove va la scuola italiana, Firenze, Le
Lettere Vincenzo Pirro, Filosofia e
Politica in Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Rossana Adele Rossi, La presenza e
l'ombra. La pedagogia del giovane Gentile, Roma, Anicia, Giovanni Rota,
Intellettuali, dittatura, razzismo di Stato, Milano, Franco Angeli, 2008 Primo
Siena, Gentile. la critica alla democrazia, Volpe editore, Siena, Giovanni
Gentile. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli, Michele Tringali, L'attualismo è sempre
attuale. Saggio su Gentile, Vettori, Gentile, Roma, Editrice Italiana, Marcello
Veneziani, Giovanni GentilePensare l'Italia, Le Lettere, Firenze, Attualismo (filosofia) Fascismo Idealismo
italiano Manifesto degli intellettuali fascisti Riforma Gentile Uccisione di Gentile
Spirito, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Gentile, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gentile, in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Giovanni Gentile, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Giovanni
Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Gentile, su
accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H Questa soluzione
della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano
starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di
cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente
ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve
essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani.
Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del
filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel
pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius
spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse
malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per
campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita
tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque
videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere
nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes
rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica come legge.
Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. -Oggetto
del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e
pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso idealistico della
individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali' individuo come sua
legge. La comunità ideale e la gloria.
Vox populi. La concretezza dell'individuo. La conquista dei valori. li
processo d<>IJa individualità. La particolarità dell'individuo nello
spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere, carattere. Il carattere
attraverso la condotta empirica. Critica del concetto della molteplicità degli
atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo nel carattere. Trascendentalità
del carattere.Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria.Società
trascendentale o società in interiore homine. Alte" e socius. Dalla cosa
al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento dell'alterità. La
dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri -
0. Il bene e il male. La categoria etica e l'esperienza. Dialettica dell'Io. -
3. li nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett.sa/ Intendere
e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua
inattualità. Dovere e doveri. - 8. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli
pen --Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e
governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico.
Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. -
2. Umanità dell'operare economico. - 3. Operare utilitario o utile? Umano e
subumano. Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica
dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma
mate matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. - 12. Moralità
ed eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto
essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4.
Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e
rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze
naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella
politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato. -
2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto di vista
intellettualistico. Concreto punto di vista pratico. Il riconoscimento degli altri Stati e il
Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione
umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria. La Storia come storia dello
Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico.
Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie
di lavoratori e rappresentanza politica.-LaPolitica. Definizione della
politica. Etica e politica. Im possioilità cli un'etica apolitica. Il privato
e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e democrazia.
L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e pace.Ordine.
Senti mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo. La politica
in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della scienza. Politica
della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. La dottrina della tolleranza. -La
politica diritto e dovere. p. 93 l:).'DICE 19r XIII. - La Società
trascendentale, la morte e l' im mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità.
Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. - 5. Fuga tn01-t1s. - 6. La
difficoltà del problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione.NUOVI
INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un
suo interessante opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una lunga
fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi con¬ temporanei di ogni
risma nel parlare di Hegel. E dopo avere rilevato con 1 ’ Herbart, con
l’Alexander, col Barth. col Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4
Lde- durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà
naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi
si giudichi questa sistemazion e e la sua possibilità. — la cognizione
necessariamente empirica della natura e della storia, soggiungeva:
«Intanto anche F. Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel
suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori la stessa natura ».Di questa
Hegellosigkeit, che non saprei davvero come tradurre in italiano, di
questo stato d' hegeliana innocenza, cosi caro tuttavia agli studiosi di
filosofia italiani, fu dato recentemente dal Croce 2 qualche cenno'
significativo dove si mostrò con quanta competenza sia stato spesso
giudi¬ cato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per
1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi
critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però lo
scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh - menti di
filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo la pri¬ mitiva edizione del
1877, dall’autore più tardi parzialmente rifatta e radicalmente mutata
nell’ indirizzo dottrinale. Al¬ cuni (tra i quali uomini dotti nella
storia della filosofia) han rimproverato il nuovo editore di aver voluto
dare un Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi
degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad ab¬ bandonare le
dottrine di Hegel per accostarsi al neokan¬ tismo. E un insegnante di
liceo, a chi proponeva il libro per testo scolastico, opponeva senz'altro
ch’egli non po¬ teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)).
Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬ serzione, che
io denuncio soltanto per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla
comune Hegellosigkeit, è in ciò, che questo libro è stato ristampato per
cura mia, e da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma,
trala¬ sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬
nuale del Fiorentino, nella sua forma originaria, come l ’unico , fra
quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci es ser m esso nelle mani dei
giov ani e tolto a base d’un p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che
credo di avere sufficientemente accennati nella mia prefazione alla
detta ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito permesso
dei colleglli accusatori, che il libro del Fioren¬ tino nella prima
edizione non è punto hegeliano; e che la differenza tra la prima e la
seconda edizione non è divario tra hegelismo e kantismo, ma tra
kan¬ tismo ed empirismo spenceriano. Poiché ne avevo
l’occasione, a me parve opportuno to¬ gliere di mano ai giovani, che
cominciano a riflettere su cose filosofiche, un libro, — raccomandato al
nome di Francesco Fiorentino, per tanti titoli benemerito della
cul¬ tura filosofica italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬
tere su verità di questo genere : « Kant intende • per a priori soltanto
ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma che invece è condizione
indispensabile, perchè la sperienza 1 Torino, Paravia, 1007: voi
I: Psicologia e Logica sia possibile. Egli non investiga, se questo a
priori abbia potuto originarsi da una associazione di esperienze
ante¬ riori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai
suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi nuovi
termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o spinto , non già un
dato : e questo ritenghiamo anche noi : ma ciò non toglie, che pure di
questa funzione si possa cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui
si dichia¬ rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬ mata al
concetto dell’ attività preformata a compiere certe funzioni, senza di
cui la sperienza non si farebbe; e che « la filosofia moderna....
domanda: come si è preformata ? E cerca di trovar la risposta in due
fattori: l’asso¬ ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula,
la seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori dell’individuo
sarebbe ciò ch’è poste¬ riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31
n.). E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è
stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur sempre vero
che cotesto primo acquisto viene oggi trasmesso come eredità, che
gl’in¬ dividui trovano, e non debbono più riacquistare » tp. 288
n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi della conoscenza e
della pratica, e di cui lo stesso Fio¬ rentino. ci dice la fonte, dove
avverte (p. 304) che «nella filosofia dello Spencer ogni a priori è
sbandito, e tutto è spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione
eredita¬ ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo
prin¬ cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si
costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della conoscenza che
non occorre qui valutare. Quello che non ha bisogno certamente
d’ulteriore schiarimento, è che tale negazione dell'a priori e tale
confusione del problema psi¬ cologico con lo gnoseologico, non può a niun
patto ac¬ cettarsi come integrazione del kantismo. C’era un
Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬ vani, e che io ho rimesso
in luce; un Fiorentino che non s’era lasciato sfuggire il vero punto di
questa questione fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di
vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della
moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva detto « Vuoisi
avvertire, che l’o priori non si deve inten¬ dere come qualche cosa di
preesistente, di preformato.... ma come una funzione essenziale dello
spirito » (nuova ediz., P 33 )- Aveva discusso, opponendole l’una all
altra, le dot¬ trine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o
aposterio¬ rità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne
può dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un
rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬ rispondente;
ed è un rapporto semplice, che non si può de¬ durre dalla risultante
delle nostre rappresentazioni. L’Io, la coscienza è originaria. 11
fondamento dell'esperienza non può essere attinto mediante l’esperienza »
(57). E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie. « Se
tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea di sostanza, nè
quella di causa, quali noi le concepiamo, sarebbero ammissibili. Questo
mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il con¬ cetto d’una possibile
integrazione di Kant per via delle ricerche psicogenetiche è uno
sproposito, che oggi non ha più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare
anche evi-, dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi
principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬ tore, hegeliano
o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬ cesso che empiristi si possa
essere per proprio conto, certo per nessuno è più sostenibile una svista
di questo genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione
di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione
psicogenetica. Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla,
be ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬ riore
alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano al
kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello che ho dovuto e potuto
scegliere, francamente, mi pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo,
anche nella prima redazione del suo manuale il Fiorentino rende
omaggio al fantasma della materia opposta all’attività formale
dello spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬
lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo con
l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio
Kant, anche se non perfezio¬ nato, che Spencer! Si sente, per
esser sinceri, negli Elementi del Fiorentino un’eco lontana dei Principii di
filosofia (1867) dello Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo
sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare in quell'autoctisi
della coscienza accordata con tutto il formalismo astratto accettato e
difeso dal Fiorentino, io ritengo che potrebbero andare a braccetto con
lui tutti i kantiani più scrupolosi del mondo.Genovesi comincia a
pubblicare in Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde
intuizioni fon¬ damentali: una intorno alla potenza costruttiva
dello spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo
kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto come sviluppo nella
natura e nel pensiero, per cui anticipò il principio della nuova
metafisica dimostrata dalla Lo- >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di
metafisica il Geno¬ vesi invece si mostra seguace di un incoerente
sincre¬ tismo, in cui la monadologia leibniziana s’ accoppia con
l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande pensiero di Vico è
spenta sul nascere, e finita con 1’ uomo che nella solitaria meditazione
del diritto, anzi di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva
attinto una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori del
tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬ siero italiano. Gl’
interpetri del pensiero di Vico non furono nè i suoi coetanei, nè i suoi
immediati successori nella filosofia italiana in genere e napoletana in
ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi, 1
dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di pensiero nuovo, che
venne suscitato dall’ hegelismo, da Bertrando Spaventa. Tra Vico e
Spaventa — i cui primi scritti cadono attorno al 1850, — per tutto un
secolo, c’ è un’ inter¬ ruzione nello sviluppo dell’ idealismo iniziato
dalle opere di \ ico ; nella quale il pensiero napoletano si appropria
ed elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo
movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla metà del secolo XVIII
alla metà del XIX, può essere designato dai nomi dei due pensatori che
aprono e chiu¬ dono tale periodo, Dal Genovesi al Galluppi. E così
appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq d’illustrare
tutti gli studi speculativi più notevoli di cotesto periodo. 3
Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i
brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi del Genovesi e del
Galluppi, e corrispondenti ai confini del reame di Napoli, ila chi ponga
mente alle condizioni d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico,
alle piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una
paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della penisola,
troverà ovvia e storicamente esatta la linea da me tracciata intorno ai
pensatori che ho studiati e Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen
Lìingen unii ihrer Offenbarung (1811), in Werke, Leipzig. Sul kantismo
vicinano cfr. specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de
métaphy- sigue et de morale del luglio 1896, pp. 568-78, e gli scritti da
me citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta
Na- poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia , filosofia ,
pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli, Edizione della Critica). considerati
come formanti una speciale serie storica a sé. 3. Pel
carattere generale della loro filosofia questi pensatori costituiscono
una continuata corrente di em¬ pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso,
in cui ben presto il principio critico dominante nell’ empirismo
lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese
pochissimo noto — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione
di Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,
possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur combattendo la
«filosofia dell’esperienza» del Galluppi dal punto ili vista del
kantismo, insiste tuttavia su talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare
alla Critica Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬
oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere
in due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti; e
tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia scozzese e di
eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano
certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contem¬ poranei francesi,
ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi quali essi formano quasi una sola
famiglia, rispecchian¬ done spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi
il Bor- relh e il Bozzelli stanno, 1’ uno per la sua genealogia del
pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia dello spirito) e per la sua
critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo di morale
intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi; di 8 ‘
ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere di quest!
filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché per a
nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.
il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella
storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬ sore F.
Picavet su Les idéologues. Una pari rivendicazione in prò dei confratelli
italiani vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga
notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci son rimasti
documenti notevolissimi in libri ed opuscoli estremamente rari, nelle
riviste del tempo e in mano¬ scritti ancora inediti. 4. In
mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze
materialistiche, palesi o nascoste, proprie del pensiero
speculativo di questi ideologi, traendo autorità e argomenti dalla
filosofia del senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo del
Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬ lità di dottrine :
ma con le loro esposizioni e coi loro commenti di molti libri francesi,
eco, per quanto fioea, di celebri filosofie europee, valgono a suscitare
o pro¬ muovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro
filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce la fibra del
pensiero napoletano, e si prepara una scuola di veramente alto e libero
filosofare: da cui uscirà l’e¬ stetica di Francesco De Sanctis e la
metafisica e la storia della filosofia di Bertrando Spaventa. In
questa parte la mia monografia studia scrittori mediocri, testi¬
moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬ steriore.
5. Nella seconda generazione campeggiano due figure principali: P.
Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di cui si può dire che la vita
speculativa si consumi tutta nella meditazione del criticismo. Ed
entrambi riescono per due vie opposte al medesimo risultato, che è
di accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬ mente
lo spirito nella filosofia del loro paese. Il Galluppi À combatte
sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario con le armi del Kant reale ;
e il Colecchi combatte con le armi stesse un immaginario Galluppi, o
almeno un Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che la
dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai il valore intrinseco
delle dottrine da lui professate. Dalla curiosa situazione di questi due
pensatori, che genera altre false posizioni nella filosofia italiana
successiva, nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: 1° che
la scuola dei galluppiani continuerà a combattere Kant e tutta la
filosofia tedesca posteriore, sempre meglio conosciuta in grazia
dell’influsso francese già accennato; 2° che la scuola del Colecchi e dei
tedescheggianti con¬ tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore
del pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che da
lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana. 6. Se
da queste ricerche si sottrae la parte che con¬ cerne il Genovesi e il
Galluppi, si può dire che esse scoprano una regione presso che
sconosciuta nel campo della filosofia moderna. E poiché anche del
Genovesi e del Galluppi questo studio analitico della serie in cui
essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in parte più chiara
il significato e il valore, può pure af¬ fermarsi, che l’insieme di
queste ricerche colmi una lacuna nella storia della filosofia italiana,
anzi della europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i
due termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono, non
sono due capitoli della storia della filosofia italiana, ma due capitoli
della storia della filosofia europea: ed è difetto gravissimo quello che
può notarsi in proposito in tutte le recenti storie straniere della
filosofia moderna. A. Genovesi, M. Delfico, P. Borrelli, F. P.
Bozzelli, P. Galluppi e 0. Colecchi sono nomi ai quali, una volta
conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur rovare un posto, e
non degl’ infimi, nel quadro degli u imi tentativi dell’empirismo
naturalistico e materia¬ listico del secolo XVIII e delle feconde
discussioni suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. «
Il trionfo dell’ Idea » in Italia : Antonio Tari e Floriano Del
Zio Fin dal 29 ottobre 1860 B. Spaventa era stato nomi¬ nato
professore di Filosofìa nell’ Università di Napoli ; e la sua nomina —
scriveva a lui stesso il De Meis, da Napoli — era stata accolta in questa
città « con una commovente impazienza dai giovani e dal pubblico ».
Ma 10 Spaventa chiese ed ottenne di tornare e restare qualche
tempo a Bologna, dove nel maggio era passato, da Mo¬ dena, a insegnare
Storia della filosofìa, per farvi almeno 11 primo corso semestrale
e « non mancare al suo dovere verso quella Università». A Napoli, dopo
una rapida corsa nel novembre, non andò se non negli ultimi mesi
dell’ anno appresso. Era a Torino dall’aprile, perchè eletto deputato di
Atessa (ma la sua elezione fu annul¬ lata il 25 giugno per eccedenza del
numero legale di deputati professori, * quando gli pervenne la
seguente 1 Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato
con molte aggiunte. * Vedi per questi particolari il mio B.
Spaventa, Firenze, Vai- lecchi, 1925, p. 109. lettera di Floriano
Del Zio, che è un curioso documento delle disposizioni degli animi verso
1’ hegelismo nella gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era
atteso : Napoli, 30 giugno 61. Amico carissimo, Mi
prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola parte del tempo
che cosi lodevolmente sacrate alla scienza. E per due ragioni. Per
procurarmi il bene di aver vostre novello, e per dirvi poi alcunché sul
trionfo dell’ Idea, alla qualo abbiamo data la nostra fede.
Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo libro di
Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro scritto con molta
spiritosità, e che non solo porrà a dovere 1’ intelletto
superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà pure il suo buon
effetto in mezzo al dilettantismo filosofico de’ nostri dominatici. Si
comincia a sentire come il Pensiero sia P infinita misura e forza, che,
battuto ogni positivismo storico e morale, eleverà ad armonia vivente
Essere e Spirito, Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor
Pes¬ ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila
ridotta a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così frequeu-
temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha dato di sé
Monsieur Jauet. Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione
francese una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in
mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio principio
filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà consapevolmente invadere
ogni cosa, e chiarificare le creature tutte quante di un raggio della
idealità infinita. Affrettatevi, amico, a partecipare alla gran vittoria.
Felice voi, che siete sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude
nel proprio grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo,
e quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono come
al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller: Diesen Kur der
ganzen IVelt ! Il punto però che nel libro del Vera avrei
desiderato più estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei
mondi. I,a dottrina di Hegel su questa materia non può essere
difesa che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si dello
Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’ mondi, avrebbe
fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬ tellurici ; e cesserebbe
d’ essere in conseguenza la pieua ed una Coscienza di sè. A questa è
necessario che tutto 1* essere sia suo sapere. La dottrina
poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel presupposto, interamente
falsata. Noi non conosceremmo pili l’Assoluto, come vuole Hegel, ma
l’Assoluto umano. E, non potendo darsi ripetizioni nello spirito, si
dovrebbero porre, post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite,
infinita¬ mente diverse, dell’ istesso Assoluto. E dove sarebbe
l’idealità, 1’ unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea
medesima dell’Assoluto — , altri potrebbe osservare che quest’ idea
ap¬ punto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’U¬ nità
della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre un postulato.
Krause immagina una sintesi superiore do’ pianeti e delle stelle; ma la
comunione dell’Umanità terrestre colla solare è sempre data da lui come
un’ intuizione, come un desiderio! Anche il signor Tari,
riconosce nella sua Lettera la necessità della pluralità de’ mondi. Ma in
questa ipotesi vedo sempre che 1’ indeterminato piglia il Inogo del
sistematico, e che il fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa
oramai neces¬ sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico
nel- 1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al
con¬ cetto della finalità assoluta, lo Spirito. La lettera però
del Tari appunto perchè, com’ ei dice, tiene il germe del suo proprio
sistema, avrebbe dovuto essere più lunga e scritta più chiaramente.
Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬ sione alla
storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono nell’anno scorso
una copia dal vostro fratello D. Silvio; ma quando scesi in Basilicata
per 1’ insurrezione, la sperdei a Potenza, e non ho potuto procurarmene
un’ altra. Se poi con questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto,
allora usa¬ temi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino,
perchè sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.
Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso dovrà
levar grido straordinario, secondo che mi accennano i comuni amici, e per
quanto ancor io presagisco dal vostro ingegno. Date presto ; e nel
frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole de’ vostri
stndii, e segnatemi • quelle opere che possono concorrere all’
aumento vero della scienza. I miei ossequi a Tari ed all’
egregio De Sanctis. Se posso attestarvi in alcunché la uiia devozione,
comandatemi libe¬ ramente. Vostro amico Flokiano Dei.
Zio. AH’ Egregio Spaventa Deputato al Parlamento
Italiano in Torino. II libro, da cui il Del Zio prende le
mosse, è 1 ’ Hé- gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che
il Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬
cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per ribattere le
critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet e da altri scolari del
Cousin. — Enrico Pessima, già di¬ scepolo del Galluppi, dal Galluppi era
passato al Gio¬ berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro
Hegel e gli hegeliani 1 . La lettera di Tari, a cui il Del Zio
accenna, è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese
Rivista contemporanea, col titolo: De’ rapporti del Kantismo collo
stato della filosofia in Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di
chiarezza la¬ mentato in questo scritto dal Del Zio, e divenuto poi
sempre maggiore e sempre più caratteristico del- P ingegno del Tari, —
che ingegno ebbe e una certa bizzarra genialità — aveva fatto dire allo
Spaventa, in una lettera a suo fratello Silvio, dell’8 marzo 1858:
«Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un 1 Vedi
il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La fllos. ital. in re¬ lazione con
la fllos. europea,' p. 275 e una lettera dello stesso Pes- sina nella
Critica articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un punto
di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per imparare a non farsi
capire. I tedeschi non sono facili a comprendersi, e la colpa è un po’
anche loro. Ma i più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a
Totonno; il quale mi pare che abbia preso da costoro più i di¬
fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono ri¬ masto
trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto ozio, mi aspettavo
qualcosa di meglio da lui »*. « Dopo tanti anni ! » S’erano
conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a Montecassino (tra il
1838 e il 1840); e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla
sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversa¬ zione: «Dunque, che
ne pensate delle categorie kan¬ tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva
appreso i rudimenti del tedesco ; e, col suo aiuto, acquistato
familiarità con la letteratura filosofica tedesca. Nella quale il
Tari, chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di un villaggio
(Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato, accumulando una
meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità a rischiarare il
suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì
nell’agno¬ sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui
credette si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo
e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬ suppone un
principio, che, essendo fuori del divenire, è fuori della logica; e non
si può chiamare Volontà, nè Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro;
poiché ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬ mento di
pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA ’ Dal
184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» Cotuono, Le lettere
di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬ bile», Iranl, Vecchi, non
battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An- ch’ io, Bpecie di
Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza,
che Hegel chia¬ mava l’ignoranza dotta». Non è questo il
luogo di chiarire questo innominabi- liBmo o limitiamo, — com’ egli anche
lo chiamò, — del Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello
Spa¬ venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro del
Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto di punire, il 29
settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬ levo suggerire di chiedere
consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da
lui il di¬ ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando
fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua nomina era in
contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬ nabile, principio, essenza,
natura, causa di ogni cosa e avvenimento. Figurati il diritto di punire!»
1 . — Il Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo
scolaro, rispondeva a questo: « Par¬ liamo ora un pò del quesito, con cui
mi tenta 1’ ami¬ cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come
concilie¬ remo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬
nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di rimbecco direi : Vade
retro, Satana. Noli tentare Tariiim admiratorem tuum! —- Ma, non essendo
Gesù, nè gesuita, mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia:
— Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa pietra di
giuridico scandalo? Anche a te metterebbe conto salvar capra e cavolo ;
cioè la capra della Feno¬ menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo
della pretesa * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia,
III, pari. II, pp. 28-37. * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.
Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando
con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica sentenza: — La
pena non è che una valvola di sicu- rezza che la società impiega a
garentirsi di chi la in¬ sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a
priori un ma¬ nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole
etno- crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia
Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo della luna,
insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬ natismo. Chi ben pensa,
riconosce la deplorevole povertà di siffatte deduzioni... Diritti e
doveri, Pene e ricom¬ pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle
uova dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio umano le
facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬ marono, con un quasi
stillicidio psicologico, a poco a poco scavandosi un bucherello nel
naturale egoismo... E tutta la giustificazione delle pene, da
quella del ta¬ glione e quella penitenziaria, che è ancora in
Werden si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco dalle
belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬ dendoli incapaci di
nuocere. Ora quali sono i birboni? ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene
P Innominabile a comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul
da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano
sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un necessario male,
presso a poco simigliante alla chirurgica estirpazione di un arto, il
quale, se curabile, anche a dilungo, l’operatore rispetta
religiosamente... Un inno- mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure
" sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per del delino, ! V ? Cbe
neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia dello s r n e a,,a
| S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura o spirito,
ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero dello spaventa
intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne suoi Principi di
dica, ed. Gentile, p. 102 sgg. minabilista può solo
affermare, in barba a tutti i dot¬ trinari criminalisti del mondo, come
qualmente il bar¬ baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par
suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di non
aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in- neggerà al magnanimo Umberto,
il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva molti
tirannelli stra¬ nieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo
suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il palo, in
Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬ nefice (v. ult. lett. di
Victor Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il
palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo mio,
rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo- deo Spaventa »*. —
Avviatosi per la sua striida, il Tari, dunque, negava coraggiosamente jT
diritto come diritto. Poeto-1’ assoluto di là dal divenire, nel divenire,
ch’egli vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non
poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico proemio dello Spaventa
ai Prineipii di etica (1869) in¬ torno al rapporto dell’assoluto col
relativo, e quindi al concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’
assoluta giu¬ stizia non solo comporta, ma richiede per la propria
realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-crono-
topouraficamentc), non era stato scritto. E come in quel concetto è il
segreto dell’ hegelismo, era naturale che egli non riuscisse
ad orientarsi e a vedere la nullità del suo Innominabile in quanto
tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo spirito. Il Tari
fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1 A. Vbra nel 1883
pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi filosofici,
Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le ragioni del sistema
hegeliano in sostegno della pena di morte. * COTUONO, Hegel,
ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬ conde, senza scoprire il
principio vero del suo pensiero. Molti si ritrassero presto sconfortati
dall’impresa; etra questi il Del Zio, che con tanto entusiasmo nel
’61 studiava le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosa¬ mente
aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione letta a Modena sul
Carattere e sviluppo della filosofia italiana del secolo A VI sino al
nostro tempo ‘ e la Filo¬ sofia di Gioberti, di cui il I» volume usci nel
1863) per fede vaga che indi potesse venirgli la luce. Il Del
Zio allora si preparava a un corso di lezioni, sulla Enciclopedia di
Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo con una enfatica
lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’ tempi, merita d*
essere ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia
delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬ vegno ne’ dì 16
e 18 novembre 1861*: scritto pieno di giovanile entusiasmo e di ardore
filosofico. Oltre le opere del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi
cita ed esalta 1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als
Commentar u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬
lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬ loro che s’
iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22); i Esquisse de logique di K.
L. Michelet (Paris, 1866); e 1 Risi, in Scritti filosofici, ed.
Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬ cino, a una figliola del quale lo
Spaventa aveva privatamente Im¬ partito qualche lezione, gii scriveva per
questo opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio
della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale rnfiìf. -u- l Sn me
. *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli Ella
sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso io non ammirare il
suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro e i amo!
Giorgio Palla vicino. * Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In
16». Reca quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come la Personalità
eterna dello Spirito, ecco il line della lilosofla ». di questo le
lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u. Unsterblichkeit der Seele,
oder die ewige Persònliehkeit des Geistes (Berlin, 1841) ; le quali «
quando furono pub¬ blicate, tenevano aspetto di polemica negativa in
rap¬ porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma 1’ avanzato
sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso, che gli
avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano a forza vedervi dentro. E
debbono così considerarsi come la teorica potente della nuova sintesi
dall’ umanità » (p. 41): ciò che appare, nota il Del Zio,
dell’opera maggiore del Michelet, Die Epvphanie der ewigen Per-
sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52). A proposito del
problema hegeliano del punto di partenza fenomenologico e logico della
filosofia, l’Autore dichiarava di sperare che le difficoltà sarebbero
state da lui sciolte più chiaramente nelle note a una sua traduzione
del System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion
(Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che avrei di già pubblicata senza
la tirannide borbonica, o la guerra che tutto il mondo ha fatto e fa
presso noi al libero pensiero» (p. 23). Un altro suo lavoro concerneva la
filosofia di Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens (il
cui Corso di diritto naturale , 1838, era molto letto dagli avvocati di
Napoli, ed era stato anche tradotto già due volte in italiano, da
Francesco Trincherà e da Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche
modo popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul sistema
della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos., 1828)», dice il Del
Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o
della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬ cherà, Napoli. 18-11, e
Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita sulla quarta ed. dal prof. V. De
Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬ cora, 1860. Più tardi la
sesta ed. (uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad. in italiano da A.
Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano
in classico modo il fermento incommensurabile dal quale era
travagliata 1’ intera Allemagna alla vigilia dell’ ap¬ parizione d’ Hegel
sul teatro della scienza. Ma in Krause c’ è il presentimento della
scoperta, che fu fatta invece da Hegel »; e questo giudizio era il «
risultamento di una conveniente disamina » . « A tanto speriamo di
adempiere più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬
tolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di Krause a quello di
Hegel » . Appunto per quella certa popolarità che il Krausismo aveva
acquistata anche nel Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse
di¬ scussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia. «
Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle nostre convinzioni
speculative, il trionfo della scienza e il progresso della nazione non
saranno nè liberi nè universali » L’opuscolo era dedicato Alia gioventù
napoletana con parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli,
questo piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma dell
andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, se¬ condo le mie
convinzioni, il nostro paese, per essere in armoniu coll’ indirizzo
generale della scienza in Eu¬ ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me,
potrete con¬ durlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè
giovane, è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze
lei corpo che 1’ opera dissolutrice della tirannide seppe in molti
generare negli anni scorsi». Continuava an¬ nunziando che, accettato il
suo programma, tre fiamme divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima
dei gio¬ vani napoletani : tre sedendovi d’ un unico sole, il
libero Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,
dell’Amore. «Colla prima darete fine alla superstizione del Papato, la
più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda
scrollerete il Dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole im¬
perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione eterna di
bellezza e di verità ; costituirete I* Italia, e getterete il fondamento
alla fratellanza democratica di tutta Europa». Svolto
brevemente il concetto della Fenomenologia dello spirilo, per mostrare
come lo spirito sia necessa¬ riamente condotto dalla sua interna
dialettica al punto di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava
con pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava con
molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬ mente nel mondo del
sapere, renderete testimonianza dell’ istinto divino che move lo spirito
del nostro tempo, e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed
alla sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬ mento
filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore assoluto», della morte
alle cose finite e a se stesso, e dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo
spirito deve rina¬ scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’
hege¬ lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬
talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬ telletto,
del pensare finito addebitava la loro incosciente predilezione dello
scetticismo e del nullismo: e dimo¬ strava che « non solo il sapere
assoluto è possibile, ma che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché
ninna realtà finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta
fuori del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di buona o
di mala fede, cercava d’ additare il carattere intrinsecamente religioso
della filosofia hegeliana, nella quale la verità della religione non è
negata, ma trasfi¬ gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente.
In- 1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.
fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬ dissimo
tra i giobertiani di Napoli, del primato italico- e della filosofia
nazionale, sosteneva, a simiglianza dello Spaventa, ohe « la grandezza
del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di tutto
l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò por
tutta la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle
nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬ nità, e che un piano ideale
stringe in armonia assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme
svariatissime del- 1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è
dav¬ vero un’ opera unica, una sola attività produttrice... Le
frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici, che gl’ italiani del
XV e XVI secolo destarono nella coscienza umana sono appunto i grandi
sistemi della fi¬ losofia moderna... Nutricandoci del supere e della
vita europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,
celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬ gimento, che il
papato e l’Impero soffocarono nel sangue di tutta la Penisola» : sopra
tutto a Bruno, la cui vita randagia per 1’ Europa, ma cominciata in
Italia e in Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬
bolo divino del corso storico della filosofia mo¬ derna nel mondo. E col
ricordo della vita del Bruno e un invito a vendicarne la morte facendo
tornare in Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare
viaggio, termina questa prolusione. Cinque giorni dopo
leggeva nell’ Università la prolu¬ sione al suo corso lo Spaventa,
tornando a trattare il tema : Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti
Waddingtoìi e D. Spaventa Affrettando col desiderio la
pubblicazione dell’ impor¬ tante carteggio della marchesa M. Fiorenti
Waddington tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬
rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa, alcune lettere e
ricordi di questa egregia donna, che non ci paiono inutili alla storia
della fortuna di Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬
zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina, essendo nata nel 1802:
da Schelling era giunta fino a Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per
la conver¬ sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava
spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella del critico
severo della prefazione, che il Mamiani nel 1844 aveva premessa alla sua
traduzione del Bruno di Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che
ne caròla promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬
siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe il 7 aprile 1844
;* prefazione piaciuta già allo stesso Schelling. 3 Ma ben presto la
marchesa tedescheggiente e libera pensatrice e il conte italianissimo e
cantore dei santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi
intendere. Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove-
' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366
sgg. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in
Italia III, parte II, pp 37-50. * Mamiani, Leti, dall’ esilio
a cura di E. Viterbo. Roma, 1809. 1, 211. * In una sua lettera a un
suo amico, del 26 dicembre 1845, il Ma- raiant scriveva: «Quantunque lo
vi discorra della tllosolla tedesca moderna con gran franchezza di
giudicio, lo Schelling non se ne tiene punto mal soddisfatto, e scrivendo
alla traduttrice, che è la march. Florenzi, ha detto di me parole
onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr. il Bruno stesso, ed. I.e
Monnier, 1859, p. 213. * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al
fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla mano
ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia del suo grande
maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬ presso le scriveva: « ìli congratulo
molto con voi dello studiare indefesso che fate e dello involgervi
coraggiosa tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling».
1 Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava per il
rischioso viaggio! Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva
pubblicato i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,
V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una recensione,
nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di Torino, del 20 aprile
1863, a. IV, pp. 250-52), la incitò a mandarne un esemplare allo
Spaventa. Quindi la seguente lettera : Signore,
Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬
coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non oserei
inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti lilosofi è al
certo temerità più die grande. Ma io mi affido più assai all’ indulgenza
di cui sono capaci i grandi uomini, e temo maggiormente i piccoli.
Ardisco ancora dimandare il suo leale, franco giudizio e la sua severa
censura; ed ancbo la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi
com¬ plimento. È dunque sotto l’egida del nostro amico che il
mio libretto vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo
por cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella
indulgenza sua. Me le offerisco e raccomando. Perugia, li 20
marzo 1863. Obb.ma M. Marianna Florbnzi
WAnDiNcroN. Lo Spaventa in ricambio le mandò il suo volume
Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn- 1
Lett., li, 314. pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi
fece gran festa, diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che
si raccoglievano intorno a lei. € Dono prezioso, scriveva
all’ autore il 9 maggio del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e
per ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande), che ora
dia fama alla nostra nazione » . Da altre lettere della colta
gentildonna si rileva che tra gli ammiratori guadagnati da lei allo
Spaventa, de¬ siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle
donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi ! Il 25 maggio questa
mandava allo Spaventa un suo piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che
doveva essere stam¬ pato coi Filosofemi. Era instancabile : quando, nel
giugno 1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su Le prime
categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬ ziargli un suo nuovo
lavoro, che avrebbe toccato anche quell’argomento (Saggio di psicologia e
di logica, Fi¬ renze, 1864): «Mi preme sempre di leggere le cose
sue, e per questo ho indugiato a dirmene grata e ricono¬ scente.
Non ho parole per esprimerle quanto quella lettura mi abbia soddisfatta.
Un ingegno come il suo non poteva a meno di escogitare fino al fondo
l’argo¬ mento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia
penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di llegel, il più
formidabile dei tedeschi filosofi. «Ella ha ragione: chi è mai
entrato sì puramente nella scienza del filosofo? « Tanto più
piacere mi ha recato il suo scritto in quanto che io aveva già compiti
due capitoli del libro che scrivo ora : Il divenire e V essere e il non
essere, pen- 1 Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il
Fiorentino, in Scritti vari, Napoli, 1876, p. 410-1.
siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da lei ! Dunque, per
tutto il piacere e per tutto 1’ utile ri¬ cevuto io ne la ringrazio di
cuore ed anima » (Lettera del ló giugno ’64). In una
poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi scriveva allo Spaventa:
«Vi prego di fare il grande sforzo di rispondermi al pili presto » . Lo
Spaventa, in¬ fatti, era tardissimo a scrivere, anche se chi
aspettava era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare le
sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa del 19 novembre 1804, gli
scriveva : « Alla marchesa Florenzi ho parecchie volte detto quale sia la
vostra indole, perciò non ho durato fatica a persuaderla della vostra
trascu- ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi, uno
di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli in pronto per
rispondervi. Credo che li avrà prima che il mese finisca. Li ha composti
con l’intendimento di dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto
giu¬ diziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno che ho
scorso, correggendo gli stamponi che le venivano quando io ero colà. A
proposito di lei, che cosa avete fatto per l’Accademia, di cui mi
parlaste costà? Io non le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e
sarebbe cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente è
una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la scienza » .
Lo Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima operosità e il
virile animo, onde la Florenzi proseguiva gli studi filosofici, facendola
ascrivere all’Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli.
Nomina che la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio
de’ suoi libri pubblicati dopo il 1865. Primo il Saggio sulla natura
(Firenze, 1866), che è dedicato appunto allo Spaventa: non per orgoglio ,
ma soltanto perla fiducia...che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto
maggiore in¬ dulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene
chiese licenza il 14 dicembre 1865 con una lettera molto mo¬ desta,
dove sono espressi gli stessi sentimenti della de¬ dica a stampa, e da
cui s’ apprende che il Saggio era da tre mesi in tipografia.
Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav. Evelino Wad- dington,
marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa liete accoglienze. «Egli se
n’è tornato», scriveva il Fiorentino, « contento di aver conosciuto un
uomo del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole, che
è segno infallibile». E come a Napoli si prepa¬ rava, in occasione d’ una
esposizione di cotone, un Con¬ gresso scientifico italiano, la Florenzi
contava di venirci anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra
me¬ moria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬ glierne
quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti. Evelino fu molto
contento di conoscervi e lo sarò pur io fra poco, perchè ai primi di
agosto contiamo di essere costì nuli’ ostante gli eventi del
monito. « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso
per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto, e per
distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto Congresso.
« Io presumo che no, stante 1’ imminenza della guerra ; nulla di
meno vi prego a scrivercene una riga ; ed ancora più mi preme sapere se
vi troverete in Na¬ poli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale
cam¬ pagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimo¬ rerete
» (15 giugno ’6G). 1 La dottrina della conoscema di G. Bruno,
pubbl. negli Atti dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli del 1865;
risi. In Saggi di cri¬ tica pp. Un’ ultima lettera del 8 agosto
1867, ha un certo in¬ teresse, per l’accenno che vi si fa al discorso
Della immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblicò nel
maggio 1868 : « Io mi preparo o mi sono già preparata a
scrivere un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema
scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬ mortalità dentro di
me e voglio essere immortale a tutti i costi. Sarà dolorosa ai
feuerbachiani miei amici 1 la mia assoluta opposizione». Nè
anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’ I- talia fecero plauso
all’ assunto della marchesa. E lo Spaventa alluderà forse, con quell’
ironia che gli era propria, al discorso poco persuasivo della
Florenzi, quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al De Meis, la
chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale almeno come, socia
della Beale nostra Accademia » . ! L’intimo pensiero dello Spaventa
sull’ immortalità dell’ anima individuale apparisce dal principio d’
una malinconica lettera da lui scritta al De Meis il 13 luglio 1880
; dove ricorda la sua prima figliuola morta a tre anni :
Napoli, 13 luglio 80. Mio caro Camillo, Spero che
la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3 tuo omonimo concittadino e
la tua, ti riconoilieranno cogli amici. In particolare io conto sulla
reminiscenza, anche involontaria, di que’ maccheroni al pomidoro; di
quella Irittata e di quelle cocozzelle, oramai divenuti celebri no’
nostri annali domestici. Via de’ Fiori a San Salvario, n... 4 . Il numero
non lo ricordo 1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen
iiber Tod und Sterb- li chheil (183(1) sostenne la mortalità
dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile, p. 303 n.
8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria del De Meis.
• Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella
Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo
(li consultare la signora Isabella, che attende alle faccende di casa.
Non lo ricordo; ma fa lo stesso: ricordo il luogo, il prato, la soala, il
piano, le stanze e il mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che
scrivevo : le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi
he¬ geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬
tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera prima Mimi e
lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà lavora! — Io non so so
(|uella casa sia rimasta ancora in piedi; oramai non vedo piti Torino da
circa vent’ anni : ma ella sus¬ siste tuttora qui, come forse non ha mai
meglio esistito iu realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta,
nell’ a- nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello
(Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà! Che
significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure è stato ed è.
O ci è proprio uu modo di essere che non è sussisterei E sussistere
cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine umana ha trovato lo consolazione: —
tutto nasce e perisce, è vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli,
non mutali mai. — Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.
Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinco¬ nico,
anzi. Ma va e freua la mia fantasia!... Lo Spaventa, non occorre
dirlo, non era materialista. Ma nella concezione hegeliana della natura e
dello spi¬ rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e
quindi neppure per l’immortalità personale. 3. Il primo
scolaro (li B. Spaventa (F. Fiorentino). Battaglie carducciane
ancddote. Nella nota polemica del 1876 con l’Acri il
Fiorentino dice di aver conosciuto tardi lo Spaventa, e poco prima
i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi un altro mondo, e mi parve
rinascere. Allora ero professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i
molti che si preparavano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo, mi
sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii non valevano
neppure i suoi calzari. Quale fu la mia maraviglia, quando dai più
sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla di lui, e che lo
combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! ».
1 Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando, sullo
scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia della filosofia, non
E aveva visto che due volte o tre. * * L’ultima di queste ne ebbe
consigli e suggerimenti circa gli studi per cui la Biblioteca
Universitaria di Bologna avrebbe potuto offrirgli E opportunità.
Giacché dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere quelle
ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬ vennero le sue
opere più importanti. E quando si di¬ visero, lo Spaventa dovette
annunziargli il libro, che allora stampava, Prolusione e introduzione
alle lezioni di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe trovato uno
schema della storia della filosofia italiana. Glielo inviò poi infatti
con una lettera, della quale possediamo la risposta : Mio
carissimo amico, La vostra lettera e il vostro libro lungamente
aspettati mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a
leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che
intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬ ziente
desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite sempre profondo e
stringato ragionatore ; oogliete nel criticare il nodo del sistema, c ne
mostrate lo scioglimento cosi luci¬ damente che meglio non si può. lo vi
ho sempre tenuto, e vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima
della critica filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi Italiaui abbiamo
' La fllos. contemp. in Italia, Napoli, specialmente bisogno, serondochè
voi avete maestrevolmente notato. Le considerazioni su la lìlosofia
nazionale sono esatte, e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che
io ho letta fino al Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni
assai rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’i¬
taliani del Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza nuova, sono
inappuntabili ; ed a rifiutarlo bisognerebbe di¬ sconoscere la teorica
della parola dal Vico medesimo adottata. Io mi rallegro di tutto cuore
con voi, mio carissimo amico, ed auguro all’ Italia molti uomini che vi
rassomiglino. Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la
lealtà del manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero;
la coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del
sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a spro¬ posito, e
più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non della verità eterna ed
immutabile. Voi siete molto opportuno nelle condizioni poco prospero del
nostro paese, e gran bene potrete fare. Esperto come siete di gran parte
delle nostre città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o
nessuna può spingere e continuare il movimento della italiana filo*
sofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano pochi uditori,
alle altre della mia facoltà meno che pochi, o nessuno. Per buona ventura
è venuto qua a continuare i suoi studi filosofici un bravo giovane delle
provincia meri¬ dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi
accom¬ pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e
buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri giovani. Altri vanno e
vengono più per curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di
tutte le cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione
che lessi qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa
costà. Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬
petente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io
non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto: amo la verità più del mio
amor proprio... A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene
mi sia stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe
venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬ segnamento
di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei bisogno di buoni
espositori di Platone e di Aristotile, perchè questo anno mi occupo della
filosofia greca, e intanto, tranne alcuni commentatori antichi, non si
trova altro. Ho fatto ve¬ nire «lei mio la esposizione della Logica
aristotelica di Bar- thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come
si riescef ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le
vostre prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine
poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio
Evo» pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I
mano¬ scritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che
su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere, e a parer
mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Krigena, e Patrizzi, che
costà non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti questi, mi metterò a
studiare la storia della filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi
diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio
Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬
torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo. È piuttosto
una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi manderò, se vi aggrada
leggerla. Parla altresì del Vera.® Ecco quante ve no ho dette, e forse vi
avrò annoiato: ma io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho
fatto alla mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi
amo assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più
scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando avrete tempo
scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con qualche spirito privilegiato
ed amico in tanta solitudine in cui vivo. Se potessi in qualche cosa
adoperarmi per voi, mi terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque,
mio carissimo amico, ed amate Di Bologna, 12 del 1863.
Il tutto vostro Francesco Fiorentino. 1 Enrico Tommaso
Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬ sidente della Società
Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè Vedas and on thè
phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla- neous Essaj/s (London,
1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on thè relii/ion and phtlos.
of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858. 1 Tra la corrispondenza
Inedita del Cousin ci sono lettere del Fiorentino: vedi Gentile, Albori
delta nuova Italia, I, 150.La Prolusione al corso di storia della filosofia (letta
il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata nel Progresso di Napoli
(a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ; ma non venne più ristampata. È infatti
ancora un do¬ cumento della fase giobertiana del pensiero del Fio¬
rentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei nuovi studi e
delle nuove tendenze dell’ autore. Giova riferirne qualche brano:
Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché esso è
la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compe¬ netrazione, e la
sua identità. L’ essere senza il pensiero è spar¬ pagliato, disterminato,
e però incompiuto e Unito. Imperocché l’essere compie se medesimo
geminandosi, vale a dire facen¬ dosi principio e fine; ed il mezzo, pel
quale esso si pone e conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità
suprema... (p. 23). Se non che esso nel mondo inorganico si
occulta inconsa¬ pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad
agitarsi operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal
grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si sveglia
libero e padrone di sé filialmente nella coscienza umana... Il pensiero
divino che trasparisce attraverso tutto il creato, si che ogui cosa,
secondo la frase biblica, appaia piena dello spirito di Dio, non parla
poi e non si rivela am¬ piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il
resto della natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi
cristallizzata: l’uomo solo è parola viva e palpitante... (p. 24)
La dualità di natura e spirito non è insuperabile. Essa inette capo
« nell’ unità cosmica ». E in virtù di questa la natura tende allo
spirito; che comincia bensì aneli’ esso come forza individua partecipante
all’ uni¬ versità del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi.
...Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e ciò che
questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando lo spirito si abbia
assimilato la natura e sé stesso per quella serie di sviluppamenti che va
spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo
spontaneo ed in- cosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può
rifarsi in tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel
ripensa¬ mento che si dice riflessione psicologica; e quando si
ripete su la natura, partorisce la riflessione detta dal Gioberti
ontolo¬ gica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba
una terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire la
riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la sua azione
medesima, sul proprio pensiero... su la natura e 10 stesso spirito
è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non è il moltiplico, ma lo fa. Se
l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬ timo grado del pensiero sarebbe la
riflessione psicologica e l’ontologica, e la logica non sarebbe
possibile. V’è logica, perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la
logica, perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della
cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata 1’ unità
primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1' anima, 11
concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il pensiero
speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima e la massima, e che
comprende la protologia, la cosmologia, la psicologia e la logica. . (p.
2fi) Venendo alla storia della filosofia, il Fiorentino di¬
chiara che il disegno della storia si deve modellare su quello della
scienza : sicché la storia dev’ essere essa medesima un sistema. « Una
storia che non fosse un sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati
qua e là, non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la con¬
nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica. So bene
io essersi talvolta tenuto conto o della successione cronologica, o della
continuità etnografica; confesso che queste maniere contengono qualche
parte di vero ; che il tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn
; che la scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in
una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬ poranea ed
eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi angusti cancelli...
Egli è da maravigliaro intanto come fra tanti che hanno trattato la
storia della filosofia quasi uiuno abbia fatto capo dellu genesi logica
dei sistemi, salvo l’Hegel in cui celesta legge si appalesa
inflessibile come il fato; e nelle cni mani la storia si trasforma in una
geometria, dove nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel
accorcia e distende i sistemi come il Procuste della favola,
affinché tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della
trico¬ tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬
tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi, e leva di
mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò monotona, nell’altro
la varietà rimaue disordinata ed inor¬ ganica. Contemporaro però questi
due estremi, badare alla continuità del pensiero universale, senza
disconoscere l'in¬ fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto
mezzo, ed in postura convenevole, onde si possa portar giudicio
sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia
(f), ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla
convinzione del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della
sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali cause lo
abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29) La storia della
filosofia presuppone un sistema, che sia come il regolo con cui conviene
riscontrare e mi¬ surare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza
del criterio di una storia, dipende il valore di questa. Hegel ha
immedesimato la storia della filosofia col suo si¬ stema, affermando non
essere tutti gli altri se non momenti del suo, e (singolare ardimento!!
egli non si è peritato di pian¬ tare le colonne di Ercole della filosofia
! L’avvenire giudicherà di lui, provando coi fatti, se dopo la grande
Enciclopedia ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da
fare. Infine il Fiorentino toccava la questione di una filo¬
sofia italiana contestata dagli storici stranieri. Mettendo n
rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel tripartisce il mondo
della filosofia moderna, maiorasco ina¬ lienabile, tra l’Inghilterra la
Germania e la Francia... Il Cousin di poi, n cui non tornava conto una
terza nazione, non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite,
e diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla
Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si trovano
peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1 Forse Telesio e
Galileo non parlarono mai del metodo spe¬ rimentale ? Giordano Bruno non
mosse dall’unità della sostanza prima ancora dello stesso Spinoza?
Campanella non iniziò la osservazione psicologica? K Vico non partì dalla
conversione del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido
cito potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;
tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi non rimase
luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di oltremonte non ha fatto
mai nulla, non ha pensato mai a nuli», e sola, spogliata del comune
retaggio dell’urnan go- nero, ella è costretta a stare spettatrice
stupida od ingloriosa delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il
passato della Ger¬ mania o della Francia potesse diventare il suo
presente; troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità,
le venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi
manipoli hanno gli altri mietuto. Mi rincresce, o signori, di dover
prorompere in parole amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore
molta ri- vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover
rinfre¬ scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri
fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No, io
protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli allori dei
nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della loro gloria, fragile
schermo alle immeritate rampogne... (p. 31) Il Fiorentino ricordava
la « gran sollecitudine » che a Napoli egli aveva visto « affaticare gl’
intelletti traen¬ done argomento a bene sperare e ad asserire che
forse la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria».
Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬ fondesse da
Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter proseguire l’impresa, che qui
(a Bologna) inaugurava il suo illustre predecessore»; cioè lo Spaventa.
Infine, una patriottica perorazione : Por gli altri, o
signori, la scienza può essere forse un ad¬ dobbo ed un decoro, por noi
italiani è desiderio di riscossa, è condizione indispensabile di vita.
Noi non sapremmo pas¬ sarcene senza tralignare dalla nostra antica
fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi
grandi cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio
allenarci, che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella
infanzia dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili
le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri miracoli,
che lineili della scienza... Un pensiero che non fosse progenitore
fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei; ma esso avventurosamente
non sarebbe nemmeno da dire pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero
capriccio. Io nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è,
e voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io batto
le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal orgoglio di
coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte di Giordano Bruno
avanti al rogo: applaudo a Kicbte che lascia la cattedra di Jena e corre
sui campi di Lipsia; e non so rifinire di ridurmi nella memoria
Sl’acteria, Mestre e Cur- tatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio
e Pilla, va¬ lorosi ingegni, valorosissimi cittadini. Sì, o
giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti noi abbiamo bisogno, e 1’
Italia sarà. Addoppiate gli sforzi... Per¬ corriamo di conserva e con
alacrità 1' arduo arringo della scieuza, e siamo certi di cooperare in
tal guisa potentemente al riscatto della patria nostra. La scieuza lo
iniziò, ed essa indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti,
aprendo il cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della
no¬ vella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto
prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale cantato
sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri bersaglieri si
agiteranno al vento che spira dai sette colli (pp. 32-33).
Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario
annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti sotto l’ispirazione
dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla filosofia greca (Firenze, Le
Monnier, 1864), dove il gio- bertiuno di tre anni innanzi, autore dell’
opuscolo 11 Panteismo e G. Bruno, si palesava hegeliano e scolaro
dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la memoria su Le prime
categoi'ie della Logica ili Hegel. Così il Fiorentino si staccava
coraggiosamente da’vecchi amici di Napoli : onde nella conclusione del
Saggio (p. 302) accennava: «Devoto alla verità, non mi ter¬ ranno
del certo impastoiato nè vecchie preoccupazioni, nè codarde paure». Non
gli mancarono, infatti, silenzii sdegnosi e tacite rampogne, seguite da
una rottura, che fu la prima origine della polemica scoppiata
dodici anni dopo con l’Acri e il Eornari. Nella seguente lettera ne
abbiamo il più antico documento: Mio carissimo amico, Vi
so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito del mio libro, o
non vi nascondo che le vostro parole mi sono valso di sprone
efficacissimo a seguitare. Voi sapete di quanto peso io tenga il vostro
parere? o come lo anteponga ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o
anche (V oltre¬ mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia
da non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un
amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoc¬ cupazione
di partigiano. Non timido amico del vero, io dirò sempre aperto il mio modo
di vedere; ed in ciò debbo confessare che voi mi siete stato esempio e
conforto. Delle altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi
me la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio
costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero d impormi
un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo mio, non che nou
comportare, anzi disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa
tedesca, e epocial- nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad
altre espo¬ sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho
in pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬
dere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬ cune.
Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per
occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que- st’anuo
medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino, dove siete stato, ne
hanno qualcuno, e quale; perchè potrei chiedere al Ministro che fossero
di mano in ninno mandati a questa hibliot«^ca por studiarli...
Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica 1-1 —
Gentili:. Storia della filosofia. Aristotile del Bonghi,
avendo egli ora il tempo di de¬ dicarsi alla continuazione di quella
stampa. Add.o, uno ca¬ rissimo amico, e ricordate ed amate
Di Bologna, Il tutto rostro £—5S-Svt*--
— Addio. Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa
ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie
italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9) il Fiorentino
aveva mostrato nel Saggio di avere ben compreso il valore della categoria
kantiana. Ma poco vantaggio potè certo cavare dalla esposizione
< Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18« era stata pure
tradotta in italiano da F. Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi
studi di Napoli, avan alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne
della Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati i
primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬ sieme col Bonatelli,
che allora gli era collega a Bologna procurava di rendere possibile, con
una sottoscrizione . resto della stampa, anzi la pubblicazione completa,
con hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non ‘ S
riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n. donato il pensiero,
quantunque la sua interpretazione non sia senza difetti.
TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1
Settembrini. Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant.
Della prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬
rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando a divedere
quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso': Carissimo
amico, ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri,
appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da
Bologna. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
va¬ canze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a Bologna una
prolusione su Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. Sarà
stampata a Firenze in un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo
La civiltà italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne
avrò gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste
scrivere qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo
giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un bravo
giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi, che,
avendo mandato il mio libro ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto neanche
risposta! Che voglia dire, non so ; ma mi par barbara usanza il voler
imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio
vo¬ lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono con¬
ciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi
rinnovo le premuro, perchè egli sta aspettando che io gli rimandi i
manifesti. So come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non
assumiamo nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed
amate Di Perugia, 26 dicembre 1861. Il vostro afet.mo
sempre F. Fiorentino. La Civiltà italiana pubblicò nei primi
tre numeri (I trimestre, gennaio 1865) il discorso del Fiorentino :
Em- manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di lui stesso
il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia- 1 Cfr. quello che
se ne dice nella Filos. contemp., p. 139. Ioghi di Rucellai;
dall’aprile al giugno dello stesso anno (II trimestre), le lettere
Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il discorso Dell’armonia del
concelto di Dante come filologo, come storico, come statisla (II
semestre, nn. 1 e 2): lavori tutti ristampati più tardi dall’ autore,
salvo il primo, negli Scritti vari (1876). Del discorso su
Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina, la quale dimostra
quanto il fiorentino avesse profittato della lettura degli scritti dello
Spaventa. Ecco, per esempio, come poneva il problema kantiano
: jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome il
fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di Ercole, di là
dalle quali non era dato allo spirito umano travalicare senza pericolo
d’imminente naufragio. Kant ri¬ flette, clic la sperieuza è tiu fatto, e
ebe perciò non può essere primitivo; essendo un risultamento, del quale
si può e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli
adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa. coni’è
possibile la sperienzat E più generalmente ancora: coni’ è possibile il
conoscerei Con la quale domanda 1 oriz¬ zonte della scienza si trova
onninamente cangiato, e i vecchi filosofi seriamente imbrogliati. Il
Galluppi, che primo in Italia giudicò convenevolmente il movimento
kantiano, si accolse di questa novità di problema, e con la Bolita sua
semplicità di linguaggio la espose così: — Prima di Kant la filosofia
era dommutio .1 o scettica: con lui comincia una nuova forma, la
critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperieuza, o no;
Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come si formai II problema
così mutato non versava più sull’esi¬ stenza del fatto, ma sul suo
nascimento; e cotesto è la mu¬ tazione più sostanziale che Kant avesse
recato in mezzo nella scienza filosofica. I.a Scolastica
mutuava or dalla tradizione religiosa, or dalla storia, or finalmente
dalla filologia il contenuto della sua scienza: presupponeva l’anima, il
mondo, Dio, i loro attributi, la loro origine, e vi attagliava una forma
scientifica per pal¬ liare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e
sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette
trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onni¬ potente del
pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo antico, e di
sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra¬ tagli ridusse lo spirito
a tavola rasa, e vi disegnò sopra le prime linee della scienza nascente.
Kant sorpassò l’uno e l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino
su la coscienza di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬
sendoché entrambe contenevano degli elementi variabili, ed egli, messo su
l'avviso dalle rigide deduzioni di limile] non voleva più far entrare
nella scienza nulla elio avesse sembianza di mutabilità.
Esposte rapidamente la unificazione del molteplice, onde
nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e onde si giudica per
mezzo delle categorie le intuizioni, il fiorentino dimostra come la vera
unificazione ancora non sia compiuta, essendosi passati dall’
opposizione della materia e della forma dell’intuizione a quella di
intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si rannoda il
multiplo sì della sensibilità, come della intuizione, è l’unità
trascendentale della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno
il nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due si¬
gnificazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò primitiva
ed originaria; producondo gli opposti, non può ella essere un opposto; se
no, si andrebbe all’infinito. L’altra coscienza di soconda muno vien
oontraseguata con la giunta di empirica, ed è una fattura di quella
primo, come ogni altro fenomeno: va costruita con la forma del tempo, con
le categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La
coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza
trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda. L non è
senza ragione se ho ribadito questa distinzione, essendo capitalissima
nel sistema che stiamo abbozzando, il vero merito di Kant non è di avere
trovato i concetti a priori, ma di avere posto a capo della sintesi
quella eli’ ei chiama energia porlentota, vale a dire la unità sintetica
originaria della coscienza. L’illustre prof. Spaventa lia con molto
aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che il
Ro- smiui aveva fatto del Kant. Non è gii che gli opposti sieno
dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li vada
elaborando: questo processo ci era prima di Kant, ed egli lo ha
sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché quale conoscenza
potessi avere, posto che i termini, ond ella si compone, fossero stati
accoppiati per caso e alla rinlusaf Data da uua parte la intuizione, dall’altra
la categoria, e poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o
per lo meno arbitraria ; non si vede che il giudizio sarebbe
un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già un processo
dello spirito, il cui carattere specialissimo è l’intimità? Se lo spirito
adunque unisce gli opposti, è perchè entrambi scaturiscano da una
sorgente comune, e perchè il riunirli è per lui una scria
necessità. Ma Kant non fu coerente a questo concetto della
sua energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale pura
con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione logica delle categorie,
che ripescò perciò empiricamente attraverso i giudizi ; stralciò il
pensiero dall’ essere, fa cendo della sua attività una forma affatto
vuota ; e finì nel noumeno inconoscibile. E la conseguenza è
giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non pensa nulla, e, di
rincontro, un essere che non può essere pensato. Se non che lo sbaglio
sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un
essere non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬ noscerlo ed io vi
replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto
oscuro. Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione,
vuotato di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’
identità pu¬ ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu
crea¬ tura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare
pienamente le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta
tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella
stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬ tembre 1865) il
Fiorentino inserì una recensione del primo di quei tanti libri che poi
Ruffaele Mariano venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo
Eraclito, € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬
sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova rilevare due
osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben determinate le due direzioni
divergenti degli scolari del Vera da una parte e di quelli dello Spaventa
dall’ altra. Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in
senso di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca
quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due illustri italiani,
quando anche si fondasse sul vero, non sarebbe certo modesto consiglio il
tenerlo. Nè veggo che l’essere hegeliano debba di necessità far avere in
poco conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e seria,
che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e dell’altro, prova il
contrario». L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬
feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra Eraclito, non
v’ha proprio nulla a ridire, specialmente su la relazione che P Hegel
pone tra Eraclito e P ultimo degli Eleatici? E forse vero che Eraclito
segni un progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato
prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬ rebbe apparsa
alla coscienza speculativa prima della dialettica zenoniana ; onde
l’andamento storico, per lo meno, sembra essere stato da Hegel capovolto.
Dico ciò, allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso la
eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi che fossero. Le
colonne di Ercole dell’ ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può
; e se si potesse affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo
Spa¬ venta era di quest’avviso. Nel 1865 il Fiorentino si
accinse al suo lavoro sul Pomponazzi, pur continuando all’Università i
corsi sulla filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:
Mio carissimo amico, È trascorso gran tempo che manco <li
vostre nuovo, non ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando
il Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬ pagna.
Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto inquieto per causa
di qualche amico elle vi ho, e più d ogni altro per causa vostra.
Levatemi da questa iuquietitudine scrivendomi due parole che
m’informassero della vostra salute. Io sono tornato qui prima della
riapertura della Università, e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate
le vacanze qualche giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia,
e poi il più del tempo in villa. Sto esponendo la filosofìa
tedesca da Kant in qua ; e ciò alla Università. Sto preparando una
biografia ilei Pomponazzi ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla
nella Società di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima
non dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di
qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬ logna. Oltre
l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse potrei farla ancora del
Cromonini, che, stato a Ferrara, può dirsi delle stesse provinole di
Emilia: del Zabarella no, eh’è stato soltanto a Padova. Io poi a queste
biografie, elle leggerò nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò
per conto mio la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei
loro libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne pare
t ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬
nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per compiacere a
De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la sua Civiltà italiana. Non
sapendo se abbiate o no avuto quel periodico, ve le mando così radunato,
come le feci estrarre; e vi prego di accettarla come
testimonianza della mia sincera stima ed amicizia. Addio
adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed amato Di
Bologna, 30 novembre 1865. Il vostro afi.mo amico P.
Fiorentino. E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui
biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione di Storia Patria
per le provincie di Romagna (1867), e poi riprodotta in capo al volume
pubblicato nel maggio 1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che
diventava sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne
notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della tua memoria]
sul Campanella, 1 perché essendomene quest’ anno occupato nel corso
scolastico, sono desideroso di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono
attorno ad una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬
però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le Monnier... Me
ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri che mi sono occorsi ». E il 26
aprile 1868: « La stampa del mio libro è finita, e sono attorno a
scrivere due parole di conclusione, per le quali ho aspettato di
ri¬ leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,
dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai di Pomponazzi un
manoscritto inedito col titolo di Quae- sliones ammostiate : * le chiesi
al Napoli. 3 Mi promise di spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi
turba non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬ ledetta
fiaccona degl’italiani! ». 1 III Saggi ili critica, Napoli,
1867. 5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509. «Federigo
Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.Uscito il libro, il
Fiorentino, mandato che l’ebbe allo Spaventa, ne attendeva con la solita
ansietà un giudizio. E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo
Spa¬ venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco risuona
anche nella lettera qui appresso riferita del Fiorentino. Era stato col
Brioschi e il Messedaglia a fare quella ispezione alla Università, di cui
parla il Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Mi¬
nistero. Mio Carissimo amico, Ilo ricevuto i manoscritti
del Gatti, che ho consegnato subito al Siciliani, uonchè lo due dispense
che mi mancavano, e di cui ti ringrazio vivamente... Non ho visto incora
l>e Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine:
1 ci dovrà essere una epopea intera. Qui si fa un grati dir
male di te per la famosa relazione: * io uon l’ho letta, e se non la
leggerò, non me ne sto al detto di nessuno. Mi si è detto cose, alle
quali, come puoi pensare, non ho potuto dar credito: tra le altre cose
che voi avete dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in
massa, e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità
nello associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto,
nou protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa
dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non no ho avuto
mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci vorrà un pezzo prima
che me ne tocchi un briciolo. Manco male se si acquistasse dormendo,
perchè allora potrei averci delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello
che si bucina qui, e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse
vero, 1 La lettera al De Meis che fu pubblicala col titolo
Paolotttsmo, positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso citata.
« Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al Ministero
della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione col
Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna, iter ragioni
d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su questa faccenda,
pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0 luglio iami. si
può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, è qnell’aver messo
sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un fascio, i professori bolognesi,
lo sono nn mezzo proscritto, perchè sapendomi tuo amico, o si guardano di
me, o mi tempestano a tutta furia. Lasciamo questa miseria.
Ho letto i documenti che il Berti lui stampato della vita di Bruno. Il
processo veneto, se non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di
poca fer¬ mezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli
hai visti! 1 Ho tra le mani pure la seconda edizione delle
opere di Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto
soltanto esposizioni, benché assai larghe. Il mio libro è
(inito, almeno le correzioni ultime le mandai una settimana fa, ma ancora
noi vedo. Appena uscirà, scriverò a Firenze, che di là stesso te ne
mandino mia copia, per far più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e
dimmene il tuo parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o
che non puoi tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere
qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa del Settembrini, fosse anche tuia
pagina. Il Siciliani spesso me ne fa premura... Io non solo non ti
ammazzo, ma ti rin¬ grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi
che inai. Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad in¬
tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii contenterei che
fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De Meis! 3 Dopo il Don
Chisciotte non ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto : le cause
del riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto, ma
molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi perchè noi trova
abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate animali
domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati 1 II
Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto, si confermò
Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo scritto nel
Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878. * Non saprei dire a
qual lavoro si alluda. * Il Dopo la laurea del l)e Meis
(1808-69). per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1
gli scrisse una lettera, nella quale si firmava: « l’animale domestico di
Gozzadini*. Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te
ne voglio io Di Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo
tuo amico F. Fiorentino. Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul
contenuto della famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del
Fio¬ rentino : Mio carissimo amico, Ero
capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto tutta quella roba da
chiodi di questa Università, che altri diceva, ed i pih credevano, lo
perù, come amico, mi tenui in obbligo di informartene, non per conto mio,
ma per tua regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto,
e gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto, e
potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si può, nè si
dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene, perchè mi ha
snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬ tendo, propendeva sempre a
darti ragione, e non ci era bi¬ sogno di altri eccitamenti. Io dunque non
solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi
per mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di
cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale prevalga
pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti non voglio applausi;
dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni tentazione. Ad una sola
cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro
franca, ed anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere a
quest’ ora una copia del mio Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di
Le Monnier a spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di
spedirne 1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito,
Giovanni Goz- zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G.
Carducci. V. pure Carducci, Opere, III, 369 ss.
una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo
commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die
tu possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più
istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà
chi meno me ne crederà degno, nè io ho da peccar contro la modestia per
accettarli, o per pronunziarmeli io stesso; ma chi mi mancherà di certo
sarà chi mi dica: qui hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio:
queste pagine avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio
che quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso
l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio mezzo
tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir tutto in una
parola, figurati di scrivere una pagina di quella relazione, per la quale
vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬ nistero, e poi scrivimi un
letterone quanto quello che scrivesti a De Meis. Più male parole ci
troverò, e più te ne renderò grazie. A proposito, quella tua
lettera, con partito unanime, fu li¬ cenziata alla stampa, riseoandone
certi nomi propri, e certe espressioui che ricordavano il Candelaio di
Brano... Io mi oc¬ cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori.
Vorrei farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare
lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che a me
pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le lezioni, perchè tu
sai che questa rivista non è tanto facile... Addio, mio carissimo
Spaventa, e veglimi bene come te no voglio io Di Bologna, 3
giugno 1868. Ajff.mo tuo amico F. Fiorentino. La
lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬ lognese, , che allora
il Fiorentino pubblicava con l’Al- bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è
quella al De Meis, col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo
(rist. in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il
Fio¬ rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello
Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò qualche anno più
tardi in quello inserito nell’itoh'a dell’ Hillebrand. STORIA DELLA
FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe
universitarie bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il
Carducci, diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬
tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza da Bologna, dove si
serba il ricordo d’una polemica del Carducci col De Meis e col
Fiorentino: « Io sono stato poco bene, parte per la stagione
che corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale ci
siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti è pervenuto rumore. Or
dunque, hai da sapere, che il Carducci, credendo dall’articolo di De
Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli
scrisse contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-
l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis... L’ articolo
non era firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci, per aver
questi scritto le stesse cose in una lettera particolare al Siciliani. s
Risposi io, di¬ cendo... potersi combattere le opinioni, senza
insultare le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima
volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non
si stette a questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De
Meis e di me ad un tempo » (18 marzo 1868). Il Fiorentino
replicò, ed ebbe, a quel che sembra, l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi
ha irritato», egli scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De
Meis n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,
che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora * Pubbl.
nella Rivista bolognese del 1868. * Documenti dell’amicizia del
Carducci per P. Siciliani sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della
filosofia positiva in Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II,
Opere , VII, 362-68: e le af¬ fettuose parole Alla bara di P. Siciliani,
in Ceneri e faville, s. Ili, Opere, XI, 313-316. è
allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia, eh’è finita
con nostro decoro». Quegli articoli il Carducci non li volle pili
ristampati. Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬
tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia di questo
aneddoto. 1 In un’altra lettera di due anni appresso (25
maggio 1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io
sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che mi ha provocato
con una nuova lettera insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale
non ho potuto sot¬ trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi
de¬ finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬ rentino,
infatti, si fece tramutare nell’ Università di Napoli, come professore di
Filosofia della storia. Ma non aveva lasciato Bologna quando
cominciò a lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa
scriveva allo Spaventa il 14 gennaio 1869: Mio carissimo
amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò
ho avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello, che tu
eri stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato un anno nuovo, e
voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure incominciare una vita nuova.
Dalla parte mia non voglio mancare di mandarti i miei augnrii, tra i
quali non ultimo quello di scrivere un poco più frequentemente agli
amici. Vedi, che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi,
perchè so che per questo riguardo non ci è bisogno di
miglioramenti. Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza
princi¬ palmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di
Ma¬ lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori
e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. 1
Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una dimenticata potè- mica tra II
Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella Critica vili (1910), pp.
401-421. t Avrei intenzione di scrivere
quulclie cosa sul movimento telesiano, ed ho scritto per avere alcuni
manoscritti che ri¬ guardano Telesio, e che si trovano parte costà, parte
a Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro; parere,
che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti, si fa lungamente
desiderare. Ma verràf Lo spero. Hai letto che cosa ne scrisse
Franti sul Centralblatt? Egli stesso mandommi con molta cortesia un
numero di quel gior¬ nale, dove ci era la sua rivista sul mio
libro. Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado
di darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La neve ieri
si è fatta vedere la prima volta in città: tu però quest’anno non verrai
a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi sarei tentato di pregare che a
qualche professore saltasse in capo di tribuneggiare per la tassa del
macinato, per vederti comparire in commissione straordinaria. Ma non
vorrei poi il danno del prossimo: in questo sono cristiano.
Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere qualche
cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo velleità ortodosse,
n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini vorremmo tenerla in piedi,
anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so
purtroppo, non c’è neppure da far grande assegnamento. Addio,
mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire a chi mi doumnda di
te, che sei vivo o sano. Di Bologna, 14 del 1869.
Aff.mo tuo amico F. Fiokentino. L’articolo del Franti
sul Pomponazzi uscì nel Cen- tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto
dal Tocco e pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del
maestro contro gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista
contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58). Del
Telesio si torna a parlare in una lettera del 9 novembre 1869 : « Tocco
ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi L. Settembrini, Epistolario,
con pref. e note di F. Fio¬ rentino, 3.* ed. Napoli. delle sue
Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io ho cominciato a
scrivacchiare le prime pagine di un lavoro sul Telosio, che non so come
mi potrà riuscire. Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel.
1 Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio bene. Dimmi
ora una cosa; vorrei dedicare a te ed a De Meis questo mio lavoruccio sul
Telesio, quando' sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te
non ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini : è una
pubblica professione di stima e di amicizia, che mi piacerebbe di
fare...». Il primo volume del Telesio (18<2) fu dedicato, infatti,
allo Spaventa: non solo come testimonianza di amicizia, ma come dovere di
gra¬ titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva scritto
i saggi sul Bruno e sul Campanella ; di grati¬ tudine per l 'insolita
luce che scintillava da essi, e da cui il I iorentino era rimasto
colpito. In questi studi storici sui filosofi italiani del risorgimento
il Fiorentino infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro
dello Spaventa: da lui avviato e da lui guidato. Ecco come
cou lo Spaventa si consigliava per pre¬ pararsi al primo corso di
Filosofia della storia da tenere a Napoli : Camerino, 26
luglio 1871. Mio carissimo amico, Ti Borivo da
Camerino, per sapere come stai, poiché non mi iti dato di rivederti a
Bologna, dove sperava poter passare qualche giornata cou te. Avevo anzi
desiderio di discorrere 1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso
de’ Licei, Bologna, R. Ti¬ pografia, 1889, con pref. del
Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel era uscito
nel 1869 nella Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu ristampalo con gli
Studi negli Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il
tutto fu ripub¬ blicato da me nel 190-1 col titolo di Principti di Elica
(Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto
meglio, ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in
coleste Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed
anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere sui
generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬ troduzione,
entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo tuo avviso in contrario,
il mondo grimo. Dol mondo orientale so poco: avrei bisogno di studiare
prima; ed il tempo, per questo anno almeno, mi manca. Della Grecia
conosco qualche cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei
suffiiiien- temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di
leg¬ gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti
testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte
letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia di
Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per arte greca forse
mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè ancora non lMio
lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma
U resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia
storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio largo
assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno, e fa presto...
Tutto tuo F. Fiorentino. Aggiungo qui appresso un
altro gruppetto di lettere o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino
allo Spa¬ venta, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte
dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della Società
napoletana di storia patria ; poiché anche queste lettere e frammenti /
gettano qualche luce sugli studi, sulle passioni, sulle idee, che si
agitavano in Italia in¬ torno allo Spaventa. (Pisa). — Ieri
sera parti di Pisa Silvio, ed a quest’ora sarà a Milano, e domani parlerà
a Bergamo. Si trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni
avantier- sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli
dissi elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando
queBta lettera col liciti. 1 K la tna lunga lettera? 15
rimasta tra i pii desiderii, di cui è lastricato, dicono, 1’
inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro
Hu- cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne
guardassi le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,
perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle mie solite.
La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬ ciano tanto, che non so
a quale delle due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo
letto questo articolo: mi preme sapere il tuo giudizio, e ti do piena
facoltà di mutare, e di cancellare anche qualche cosa, die non ti paia
conveniente, o inesatta. (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri
tornai da Soma, dove la¬ sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui
una lettera dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli.
Oggi P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a
Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬ sidererebbe
di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora questa
settimana... (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo
sole ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti.
Il tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,
ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è, che il
calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia. Kccoci ora intesi
: tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la
Tuta 3 eh’è un po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e
la Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate
meglio. Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella
Università di lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello
Spaventa applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel
Olorn Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal
j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe
della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise* Pelei
lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum » HestItuta
Trebbi, moglie del Fiorentino. * Isabella Scano moglie dello
Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro partito mi
ha commosso non por me, che sai quanto io stimi il genere umano in massa;
ma pe miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte
vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato, ancora è
scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro dell’Italia, e tutti,
o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano innanzi. Quanta viltà 1
Quanta corruzione! Vaie il pregio < curarsi del prossimo! E una
terribile domanda : piò si conosce il moudo, e piti si devo disprezzare:
Leopardi non aveva torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi
“ ,re “ do - con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo
tra. miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “
conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa
oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto alletto e
tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora, tess’io vederlo giovane
fatto come il tuo (.umilio Non Io perchè, mi sento ora più legato
alla vita, come non Cì iTn povero 1 Settembrini f A casa mia ci fu lutto come se fosse
morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a dell’Emilia, ed
insieme appresi la scondita di bihio. colpi in una volta. Ma Silvio
tornerà alla Camera, e al Mi¬ nistero, se il senso dell’ onestà non sarà
spento nel nostro nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .
• Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano; è
la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo tr Che3 U
rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di filosofia pei Licei: il
Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci sono piegato. È cosa molto
ardua, ed il noti poterti allargare quante vorresti, toglie gran parte
della scioltezza del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e
quel eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un
f..U, munirò ...» »». «,•«•*> fogli, ora con la spada alle
reni ni’...calza per la tonti n u azione. i n
settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non scrisse
poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto scrisse P°'
,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte (Napoli, Morano. 1873; e
V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl. uni e all'altro belle e
affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto
la tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio portato
dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto gusto, perchè la
sua autorità non è sospetta, come In mia, appresso la filosofia italiana.
Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi:
lascio la cosa al tuo arbitrio ; non cosi, il volormi bene che in mezzo a
tanti disiugauni mi preme e mi giova assai. Alla tua famiglia
di tanti augurii anche da parte della mia, e tu credimi sempre, e non a
parole. S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale
napoletano. (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra
notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto
su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione di un
uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬ tato a te
anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬ sessore de’
documenti della storia antidiluviana, non sa farsi capace della mia
polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè contro il
Fornari, e l’Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14
mesi, è venuto fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica,
e come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva
convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬ lunque sia il
libro, che ancora non conosco, se non per la receusione dell’arciprete
noetico». 1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della
fllos. contemp. in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11
Fiorentino, é contenuto in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo,
pubblicala nel Giornale napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV,
823, dov’é detto: « Vi ringra¬ zio di avermi mandato lo scritto dello
Spaventa, che io considero corno il più serio e il più chiaroveggente
degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo terminare un corso di filosofia
elementare ad uso de’ licei... mi sono creduto in obbligo di tener conto
delle dottrine di quel valentuomo, tanto più che io sono sempre in questa
persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare
puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e
dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio...
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana ». STORIA DELLA FILOSOFIA
(Pisa). — Prima di scordarmi, ae hai por¬ tata la Vita di Giordano
Urlino, 1 dalla al Betti che me la porterà: se no, mandala a Domenico
Morano, affinchè me la l'accia pervenire. li Bruno si sta
copiando, e dentro questa settimana co- mincerò a mandare il manoscritto.
Spero che tu hai con¬ certato pei caratteri, pel formato, per la carta.
Se non avessi ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il
tuo ritorno. Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si
conserva sol¬ tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi
dice neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma tra
la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è rarissima. Vale
la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a Gottinga, la copia
stampata non l’hanno neppure. L’edizione del Gfrorer ! non si trova
in commercio : il Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante
della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi
riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie
idearum. Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti :
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche
altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3 Dopo che tu partisti di
Roma, riseppi che nell’archivio della congregazione di San Giovanni
decollato c’ era la no¬ tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e
che questa data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17
Feb¬ braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei
fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬ giunge, che a
nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento
autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di quel furfante
dello Scioppio. I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia,
1888). * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati
nel 1838 (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda. *
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno, ed.
naz , I, p. XX. * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle
Opere latine del Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze.
1891). Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui orati
venute sot- t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno:
non sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne vo¬
levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare. Il
Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci andrò io per lina
settimana. Mi ci sono messo, o voglio riuscire. Tornato
tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: com¬ parvero lo macchie
difteriche; in un giorno si pennellarono tre volte; due altre volte il
giorno appresso: disparvero. Ma come fossi stato io d’animo, tu puoi
pensarlo. I nervi mi ballano ancor», o tra giorni andremo in campagna, in
una villa che ho trovata in iptel di Lucca. Ilo avuto i
titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora: conosco gli uni e
gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’in¬ cudine e il martello, e non
so a qual partito appigliarmi. E tu dimorerai a Napoli? Ovvero
andrai in campagna, e dovei Vorrei saperlo. Il Labriola mi ha
mandato un suo articolo su la libertà; 3 * e vorrebbe ne dicessi qualche
parola: mi ci trovo imbrogliato. Capisco il Labriola, quando parla, non
lo capisco quando Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria,
ed ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.
Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle parole, o nello
stile, è dentro la testa. Ilo letto il discorso di Silvio, e poi
Insita sdegnosa lettera all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel
primo, e qual forza di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al
mondo moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti
possono gustarla. Salutamelo tanto, anche da parte della mia
famiglia, che fa lo stesso con te. 1 11 bibliotecario
Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt. Emanuele di
Roma. ’ Luigi Bàrbera, che fu professore di Filosofia morale nella
R. Uni¬ versità di Bologna. * Del concetto della libertà,
studio psicologico, nell'Archivio di sta¬ tìstica del 1S78 (risi,
in Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce, M’ero dimenticato di raccomandarti il
Persiani. È impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un
lombardo (forse il Teneaf), e par che dalla Lombardia non si
riprometta gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo
sempre. (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti scrissi a
Napoli, ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per
tele¬ grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per
mezzo suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬
quanto infreddato a causa della lezione d’ieri. Tu che sei la
fenice dei Presidenti, specialmente quanto a prudenza, vedi se non entra
fra le attribuzioni presidenziali quello che ti chiedo io. Ho
bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è finito, e per
continuare la stampa voglio esser certo che il ministro non adduca
cavilli : nel qual caso pianterei 11 la baracca. Premesso ciò, e visto e
considerato che il Ministero ha premura pel Siciliani, e poca o punta
premura pel concorso di Torino, visto e considerato, che sta alla
chiaroveggente perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la
convo¬ cazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi;
che, convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri
ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e son certo,
come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo meglio in questo
perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore che sempre piò s’
inasprisce. Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con
quell’occhio critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende
piuttosto singolare che raro, farai quel che crederai. Ed orn
da capo, ma su di un altro argomento, una notizia. Nell’ultima puntata
(stile mamianico) della Filosofia delle scuole italiane, il sullodato
Conte scrivendo all’amico Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta
Europa (le pelli rosse e gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di
Platouo e delle idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone
! Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,
1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo Tenca, come lo
Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’ abilitazione
all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo
ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la
digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne
vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello
ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche loro al
materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo aspettavo, che sareste
rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito, o un facente funzione;
ma il Finali, il Monabrea, il Borgatti, tutta gente massiccia, chi
avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il
suo illustre oommilitonef Vista la brutta china, direbbe il
Sella, io proporrei (il raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte)
che il Ma- miani ed il Ferri siano impagliati, e ben conservati
nell’atrio dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione:
QUESTI BIPEDI IMPLUMI ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA RIMASERO
platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo
della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata a voti unanimi
incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa perchè ne celebrasse
condegnamente l’eroismo. E diamine 1 Alle Termopili furono treceuto
finalmente, eppure Simonide s’incaricò di cantarne: qui si tratta di line
soli, in Europa, non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di
dotti, e non ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e
poi dimmi il tuo avviso. Tu duuque hai leggicchiato il mio
amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare dell’ Istituto superiore di
Magistero, allora fondato a Roma: le quali — era la prima volta che si
vedevano tante signorine in una Università — frequentavano alla Sapienza
le lezioni di D. Berti. * Su questo pranzo v. le mie Orig. della
fllos. contemp., I, 1 p. 117. * Una critica che I.uigi Marino (che
fu poi professore di Filosofia morale nella Università di Catania) aveva
pubblicata degli Elementi di flloso/la del Fiorentino.
che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo
libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una sua lettera
autografa, che impaglierò pure. Povero giovane! Mi ha scritto con una
ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma
leggere no. Non gli ho neppure risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere
prima e poi scri¬ vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il
rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la
scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna
pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu
qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona : facendo poi una dottn osservazione, che cioè il Bruno or*
saltato a piè pari dentro la rocca dol- 1’ aristotelismo eco.
E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un libro, uno
tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬ mero et figura; quando
il De immenso ole. contiene otto libri, ed il De monade, che sarebbe il
contenente, non contiene nè otto, nè due, perchè è un libro solo, unico
tiglio di madre vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che
dimostrano una piccolissima cosa: il precetto pedagogico che testò avevo
1’onore di dirti, cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse
scrisse, e poi spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare
nella lettura. 11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran
capolavoro della critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al
solito, non 1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente
dnl- l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che
faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono
snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compen¬ sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia
col Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il
pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il 1 Nell’
art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese, e poi
tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».tabacco, »e tornassi
deputato, per non dovermi ingoiare quelle forti dosi di filosofia
scientifica, che mi somministrava il nostro Berti, m’imparerei a fumare.
Meglio lo stomaco sconvolto, elle il cervello come un mulino. Spero bene
però che non sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi
dicesti se Morano ti diede o no la prima parte del Manuale ili moria
della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬ chialo: invece di Marino,
potresti dure un’ occhiata al libro mio. Vorrei sapere se quel tanto è
sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi
servirebbe di norma per le altre duo parti (Portici). Ha lettera dal
Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste
insieme felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la
lettera che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla
mattina nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e
non che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta : si è fatta la
bobba, ma non li’ è venuta fuori la storia delle prove dell’esistenza di
Uio. Per un concorso a una cattedra universitaria, della cui
commissione faceva parte il Fiorentino ed era presidente io Spaventa, questi lo
aveva pregato di raccogliere gli appunti per una relazione sulla
voluminosa Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo
Bobba. Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva. Letto il
tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano alla lettura del
Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase alla prima pagina; ma ho
lasciato il poema lutino ai primi due versi e mezzo. Eccoteli:
Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm, Insipidimi
scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ; Obediain tamen etc. Esto
prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà prima la
pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un pover’ uomo, e noi uccideremo
un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della Legge morale di Crescenzio: il titolo è Francesco
Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo
libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli.
Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1 u in
persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un
libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese
Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri personaggi minori.
Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per ora sono venduto a questo
prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a tre, secondo che P
opera seguirà il processo ascensivo o il discensivo. Il bello
consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di
parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza
venefica s è esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di
Ales¬ sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei
pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la
filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta. Delle
stroncature, come oggi si direbbe, dei De Cre¬ scenzio ormai chi se ne
ricorda più ? Ma c’ è sempre qualche De Crescenzio in giro, pronto a
dimostrare, come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo
o il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o le leggi
fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può accogliere siffatte
dimostrazioni con lo stesso buon umore del Fiorentino. Intorno al
Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni
Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to –
philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete
frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile:
implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e
Gentile – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo
italiano. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s
immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to
all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did
Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova
e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della
"scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica. Altre opera: “La dottrina platonica delle
idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti
metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica
presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica,
Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario
storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e
tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica:
testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano:
Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della
filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico,
Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La
riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma
inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia,
Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal
Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi
di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia,
Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. Gentile occupa
sicuramente un posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso,
ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo
o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più
correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia
della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la
pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è
che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua
concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale
dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale
problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica
fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa
un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana
della metafisica classica, Gentile, proprio in virtù del riconoscimento
dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua
formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica
dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò
così una posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti
padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente
neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Ugo Spirito, anche
dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia
neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e
la filosofia neoclassica di Gustavo Bontadini. Le sue opere più significative, in
particolare Come si pone il problema metafisico (Padova 1955),
Breve trattato di filosofia (Padova) e Trattato di
filosofia (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui
sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e
parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in
grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e
inquieta del nostro tempo Sent from the all new AOL app for iOSLa
fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti
metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula
descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il
maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E
che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico
vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare
dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse
riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che lo hanno,
direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può
del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che
presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente
tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti
dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente
nell’articolo di Enrico Berti, uno dei primi e forse il principale tra gli
allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto
apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse
l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta
infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali
l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due
caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e
l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in
quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare
tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del
cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il
tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio
di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia
come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di
“fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone,
pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e
l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno,
a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle
caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei
suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che
distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della
necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga
ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che
lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di
Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente
differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta
vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il
problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine
del Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico
dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una
normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità
gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del
principio, e quindi del “valore”, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come
atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto
nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio
compren-dere la prospettiva metafisica di Gentile, che si presenta come ripresa
della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero
moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice “classica”, ma non è per
questo “oggettivista”, come altre, più note, versioni della stessa. Una
particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pra-tica
pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui
è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Carla
Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una pedagogia umanista, poiché
«l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di classicità, si attua come
paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni
storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una
sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla
verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui
si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa
prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo,
anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito
scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino
manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma
della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi
possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la
voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un
necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e
a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche
l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia
period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici
antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ----
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Gentili – filosofia italiana – la filosofia romana arcaica -- Luigi Speranza (Valmontone).
Filosofo. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a
classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the
beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of
Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea
a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di
studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent
il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli,
laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia
e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico
"Virgilio" di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma,
Gentili ne fu subito conquistato e Perrotta lo volle come assistente.
Dal suo maestro Gentili apprese l'arte
della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza
significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra
cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono
pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può,
anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o
intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari.
Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli anni '50 non sono facili, sono anni di
studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi
sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata
antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna
a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore
della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu
rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata
la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca
(Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo
spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero
antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. Bruno Gentili, Eric R. Dodds mentitore? “La
idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani. La
cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano antico il rapporto è
stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della retorica e della
filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico; l’arco
di tempo della difficoltà dei rapporti va almeno dall’inizio del secondo secolo
a.C., al principio del primo. E non solo: tensioni, incomprensioni e scontri
non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di
dissenso da Nerone, che erano le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche
con ciò che la mentalità comune pensava dell’imperatore: ma qui la nostra
analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima
aveva trovato resistenze nella concretezza tradizionale dei Romani:
l’astrazione filosofica di origine greca suscitava sospetti diffusi, come se si
trattasse di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi
a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene.,
perché giudicati pericolosi per la società romana: soprattutto tale appariva
quel Carneade sul quale si interrogava don Abbondio nella notte degli imbrogli.
Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del
parlare bene, che pure era d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle
difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un
decreto del Senato bandiva dalla città insieme retori e filosofi greci. Ma la
novità culturale non si arrestava per decreto: e la tecnica retorica riprese
fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani:
purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che
nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di
un personaggio non molto famoso: Plozio Gallo. Era la scuola dei rhetores
Latini, della quale parla anche Cicerone, per testimoniarci dei successo che
essa riscontrava presso i giovani di allora e del suo rammarico per non potervi
accedere: il giovane Arpinate era infatti trattenuto da altri maestri, che lo
indirizzavano allo studio della retorica solo in greco, come una volta si
faceva. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di Plozio Gallo?
Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di Cicerone agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici: la scuola dei retori latini rischiava agli occhi
loro, e agli occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso
centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al
potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di
Plozio Gallo, col popolare Mario, in anni di contrasti fortissimi in Roma,
culminati nella guerra del 91 a.C. per il diritto di cittadinanza degli
Italici. È sempre Cicerone a informarci, nel trattato intitolato De oratore ,
dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di
Lucio Licinio Crasso che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di
chiusura della scuola. Era una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agli
occhi di Crasso e dei suoi amici: essi andavano ripetendo che la mente dei
ragazzi diveniva ottusa e si rafforzava la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre
i nuovi retori si proponevano esattamente il contrario: aprire la mente degli
alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il nuovo
genere di insegnamento consisteva sostanzialmente in una sintesi di retorica e
filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si doveva
trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e
precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore: questi
diveniva così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con
competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e
sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si formò il giovane Cicerone.
E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati
in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di S. Boldrini, S. Lanciotti,
C. Questa, R. Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ. Philol.,
una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande
maggioranza dei contributi, dedica al mi? saggio 'Storiografia greca e
storiografia ro mana arcaica' appena due parole: "the long essay in
unoriginal medio crity, e.g. a potted survey by B. Gentili": un giudizio
dr?sticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso
eviden temente il par?re di D. Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel
reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari. Certamente
ognuno, nel recensire un libro, ha il diritto di giudicare come crede Topera
che recensisce, ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio
punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il
senso critico del discorso. Se ilBadi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere
il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto
necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto mio intervento. Ma
quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna
raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" ilmio
discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho
citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in
Latin Historians, edited by T.A. Dorey, London 1966, pp. 1-38, che, esso si, ?
realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa
di originalit?. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione
panor?mica intesa a riproporre alla storiografia di lingua inglese una tem?tica
da essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo sag gio ?
stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho
scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e B. Gentili con G.
Cerri, Le teorie del di Roma mie 1975, ricerche la storiografia p. 82 n. 2 e
che rappresenta Pedizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag
definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sulP
argomento. solo un risentimento che, prima ancora che agli effettivi contenuti
di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla
t?cnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano.
una nuova tesi, Topera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata,
indico come originale" che riconduce di Che cosa io intenda quella che con
questa storiografia degli Annales di Fabio Pittore Pontificum di Fabio chiarito
in un precedente saggio, sulla rivista II Verri, al quale di proposito avevo
rinviato alPinizio del mio intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato
in Communication Arts in the Ancient World, ed. by E.A. Havelock and J.P.
Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie
ancora: pu? dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione
interpretazione del con una ? nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte
del Badi?n tornare sul Pargomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che
Pimpostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit?
e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universit? di Urbino
Letteratura: addio al grecista insigne studioso di metrica. Accademico
dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma, 9 gen. - (Adnkronos) - Il
grecista Bruno Gentili, insigne studioso della letteratura classica e in
particolare della metrica greca, e' morto ieri a Roma all'eta' di 98 anni.
L'annuncio della scomparsa e' stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui era
socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore dell'Universita' di Urbino, dove ha
insegnato letteratura greca dal 1963, nella Facolta' di Lettere che insieme al
rettore Carlo Bo ha contribuito a istituire. E' stato fondatore nel 1966 della
rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica'', di cui e' stato a lungo
direttore. Filologo rigoroso, Gentili si e' dedicato allo studio della
lirica e della metrica greca arcaica, curando anche edizioni critiche di testi
di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori
a Virgilio'' (1941), ''Metrica greca arcaica'' (1949), ''La metrica dei greci,
l'edizione critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto
poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca'' (1965); l'antologia
''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta).
La vasta bibliografia di Gentili comprende anche ''Le teorie del discorso
storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica'' (in
collaborazione con G. Cerri, 1975), ''Storia della letteratura latina'' (in
collaborazione con E. Pasoli e M. Simonetti, 1976), ''Lo spettacolo nel mondo
antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'' (1977), ''Storia e
biografia nel pensiero antico'' (in collab. con G. Cerri) e ''Poesia e pubblico
nella Grecia antica'' (1984), che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica 1984. (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E
CONTEMPORANEITÀ:BRUNO GENTILI NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein
Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten.
Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches
Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann
verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen
verbinden».(Usener 1907, 11).«Il senso vero di una vita piena è quello che essa
imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca.
Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è
labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco
scom-pare».( Diari Anceschi).1. Il periodo successivo alla morte di Bruno
Gentili nel suo novanta-novesimo anno d’età, il 7 gennaio 2014, ha visto
comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e
allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i
contributi più signi-ficativi nella carriera scientifica del grande grecista
scomparso; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo
su ottant’anni di storia della filologia classica, via via italiana europea e mondiale,
sin dagli anni Trenta del Novecento. A tutti comune è il riconoscimento del
forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di
Gentili, a partire soprattutto dalla metà degli anni Sessanta con la fondazione
dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», «vera e propria officina
intellet-tuale» dove su impulso del fondatore e direttore «la filologia
classica, sen-za mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al
confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma
anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la
linguistica e la sociologia della letteratura» 1 . A tale sensibilità può ben
connettersi la visione che sino ai suoi ultimi anni Gentili elaborò della
traduzione, nel- la ricerca e nell’asserzione di una «teorica eminentemente
pragmatica», 1 Così Catenacci 2014, 450e quindi «una poetica non
astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti», così sempre
tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad
una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così
definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea
della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture
linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo» 2 . Una
prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’ dall’antico (e dell’antico) a
Gentili certo si schiuse in relazio- ne e risposta alle sfide prodotte dai
grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto, degli
ultimi quattro decenni del XX se-colo: una prospettiva di ‘apertura’
nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi,
e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere
bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore
degli studi classici al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un
discorso rettorale bonnense del 1882 riproposto in occasione del Congresso
inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn nel 1969 3 , e richiamato da Gentili
nel famoso saggio L’arte della filologia (1981). A differenza
della for-tunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella
onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte,
lasciarsi tem-po, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto
inosservato. Gentili si rifà alla Rede bonnense, dal
titolo Philologie und Geschichts- wissenschaft 4 , discutendo
della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e
rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione
attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca,
riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e
all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La
prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici
sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando 2
Gentili 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno La
traduzione dei testi classici . Teoria prassi storia (Palermo 6-9 aprile
1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991). 3 All’interno
della Festschrift per il convegno curata da W. Schmidt
(Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale
intervento L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura
orale (Gentili 1969). 4 Usener 1907. 5 Gentili, 299.
6 Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia
strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben
chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft
verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr
Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die
wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in
der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di
Bentley («zur Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das
Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca,
nel fatale trapasso tra XVIII e XIX se-colo, la decisiva spinta perché lo
studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen
philologischen Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come
Melantone e Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si
era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del
greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori
evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca del XVIII secolo
(Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des
norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita
della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske,
Heyne 7 . L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine
della Rekonstruktion des Altertums secondo l’intuizione dei
grandi edificatori e teorizzatori dell’ Altertumswissenschaft ,
Wolf e soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per
le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le
discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio
di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte
dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’
Altertumswissenschaft , con diretto rife-rimento al mondo classico nelle
sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti
dalle antiche civiltà del Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener
riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta
considerazione di quegli influssi, certo determi-nanti nella genesi almeno
dell’arte greca: «heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit
den griechischen und italischen Gräberfunden jedem, der Augen hat zu
sehen, von wo jene hellenische Kunst […] ihre Anstöße und auf lange hin
nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto
mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato,
al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung
der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo
territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei
costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer vorgeschichtlichen
Geschichte»). In tale condizione appare al professore bonnense ormai
impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana.
La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica,
perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo
XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da 7 Onde se «la moderna
poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura
tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di
sorellanza» (Usener 1907, 7). 8 Usener è in proposito molto chiaro: «Es
bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un
insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla
funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della
conoscenza storica, costituisce «die le-tzte Voraussetzung aller
geschichtlichen Forschung» 9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione
che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di
Usener i tratti di «una sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di
Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo
filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche
in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e
religionsgeschichtlich che l’attraversano e innervano, non privi di
influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica
nella Germania del XX secolo 12 , e forse anche sulle origini degli studi
novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristia-nesimo
13 . Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo
ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio
il filologo bonnense, quasi provocatorio (in una prolusione retto-rale del
1882!) nel definire Kunst l’essenza dell’attività
filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und
mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in
ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war […]. Es war die Zeit, wo die
moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit».
9 «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen
Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche
dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die
letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben
wir in der Philologie erkannt» (Usener 1907, 26). 10 Così Momigliano
1985, 166. 11 A partire soprattutto dal seminario del febbraio 1982
presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e subito
pubblicato come Aspetti di Hermann Usener filologo della
religione (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni
edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener
2008; Usener 2010. 12 Assai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi
di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I.
von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso
dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della
nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano 1985, 147. 13
È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del
Le-benswerk di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi
ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del
modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su
Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano
primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni,
vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14 Non sorprende il dissenso,
rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa
la visione della filologia presente nella Rektoratsre-de ,
prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso
Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della parola scritta
. La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili
come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni
metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15 nel cui processo
interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno
Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia,
varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà
piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con
la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia
classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e
la serie di saggi «di portata fondativa» 18 scritti da Gentili tra la
metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta
per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della
Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio
Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro
inesplorati codici delle Storie di Agazia conservati in biblioteche
italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane
studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova
edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi
l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto
Vulcaniano conservato nell’allora inaccessi-bile Leida 21 . Il netto
cambiamento di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte)
ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann empfinde ich, daß
Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος hat» (lett.
del febbraio 1883 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 ,
28), e cfr. Sassi 1982, 79. 15 Gentili «Philologie in dieser Auffassung ist nicht
eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener 1907, 16). 17 Sin
d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal
Ri-cordo di Bruno Gentili di Angeli Bernardini 2013; Catenacci
2014; Cerri 2014; Lomiento 2014; G. A. Privitera, commemorazione lincea dell’11
aprile 2014, ac-cessibile on line presso
www.lincei.it/files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_Gentili.pdf ;
Tedeschi 2014. 18 Cerri 2014, 230. Non si tratterà di Gentili editore e
critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione.
19 Gentili 1944. 20 Come chiaramente lascia intendere la chiusa
dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad
avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del
Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione.
Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho
esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si
fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze
non mi verranno meno, spero di poter assolvere». 21 Vd. in particolare p.
168: «occorrerebbe perciò una nuova collazione accurata Sent from the all
new AOL app for iOSso la poesia greca arcaica» 22 si legano all’incontro
con Gennaro Perrotta (1900-1962), dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come
successore di Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello
studio della lirica greca ( Saffo e Pindaro. Due saggi critici uscì
presso Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e
ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani
«Studi italiani di filologia classica» (nota è in particolare la polemica
intorno al ‘poeta degli epodi di Strasbur-go’) 24 . Un’importante rassegna ad
opera di Perrotta su La filologia classica nell’ultimo ventennio ,
apparsa per il Natale di Roma in un volu-me promosso dal Ministero
dell’Educazione Nazionale (Perrotta 1943), se è priva non solo di elogi ma si
può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin
dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso» segnato nel precedente
ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha
sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il
pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli
orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente,
la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo […] vivificata dalle correnti
nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche
«abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un
rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di
papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto
notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può
sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio
«nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la filologia
classica di qualunque altro Paese del mondo» 25 . Cinque anni dopo, nell’Italia
e nell’Europa del 1948, presentando ai let-tori insieme al condirettore Gino
Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele
d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se
stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà
antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra
l’eredità del classicismo europeo del manoscritto, che mi propongo di
fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius
per l’ editio princeps del testo greco del De impe-rio et
rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida nel 1594
(cfr. Dewitte 1981, 196). B. Vulcanius (B. de Smet), e professore nella
nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della
successione illuminanti scorci in Canfora 2005, 19-20 e passim .
24 Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta
da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75; Sisti 1994, 43-45; Morelli 1996, 24.
25 Perrotta 1943 Sent from the all new AOL app for iOSdegli ultimi
due secoli («la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Gioacchino
Winckelmann e di Federico Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di
Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica
filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica,
trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei
connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio
secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico
alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica
filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso
artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età
nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la
filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il
vacuo filosofismo 26 . Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche,
dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata,
come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica» 27 . Né manca un
richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e
intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore
Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za
di filologo 29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania
26 Funaioli – Perrotta 1948. Che punto nodale del «discorso sulla
filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica
letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di
riflessione per Gentili: cfr. Gentili. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche
filologo è messa in rilievo da Gi-gante 1996, 150-151, il quale anche
suggerisce che mediatore per il filologo ita-liano della conoscenza di
Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre
a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano
proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta. Un certo paradossale
irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un
sensibile influsso negli ambienti culturali», onde «egli affermò sempre più
polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente
il Romagnoli, proclamò ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici
da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore 1963b, 6
(appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è
sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è
dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel
profilo Gennaro Perrotta in Grana 1969, IV, 2591-2601). 29 È
utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Federico Nietzsche
giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande
filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività
filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito
profondo gli face-va scoprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso
e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur
dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un
uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del
fraccaroliano e romagnoliano F. Gugliel-mino), in particolare quando
leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli
uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero
rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e
anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento
era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse
dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta
interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione
all’essenziale 30 . Il 1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Gennaro Perrotta
e del suo as-sistente Bruno Gentili, uscì Polinnia , antologia
della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola
italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza
edizione del 2007. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla
scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con
la riforma Gentile, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si
diffusero antologie sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di
olimpico dispregio per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio)
filologia», come vollero osservare prefando i loro Lirici greci
scelti e commentati (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a
quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello
essenzialmente Aglaia , la nuova an-tologia della lirica
greca da Callino a Bacchilide pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini
(1898-1992) 31 . In sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad
Aglaia si sono ispirate tutte le antologie successive che si
finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in
una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva
spesso a Romagnoli giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in
parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459.
30 Nel Profilo di Bruno Gentili premesso da Carlo Bo al
I volume dei ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli
ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili
l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli
scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia
filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore.
Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché
accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è
accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I,
XXVIII ). 31 Nella Prefazione a Ugolini – Setti 1940
due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati
utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre
all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da
ravvisarsi l’ Antologia della melica greca pubblicata nel 1904 con
pre-fazione del maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai
invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni
successivi. Del libro di Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà
un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti
1972possono definire serie, a cominciare da Polinnia » 32 , senza
dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di
liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia
di Lavagnini toni ben più diretti 33 di quanto dieci anni dopo accadrà a
Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in Polinnia ), e più in
linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta.
I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo
riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di
immoralità tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro
dei più noti studiosi di Saffo tra metà del XIX e metà del XX secolo, da
Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da Perrotta stesso a suo tempo
esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro 35 . 32 Così Degani
1995, 30. 33 Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini 1937,
116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad
Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di
Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e
nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto
per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così
caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta
ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani
da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema
Lavagnini aveva dato nella sua precedente Nuova antologia dei
frammenti della lirica greca (Lavagnini 1932, 171), dall’ incipit e
dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in
Saffo «una invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il
potenziale affettivo ( libido secondo la termi-nologia di Freud) che
avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto». Al di là
dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere
particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della
psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di psicoanalisi», diretta
da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e soppressa due anni dopo: ricco
di infor-mazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi
2013. 34 Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati
rimando a Benedetto 2012. 35 Cfr. Perrotta 1935, 28-31, in pagine non
prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le
discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo.
I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono
accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai
grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente an
Sappho publica fuerit […] In realtà, Saffo non ha bisogno di essere
giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori,
non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e
dei Wilamowitz non risolve nulla […] Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo,
si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di
musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino
d’un club estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non
si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si
è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo
di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per
Saffo l’amore era tutto». Significativo il pieno consen Sent from
the all new AOL app for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri
Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la
fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come
già Coppola e Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento
alcaico ora 208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo
Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e
differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica
dell’allegoria della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in
Polinnia connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio,
tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere
nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò
scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il
messaggio in un linguaggio velato e allusivo comprensibile solo
dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia
generale, sia ai singoli poeti 39 , Polinnia riserva
particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio
e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe
e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e
apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una
nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica
greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione
per gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori
rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con
favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non
è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come
purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che
permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è
facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura
metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli ictus dei piedi,
benché agli ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento
dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile:
coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con
gli ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche
di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il
Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella
psicanalisi». 36 Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle
Allegorie omeriche del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito
dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini
marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di
Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg.
37 È il capitolo XI in Gentili Gentili Si ricordi per confronto la
collana laterziana degli Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di
qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli
poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965.
40 Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico,
che alla metrica di Polinnia dedica Di Benedetto 2001, 141
sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di
ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a
nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa
passione didattica, animano la prefazione a La metrica dei
Greci (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale
disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41
. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la
mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha
nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle
scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano
di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del
tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42
anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni
l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né
estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella
mia Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni,
quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei
metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica
testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché
metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione
reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con
pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel
loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello
studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il
valore dei metricisti antichi 43 e la visione non ancillare degli studi
metrici, da intendersi non 41 Catenacci 2014, 448. 42 Gentili
Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello
studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di
una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re
l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la
versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo
l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla
radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco
della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43 Sensibilità
critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine
‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di
Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non
solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa
costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che
ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e
azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una
sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio
fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome
meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili
innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione
«che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia
stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’ Introduzione . Lì è anche
subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione
con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo
parlare di piedi, ma soltanto di cola » 44 . Rievo-cando di recente le
lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra,
G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle
esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei
manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le
opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con
ampiezza appunto avviene in Me-trica greca arcaica , il volume del
1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della
metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta
«nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie
sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due
capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili
delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali
analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel
secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48
, a Wila- 44 Gentili 1952, 1-2. 45 G. A. Privitera, commemorazione
lincea, cit. supra , n. 17. 46 Gentili 1950. Ho consultato la copia
conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’
(Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università
degli Studi di Milano), con ex libris dello stesso Voglia-no (segn.
Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto
incompiuto La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried
Hermann . 47 La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses»
già è lodata in Usener 1907, 15. 48 Di Usener è rammentato con interesse
il trattato Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender
Metrik (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la
metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener
consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la
predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto
sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche
ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici,
slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa
di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in
kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann
überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine
urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische
Religion», lett. del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen –
Calder III 1994 2 , 46). Dal punto di vista della linguistica storica e della
metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà
Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87 Sent from
the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo
capitolo ( Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal
volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo
fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei
suoi Poeti lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla
centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla
necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia
della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica,
quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata
quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita
degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli raggiunse una
competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia».
Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo
romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile
per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda
coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera
sua concezione degli studi classici («nella metrologia del Perrotta veramente
filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 :
nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49 Cui già allora Gentili
imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’
observatio metrorum e il connesso «profondo scetticismo per tutti i
problemi metrici di Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50
Particolarmente il secondo volume ( I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo,
Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della
realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei
frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a
torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere
richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio
poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti
greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una
compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e
Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla
musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd.
Martinelli 2009. 52 Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche
ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul
saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70
sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio,
che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni
occasionali e delle scansioni fornite in Polinnia , i contributi di
carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se
rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli
anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53 Paratore
1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I
capitolo di Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica,
interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente
dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile,
inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi,
unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore,
«la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da
Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili. L’esperienza
di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano 54 .
Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di
metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la
metrica nell’àmbito del convegno del 1985 Giorgio Pasquali e la filologia
clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui
sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un
carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto
convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente
il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi:
«Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu
sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola
fosse in grado di superare questa difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali,
avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua
Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il
grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e
nei cantica della tragedia e della com-media del quinto secolo», in
relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli
crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro,
correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò
che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli
incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto
discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più
nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una
prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico»
57 : che cioè, più in generale, Pasquali già avesse testo, curarono nelle
loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα dei
cori lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da
essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere,
dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la
sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità
del verso». 54 «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale
1994, 77. 55 Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di
Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo
scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di cola
unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana
vd. e. g. Gentili – Giannini Così Gentili 1950, 21, in un passo e
in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con
Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del 30 settembre 1949, ma
Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si
ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi
Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia
lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di
una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie,
trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte
riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento
di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia»
15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non
di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i
suoi allievi, i μετρικώτατοι», particolarmente negli anni 1947-1951.
L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari
dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e
di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà,
soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e
alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli
anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la
precoce scomparsa di Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università
di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da
alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu
subito «figura cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata
l’anno successivo con il titolo Aspetti del rapporto poeta, commit-
lidei in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non
perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo,
difeso ammettendo la re-sponsione impura in Gentili Gentili Il racconto di
Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e
Perrotta su cui vd. Morelli; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali,
erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina Gentili
1963 (poi nei monumentali Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella
stessa Gedenkschrift non manca un breve contributo di P.
Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962:
Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle
carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60 Una quindicina d’anni
dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia
di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno
sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il
disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli
studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi
sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono
testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»:
come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino 1997 e più di
recente la Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in
García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi
in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi
2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere
pro-grammatico 62 e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si
rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe
del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di conoscenza del
reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo,
il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle
forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma
stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente
e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito,
e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si
rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa
costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda
appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio
la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale
significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo
storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono
corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto
mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e
in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la
critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica».
Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica
pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX
secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione
pindarica in Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento
pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi,
infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia
logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione
romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione di quel
«poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65 è infine da
Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non
poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta
critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della
politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta
grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e
miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a
ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse
dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta
frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una
più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è 62 «Una
specie di manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini
2013, 16. 63 Catenacci 2014, 449. 64 La cui derivazione da
Burckhardt sottolinea Paratore Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico
modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti
impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a
caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca
(«naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura,
dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli
ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo
dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce
aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni
autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella
‘allotria’, attinente «una varia interpretazio- ne filosofica e pratica» 68
.Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento
degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse
alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, Gentili in certo modo
proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel
mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione
sociale della poesia era portato a interpretare» 69 . Discernere nella orazione
urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva
di giustificazioni, quando si pensi che il saggio Aspetti del
rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da
quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel
volume di «Studi Urbinati» contenente gli Scritti in onore di Genna-ro
Perrotta 70 aperti da una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla
quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di
Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due
varianti antiche» 71 . Significative le parole introduttive di Gentili, che
indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità
ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove
domande alla grecità arcaica e classica: 66 Perrotta E così prosegue:
«gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur
essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono
l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta
di massime belle e utili». 68 Mi limito a rimandare in proposito, come
testo esemplare, all’ Introduzione di Croce 1921, che cito da una
ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69 Saranno poi i
temi fondamentali di molte, famose pagine di Poesia e pubblico
nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII
Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . 70 Gentili
1965a. 71 Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola,
ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza
umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno
a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del
nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della
grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e
civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della
nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se
dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi
della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo,
dell’uomo non come strumento ma come fine 72 . La seconda parte del saggio
discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni
destinate all’antologia Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide
Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ; il saggio originato dalla
prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a
mo’ di introduzione dal titolo Poeta e com-mittente . Nuovo è però
l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità
‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente
invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica co-rale greca: In un
momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia,
giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi
più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una
nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide,
Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato
eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica,
troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti
consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze
ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè
di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella
quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale,
divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si tratta dunque di una
affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate
basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra
le più incisive e impetuose del se-colo, come oggi sappiamo. Se può forse anche
rimandare qualche eco dei 72 Parole che in parte torneranno
trent’anni dopo nell’introduzione premessa da Gentili alle Giornate di
studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti
urbinati in onore del maestro, Gentili segnalava che alcuni di essi
costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di
studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di
Urbino. 73 Gentili 1965c. Ho consultato presso la Biblioteca centrale
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a
Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili datata «Urbino 18.11.1965».
74 Con l’ultimo periodo si apre il saggio in «Studi
Urbinati» clamori suscitati dalla beat generation di A.
Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito
della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni,
essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase
preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla
rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Anceschi,
se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore Feltrinelli,
sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e
fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani,
Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui nel 1961 si era
aggregata l’antologia poetica I Novissimi: poesie per gli
anni Sessanta (con testi di N. Balestrini, A. Giu- liani, E. Pagliarani,
A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più
eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta
poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,
poetae novi avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75
, volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica
modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come
tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio
1962), L. Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel
panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente
detta anacoretica , o ermetica , o chiusa , non senza certe
tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o
rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi
illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro
della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una
poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali,
affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio
significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e
multipolare, tale che […] può farsi capace di una critica di vita, di un’azione
per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di
una poesia, e di una stagione di poesia, «come accrescimento della
vitalità , e nuove tecniche, e volontà di for-me aperte, e speranze di una
maggior portata di comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso in «Studi
Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato 75 Nonché «uniti e
avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima
congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso boom »: così
Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76 «Sganciato il
linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo
scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da
ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di
invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie
avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e
del godimento», come efficacemente sintetizza Curi 2014, 100. Sent
from the all new AOL app for iOS appunto su «Il Verri» 78 , all’interno di
un numero monografico Classicità e contemporaneità contenente
contributi anche di altri studiosi del mon-do antico 79 . Il fascicolo era
introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi
non fortuiti una zona antica e nuova della classicità» 80 , qui volto a
riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più
inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel
secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere
dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne,
immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui
l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,
una delle sue fibre, una delle voci di una cultura che si è
aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le
tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo
scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di
questo genere […]. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e
in questo ordine recuperare i nostri antichi 81 . Particolarmente appropriati,
nel contesto del numero de «Il Verri», ri-sultano dunque sin dall’inizio del
saggio di Gentili i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente
della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno
apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo,
Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da
un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo,
quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla
nostra cultura classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi
quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per
eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine
di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso
indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana
dalla seconda metà 77 Anceschi 1962, in partic. 14 sgg.
78 Gentili 1965, 80-97. 79 C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano
( Ritorno a Plutarco ); E. Pasoli ( Per una lettura dell’epistola
di Orazio a Giulio Floro ); G. C. Giardina ( Note per l’esegesi di Orazio
lirico ); A. Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ).
80 Cit. in Nisticò 1997. 81 Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben
diversa visione della Grecia come «anti-ca madre comune» fosse in àmbito
filosofico italiano ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il
volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte del «senso della crisi dei valori
oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione
del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone», si propugna un
ritorno alla Grecia, che «vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il
felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi
ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita»
(17dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni 82 . A
Car-ducci in particolare, e per vari aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la
riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo,
già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane […] come modelli di poesia pura»
84 , all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non
ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85 e D’Annunzio conduce
sino ai Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a
Milano in prima edizione nella tragica primavera del 1940, introdotti da un
saggio critico del ventinovenne Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era
formato con Antonio Banfi, subito segnalandosi con il volume
Autonomia ed ete-ronomia dell’arte (1936) 86 , radicale presa di
distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di
comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il coetaneo Carlo Bo
(1911-2001) per la corrente ‘fio- 82 Tra le quali per più ragioni
merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898), allora già famoso
deputato dell’ Estrema , dedicò a Canti e frammenti di Tirteo.
Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè
Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il rifiuto della
‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di ricondurre la
poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal saprebbe
giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»), e per
l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo
tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo
milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi di
Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di
Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di
cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più
sicura». 83 Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi
della Coma catulliano-calli-machea come poesia
lirica sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci
abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che
li pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo (1803): ivi il
Discorso quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude
nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti rari
vestigi a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal
commento alla Chioma di Berenice attraverso i Sepolcri
sino alle Grazie come riflessione sul nesso che lega lirica antica
e moderna vd. Benedetto 2006. 84 Nava 2007, 90; qualche utile elemento si
trae da Tomasin 1997. 85 Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare
Solon (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato
commento in Treves Un àmbito di
particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai
metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015.
86 Lo stesso anno de La poetica del decadentismo di W.
Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M.
Untersteiner vd. Lehnus 1989. 87 Sui fondamenti filosofici e critici del
precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I ( La
nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di
ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già
con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e
1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di
spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare
intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della parola’ sul-la
cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai Lirici
greci del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia
dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, Leopardi» e,
soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce dei lirici
greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi
per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella
cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci».
Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia
veramente nuova e contemporanea » e soprattutto «nella
aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirica »
l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo
Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica
sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza
sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della
terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca
come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata
dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa
aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni
composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla
no-stra coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la
prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la
parola (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove
era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia
unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci
un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la
sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la
particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire
compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’
cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci
conservati per fragmina («qualche parola altissima, e
interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della
realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della
guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con
Quasimodo e 88 Consapevolezza che ad esempio si esprime nel
richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même
fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats
et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout
inconcevables: elles sont dans les journaux» (22-23). 89 Valgimigli
1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione
medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e
oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o
per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben
disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 .
Quan-do Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il
Verri», polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto
della “poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica
monodica] quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe-
tica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” condensata in
un’immagine di pochi versi superstiti»), i Lirici greci di
Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era
definita la for-ma ne varietur delle versioni dai lirici
nell’edizione mondadoriana degli Opera omnia del poeta, tra vivaci
polemiche di recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni
in cui se ne radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane,
particolarmente dopo l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai
primi anni Sessanta e nel successivo decennio si può dire che in Italia nella
percezione comune, anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con
i Lirici greci di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani
della morte del poeta (1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La
stessa scelta da parte di Gentili di tazioni indirette, oppure, dove
siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per
frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel
mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di
quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli
antichi poeti in frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi
del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo,
non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo
incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana
combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso,
alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di
certa poesia lirica greca». 90 Quanto sopravvive dei carteggi
Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto
– Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da
Padova, 6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di
Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di
una copia degli appena pubblicati Lirici greci : «Caro Quasimodo /
Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un
nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel
pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità
insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi
piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro.
Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E
auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in
Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91 Così per primo E.
Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura
dell’ Introduzione alla sua importante antologia einaudiana
Poesia italiana del Novecento (1969) accomuna in iconoclastico
dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo
Letteratura come vita (1938); appunto perché gli antichi lirici
risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo- Sent from the all new
AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale
(Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che
si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici di
Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro
Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una
pura (attuale e antica) idea della poesia perciò fu
osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche
delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la
magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile
e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza
concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza
di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo
disposti alla sentenza , all’ esortazione o alla narrazione :
a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei
Lirici greci prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava
il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere
perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da
Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio
Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale
greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi
nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende
chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi
soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello
di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e
l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si
do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie
antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai Lirici greci ,
definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo»
e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica».
92 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 22.
93 Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di
An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali
del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide,
più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi
nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare
ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il
loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94 Anceschi – Campagna – Colombo 1998,
331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata […]. Non
sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto
nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso.
E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in territori ambigui,
d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di
riferimento per chi cercava la sua strada». 95 Anceschi 1956, saggio con
cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di quell’anno,
riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla con-dizione della
letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera
convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica,
ma tornò ad affrontare i Lirici greci e la sua stessa
introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova edizione
mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia
intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca
(come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende atto
del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione
quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che
cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti,
è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo
[…]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa
nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra
oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi
frammenti (la giustificazione della vali-dità del frammento è
sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro
forza che la poesia non sta nella struttura, non sta
nella «musica esterio-re», non sta nel «contenuto morale» o nella
«narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una
bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto
all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di
Renato Serra (1884-1915) Intorno al modo di leggere i Greci ,
pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle
contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata
dei Lirici greci del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato
97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio
classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che
aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è
andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante
lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie- manifestazioni
dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che
la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che
rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare
delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96 «Non dimenticherò
certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando
con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee
familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la
mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia
italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»:
l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo 2004, 321-333.
97 «Ho davanti a me i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque
l’interesse di que-sto libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi
dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno
possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel
che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto
lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a
questa lietezza io resto malinconico e dubitoso ad ascoltare l’eco
beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;» Sent
from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al
gusto fin de siècle («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea
e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli
egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più
crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»),
e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo
‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la
differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le
statue, le fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita
nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di
seminario e delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi a
priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale
della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi
e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati
del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a
Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da Intorno
al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il
liminare Intervento di Anceschi. Nel giovane critico cesenate
caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di
sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha
compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura
assoluta dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi,
con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi
vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro
rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento.
Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa
presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e
l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è
conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di
maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica»: in particolare i due saggi L’interpretazione dei
lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo e
Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età
dei lirici . Il primo (Gentili 1970) 99 pienamente si presenta al lettore
‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso
problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo
classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della
‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli
ultimi decenni 98 Serra 1965. 99 Già in «QUCC», con il
sottotitolo Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale :
Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che
colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti
come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In
concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà
tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e
alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo,
irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa
situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici,
politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura
contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di
crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e
propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a
livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta
soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato
comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V
sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma
orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti
mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una
‘tecnologia di scrittura’ rinvenibile «in contesti poetici di altre
culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche,
estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della
poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della
performance poetica che mira a pubblicizzare il personale e il
soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere
emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore
proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette
la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di
interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e
uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i
suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei
temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della
vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici,
vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di
“amici” di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango
sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza
critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di
Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no
sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici
greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa,
protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,
100 Esemplare l’esposizione in Gentili 1990 Sent from the all
new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea,
dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel
tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione
umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del
gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa
d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto
culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un
diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di
Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in
concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica
attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le
cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia
semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla
socio-logia all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema
concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo
evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di
una costante riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente
(dell’interprete), «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il
saggio si chiude con una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili,
che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del
1920 ( Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore
contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista,
accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile
tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di
renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante
frase finale: «è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo
che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano
stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray
proposte on the stage furono grandemente popolari per decenni, e
anzi «it was largely due to Murray that Greek tragedy established itself as a
permanent feature of the theatrical landscape» 104 . L’intervento fu
incluso 101 Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da
individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale»,
al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli
passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali»
vd. soprattutto le osservazioni di Cerri 2014. 102 Con riferimento a
quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica
greca contro cui più polemizza Gentili. 103 «Abbiamo bisogno di un occhio
che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal
presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il
presente». 104 Cfr. Garland 2004, in partic. 161-163. Su
Euripides and Professor Murray vd. ora i rilievi di Morwood 2007,
139 sgg.; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche
e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e
nell’autorappresentazione del poema The Waste Land (1922) del
concetto Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella
raccolta Il bosco sacro ( The Sacred Wood ), rivelata
nel 1946 alla cultura italiana dalla traduzione di Luciano Anceschi, che
premise una lunga introduzione (datata marzo 1945!) 105 dove non manca di
essere menzionato Euripides and Professor Murray , da Anceschi
accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra Intorno al
modo di leggere i Greci » per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di
traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e
che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle,
certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato,
è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine
secolo», appunto quella « filologia poetica , che è riuscita a ridurre i
liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso
Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso)
nell’introduzione ai Lirici greci del 1940 107 , priva invece
di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro
Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata,
quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e
importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di
Anceschi ( Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca
dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i
radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel
definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto
registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della
vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti»,
particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito
degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo
persistere della «critica del gusto» e in di fragment
(«these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di
Martindale 1999. 105 Anceschi 1946. 106 Anceschi 1946, 32.
107 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 24-25.
Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi
– per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a
certa filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci
ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:
Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene / Mezzanotte: l’ora
vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al
famoso frammento saffico 94 D. = 168b V. 108 In Quasimodo
2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri
sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in
italiano de Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a
proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e
Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L.
Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio 1945, 15-16
(dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare
in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna,
Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo
novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è
indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto
del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale»,
così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello
spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo
dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti»
in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di
Eliot contra Murray già citato al termine dell’articolo di due anni
prima ( L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del
nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario
intento del brano, e in genere di Euri- pides and Professor Murray
, era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo
dell’‘occhio creativo’ 109 capace di render vivo Euri-pide con una
traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione
classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray
l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella
‘filologia poetica fine di secolo’ a lungo di voga in Italia,
colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un
linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile
linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e
oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare
di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109 È
opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il
sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili
insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno
studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo
bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue
definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia
tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il
fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì,
proprio morto». 110 Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del
diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di
pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e
giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo,
come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio sfortunati
per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di Aristotele si
può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di
qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no
a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano,
almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per
noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo adatto per ciò.
I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per
la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare
avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne».
111 Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non
si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito,
come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e
parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti
grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112 venne dai
Lirici greci di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da
molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 ,
fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di
lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più
nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore.
Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a
quella operata da Quasi-modo con i lirici greci, Euripides and
Professor Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gli
«arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo.
Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114 o gusto della minuzia
paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo
che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei
Lirici ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto
positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello
filologico e accademico 115 . Nel caso di Gentili una tale presenza e un tale
confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando
si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei Lirici
greci di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Gennaro
Perrotta, nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in 112
Ottime in proposito le osservazioni di U. Albini, Prefazione , in
Perrotta – Al-bini 1972, V : «Le due traduzioni dei lirici greci che
hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli
ed E. Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di
rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva
spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo
paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire.
Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente
indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…».
113 Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324.
114 Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso
Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe
più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei
Lirici greci . Ancora nella postuma Premessa di L.
Anceschi, Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti
2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni
floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri
professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni
dai Frammenti dei tragici greci [1925] che lessi ai tempi del
liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore
che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie
degli esuberanti traduttori liberty del suo tempo». 115 Anche
in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello
Gigante, che «la traduzione dei Lirici greci ha conquistato
un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede
in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare
errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’
meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo
quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci
modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da
contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei Lirici
greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo
post-simbolista» di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di
classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile
tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare
e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso
i Lirici greci quasimodei nonché verso significato e influsso
nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia
greca. Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle
versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il Pindaro di
Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che
il grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per
Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di Prospettive
critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici fu
l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a
ospitare Studi in onore di Leone Traverso 119 , con
Dedica di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio
La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima
degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e
letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo,
Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a
«Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come
esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta
perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di
religio- 116 Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della
Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono
molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai
Lirici greci è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta
in Studi Perrotta 1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd.
Benedetto 2012, 40 sgg. e passim . 117 Anceschi
1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.
118 Traverso – Grassi 1961. 119 Gentili 1971. 120 Cfr. Bo
1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è
l’ampio saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla
rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella
distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula
ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza
con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un
rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico
pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la
critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti» 121 . Già
coinvolto in una polemichetta con Quasimodo ( duce Lavagnini) ancor prima
dell’uscita dei Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα
come giovinezza nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la
luna ) 122 , Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato»
dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del
greco, sin dall’ incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici
(«perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e
ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al
giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone,
Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’
estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione,
come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia
una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in
tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione
anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle
reliquie – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario)
123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra
erme-tico di Traverso, Gentili assimila Lirici greci di
Salvatore Quasimodo e Pin-daro di Leone Traverso come «prove
più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini,
d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo la «vera
“fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico»
con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto
originale-traduzione 124 , l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo,
al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione
tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi
inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione
filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una
vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso
all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al
caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme
naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per
seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura
francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65).
121 Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un
articolo di Carlo Bo, Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere
della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122 I testi della
disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono
ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123 Traverso
1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012,
143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i
primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana,
indipendente, che ne risulta». 124 E quindi, come da molti è stato
osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare
Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica
sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha
come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca
che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una
sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un
preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il
calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto
molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli
occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana
e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una
«fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della
distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i
successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e
di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul
«problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o
intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’,
«investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si
tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità
concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle
tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche
poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali
situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al
traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur
rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite
e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica
non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma
una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una
maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre
dai 125 Gentili 1972, 23-24. Le considerazioni a proposito di
Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà
all’originale, torneranno in B. Gentili, Introduzione , a Gentili –
Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 , LXVIII . 126
Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso
nel numero speciale Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la
fondamentale prolusione urbinate Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si
conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla
convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o
intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò
risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto
in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici risposte della
storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di
sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè
«sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo
fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della
traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più
ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione
come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche,
sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla
poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la
comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei
suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà
extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare
dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi
che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così
l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura
metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la
preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche
segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia
dei Novissimi», e in effetti nell’antologia Lirica corale
greca del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il
movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia
contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le
strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e
novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» 130 . La 127 Gentili 1972, 25. Sono affermazioni che
ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’ Appendice II. La
traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre in
Gentili1984 (2006 4 ), 313-320 (e cfr. anche supra n. 2). 128
Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle Pitiche
, con l’os-servazione che «le grandi odi delle Laudi del
D’Annunzio, particolarmente il verso libero della Laus vitae ,
scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello
esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che,
tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica»
(Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano –
Giannini 1998 2 , LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga citazione
da Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio
dell’ Introduzione alla postrema fatica Gentili – Catenacci –
Giannini – Lomiento 2013. 129 Lo rileva Bernardini 1966, 144. In àmbito
diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso Gentili, l’importante e
innovativo lavoro Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel
Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica (Gentili
1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo
interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di
un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento
dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo
dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole
filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e
dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30). 130 Già nel primo
numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che si apre lamentando l’effetto
negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche»
prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da
Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del
neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo
dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore
della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in
G. Perrotta, particolarmente per Saffo e Pindaro (1935) 131 . Circa
la più generale posi-zione critica del maestro, Gentili tiene a mettere in
rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione
estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non
era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in
lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva
metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé
già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e
antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto
il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era
l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura 132 .
Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo
apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della
cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla
cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico
e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note
riserve verso gli studi pindarici di E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi
Gentili rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle
strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di
comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della
performance della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia-
mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che
suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le
costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti
ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è per noi
interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in
Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio
131 In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M. Valgimigli
(1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di
evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli».
Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole
all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra
Intorno al modo di leggere i Greci pubblicati da E. Raimondi nel
numero de «Il Verri» 1965 su Classicità e contemporaneità ; si consi-deri
anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di
Carlo Bo La religione di Serra , poi accolto nel volume
La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132
Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni
vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133 Su questi temi vd. poi almeno
Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica
estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una
critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo
del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei
lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il
significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a
sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze
critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco
oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario,
consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti
proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte
culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi
accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970, Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici è attento al
tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del
Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano
prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio
antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la
riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non
conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il
momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella
fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non
viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili 134 Gentili
1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate
di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni
di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto)
della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di
Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135 Gentili 1972, 38. Analogamente,
e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre
risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali
sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte
del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo
perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i
discorsi conclusi in questo àmbito di studi sono palesemente insensati».
Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica
della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo
dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo,
compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella
interpretazione delle letterature classiche». 136 Gentili,
Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998
2 , LXIV . 137 Così in Gentili 2002, dove anche è ricordato
il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non solo il
traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha
saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa nel
citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il
Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte
di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo
grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore
bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a
tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei Lirici
greci e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa
seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il
numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» (1966), come
espressione del Centro di studi sulla lirica gre-ca e sulla metrica greca
e latina diretto da Bruno Gentili e connesso al CNR. Un
effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una
sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore
dei Quaderni ma più in generale delle principali linee di ricerca
espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di
cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo
ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre
quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei
Qua-derni di Bruno Gentili. Il primo è La veneranda Saffo ,
del 1966 141 , che 138 Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza
dell’articolo per successivi lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd.
Angeli Bernardini 2013, 16. 139 Oltre a un cenno in un’annotazione del
3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto di Bruno Gentili sulla “Repubblica”. Lo
riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e
sulla situazione degli studi umanistici», cfr. Diari
Anceschi 2006, 109), si veda soprattutto quella del 2 gennaio 1993
(«Lettera molto lusinghiera di Bruno Gentili. Conosco l’ironia, ed è tale da
non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.
Diari Anceschi/2 2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno
Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un
filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale
sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro” antico
(Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse
l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più
che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del
“Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140 Così l’11 marzo 1995, a
meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione
amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi
impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per
altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia
vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La traduzione
dei Lirici Greci fu una esperienza radicale alle origini, che
ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale
della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche
frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa
esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra
traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva
di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari Anceschi/2
2006, 92). 141 Gentili 1966 (confluito in forma abbreviata nel cap. XII
di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di
Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit
di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento
cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la
soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo:
Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il
fram-mento di Alceo che dice (63 D.): «Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine
di viola». L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci
sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo.
Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee
moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […].
Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per
le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo
gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa,
anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo
giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla
sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e
altissima poesia 143 . Al passo, per molti aspetti paradigmatico
dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento,
rifacendosi invece all’ultimo articolo di Walter Ferrari, l’allievo prediletto
di Pasquali «inviato come as-sistente di Perrotta a Roma ma morto assai giovane
nel 1940» 144 . Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre
l’interpretazione dell’epiteto ἄγνα all’àmbito della «castità profana»
145 , caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di
Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 ,
dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del
sacro», d’altra parte – rileva Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una
idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di
stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio
dal Saffo e Pindaro di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima»
147 . Nel varare la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura
Classica», dalla ‘purezza’ di Saffo Gentili decide 142 Degani –
Burzacchini 2005, 241. 143 Perrotta 1935, 31. 144 Canfora 2005,
216. 145 L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato
di ἀγνός» anche nella I edizione di Polinnia , 202 ad
loc . 146 «Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è
innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da
noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno
somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin
di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili
l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per
l’edizione di Polinnia del 1965, 224 (anche in Gentili –
Catenacci 2007a, 196). 147 Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da
quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su
Saffo nei Lirici greci di Quasimodo («o coro-nata di viole,
divina / dolce ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio
dell’anno precedente Aspetti del rapporto poeta, commit-tente,
uditorio nella lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità
per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme
lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del
contesto alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla
dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa
allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 .
L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di
carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni
storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre
culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di
«pre-cise “unioni” per così dire ufficiali fra le ragazze» tali da non
escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili
in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a
Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che
nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli
culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè
«des lesbiennes reconnues […] se marient entre elles et adoptent des enfants».
Gentili offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci
arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo
dell’intervento al congresso di Bonn del settembre 1969: al di là di eventuali
dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere
in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo
illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che
misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi
modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella
legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i
classici, e il rinnovamento della loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a
porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna sexual revolution
149 , con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi
intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- 148 Gentili 1966,
46 sgg. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei
«Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto
del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel
cap. VI Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei
simposi in Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni
femminili l’assai più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149 In
luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to,
spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo Klassieken
en seksuele vrijheid nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con
particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in
differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute
e implicazioni, è infine testimonianza Saffo ‘politicamente
corretta’ , l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove
la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di
elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e
paideutico 150 è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori
ispirati ai gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e
dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette,
ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva
nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso
intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il
quale una tale Saffo politically correct va respinta,
al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché
«rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti»
151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli
studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal
titolo The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione
«the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 .
Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e
condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di
attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato
nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione
di Polinnia è stato giustamente e autorevolmente rilevato che
«in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che
la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né
che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. Gentili non ha
rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di
produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di
lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una
risposta positiva. Giovanni Benedetto si devono determinanti apporti
nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità ‘liberata’,
Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli «i classici hanno
aiutato a capire e denominare l’omosessualità» («de klassieken hielpen
homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen»). 150 Gentili – Catenacci
2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a
rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151 Va detto che in
generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di
aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e
omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare
che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e
spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel
caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni
indebite» (Michelazzo 2007). 152 Miralles 2009, in partic. 23-24.
153 Bettini 2010, 336Albini 1963 = U. Albini, Gennaro Perrotta † ,
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Milano. Grice: “I know Gentili’s type – once in love with Greek, you cannot be
a honest Latinist. So he found that everything Roman had to be Hellenistic, --
see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates and rightly so
Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways. Geymonat has
analysed this in social-class terms in his history: Athens remained the
finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’ – and the
circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin remained the
lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the poor – only
the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie – but
imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino and you
have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he teaches you
is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you don’t have
to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Gerratana – il contratto sociale – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Scicli). Filosofo italiano. Grice: “I like Gerratana; for one, he
translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice
[G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice:
“I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on
the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla
resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor,
conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue
d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma.
Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura
Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica,
archiviò definitivamente l'edizione tematica. Gerratana mette in luce lo stile
"frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera:
“L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori
Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè
editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal
carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di Gerratana nel
sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Si è svolto a
Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione
dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante
esponente del pensiero politico italiano, Valentino Gerratana, a dieci anni
dalla sua morte. Essenzialmente noto per aver curato nel 1975 l'edizione
critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, Gerratana fu in realtà uno
studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito
di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e
morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà
di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità
variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo
impegno, politico ed intellettuale. Il convegno è stato organizzato dalla
International Gramsci Society-Italia – di cui Gerratana fu co-fondatore nel
1996, assieme ad Aldo Tortorella, Giorgio Baratta e Guido Liguori. Le giornate,
divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua
complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza,
giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della
storia della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura
dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti
estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács,
Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del
pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine
sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura –
assieme al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume sugli scritti
gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare esaurientemente sul
convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale
di Gerratana, emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.
L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato
l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto
sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va
il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità
delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono
avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico),
quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia –
italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta
l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Antonio Gramsci, della sua
vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione
culturale. E di Gramsci Gerratana non è stato solo il curatore e il
promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione
giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione
credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in
cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio. Anche la
presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il
convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in
oggetto dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con
stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della
Provincia di Roma) e Gaetano Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della
Formazione dell'Università di Roma Tre). Cecilia D'Elia ha sottolineato la
rilevanza di questo convegno su Gerratana – figura complessa, in cui ricerca
politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle
tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista
negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla
costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Gaetano
Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di Gerratana, anzitutto
perché questa facoltà contribuisce a "formare i formatori": ed è
stato forse fra i più grandi meriti di Gerratana l'aver decisamente contribuito
a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire
dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi
hanno messo in luce i meriti di Gerratana riguardo la divulgazione del pensiero
pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di
Donatello Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce
il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che
delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come
"sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più
fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in
cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente
ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione
di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente
scuole e "poli di eccellenza" privati, volti a creare le future élite
e classi dirigenti. L'impegno di Gerratana come intellettuale engagé è stato
sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di
Guido Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni
della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere
fondamentale dell'animo e dell'impegno di Gerratana. Tale formulazione sta ad
indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma
contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo
«convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma
è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale» (Q). É
questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di
Gerratana: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio,
"soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò
per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza
la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro,
filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari
da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale
come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e
la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore
tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Ha fatto seguito
l'intervento di Paola Demurtas, che ha illustrato i criteri e i temi sulla base
dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di Gerratana
assieme alla collega Lorenza Salvatori (di cui è stato letto un contributo), e
che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora
possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di Gerratana. I
documenti archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono circa 300
fascicoli, che si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche fra studi e
attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di
fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande
meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai
lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo
apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito
di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di A.
Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Alfonso Musci (giovane
studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli
anni giovanili di Gerratana, in particolare quelli degli studi universitari e
della polemica con Benedetto Croce, sottolineando una tendenza di Gerratana a
considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e
alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla
"situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si
maschera in concetti. Ma Gerratana non fu solo un intellettuale impegnato. Fu
un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina
proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Alfredo
Reichlin e Giuseppe Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in
essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso
dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione
nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni
della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di
quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Alfredo Reichlin. Che ha
ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è
stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le
vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin
incontrò Gerratana; con Pintor formarono una cellula, e Gerratana divenne loro
dirigente, nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui
nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella
dell'impegno. Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano,
nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli
intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di
combattimento. Gerratana fu dunque un partigiano antifascista con un deciso
interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La
tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività –
su cui si è soffermata la relazione di Giuseppe Prestipino –, quando cominciò a
scrivere su "La voce della Sicilia" fra il '45-'48. Prestipino ha
raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che non
firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un
intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico,
marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò
Valentino Gerratana. La sua natura di intellettuale a
trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in
particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Pasquale Voza ha ricordato
come a metà degli anni '50 si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema
della "lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una
"tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità.
Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del
"documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di
contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla
crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che
riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta
all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore Italiano”,
1952, n. 5), Gerratana stende per "Società" (1952, n. 3) De
Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il
ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana
(“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del
realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in
connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel De Sanctis un
modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di
un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica.
Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La
Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio desanctisiano del 1872, più volte
citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis si discosta dalla
concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza
estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente
materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente
estetica» (Q). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci, un modello di
come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire
convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza
artistico-culturale, cosicché Gerratana condivide l'appello gramsciano del
«ritorno al De Sanctis» (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso
il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo
intendeva De Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza
ha ricordato come sempre nel '53 Gerratana abbia steso il saggio Lukács e i
problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il
marxismo e la critica letteraria di Lukács nel '50 giungeva anche in Italia
quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la
costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la
necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto
ricoprire gli intellettuali. Gerratana mise in luce due diverse idee di
realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria
gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un
atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso
la sua evasione. La lotta di Gerratana per il realismo, conclude Voza, alla
luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo
alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle
nozioni di "progresso intellettuale di massa" e "riforma
intellettuale e morale". Se l'intervento di Voza ha posto in luce la
capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni legate alla scienza
estetica, l'intervento di Alberto Burgio ha affrontato la lettura critica da
parte di Gerratana del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo
ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come
Gerratana e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di
fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che Gerratana scelse
di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché
non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli
entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un
Rousseau sempre "diverso" a seconda delle diverse fasi della ricerca
di Gerratana, che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico:
gli anni '40, '60 e '90. È degli anni '40 la Prefazione di Gerratana al
Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo
rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura
illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo
di Rousseau appare tuttavia a Gerratana storicamente attuale in forza dei
valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra
parte, sottolinea Gerratana, «non la libertà estenuata dal completo
esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora
tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione
con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è
precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente
a Gerratana di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale,
vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della
società. Negli anni '60 – caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra
il PCI e Bobbio – Gerratana prende parte alla discussione sul tema della
transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva
chiamato in causa da Della Volpe come ispiratore dello stato democratico e
socialista). Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il
tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso
socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di «massimizzazione della
democrazia», non di "anticipazione" del socialismo. Il discorso di
Gerratana muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende
l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Editori
Riuniti, 1968), sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali
che sfoceranno nel '68 studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della
transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e
non è più il Contratto al centro della riflessione di Gerratana, ma il secondo
Discorso. Infine, nel '90 Gerratana stende un saggio con al centro nuovamente
l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “Studi politici in
onore di Luigi Firpo”, Angeli 1990): Rousseau è ancora il padre della
democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico
dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di
prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di Gerratana, facendo perno sul
testo rousseauiano: se gli scritti degli anni '40, '62 e '90 privilegiano il
Contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota
Burgio – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68
trova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di
Gerratana del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della
cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze
particolaristiche. Infine ricordiamo il contributo di Savorelli sul
“Labriola di Gerratana”, che si è soffermato sull’intento di Gerratana di
sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione
crociana e liberale. Negli anni '60 Gerratana riconsidera Labriola alla luce
della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del
marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento
operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – Gerratana si preoccupa per le
degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni corporative di interessi
locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura pragmatica» di
spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»), destinate a
spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli sottolinea come le
attualizzazioni cui Gerratana volse il pensiero di Labriola non furono una
forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della
società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico
dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo
periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana scorse l’intuizione di problemi
(imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura
popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (V.
Gerratana, Labriola e la politica, “Studi storici”). Vittorio Diniha concluso
la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana
raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario
a Salerno nel 1971. Dini ha letto una pagina dedicata da Racinaro a Gerratana
nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una
verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari,
amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua
stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità
"kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi
draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni del ’68 all’Università
di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di Gerratana, secondo Dini,
sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società
che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari,
dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che
Gerratana riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di
Lucio Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto
GerratanaColletti un esempio del minimo “rigorismo ideologico” di Gerratana,
della sua concezione “aperta” del marxismo – evidente anche nella ricostruzione
non sistematica dei Quaderni. Il quadro non sarebbe completo se non
si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha
attraversato l'evento: l'impegno di Gerratana come intellettuale marxista.
Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di
Fabio Frosini e quella di Michele Filippini. Quest'ultimo ha discusso due
aspetti peculiari della cultura filosofica di Gerratana, l'esser insieme
democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici
di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti del 1958-59 ed un lungo articolo di
Gerratana del 1971 sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di
Stato. Ma è stato soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee
del marxismo di Gerratana, a partire dal volume del 1972, Ricerche di storia
del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati
altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea
che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra
marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del
marxismo fanno tutt’uno» (Ricerche, p. VII). La loro unitarietà sarebbe dunque
nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di Gerratana pare a
Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della
pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione
ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo
stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi» (p. X), che mostra
l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere
la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di Gerratana che emerge
dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria
e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa
sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità
che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa.
Gerratana, politico (e) gramsciano La terza sessione del
convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra Gerratana e l'impegno
politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Antonio
Gramsci dall'altro. Presieduta da Giuseppe Vacca, la mattinata si è aperta con
l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di Gerratana alla Fondazione
Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua
fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente
da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno
di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come
anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare
l'attività di Gerratana all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello
editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44
egli era considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la
Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a
"Rinascita", fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Nel
'47 fu, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile
della Commissione Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni
Rinascita” e dopo la fusione fra queste e gli “Editori Riuniti” cominciò la sua
collaborazione con la "Fondazione Gramsci" (fondata a Roma nel 1950)
come studioso di filosofia. Sono questi anche gli anni del rapporto con
Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 –
anno della "svolta" del XX Congresso del PCUS, degli eventi di
Ungheria e del «Manifesto dei 101» – Gerratana resta in accordo con le
posizioni di Alicata e Togliatti. Nel '58 si organizza il primo convegno di
studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero
di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il
legame fra movimento operaio e democrazia. Gli anni '60 sono per Gerratana gli
anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere (di cui
cominciò ad occuparsi sin dal '58), impegno che aveva a monte l'intento di
offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. Gerratana
divenne poi direttore del "Centro studi gramsciani" dell’Istituto
Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro
insieme e dal '77 l'attività "gramsciana" ebbe soprattutto come fine
un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni
'80-'90 i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la
diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul
piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale
culturale e politico). Nel '93 la crisi giunge all'apice: Gerratana vuole
dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi
continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro.
Furono questi gli eventi che infine condussero Gerratana all’abbandono
dell'Istituto Gramsci. É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente
ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di
Gramsci, con l'edizione critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto
in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello
internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con
l'edizione fra il 1992 e il 2007 negli Stati Uniti dei Prison Notebooks (curati
da Joseph A. Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America Latina
degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto
Carlos N. Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di
questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno:
poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al
tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva),
esigenza di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli eventi
politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei
relatori. Cosicché se per Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo
per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero
di Gramsci come cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il
pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione del '75, il
pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza
politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia
della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione
sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università
Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione del
'75 dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come
Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista
della totalità. Negli scritti di Gerratana che Coutinho prende in esame emerge
la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione
ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di
egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di
rivoluzione» (V. Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”). A questi due
concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li
tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo Gerratana –
viene adoperato da Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per
«concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il
concetto di egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito). Come nel pensiero di Marx
e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che
tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo
Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso
dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa
come volontarismo soggettivista, già negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci
avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione»
(Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”), in particolare a seguito
dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe
tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà.
In generale secondo Gerratana sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come
superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che
Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la
teoria dello Stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho
Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che
Gerratana offrirebbe il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme
storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda
della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del
proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono
utilizzare gli stessi strumenti» (ivi, 123). Sviluppando l'elemento del
"consenso" proprio dell'egemonia gramsciana, Gerratana distingue
l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo (o manipolato), e
l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad
altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Aldo Tortorella e
quella di Chiara Meta. Tortorella si è concentrato essenzialmente su due
aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione
politica e il rigore morale. Ha indicato in Gerratana non uno studioso come
altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia
specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È
proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è
sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di Gerratana.
Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo
di Gerratana, al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo
“rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica
pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era
per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario
rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi
violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui
Gerratana fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza,
ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era
intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere
due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e Gerratana
scelse questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di
intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di
dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la
ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di Gerratana. Nel corso
della relazione, Meta ha mostrato come Gerratana abbia risposto positivamente
all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero
di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del
soggetto ("Critica Marxista"). Indagando gli scritti gramsciani alla
luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della
filosofia, Gerratana ricorda che Gramsci – in Q 10 dal titolo emblematico «Che
cosa è l’uomo?» – argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo,
precisamente «il processo dei suoi atti» (Q). D'altra parte l’individuo entra
in rapporti con gli altri uomini «organicamente, cioè in quanto entra a far
parte di organismi dai più semplici ai più complessi». Così lo sviluppo e
costituzione della "personalità" di ciascuno è da intendersi come
acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in
relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si
modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti
di cui è il centro di annodamento» (Ibidem). Ed è proprio
Gerratana, secondo Chiara Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa
natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la
trama dei Quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato
questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il
convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità
reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca
e scienza, fra passato e presente. Quest'ultimo aspetto è stato la
cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche
di "memoria", ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di
Gerratana, che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e
della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di
comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno
sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti
intervenuto: dal rapporto fra Gerratana e Calvino (Durante), Gerratana e
Rousseau (Ausilio), Gerratana e Colletti (Guido Liguori), al rapporto fra il
pensiero di Gramsci e Lukács (Renato Caputo), alla dialettica fra organicità e
frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea Durante ha
ricordato come la stretta amicizia fra Gerratana e Calvino risalisse ai primi
anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa
impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto
ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio
GerratanaCalvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la
lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto
piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia"
di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli
intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La
sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di
Gerratana a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche
relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto
complementare fra i Discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per
un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere,
prima di altri, i rischi ed i limiti. Renato Caputo si è dialettizzato con la
relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del
realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è
tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di
riconsiderare la battaglia di Gerratana per il recupero di De Sanctis non tanto
in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della
lettura crociana dell'autore. Liguori è intervenuto sul rapporto fra Gerratana
e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati
dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione
teorica. Infine Eleonora Forenza ha interloquito in particolare con la
relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei
Quaderni di Gerratana nella sua capacità di porre in luce il carattere
frammentario della riflessione gramsciana dei Quaderni, l’attualità dialogica
di un processo conoscitivo inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la centralità
della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del
“frammento” come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha
emozionato è stato quello di Mario Alighiero Manacorda, intervenuto per
ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è
un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato
l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio
dell’unità di «braccia e cervello» (Q). Questa ricerca coinvolge la questione
(che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da
sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella
duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi
da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due
elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo,
che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale
ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che
pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura:
la lezione di Gerratana serve ancora In questa due giorni di convegno si sono
succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di
orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo
dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme
politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della
storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo
culturale di Gerratana come lezione viva, esempio per la storia
politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per Gerratana, dunque:
antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia,
pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue
convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli
interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla
memoria) la riflessione di Gerratana come frutto della contraddittorietà della
modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli
anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella
consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale.
Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino Gerratana ha significato
parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per
questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile
esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore
per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana
e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino
Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice, Gramsci,
Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte
del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Geymonat – il temperamento romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like
Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has
explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice:
“Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has
a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ –
Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from
Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista,
un geometra liberale di origini valdesi, e da Teresa Scarfiotti. Frequenta la
scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico
torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a
causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così
conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour. Si laurea a Torino con “Il
problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul
teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire,
nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante
cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della
scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua
concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo
abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive
di ricerca intravista allora da Geymonat e la sua estraneità al provincialismo
culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime
allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del
fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la
cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier
statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire la
dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
privata «Giacomo Leopardi» di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome
di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella 105ª Brigata Carlo Pisacane
e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto
il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e
Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di
pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone
del neopositivismo (ebbe diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato
nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono
tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del
positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed
a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo
dialettico. Interpreta la concezione della matematica di Galilei come un strumento
d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello
della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione,
centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito
Comunista Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria
e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione
Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione,
a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo
Oggi (editore Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e
sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”,
spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo
strumento della ragione. Per fare
questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema
di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente
numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo,
che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo
un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e
l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per
storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur
condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più
manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia
popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale
dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I
nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo
mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora
il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente
che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è
questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore
della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.
Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La
nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo
razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galileo
Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia
della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con
Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo
dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi
e rivoluzioni. scienza e politica, Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il
Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper,
Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le
ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La
società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia,
scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie
filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo,
Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, cCuen, Napoli, La ragione, con
Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di
Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Bollati
Boringhieri, Torino. Emanuele Vinassa de Regny, «Corrado Mangione: breve storia
di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in
Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia.
L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su «Il Mattino di
Padova», lincei. Geymonat Mario Quaranta, Geymonat filosofo della contraddizione,
Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di Geymonat,
Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di
filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli
anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e Geymonat. Norberto Bobbio,
Ricordo, "Rivista di Filosofia" Silvio Paolini Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf
(Cnr), Genova, Minazzi, “La passione
della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione
inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat,
La Città del Sole, Napoli, Fabio Minazzi, Contestare e creare. La lezione
epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini
Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Bruno Maiorca,Scritti
sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi, Ludovico Geymonat, un Maestro del Novecento.
Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure
della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna,
Minazzi, Geymonat epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola
di Milano. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Geymonat,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia:
Geymonat e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa italiana
su L. Geymonat, dal Sito Web Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale
di Ludovico Geymonat (C. Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico
di livello scientifico molto superiore a quello delli
precedenti. Per la verità non tutti lo storici della
filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia
nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio
movimento di pensiero scientifico-filosofico come il di J. L.
Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente
critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la
maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo
sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define
polymathés, erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei
Crotonesi ai Veliani rappresentata da Filolao.
Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria,
dove e fiorita un’ importante scuola di filosofi medici medic.
A Crotona fonda una setta che ha un notevole peso, essendo
legata al partito aristocratico. La setta e organizzata sulla base di regole
rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio
prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea
la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici,
partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere
i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e
circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui
si rifere l’”ipse dixit” (autòs efa). Una sommossa provocata dal partito
della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge
a Metaponto e muore. Sul grande filosofo sorsero numerose leggende,
alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano
il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio,
e sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante,
attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici
è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette.
Esse hanno lunga vita e danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono
la scuola di Filolao e quella d’Archita, che
fiore a Taranto, dominando anche la città.
Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,
che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,
e che costituiscono la base per ricostruire
la dottrina di Pitagora. Archita, uomo di
straordinaria va- stità di
interessi, fu legato da amicizia con Platone.
Platone ricorda Archita
affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran
influenza sull'Accademia. Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente
fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.
All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo
esplicitamente si richiama Policleto, amico
di Fidia, che nel Canon sviluppa una teoria artistica basata sulla
concezione del del corpo bello
come giusta proporzione delle parti. Legato a
Crotona e pure Ione di Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero
fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero.
Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il
significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.
Alla fine del capitolo accenneremo al
valore intrinseco della teoria, e al
significato della crisi scientifica formatasi
nella scuola prima ancora della
cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le
mosse dalle ricerche ioniche sul principio
e in particolare dalla teoria dell'àpeiron
d’Anassimandro. Una più acuta sensibilità ai
problemi etico-religiosi (quali l'opposizione del
bene e del male nel mondo, la
vicenda della colpa e del riscatto),
stimolata probabilmente dall'incontro in Italia con
i culti misterici, e d'altro canto una
maggiore attenzione per le leggi formali
e modali della realtà, cui diedero impulso
le sue prime ri- cerche acustiche, dovettero
però fargli apparire inadeguato il
principio unico dei naturalisti ionici. Per
rendere conto di questi più complessi
problerill, Pitagora sdoppia
il principio in due opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta
l'ordine, il cosmo, il bene; dall'altra
il principio dell'il- limitato,
dell'infinito, che raffigura
il disordine, il caos, il male. La sua grande intuizione consiste
nel vedere nel numerola chiave e
la struttura ultima di un assetto della
realtà. Col termine “numero” i crotonesi
intendeno soltanto il numero intero. Non fanno particolari
indagini sulla natura di queste unità,
limitandosi a rappresentarle con un punto,
circondato da uno spazio vuoto. Proprio
questa rappresentazione spaziale facilita il
passaggio, caratteristicamente arcaico, dalla
concezione del numero come chiave e
rapporto alla sua concezione come
costituente fisico elementare delle cose.
Il problema essenziale diventa allora, per
i crotonesi, quello di cogliere il
modo con cui dalla collezione di più unità
si generano tutti gl’esseri. Le leggi
della formazione dei numeri venne
considerate come leggi della formazione
delle cose, e. si ritene di poter
trovare in esse la vera ragione
esplicativa del mondo fisico e morale.
La più importante di tali leggi e
costituita - secondo i crotonesi - dal- l'opposta
struttura dei numeri dispari e di
quelli pari. L'antitesi dispari-pari venne cosi
assunta a principio di una serie di
altre opposizioni, che spezzano il mondo
in due: limitato-illimitato (opposizione che
e stata il problema iniziale, ma puo
ora venir spiegata sulla base dell
'antitesi precedente); uno-molti; destra-sinistra;
luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile;
retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di
queste opposizioni hanno palesemente un carattere
fisico (quella per esempio di luce e
tenebre; da essa scaturiva la
raffigurazione del cosmo come costituito da
un fuoco centrale, immerso in un'estensione
illimitata di nebbia); altre invece un
preciso carattere morale. Questa presenza
di significati multipli finiva con
l'infondere ai numeri in generale, e
a certuni di essi in particolare, un
vero e proprio valore magico-simbolico.
Così “V” veniva assunto a rappresentare il
matrimonio, essendo la
somma del primo numero dispari, il III,
con il primo numero pari, il II
(l'I veniva considerato come « parìmpari
»servendo a generare sia i numeri
pari che i dispari); il IV e il
IX venivano presi come
simboli della giustizia; il VII
dell'opportunità; e così via. Di
derivazione crotonesi è un trattato di
medicina intitolato “Sul numero sette,” “Peri
hebdomadon,” che cerca appunto nei rapporti
settenari la spiegazione della struttura
dell'organismo e delle sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni è pervenuta fino
a noi, onde si attribuisce per
esempio a VII un significato speciale etico
e fisico (VII sono i ·vizi capitali,
sette le opere di misericordia, in
varie malattie si ha la «settima»,
ecc.). La purificazione religiosa, che forma -
almeno in un primo tempo il fine
principale dell'insegnamento pitagorico, era
cercata essa pure attraverso la
contemplazione dei numeri. Questa venne
pertanto a possedere un doppio aspetto: filosofico
e mistico. La peculiare nobiltà dell'ascesi
pitagorica consisteva appunto nel fatto che
a ogni sua tappa doveva corrispondere
la conquista di un più alto gradino
del sapere. Il carattere mistico delle
ricerche matematiche costituì per molto
tempo un notevole impulso al loro
sviluppo, e insieme un im- pedimento al
loro caratterizzarsi come ricerche puramente
scientifiche. In particolare, la concezione
ora spiegata spinse i pitagorici a
studiare la geometria per via aritmetica.
Ne sorse una disciplina che, per il
suo doppio ca- rattere, e chiamata «
aritmo-geometria ». Essa e fondata sulla
convinzione che da un lato. fosse
possibile ricavare le principali caratteristiche
delle figure a partire dal numero dei
punti (supposto, in ogni caso, finito)
che le compongono, e dall'altro fosse possibile-
viceversa- ricorrere alla forma delle figure
per illustrare le più recondite proprietà
dei nu- meri. Di qui la distinzione
dei numeri in vari tipi. Per esempio:
triangolari polig6nali quadrati c~ bici. Al
numero triangolare X venne attribuita
un'importanza speciale, come somma dei
primi quattro numeri naturali. I dispari venneno
chiamati « gnomoni», per la possibilità
di rappresentarli informa di gnomone (cioè
squadra). Questa rappresentazione permise di
scoprire che ogni numero dispari è la
differenza di due quadrati; per esempio:
• • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze
·- tra cui quella di Proclo ·- ci
dicono che Pitagora e il primo a
comprendere la validità generale del
teorema che ancor oggi porta il suo
nome, e che, per taluni casi particolari
(per esempio quando i cateti valgono III e IV,
e l'ipotenusa V), era noto già prima
di lui. Non sappiamo però quale
ragionamento servisse a Pitagora per
provare l'importante teorema. Certamente la
dimostrazione riferita negl’ “Elementi” d’Euclide non
fu ideata dal filosofo di Crotone. IV
La dottrina che i numeri sono il
principio di tutte le cose » trovò
pure conferma negli studi di acustica.
Stando alla più antica tradizione dobbiamo
infatti ammettere che Pitagora riuscì a
scoprire i principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a questa notevolissima
scoperta dallo studio sperimentale delle
corde sonore, e dalla constatazione che
nei principali accordi il rapporto fra
le loro lunghezze è espresso da
numeri interi molto semplici. L'acustica
venne in tal modo a costituire una
specie di« aritmetica applicata», come
l'astronomia costituiva una «geometria
applicata». Il quadro delle ricerche
scientifiche risultò pertanto suddiviso in
quattro rami fondamentali: aritmetica, musica,
geometria, astronomia. 1 L'astronomia pitagorica - -
parte dall'ammissione di un fuoco centrale
immerso in una sconfinata nebbia di
tenebre. Intorno a tale fuoco si
pensava ruotassero dieci corpi (notiamo
l'intervento del numero 10): la Terra,
l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole,
i cinque pianeti allora conosciuti, e
il cielo delle stelle fisse. I
movimenti ciclici di questi corpi
produrrebbero - secondo Pitagora - una
meravigliosa armonia, che noi però non
riusciamo a percepire a causa della
sua continuità. La loro ciclicità sarebbe
la causa del ritorno periodico di tutte
le cose. Questa ripartizione costituisce il
lontano antecedente del celebre « quadrivio », che
starà alla base dell'istruzione nelle
scuole del medioevo. successivi l'astronomia
pitagorica portò a concezioni di grande
interesse scien- tifico; degna di particolare
menzione l 'ipotesi eliocentrica, ideata per
la prima volta da Aristarco di Samo. Ricordiamo
infine la teoria secondo cui tutto il
cosmo sarebbe sorto dal fuoco centrale
e ritornato in esso per poi nascere
un'altra volta. Con riferimento ad essa, i
pitagorici chiamavano «anno cosmico» l'intervallo
di tempo impiegato dal cosmo per
nascere e ritornare nel fuoco. La teoria
pitagorica dell'anima, malgrado la sua
ambiguità, ebbe notevoli riflessi sui
filosofi posteriori. Da un lato alcune
testimonianze ci dicono che l'anima veniva
concepita dai pitagorici come «armonia» del
corpo, nel preciso senso in cui si
parla di ar- monia dei suoni emessi
da uno strumento musicale. Secondo questa
interpreta- zione, l'anima doveva venire
necessariamente pensata come mortale, poiché -
spezzato lo strumento - anche l'armonia
viene a cessare. D'altro lato sappiamo
però che uno dei cardini della
filosofia pitagorica era costituito dalla
trasmigrazione delle anime (metempsicosi), e
questa suppone ovviamente che l'anima non
muoia con il corpo che la ospita.
Un frammento del medico Alcmeone (che
visse a Crotone e fu legato ai
circoli pitagorici) afferma che l'« anima
è immortale per la sua somiglianza
con le cose immortali ... la luna,
il sole, gli astri ». 1 Come
risolvere l'apparente contraddizione? Probabilmente
bisogna ritenere che i pitagorici
ammettessero due specie di anime: una
costituita dal tempera- mento psichi co,
legato indissolubilmente al corpo e
destinato a morire con esso;
l'altra da un principio immortale o «
anima-dèmone ». In ogni vita si
avrebbe una stretta rispondenza tra le
due anime; questa rispondenza verrebbe però
a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone dal
corpo. Tale uscita sarebbe da lei de-
siderata per raggiungere la purezza di
una vita interamente spirituale. A tali
dottrine si ispirava il « modo di
vita pitagorico », altamente lodato da
Platone per la sua unione di teoresi
e di ascesi; la metempsicosi in
particolare determi- nava il più famoso dei
divieti rituali pitagorici, quello di
mangiare la carne di certi animali,
nei quali potrebbe essersi incarnata
un'anima. Anche dio veniva concepito dai
pitagorici come anima; e precisamente come
« anima del mondo » che circola
continuamente in esso e perciò è
presente in ogni luogo. Il rapporto
dio-mondo restò tuttavia molto incerto
nella filosofia pitagorica, sicché non
possiamo cercare in essa un vero e
proprio sistema teolo- gico. Ad Alcmeone si
deve la notevolissima sco- perta che il
centro della vita organica e mentale
va localizzato nel cervello. Quanto abbiamo
finora riferito basta per farci comprendere
la complessità dell'insegnamento pitagorico. Se
in taluni punti esso può apparirci
ingenuo, in altri casi contraddittorio, ciò
non deve farci sottovalutare l'importanza
dei temi ivi abbozzati, che ricompariranno
ampliati e sviluppati nei più diversi
indirizzi filosofici e scientifici. Notiamo,
per esempio, che l'idea di cercare nei
numeri, cioè nella matematica, la
spiegazione di tutti i fenomeni,
ricomparirà potenziata nell'epoca moderna e
formerà per molto tempo la « spina
dorsale » di tutta la ricerca
scientifica. Vi è chi sostiene, esagerando
forse le cose, che le più celebri
teorie della fisica-ma- tematica moderna (per
esempio la teoria della relatività
generale) non costituirebbero altro che il
proseguimento del programma pitagorico. Ma,
a parte ciò, noi troviamo nella
matematica di Pitagora un carattere
speciale che la differenzia notevolmente da
molte altre concezioni posteriori, pur esse
accentratesi sulla ricerca matematica. Il
carattere cui voglio riferirmi, suol venire
indicato col termine «discontinuità». Si
dice che la scienza di Pi- tagora è
una matematica del discontinuo, perché essa
si fonda esclusivamente sui numeri interi
e su ciò che può venire espresso con
i numeri interi (per esem- pio sulle
frazioni ordinarie, e non, invece, sui
numeri irrazionali). Secondo essa,
l'accrescimento di una grandezza procede
per «salti discontinui», essendo im- possibile
aggiungere qualcosa che sia minore
dell'unità. Taluno giunge a riconoscere nelle
teorie quantistiche moderne una soprav- vivenza
dell'antica eredità pitagorica sotto forma
dì concezione discontinua dell'energia. Lasciando
da parte le reminiscenze pitagoriche
presenti nella fisica moderna, va detto
però ben chiaramente che l'aritmo-geometria
di Pitagora non ebbe vita lunga nella
scienza greca. La sua fine fu
provocata, per l'appunto, dalla crisi di
quell'idea di discontinuità che costituiva -
come s'è detto - uno dei suoi cardini
fondamentali. La grande crisi fu causata
dalla scoperta che le figure geometriche
sono co- stituite non da un numero
finito, ma da una infinità di punti.
(Le teorie moderne, che tornano ad
un'idea rinnovata di discontinuità, sosterranno
implicitamente che la geometria classica -
proprio perché parla di una infinità
di punti - non trova esatta applicazione
nella realtà.) Il primo « fatto
geometrico » che costrinse i pitagorici a
riconoscere che le figure sono costituite
da infiniti punti, è proprio connesso
a quel medesimoteorema che porta il
nome di Pitagora. Ed infatti, applicando
detto teorema ad uno dei due
triangoli isosceli in cui è diviso un
quadrato, si dimostra facil- mente che il
lato e la diagonale di tale quadrato
non possono avere alcun sot- tomultiplo
comune, cioè sono incommensurabili. Orbene
proviamo a supporre che un segmento
sia generato dall'accostamento di una serie
finita di punti (pic- coli ma non
nulli, e tutti eguali fra loro, come
allora si immaginava): ne se- guirebbe che
uno qualunque di questi punti risulterebbe
contenuto un numero intero, e finito,
di volte (per esempio m volte) nel
lato e un altro numero in- tero, e
finito, di volte (per esempio n
volte) nella diagonale. Lato e diagonale
avreb- bero dunque un sottomultiplo comune,
e non sarebbero - come si era dimo-
strato - incommensurabili. La loro
incommensurabilità esige pertanto che es- si
siano costituiti da una infinità di
punti. La leggenda racconta che il
fatto scandaloso, ora riferito, fu
gelosamente custodito per vari anni tra
i segreti più pericolosi della setta.
Esso fu rivelato fuori della scuola
pitagorica da Ippaso di Metaponto, una
delle figure più notevoli dell'antico
pitagorismo. Pastosi a capo degli
acusmatici per la moderna irre- quietezza
del suo ingegno che mal tollerava il
dogmatismo della setta, egli sarebbe stato
vicino ad Eraclito per l'idea che il
fuoco è il principio di tutte le
cose, e si sarebbe schierato dalla
parte dei democratici nei moti che
condussero alla cacciata dei pitagorici da
Crotone. Per avere rivelato la natura
delle grandezze incommen- surabili, Ippaso
sarebbe stato cacciato ignominiosamente dalla
scuola, ed a lui anzi i pitagorici
avrebbero eretto una tomba come ad un
morto. Secondo la tra- dizione su di
lui sarebbe caduta anche l'ira di
Giove, il quale lo fece perire in
un naufragio; la sua triste morte non
impedì tuttavia che lo scandalo si
diffondesse rapidamente tra i cultori di
matematica e finisse per scuotere dalle
fondamenta l'intera concezione
pitagorica. Questa crisi verrà resa ancor
più acuta dalla
scoperta delle antinomie di Zenone sul
movimento e sulla divisibilità. Per uscire
da essa, i maggiori scienziati greci
non troveranno altra via se non
quella di scindere completamente la
geometria dall'aritmetica, interpretando la prima
come studio del continuo e la seconda
come studio del discontinuo. Il rapporto
tra continuo e discontinuo resterà, per
tutta la storia del pensiero umano,
un problema molto difficile e molto
dibattuto; verrà, anzi, considerato come
uno dei più astrusi «labirinti» della ragione.
L'averne intuito l'esistenza e la
difficoltà va dunque considerato come un
merito, e molto notevole, dello spirito
greco. Il primo passo della ragione
umana si compie, in ogni ricerca, col
porre a nudo le difficoltà ivi
esistenti, per gravi che esse siano,
non col nasconderle. Solo chi le conosce,
non chi le ignora, può sentirsi
spinto a cercare i mezzi indispensabili
per risolverle o, comunque, dominarle; e
questa ricerca è la molla più
decisiva del progresso scientifico. Oggi si
riconosce quale autentico fondatore della
scuola eleatica il grande Parmenide, nato
ad Elea. Parmenide scrive un poema allegorico, “Sulla
natura,” “Perì physeos,” di cui ci sono pervenuti
alcuni interessantissimi frammenti che, integrati
da varie testimonianze, ci permettono di
ricostruire con sufficiente sicurezza il
suo pensiero. Data la vicinanza di
Elea ai maggiori centri del pitagorismo, è
indubitato che Parmenide subì, in forma più
o meno diretta, l'influenza di questo
indirizzo di pensiero. Taluni storici,
accentuando questo legame, giunsero a
presentarcelo come un pitagorico, distaccatosi
dalla scuola di provenienza per divergenze
di ordine filosofico. Tale interpretazione
ci costringerebbe a vedere in gran parte
degli argomenti eleatici, come ad esempio
nelle aporie di Zenone, un intento
polemico soprattutto antipitagorico. La gravità
di questa conseguenza lascia tuttavia
perplessi molti autorevoli critici. Si
ritiene oggi piuttosto che la critica
di Parmenide fosse rivolta in generale
contro tutte le filosofie ioniche ed
italiche del molteplice e del divenire, di
cui egli rilevava acutamente la
contraddittorietà: nel tentativo di spiegare
razionalmente la realtà, e di modellare
la ragione sui dati dell'esperienza, tali
filosofie dovevano ammettere una serie di
opposizioni e di alterità di cui però
si assumeva la coesi- stenza. Ora - osserva
Parmenide - se di una qualsiasi cosa
si dice o si pensa che « è », di
ciò che è diverso od opposto ad
essa si dovrà dire o pensare che
«non è»: e com'è possibile riconoscere
realtà alcuna a ciò che non è,
se non si vogliono violare le leggi
immutabili del discorso e del pensiero?
La grandezza della filosofia di Parmenide,
quella grandezza che costituì un fecondo
punto di partenza per il pensiero
successivo e anche un difficile problema
la cui soluzione era tuttavia
indispensabile per poter progredire, sta
proprio qui: nell'aver cioè individuato nella
sua radice filosofica l'ambiguità della
speculazione ionica edita- lica, e nell'aver
posto in primo piano il problema della
verità del linguaggio e del pensiero,
il problema della « via », cioè
del metodo, che linguaggio e pensiero
dovevano percorrere per giungere alla
realtà. Il metodo vero costruisce cono-
scitivamente la realtà, l'essere, perché
elimina gradualmente dal pensiero tutti i
contrassegni di irrealtà, di non-essere,
che vi si erano infiltrati: la
molteplicità nello spazio, intesa come
differenziazione di parti, la molteplicità
nel tempo, intesa come differenziazione di
momenti, il vuoto inteso come assenza
di realtà, la generazione e la
distruzione intese come limiti dell'essere.
Partito dal riconosci- mento logico e
metodologico delle esigenze del pensiero e
del discorso, Parme- nide giunge al culmine
della via a dichiarare l'impensabilità, l'inesprimibilità
e l'inesistenza del non-essere, e la
parimenti assoluta esistenza dell'essere, che
condiziona la possibilità di pensare e di
dire il vero. All'essere non potrà
venir riferito - sempre per l'opposizione
or ora ac- cennata - alcun attributo, che
possa in qualche modo diminuirne la
positività, assimilandolo al non-essere. Ci
si dovrà limitare a dire che esso
è uno, invaria- bile, immobile, eterno.
Qualche critico moderno però (come Untersteiner)
ha ritenuto che Parmenide avesse concepito
l'essere come «totalità>> e non come
«unità». L'erronea interpretazione del suo
pensiero sarebbe dovuta alla falsa testimonianza
di Teofrasto che attribuisce a Parmenide il
sillogismo: « Quello che è oltre
l'essere non esiste; quello che non
esiste è nulla; dunque l'essere è
uno.» L'attributo dell'unità, con cui
polemizzò Aristotele, risalirebbe solo a
Melissa. Come possiamo conciliare la concezione
parmenidea dell'essere col fatto
incontrovertibile che l'esperienza ci presenta
ad ogni piè sospinto degli esseri
molteplici, variabili, temporanei? Di fronte
a questo stato di cose - risponde
Parmenide - non vi è altro da fare
che respingere la nostra spontanea fiducia
nell'esperienza, riconoscendo che essa
costituisce per l'uomo una via di
conoscenza fallace e illusoria. Al mondo
dell'esperienza è appunto dedicata la
seconda parte del poema di Parmenide.
Confutate « le opinioni dei mortali
», quali si erano espresse nelle
precedenti cosmologie naturalistiche basate sul
divenire, Parmenide non rinuncia tuttavia a
costruire una propria spiegazione di questo
mondo, di cui aveva di- chiarato la
radicale inconsistenza di fronte all'assoluto
essere. Molto si è discusso fra gli
studiosi sul significato da attribuire a
questo sconcertante aspetto del pen- siero
parmenideo: fra le più recenti, le
due posizioni estreme sono quella del
Raven, secondo cui l'eleata, impegnato
nella polemica contro l'indebita confu- sione di
razionale e di empirico tipica dei suoi
predecessori, avrebbe voluto costrui- re una
cosmologia a base puramente empirica, da
affiancare alla dottrina logico- razionale
dell'essere in modo da isolare ancor
più chiaramente i due momenti; e
quella dell'Untersteiner, che ritiene che
il mondo dell'essere e il mondo del-
l'esperienza siano unificati nel pensiero
di Parmenide dal medesimo metodo ra-
zionale, in grado di individuare il
fondamento di realtà presente anche nel se-
condo: una realtà, tuttavia, che si
differenzia da quella assoluta in quanto
immersa nel tempo, e che ne
costituisce perciò soltanto una immagine.
In ogni caso se ne può concludere
che per Parmenide solo la ragione è
un mezzo di conoscenza veramente efficace;
solo essa, rompendo la crosta delle ap-
parenze, può farci cogliere l'unità
profonda del reale. L'opposizione tra razio-
nalismo ed empirismo, che tanti sviluppi
avrà nella storia della filosofia, trova
proprio qui la sua prima radice.
L'essere di Parmenide è stato interpretato
da taluni in senso idealistico, da
talaltri in senso materialistico. Enttrambe
queste interpretazioni svisano, però, il
pensiero del grande eleata, non tenendo
conto che esso antecede, in realtà,
ogni consapevole distinzione tra idealismo
e materialismo. L'affermazione di Parme- nide
che più si presta ad una interpretazione
materialistica è quella che ci presenta
l'essere come sferico (cioè come una
sfera piena). Evidentemente Parmenide pensa alla
sfera, perché la superficie sferica non
è limitata da alcun perimetro né inter-
rotta da alcuno spigolo. Non si può
tuttavia negare che la sfericità ora
accennata vada accolta con la massima
cautela; se infatti la interpretassimo alla
lettera, ca- dremmo in contraddizione con
tutto l'insegnamento di Parmenide, perché sa- remmo
costretti ad ammettere l'esistenza di un
non-essere (o vuoto), che è al di là
dell'essere sferico, e lo limita. Essa va
intesa invece come identità e assolutezza
dell'essere lungo tutte le direzioni; come
è stato recentemente osservato, la sfera
di Parmenide è più simile allo spazio
curvo einsteiniano che al solido euclideo
che siamo portati a raffigurarci.
L'interpretazione idealistica è d'altra parte
esclusa perché se il pensiero scopre
l'essere, certamente non lo crea; anzi
è piuttosto l'esistenza dell'essere a
rappresentare la possibilità e la
condizione del pensiero, che in esso
culmina e con esso deve identificarsi.
Parmenide ha due grandi discepoli: Zenone e
Melisso. Il contributo da essi arrecato
all'affinamento del pensiero del maestro
assicura loro un posto assai ragguardevole
nella storia della filosofia. Entrambi si
adoperarono a difenderne le tesi sia
pure svolgendo in direzioni opposte la
tensione che vi era implicita: Zenone
cioè approfondendo la problematica dellogos
nella sua crescente autono- mia, Melisso invece
sviluppando il tema dell'essere nella sua
assolutezza sostanziale. Zenone di Elea e un
ingegno acuto, sottile, e vigorosamente polemico.
Per gl’argomenti ideati a difesa dell'unità
(intesa come omogeneità e con- tinuità non
divisibile in parti) ed immobilità
dell'essere, e per il suo metodo di
discussione, Aristotele, che li discusse a
lungo nella “Fisica”, lo considera il
fondatore della dialettica. L'originalità del suo metodo consiste
nell'assumere a punto di partenza la
tesi da confutare e nel dedurne
rigorosamente tutte le logiche conseguenze,
per mostrarne la contraddittorietà e di
conseguenza l'assurdità della tesi. Si occupa
di politica e contribue notevolmente al
buon governo di Elea. Muore con
grande fierezza per aver cospirato contro
il tiranno della città (Nearco o
Diomedonte). Sullà sua fine si tramandano
vari particolari che ne confermano
l'eccezionale coraggio. I celebri argomenti di
Zenone a difesa della filosofia di
Parmenide mirano a provarci che, se la
negazione del movimento e della molteplicità
può a prima vista apparire assurda,
l'ammissione di essi conduce tuttavia ad
assurdità ancor più gravi, nascoste, ma
non risolte, dal linguaggio ordinario. Il perno
di tali argomenti consiste nella
dimostrazione che, sia nella nozione di
movimento, sia in quella di pluralità,
si annida il delicato concetto .di
infinito. Immaginiamo che un mobile debba
spostarsi da un estremo all'altro di
un I Ecco, per esempio, una versione
dei suoi ultimi istanti: « Antistene, nelle
Successioni, rac- conta che Zenone, dopo
aver denunziato come cospiratori gl’amici del
tiranno, fu da questi in- terrogato
se c'era qualche altro complice. Egli rispose:
" Tu, la rovina della città.
" E poi, rivolto ai presenti,
esclamò: "Mi meraviglio della vostra
viltà, se siete servi della tirannide
per timore di questo che ora io
sopporto." Da ultimo, mozza- tasi coi
denti la lingua, gliela sputò addosso.
I cittadini allora, incitati da questo
esempio abbatte- rono il tiranno. »dato
segmento: prima di aver percorso. tutto
il segmento, dovrà averne percorso la
metà; prima di questa, la metà della
metà, e cosl via all'infinito. In
modo ana- logo, se il «piè veloce»
Achille vuole raggiungere la lentissima
tartaruga, che lo precede di un
tratto s, egli dovrà percorrere: innanzi
tutto quella distanza s, poi il
tratto s' percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s, poi il tratto
s" percorso dalla tartaruga mentre
Achille percorreva s', e così via
all'infinito. Nel- l'un esempio come nell'altro,
il fatto- in apparenza semplicissimo - del mo-
vimento, si frantuma dunque in infiniti
moti, sia pure sempre più piccoli ma
non mai nulli. Proprio questa loro
infinità è causa di profonde difficoltà
concettuali, che non possono non rendere
perplesso qualsiasi uomo disposto al
ragionamento. Quanto all'argomentazione di Zenone
contro la molteplicità, essa si svolgeva
così: supponiamo che esistano due entità
A e B distinte; per il fatto di
essere distinte, queste due entità devono
risultare separate da uno spazio intermedio
C. Ma C è distinto tanto da A
quanto da B, e quindi esisteranno altri
d).le elementi D ed E che separano
rispettivamente C da A e da B,
ecc. Poiché ciò può venir ri- petuto
all'infinito, se ne conclude che l'ammissione
di due entità distinte conduce di
necessità all'ammissione di infinite entità.
Al fine di porre luce sulle
difficoltà logiche di quest'ammissione, Zenone passava
poi a dimostrare come, partendo da essa,
si debba giungere a negare l'esi- stenza di
qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti- così
ragionava- se gli elementi che costituiscono
un segmento AB sono infiniti, o essi
sono nulli, o non sono nulli; nel
primo caso la lunghezza del segmento non
può essere che nulla (perché la somma
di infiniti zeri è zero); nel secondo
non può che essere infinita (per- ché
a suo parere la somma di infinite
quantità diverse da zero sarebbe infinita).
É ingiusto considerare questi ragionamenti
zenoniani (e gli altri che, per brevità, siamo costretti a
tralasciare) quali semplici sofismi o
pseudoragionamenti. In realtà, essi attirano
efficacemente la nostra attenzione su talune
gravissime difficoltà dei due concetti di
movimento e di lunghezza, dovute
all'inevitabile in- troduzione dell'infinito, sia
allorché si scompone un intervallo di
tempo (o il moto attuantesi in
qtJ.esto tempo), sia allorché si scompone
un segmento. Questi argomenti - che
venivano ad aggiungersi alle difficoltà già
ricordate nell'ultimo paragrafo del capitolo
III, connesse alla scoperta delle grandezze
incommensurabili - suscitarono presso i greci
una tale diffidenza nei confronti dell'infinito,
da persuaderli a compiere qualunque sforzo
pur di escludere tale concetto- per lo
meno nella forma di « infinito
attuale » 1 - da ogni seria
costru-I Si dice che una grandezza
variabile costi- tuisce un infinito potenziale quando,
pur as- s~mendo sempre valori finiti, essa
può crescere al di là ~i ?gni
limite; se per esempio immaginiamo di
suddividere un dato segmento con successivi
di- mezzamenti, il risultato ottenuto sarà
un infinito pot~nziale perché il numero
delle parti a cui per- ventamo, pur
essendo in ogni caso finito, può
crescere ad arbitrio. Si parla invece
di infinito attuale quando ci si
riferisce ad un ben determi- nato insieme,
effettivamente costituito di un nume- ro
illimitato di elementi; se per esempio
immagi- niamo di avere scomposto un
segmento in tutti i suoi punti, ci
troveremo di fronte a un infinito
attuale perché non esiste alcun numero
finito che riesca a misurare la
totalità di questi punti. zione scientifica.
Oggi noi abbiamo imparato, con l'analisi
infinitesimale e con la teoria degli
insiemi, a trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infi- nito
potenziale sia quello attuale); proprio
perciò tuttavia ci rendiamo conto che
le difficoltà incontrate dai greci erano
effettive, non artificiose, e possiamo affer-
mare con piena consapevolezza che non
erano certo dovute a volgari errori
di logica, non erano dei « sofismi
» nel senso usuale del termine. Dal
punto di vista dell'eleatismo, il metodo
scelto da Zenone per difendere le
posizioni di Parmenide poneva tuttavia la
premessa di una loro crisi e di
un loro superamento. Lo spregiudicato uso
logico-matematico che egli faceva del logos
non si muoveva più sulla via di
una identificazione del logos stesso
all'essere, del riconoscimento di una
realtà scoperta dal pensiero ma in
cui il pensiero doveva confondersi; Zenone
poneva piuttosto le premesse per uno
svincolamento del discorso logico-matematico dalla
realtà, e lavorava quindi oggettivamente
alla rottura di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
«vera via» proposta dal grande maestro
di Elea. La figura di Melisso è
assai diversa da quella di Zenone.
Nato a Samo quasi contemporaneamente a
Zenone, egli trascorse tutta la vita nella
propria isola, ove ricoprì importanti
cariche politico-militari. Basti ricordare che
fu capo della flotta con cui Samo
sconfisse gli ateniesi. La sua permanenza
a Samo co- stituì, in certo modo, il
ponte ideale attraverso cui l'insegnamento
eleatico per- venne dalla Magna Grecia
nell'Asia Minore. La lunga lotta fra
Mileto e Samo può del resto
contribuire a spiegare l'abban- dono melisseo
della tradizione ionica; una tradizione,
tuttavia, che continuò ad operare
indirettamente nel suo pensiero condizionando
in senso realistico la sua riforma
dell'eleatismo, in contrapposizione all'indirizzo
prevalentemente logico che quest'ultimo aveva
assunto in Zenone. Più che alla
difesa delle teorie del maestro, Melissa
si dedicò infatti al loro sviluppo e
alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale
carica logico-verbale e metodica, Melissa
si propose una più coerente deduzione
dei caratteri sostanziali e antologici
dell'essere. Egli fu il primo ad
insistere sul suo carattere di unità,
che rappresentava più adeguata- mente in
senso spaziale e temporale la «totalità»
dell'essere parmenideo, e so- prattutto sulla
sua infinità. Melissa afferma in proposito
che non è possibile interpretarlo come
sferico (per le difficoltà accennate alla
fine del paragrafo n) bensì lo si
deve concepire come infinito o illimitato
sia nello spazio sia nel tempo. Per
analoghe ragioni egli negò che si
potesse ammettere,. nell'uno, una qualsiasi
sofferenza o dolore o altra passione, perché
ciò provocherebbe in lui una specie
di perturbazione e quindi ne diminuirebbe
l'unità e immobilità. Quest'ultimo argomento
sembra mostrare come Melissa, sulla traccia
della teologia di Senofane e della
tradizione ionica, dovette interpretare l
'unico essere come dotato di vita:
una vita, probabilmente, identica al
pensiero, secondo l'equa- zione parmenidea che
abbiamo già esposto. Secondo la tradizione,
Melissa avrebbeanche definito l'essere come
incorporeo, il che contrasta con la sua
infinita esten- sione spaziale e con la
negazione eleatica del vuoto : ciò
mette a nudo in realtà una profonda
contraddizione dell'eleatismo, che non poteva
concepire la realtà come puramente
intelligibile ed incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle tutte le caratteristiche
di pura intelligibilità richieste da un
pensiero filosofico ormai maturo. L'incorporeità
dell'uno melisseo significava dunque soltanto che
esso era invisibile e illimitato da
qualsiasi forma o corpo tangibile; e
significava al tempo stesso il portare
al limite una contraddizione già implicita
in Parmenide del cui superamento avrebbe
grandemente beneficiato il pensiero posteriore.
L'avere reso l'essere infinito nello spazio
e nel tempo impediva a Melissa di
accettare la bipartizione parmenidea tra
realtà atemporale e mondo sensibile
temporale: a quest'ultimo doveva venir negata
qualunque sia pur secondaria sussistenza,
ed è infatti alla negazione dell'esistenza e
della concepibilità delle cose sensibili
che Melissa dedica alcune delle sue
argomentazioni più suggestive. Perché una
cosa qualsiasi, egli dice, possa essere
conosciuta, pensata ed esistere, essa
dovrebbe essere sempre identica a se
stessa, assolutamet?-te immobile ed immuta- bile
nello spazio e nel tempo, giacché una
minima modificazione ne farebbe una cosa
diversa e così via all'infinito; dovrebbe
dunque avere le stesse caratteristiche
dell'uno. Proprio questo argomento, che egli
intendeva come una sfida contro il
pluralismo, sarebbe stato rovesciato e
raccolto dalla corrente estrema del plura-
lismo, quella atomistica: si può dire
infatti che l'atomismo attribuì alle sue
in- finite unità fisiche proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo, ad eccezione
dell'immobilità che non era più necessaria
dato il riconoscimento del vuoto. Con
Zenone e con Melissa, l'arco dell'eleatismo
si conclu<i.e così, sia sotto la
spinta di contrapposte esigenze logiche e
naturalistiche che esso aveva cercato di
stringere in una compatta unità, sia
per l'insorgere di problemi che esso stesso
aveva per la prima volta portato in
luce e chiarito, ma che non potevano
essere risolti nel suo ambito. L'eleatismo
era comunque destinato a restare una
pietra miliare nel pensiero greco, un
imperativo richiamo alla soluzione di
alcuni fra i più profondi problemi
filosofici. La sua importanza fu enorme
anche nella storia del pensiero
scientifico, soprattutto - come abbiamo più
sopra spiegato - per quanto riguarda l'affi-
namento delle esigenze logiche. Vale la pena
ricordare le parole con cui questo
contributo degli eleati è sottolineato in
una recente, autorevolissima, storia della
matematica, Eléments d' histoire des
mathématiques del gruppo Bourbaki: Il tenore degli scritti filosofici subisce un
brusco cambiamento : i filosofi affermano o
preconizzano (o tutt'al più abbozzano vaghi
ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe
analogie), a partire da Parmenide e so-
prattutto da Zenone essi " argomentano
" e cercano di ricavare dei
principi generali che possano servire di
base alla loro dialettica: appunto in
Parmenide si trova la prima affermazione
del principio del " terzo escluso
"; e le dimostrazioni " per
assurdo " di Zenone di Elea sono
rimaste celebri. » Anzi, il richiamo so-
pra ricordato di Aristotele a Zenone
come fondatore della dialettica, sembra
appunto riferirsi all'attribuzione all'eleate
della scoperta e dell'impiego della
reductio ad impossibile in metafisica
(suggerito peraltro a Zenone, probabil- mente,
dall'impiego che di tale forma di
ragionamento veniva fatto dai mate- matici
pitagorici. Nato ad Agrigento intorno al49o
e morto verso H 430, Empedocle riassunse
nella propria vita tanto la ricchezza
di umori della sua terra natale,
quanto la grandezza e l'ambiguità del
suo pensiero. L'entusiasmo per la natura
e la varietà dei suoi fenomeni, il
profondo senso religioso che connetteva
uomini, dei e fysis in intimi legami;
la violenza delle passioni politiche,
l'ansia della salvezza e il senso del
tragico: di questi caratteri della Sicilia
greca Empedocle fu, prima che interprete,
pienamente partecipe. Capeggiò la fazione
democratica della sua città; esiliato nel
Peloponneso, si recò in seguito ad
assistere alla fondazione di Turi, dove
poté probabilmente incontrare Protagora, Erodoto
ed Ippodamo; non è da escludere un
suo contatto diretto con gli eleati.
Seguendo l'uso ar- caico, scrisse in versi;
uno dei suoi poemi, Sulla natura (Perì
Jjseos), trattava argo- menti cosmologici e
naturalistici, l'altro, le Puriftcazioni
(Katharmoi), aveva ca- ratteristiche spiccatamente
mistico-religiose. Il rapporto cronologico fra
queste opere e quelle di Melissa e
di Anassagora è incerto; sembra tuttavia
che egli le abbia composte prima di
quest'ultimo. La tensione fra i due
aspetti della perso- nalità di Empedocle -
tuttavia, come vedremo, profondamente interrelati
- ap- pare già dall'argomento dei suoi due
poemi; e si riflette in quanto ci
è noto della sua vita, pur attraverso
le molte leggende di cui fu ben
presto ammantata. Stu- dioso di fysis,
amava presentarsi come profeta e capo
religioso, e vagava per le città di
Sicilia seguito da turbe di seguaci
entusiasti; teorico di biologia e di micina
- anzi fondatore di una scuola di
medicina scientifica - si considerava però
guaritore e iatromante alla stregua di
Apollo, e vantava la capacità di ope-
rare miracoli; conoscitore attento ed
esperto delle technai, si atteggiava
tuttavia a mago. Interessante è il
caso del suo intervento a Selinunte:
la città soffriva di un'epidemia, dovuta
alle acque infette del suo fiume, che
veniva attribuita agli dei; accorsovi,
Empedocle risanò la città con incantagioni
e magia (di fatto rea- lizzando la
confluenza di altri due fiumi a monte
di Selinunte per purificare le acque
del primo). «Sciocchi! giacché non hanno
pensieri di larga veduta; essi credono
che possa nascere ciò che prima non
era o che qualcosa possa perire e
andar del tutto distrutta ... E
un'altra cosa ti dirò: non c'è nascita
alcuna di tutte le cose mortali, né
alcuna fine di morte funesta; ma solo
mescolanza e cangiamento di cose commiste,
e nascita si chiama fra gli uomini.
» In queste parole Empedocle esprime
limpidamente la misura della sua
accettazione dell'eleatismo e insieme le
prospettive della sua soluzione. L'impossibilità
che ciò che è derivi da ciò che
non è o vi si dissolva si
impone al filosofo di Girgenti come il
requisito fondamentale della realtà e della
pensabilità del mondo; e perciò egli
non può considerare se non come
follia il pensiero pre-eleatico. Tuttavia,
proprio in Melisso egli trovava la chiave
del riconoscimento della molteplicità del
mondo; giacché bastava riconoscere i caratteri
dell' «uno» melisseo -l'identità nello
spazio e la permanenza temporale - a
un certo numero di realtà distinte,
perché da esse si potesse dedurre
l'intera varietà del molteplice. Certo,
tale soluzione cozzava pur sempre contro
gli imperativi logico-metodici di Parmenide; ma,
come si è visto, Melisso aveva già
avviato la loro ontologizzazione, cioè la
loro trasformazione in realtà spazio-temporale:
aveva insomma avviato, nel linguaggio dell'epoca,
la trasformazione dell'essere in «pieno».
Da questa prospettiva melissea prendeva
propriamente le mosse Empedocle - come ha
messo in luce il Calogero - giacché
essa corrispondeva alla sua esigenza di
dar conto del mondo, nella sua
varietà quale si offre ai sensi, nella
sua segreta unità quale è colto
dall'anima, nella sua realtà cui il
pensiero non può rifiutarsi. Nel suo
presentarsi alla nostra osservazione, la
realtà appare indefinitamente diversa eppure
connessa da ritmi, da cicli, da
permanenze che ne formano la struttura
unitaria; così come accade per l'organismo
vivente, mutevole eppure uno, la realtà
appare un tessuto variegato di poche
sostanze semplici, un divenire scandito dal
ciclo delle stagioni, della generazione,
degli astri. Fedele per istinto alla
verità dell'osservazione, Empedocle concepiva
dunque il mondo come un organismo unitario
vivente e senziente, del quale nessuna
parte poteva venire arbitrariamente amputata
e tutte dovevano avere una loro
profonda giustifica- zione. Se questo punto
di vista ilozoico doveva trovare una
spiegazione non mitica, una più universale
razionalizzazione, occorreva infondervi i
requisiti melissei del vero; occorreva, una
volta reso molteplice l'« uno», trovare
un'armonia tra questo vero molteplice e
la molteplicità dell'esperito. Da questa
esigenza nasce il sistema cosmico di
Empedocle, una delle più potenti sintesi
teoriche del pensiero greco. Alla base
del sistema stanno i quattro elementi,
o piuttosto « radici » come li
chiama Empedocle stesso con un termine
che meglio corrisponde alla sua vi- sione
vitalistica del mondo: la terra, l'acqua,
il fuoco, l'aria (o meglio l'etere).
Tali elementi non sono nuovi nella
filosofia presocratica: si pensi all'acqua
di Talete, al fuoco di Eraclito e
così via. In tutti questi pensatori il
processo era consistito nell'assumere una
zona dell'osservazione empirica alla funzione
pri- vilegiata di principio o arché di
.fJ'Sis; nel rendere quindi assoluti alcuni
dati dell'esperienza per usarli come chiave
di comprensione e di spiegazione dell'e-
sperienza nella sua totalità. Identico è
l'approccio fondamentale di Empedocle: un'analisi
dell'osservazione lo porta a scoprire in
ciò che è osservato alcune costanti
fondamentali, che una volta generalizzate e
rese assolute, valgono a spiegare
l'osservato - di cui sono costituenti
essenziali - e l'osservazione stessa - di
cui sono canoni imprescindibili. Merito
specifico di Empedocle è tuttavia quello
di aver isolato, sia dall'osservazione diretta
sia dalla precedente riflessione naturalistica,
tutte e solo quelle costanti che
potessero valere da ra- dici, senza che
si fosse costretti, contro l'imperativo
eleatico, a postulare il mu- tamento di
una radice in qualcosa diverso da sé
(come avevano dovuto fare i monisti
ionici), né ad immaginarne un numero
eccessivo, che avrebbe ostacolato la
semplificazione e quindi la possibilità di
comprensione dell'esperienza. Ad ognuna delle
quattro radici Empedocle attribuiva dunque
lo status del- l'« uno» melisseo:
l'infinità e l'immutabilità nello spazio e
nel tempo, l'essere ingenerati e
imperituri, e di conseguenza l'assoluta
realtà e intelligibilità. Ciò non
significava tuttavia negare la realtà degli
infiniti altri oggetti dell'esperienza: ogni
singolo ente è il risultato di una
mescolanza delle radici, la sua nascita
è la formazione della mescolanza e la
sua morte ne è lo scioglimento;
benché in tali mescolanze le radici
entrino sotto forma di porzioni frazionali,
neppure nella minima di esse perdono
alcuna delle loro proprietà. L'individualità
specifica di ogni composto gli deriva
dalla diversa proporzione dei componenti
(così ad esempio le ossa sono formate
da due parti di acqua, due di
terra, quattro di fuo- co; il sangue
dal miscuglio perfetto I :I :I :I). Si
è visto in questa dottrina di Em-
pedocle un'anticipazione della chimica, il
che può anche essere accettato qualora
non si dimentichi, però, che le
radici empedoclee non solo erano concepite
come viventi ma anche come divinità
creatrici, in stretto rapporto con la
cosmogonia orfica. Se le quattro radici
potevano spiegare, nel loro vario comporsi,
la molte- plicità del mondo, esse non
davano tuttavia conto del suo infinito
divenire, del formarsi e dello sciogliersi
dei composti; unificavano cioè il reale
in senso sin- cronico ma non diacronico.
Empedocle introdusse quindi altri due
principi, questpiù spiccatamente dinamici: «
amicizia» e « discordia». Come le
quattro radici rappresentavano una
generalizzazione dell'osservazione naturale, così
queste due «forze» rappresentano una
generalizzazione dell'esperienza psichica, e
perciò allargano a tale settore la
capacità di comprensione e di spiegazione
del sistema. Nel mondo di Empedocle
non era tuttavia pensabile una distinzione
radicale delle due sfere, come abbiamo
osservato in sede introduttiva, ma
piuttosto una diversa funzionalità della
medesima realtà: come le radici sono
a loro volta viventi, così « amicizia
» e « discordia » sono coestese
e coeterne ad esse, e dunque non
meno di esse «reali». «Amicizia·»
simbolizza nel sistema l'attrazione del
dissimile, cioè l'impulso che spinge le
diverse radici a fondersi reciprocamente
dando luogo a composti sempre più
stabili; «discordia» rappresenta invece
l'attrazione del si- mile, cioè la forza
che spinge ogni radice a restare
coesa a se stessa, sciogliendo qualsi.asi
composto. Questi due principi sono stati
interpretati come cause in senso
aristotelico e anche, modernamente, come le
forze elettromagnetiche di attrazione e
repulsione. Benché anche questi siano
possibili sviluppi del pensiero empedocleo,
va ribadito che nel suo quadro
«amicizia» e « discordia» rappre- sentavano
soprattutto le funzioni essenziali di una
realtà vivente, in cui causa e
causato, forza e materia non potevano
essere distinte se non in modo
simbolico, non erano che aspetti
profondamente connessi di un unico mondo;
mentre poi esse rappresentavano l'aggancio
più immediato, come vedremo, alle vedute
religiose e morali, che a quel mondo
non potevano certo essere eterogenee. Funzione
primaria delle forze nel sistema era
comunque quella di promuovere il divenire.
Poiché tale divenire non poteva dar
luogo ad alcun mutamento dei suoi
contenuti fondamentali, secondo il divieto
eleatico, esso non poteva pre- sentarsi che
come ciclo: solo nel ciclo si dà
infatti ripetizione perpetua dei me- desimi
eventi e delle medesime strutture, solo
il ciclo concilia le sembianze del divenire
(l'esperienza umana non può carpirne che
una piccola frazione e ha dunque
l'impressione del mutamento) con la verità
del permanere, rivelata a chi penetri
nell'intimo della natura. Nel periodo
cosmico di assoluta prevalenza di
«amicizia», ognuna delle radici è così
strettamente congiunta alle altre che nessun
singolo ente sussiste di per sé: «Non
v'è discordia né infausta contesa nelle
sue membra ... Non più si distinguono
in esso le agili membra del sole,
né la forza villosa della terra, né
il mare, tanto fortemente sta legato
nei fitti segreti del- l'armonia, d'ogni
parte uguale e per tutto infinito,"
sfero "rotondo che gode della sua
solitudine circolare. » Nello « sfero
» è facile individuare l'« uno»
eleatico, non tuttavia visto come unico
possibile assetto della realtà, ma
conquistato dalla vittoria di un'armonia di
schietta derivazione pitagorica; qui emerge
anche il valore religioso e morale di
«amicizia», che significa concordia e pace
nel cosmo e fra gli
uomini. Agli antipodi sta il trionfo di «
discordia», che vede ognuna delle radici
ritratta in se stessa e ostile alle
altre, il che parimenti significa la
fine del mondo quale noi lo esperiamo
e comporta la negazione dei valori
etico-religiosiFra i due opposti regni,
stanno le vaste regioni in cui «discordia»
viene prevalendo su «amicizia», e quindi
scioglie le radici dal loro complesso senza
tuttavia contrap- porle del tutto; qui si
situa una prima generazione del molteplice;
e l'altra dove «amicizia» si a.dopera
a ricomporre l'unità senza poter ancora
scacciare del tutto «discordia», sicché il
processo di unificazione è ancora frammentato
in una mol- teplicità di enti: ed è
questa la seconda generazione del mondo
che noi osser- viamo. Va detto che
mentre il ciclo nel suo insieme è
determinato dalla neces- sità (ananke), la formazione
dei singoli composti è affidata al
caso (ryche) e che quindi la natura
che noi esperiamo consta della sintesi
di necessità e di caso. Questa veduta
è importante per la comprensione di
molte posizioni della scienza naturale
greca. Come si articoli concretamente il
ciclo nelle due fasi intermedie è
mostrato più chiaramente da Empedocle a
proposito degli organismi viventi, cui andava
il suo prevalente interesse (non a
caso è possibile paragonare l'intera vita
cosmica alle sistole e diastole del cuore,
e lo « sfero » appare assai
vicino all'« uovo » origi- nario presente
nel culto orfico ). All'inizio del
ciclo di «amicizia», in un mondo
ancora dominato da « discordia», si
venivano formando membra ed arti separati:
« Sulla terra spuntarono teste senza colli,
ed erravano braccia nude prive di spal-
le, vagavano occhi soli sprovvisti di
fronti»; poi queste membra si congiungono
a caso dando luogo a mostri d'ogni
specie: «e molti esseri nascere con
doppie facce e petti, e buoi con
facce d'uomini, o invece sorgere busti
umani con teste bovine, e forme miste
di maschi e di femmine, provviste di
membra villose. » Ma la gran parte
di queste forme viventi perivano,
sopravvivendo solo quelle più adatte alle
condizioni di vita perché meglio organizzate
nella propria strut- tura. È interessante
notare che in questo processo è
assente qualsiasi idea di finalismo
preordinato; i viventi si aggregano a
caso, ed è la selezione naturale che
decide della sopravvivenza di alcuni di
essi. Nell'opposto processo di «di- scordia»,
che viene disgregando l'unità cui
«amicizia» era finalmente giunta, si
formano dapprima creature complete, omogenee;
ma una separazione successiva dà luogo
alle creature del mondo in cui
viviamo, differenziate per sessi e per
la prevalenza in esse di una delle
radici (così nella costituzione dei pesci
prevale l'acqua, ecc.). Abbiamo già visto
come la struttura del nostro organismo
fosse interpretata da Empedocle mediante la
composizione delle radici in diverse
proporzioni. A spiegare la compenetrazione
reciproca delle radici, e i maggiori
fenomeni vitali, quali la respirazione 1
e il movimento del sangue, Empedocle
concepiva I Il resoconto della respirazione
va ripor- tato per la sua originalità
e tipicità. Il sangue si muove entro
pori i cui fori terminali sono abba-
stanza piccoli da non permettergli di
fuoriuscire, sufficienti però per lasciar
entrare l 'aria nel corpo. !utta la
spiegazione è costruita per analogia con
ti funzionamento della clessidra o pipetta
per il travaso dei liquidi da un
recipiente all'altro. Al- lorché il sangue
si ritrae dai pori, esso attira
l'aria che irrompe nel vuoto così
formatosi: si ha così l'inspirazione.
Quando il sangue torna ad af- fluire,
esso espelle l'aria dando luogo all'espira- zione
l'organismo come percorso da una fitta
rete di pori o canaletti (una teoria
in parte derivata da Alcmeone), la cui
struttura e le cui dimensioni giocavano
altresì una parte importante nel meccanismo
della sensazione. Esso è spiegato dal
filosofo di Agrigento mediante gli efflussi
materiali che ogni corpo emette e che,
giungendo a contatto del senziente, possono
o meno penetrare attraverso i pori
nel suo organismo a seconda delle
reciproche dimen- sioni; g~i efflussi sono
determinati dall'attrazione del simile, che
spinge le radici a ricongiungersi
attraverso la varietà dei singoli enti.
La spiegazione è da un lato meccanicistica,
dall'altro vitalistica perché appunto fondata
sull'intrinseca «ani- mazione » del corporeo;
di conseguenza Empedocle attribuiva la sensazione,
sia pure in gradi diversi, a
qualsiasi ente, perché ognuno, anche quelli
ai nostri occhi inanimati, era in
qualche misura partecipe della grande vita
del cosmo. Il pensiero non è per
Empedocle qualitativamente diverso dalla sensazione.
Contro le scoperte alcmeoniche, ed
introducendo una veduta destinata ad eserci-
tare profonda influenza, egli pose la
sede del pensiero e dell'attività razionale
nel sangue, esattamente in quello più puro,
prossimo al cuore che ne è la fonte.
Poiché il sangue, come si è visto,
consta di una mescolanza perfetta delle
radici, esso è il più atto a
riflettere la struttura del mondo,
essendole più omogeneo. Non v'è ovviamente
per Empedocle opposizione tra pensiero e
sensi, giacché entrambi convogliano, con
meccanismi fondamentalmente analoghi, il messaggio
profondo di una natura che non può
essere fallace in alcuna delle sue
manifestazioni. Poiché l'uomo è omogeneo al
mondo, la verità della sua conoscenza
del mondo non di- pende né dai metodi
né dai linguaggi che egli impiega; in
tal senso, sparisce il problema della
«via» parmenidea e del suo sempre
difficile rapporto con il reale. L'uomo è generato
dalle stesse radici e animato dalle stesse
forze che generano e animano il mondo
nella sua totalità; egli riflette il mondo
in se stesso, lo « com- prende»
proprio perché ne ritrova dentro di
sé l'immagine rimpicciolita. Il san- gue è
pensiero perché il sangue è principio
vitale e secondo Empedocle conoscere è propriamente
vivere fino in fondo la vita
dell'universo, sperimentarne la molte- plicità e
l'unità, l'eternità ciclica, gli intimi
legami che tutto quanto lo connettono.
Sparita così la tensione tra vero e reale,
tra uomo e mondo, tra mondo e divi-
nità, sparisce anche la presunta contraddizione
tra i due aspetti della personalità
di Empedocle, quello « fisico » e
quello « magico ». Ragione e mito non
sono che due forme di un identico
conoscere, due funzioni di un'unica realtà.
La conoscenza razionale è esposizione discorsiva
ed analitica della molteplidtà del mondo
quale essa risulta dall'azione di«
discordia?> e ci è rivelata dai sensi;
ma il suo scopo è quello di
rivelarci la verità di questa molteplicità
dando conto dell'unità che la informa
e della necessità che la domina.
D'altra parte, la conoscenza mitica è
penetrazione intensiva di questa unità e
necessità, è il porsi per così dire
dal punto di vista dello « sfero
» che simbolizza l'unità da un punto
di vista sia fisico, sia religioso,
sia morale; è drammatica consapevolezza,
tuttavia, della necessità del ci-do e
dd molteplice, nel loro decadere dall'età
aurea e nel loro fatale tornarvi. 1 Di
qui le « purificazioni », di qui
la dottrina pitagorizzante della metempsicosi
che adegua la sorte dell'anima al
ciclo cosmico. E la via alla
purificazione etico-reli- giosa è ancora una
volta, per Empedocle, quella di vivere
fino in fondo la vicenda -per il singolo
uomo, il dramma- dell'uno e dei molti, del
tempo e dell'eterno, della necessità e del
caso; la via della purificazione è quella
che conduce nel cuore profondo della
natura che sola giustifica l'uomo e
il suo destino, che sola gli. concede
conoscenza e potenza nel tempo, salvazione
nell'eternità. Sicché la leg- genda della
morte del filosofo sparito nella voragine
dell'Etna bene esprime, sotto questo
aspetto, la vocazione del pensiero
empedocleo. Si intende così anche il senso
dell'ambiguo atteggiamento di Empedocle verso
le technai, e del suo interesse profondo
per quelle che consentissero un immediato
controllo della natura (la. medicina, le
tecniche manifatturiere, la fisica; mentre
la matematica gli doveva sembrare
irrimediabilmente lontana dal mondo della
vita e quindi sterile). Non v'è nulla
di più ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla
tradizione di un Empedocle abile medico
e tecnologo che ciarlatanescamente am- mantava di
magia i suoi successi per guadagnarne
in prestigio. In realtà, l'oppo- sizione
fra technai e magia sarebbe sembrata
assurda ai suoi occhi. Al culmine
della sua capacità di penetrazione e
di controllo, la techne aderisce così
compiutamente all'intima vita del mondo da
diventarne, dall'interno, una forza agente:
il «mi- racolo» è una possibilità di
fysis che techne porta alla luce (non
troppo diverse dovevano essere le vedute
degli alchimisti rinascimentali). Techne si
situa dunque al crocevia di conoscenza
razionale-discorsiva e conoscenza mitico-intensiva;
come il problema del rapporto tra
uomo e mondo, tra conoscenza e realtà
s'era tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,
così a techne, allorché muova dalla
consapevolezza della struttura del reale, basta foggiarsi via via
ad immagine e simiglianza della natura per poter
penetrare sempre più profonda- mente in
essa, per paterne acquisire un sempre
maggiore controllo. Disvelandosi all'osservazione
dell'uomo, la natura gli aveva donato
la conoscenza; offrendosi ad una techne
che ne sappia comprendere i segreti,
essa gli concede l'accesso alla potenza:
sicché alla fine, nel volgere del
ciclo, l 'uomo diviene « profeta, bardo,
medico e principe », pari agli dei
immortali, come Empedocle proclamava di se
stesso. Data la natura della conoscenza e
delle technai, è chiaro come per il
filosofo di 1 «V'è un oracolo del
fato, antico decreto degli dei, suggellato
da larghi giuramenti: se mai alcuno
dei demoni (anime) che ebbero in
sorte lunga vita, macchi le sue
membra di sangue col- pevole, o seguendo la
"discordia" empio spergiuri, vada
errando tre volte diecimila anni !ungi
dai beati, nascendo nel corso del
tempo sotto tutte le forme mortali,
permutando i penosi sentieri della vita ...
Uno di essi sono anch'io, fuggiasco
dagli dei ed errante, perché fidai
nella folle "di- scordia" ... Da
quale onore e da quale ampiezza di
felicità, così bandito mi aggiro fra i
mortali! » (La traduzione di questi
frammenti, come di quasi tutti quelli
empedoclei citati, è del Mondolfo.) Ma
v'è la via del ritorno: « Ma
alla fine essi vengono sulla terra
fra gli uomini come profeti, bardi, me-
dici e principi, e poi assurgono al
rango di dei degni d'onore ... Io
vengo nelle vostre città quale un dio
eterno, non certo mortale, coperto d'ogni
onore. Agrigento non si ponesse il problema
della logica e del metodo. Il metodo
che egli in effetti usa va era
essenzialmente analogico: acute inferenze
dall'osservazione quotidiana, sia biologica (il
palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo,
il meccani- smo della respirazione), sia
fisica 1 (la riflessione, l'evaporazione, il
ciclo stagiona- le), sia tecnica (il
travaso dei liquidi, la manifattura dei
vasi, la miscelazione dei colori), gli
offrivano lo spunto per audaci
generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi
occhi queste estensioni non avevano nulla
di arbitrario, basate com'erano sulla
certezza di una fondamentale unità e
significatività di tutte le manifestazioni
della natura (una certezza, come abbiamo
visto all'inizio, a sua volta ricavata
dall'esperienza immediata, sia sensoriale sia
psichica). Allo stesso modo, l'espres- sione
linguistica di Empedocle non poteva che
tentare di riprodurre, grazie ad una
poesia potentemente sintetica e visualizzante, la vita
del mondo nella sua ricchezza; anche
qui, l'immagine poetica (la trasvalutazione
delle radici in divinità o in
«membra» del mondo, l'affiorare ovunque
dello psichico, del vivente, dell'orga- nico)
riposava sulla profonda verità che per
questa via si tentava di rivelare.
Tale dunque la risposta empedoclea al
nodo di problemi che si sono esposti
in sede introduttiva: una delle più
grandiose sintesi mai elaborate dal
pensiero greco ed anche una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio
che Empe- docle si assumeva era d'altro
canto totale quanto il suo sistema: o
quest'ultimo si rivelava davvero capace di
spiegare l'intero universo, o sarebbe
crollato tutto quanto, perché l'agrigentino
non offriva - né, date le sue
premesse, avrebbe potuto farlo - alcuna
regola di pensiero e di metodo
esterna al sistema ed atta a modificarlo,
a criticarlo, a renderlo più comprensivo.
La potenza del genio di Empedocle, in
tutta la sua ambiguità, si esercitò
sul pensiero greco ed oltre; e «
dinanzi a lui, » ha osservato il
Bignone, « le prospettive del mondo
greco si scompongono stranamente: è già
un antico rispetto a Tucidide, che è
di pochi lu- stri più giovane di lui;
e sarà, dopo più secoli, quasi un
contemporaneo rispetto a Platino e Porfirio
». Subito rifiutato dal miglior pensiero
filosofico-scientifico del v secolo, da
Anassagora ad Ippocrate, che vedeva nel
dogmatismo dell'esperienza, nel vitali- smo
mistico, nel rifiuto di ogni strumento
razionale di tipo logico-metodologico il
più mortale pericolo per un libero
progresso della ricerca, il sistema di Empedo-
cle apparve tuttavia a lungo come
l'unico che potesse garantire una sicura
base speculativa alle scienze nascenti,
dalla biologia alla fisica, l'unico che
ne assicurasse l'universalità. Così all'inizio
del rv secolo la dottrina dei quattro
elementi, la con- cezione organicistica
dell'universo (che presto significò anche
visione finalistica), il prevalere della
qualità sulla quantità, finirono per
trionfare della scienza ionica e passarono
in gran parte al platonismo del
Timeo, all'aristotelismo, alla medicina I
Il sole è il luogo dove l'emisfero
terrestre, che agisce come una lente,
riflette e concentra il fuoco emesso
dall'emisfero etereo; il mare è il
«sudore» della terra: sotto l'azione del
calore; la terra stessa è stata
disseccata dal calore al pari di un
vaso d'argilla; e così via. siciliana di
Filistione. Tramite questi canali, e sia
pure con aggiustamenti progres- sivi, tali vedute
percorsero un lunghissimo cammino, fino ad
affacciarsi al rinasci- mento e alle soglie
dell'età moderna. Qui tornarono a
scontrarsi con il meccanici- smo di tipo
democriteo, e risultarono questa volta
soccombenti senza però lasciar del tutto il
passo. Poco sappiamo della vita di
Filolao: nato a Crotone attorno alla
metà del v secolo, e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si trasferì a
Te be dove sul finire del secolo
lo troviamo a capo di una fiorente
scuola pitagorica, in rapporto con il
gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa
presenza di Filolao a Tebe, congiun-
tamente all'esilio peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un rifluire della filosofia
italica nella madrepatria greca, localizzato
non a caso nelle poleis che combattevano
Atene nella guerra del Peloponneso: il
pensiero ionico-attico si trovava così in
qualche modo circondato non meno di
quanto lo fosse, in senso
politico-militare, la sua metropoli. Come
abbiamo già avvertito, i frammenti di
Filolao sono stati a lungo con- testati
per vari motivi filologici, alla cui
base stava tuttavia la constatazione che
essi anticipavano un importante aspetto del
platonismo, e dunque la preoccu- pazione
che questo potesse risultarne sminuito
nella sua originalità. L'autenticità dei
frammenti è stata per fortuna rivendicata
dal Mondolfo e dalla Timpanaro- Cardini; ed
è chiaro, secondo una più corretta
visione storiografica, che il genio di
Platone risulta tutt'altro che diminuito
dalla consapevolezza che egli seppe fondere
in una sintesi critica gran parte dei
risultati del pensiero filosofico-scienti- fico
del v secolo, pur conferendo ad essi
la propria originalissima impronta. D'al- tra
parte, già questa considerazione impone di
dare alla figura di Filolao il posto
che gli compete fra i protagonisti della filosofia
preplatonica. Il problema centrale di
Filolao è analogo a quello di
Empedocle, ma i suoi punti di
riferimento speculativi sono meglio definiti, e
il suo approccio alla realtà è più
chiaramente delimitato dall'eredità pitagorica di
cui egli si faceva portatore. Certo, il
pitagorismo originario era stato travolto,
in campo matematico, dalla crisi degli
irrazionali, in campo fisico-filosofico, dalla
critica parmenidea al molte- plice e dalla
sua incapacità a soddisfare i nuovi
requisiti logico-metodici. Vedremo all'inizio del
capitolo xn come si svolse, attraverso
il v secolo e fino ad Archita,
il processo ricostruttivo delle matematiche
pitagoriche, al quale Filolao stesso diede
un importante contributo. Qui ci interessa
piuttosto il suo sforzo di ricostruzione
del pitagorismo come sistema globale del
mondo, compiuto innestando sul tronco di
quella tradizione la più matura consapevolezza
posteleatica. Si trattava innanzitutto di
salvare entrambi i termini della diade
costitutiva di uno e molteplice, di
limite e illimitato, dove il primo
termine assicurava la verità e l'intelligibilità
del secondo ma dove il secondo
garantiva l'estensibilità del primo al
mondo del reale, la sua presa
sull'esperienza, conferendogli quindi una
concretezza e una funzionalità sepza le
quali esso sarebbe stato confinato alla
sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma
non bastava più, dopo Parmenide, con-
trapporre la serie dell'uno e del
limite alla serie dei molti e dell'illimitato;
giac- ché su quest'ultima sarebbe poi
gravata la dichiarazione di assurdità e di
irrealtà, che avrebbe vanificato la
tensione insita nella diade. Il problema
di Filolao era dunque quello di
calare il principio di unificazione e di
verità profondamente all'interno della struttura
molteplice dell'esperienza, in modo da
garantirne con ciò stesso la realtà;
era di trasformare i termini della
diade in modalità e struttura intima
di un unico mondo, di cui essi
potessero dar conto nella sua to- talità.
La chiave più ovvia per la soluzione
del problema era, agli occhi di
Filolao, quella offerta dal numero.
Generato dall' «uno», e governato da leggi
che sempre all' «uno» potevano riportarsi
senza contraddizione, il numero era
tuttavia atto a fungere da limite al
molteplice perché ne rifletteva in sé
la struttura; ma la riflet- teva in
modo tale da renderla omogenea all'«
uno» e alla sua legge. Si consideri
ad esempio la decade (il numero
dieci): secondo l'analisi di Filolao, essa
comprende in sé tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità
ed è perciò stesso atta a comprendere
e ad organizzare il molteplice.! Ma
Filolao non poteva più arrestarsi alla
generica veduta pitagorica del nu- mero
come natura delle cose. Occorreva che
fosse davvero possibile, leggendo il libro
della natura, scoprirne i caratteri aritmo-geometrici;
da un punto di vista complementare,
occorreva dare una più precisa dimensione
spaziale al numero e concretarla di
una sussistenza corporea. Perciò, partendo
dall'assioma aritmo-geo- metrico secondo cui l
'unità rappresenta il punto, il due la
linea, il tre la superficie, il quattro
il solido, Filolao diede un impulso
originale e deciso alla geometria so- lida,
giungendo a costruire un certo numero di
figure semplici che si potevano age- volmente
riportare alle modalità fondamentali dei numeri.
Queste figure si assicu- ravano una prima
realizzazione grazie alla loro applicabilità ai
movimenti e alla con- figurazione degli astri, e,
tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso
assetto del divino. x Più efficaci di
ogni spiegazione critica sono le parole
di Filolao sulla decade: «L'essenza e
le opere del numero devono essere
giudicate in rap- porto alla potenza insita
nella decade; grande è in- fatti la
potenza (del numero) e tutto opera e
com- pie, principio e guida della vita
divina e celeste e di quella umana,
in quanto partecipa della po- tenza della
decade; senza questa, tutto sarebbe in-
terminato, incerto ed oscuro. Conoscitiva è
la na- tura del numero, e direttrice e
maestra per ognuno, in ogni cosa che
gli sia dubbia o sconosciuta. Per- ciò
nessuna delle cose sarebbe chiara ad
alcuno, né per se stessa, né in rapporto
alle altre, se non ci fosse il
numero e la sua essenza. Ora questo,
74 armonizzando tutte le cose con la
sensazione nel- l'interno dell'anima, le rende
conoscibili e tra loro commensurabili
secondo la natura dello gnomone, in
quanto compone o scompone i singoli
termini delle cose, così delle interminate
come delle ter- minanti. Né solo nei
fatti demonici e divini tu puoi vedere
la natura del numero e la sua potenza
dominatrice, ma anche in tutte, e sempre,
le opere e parole umane, sia che
riguardino le attività tecniche in
generale, sia propriamente la musica»
(trad. Timpanaro-Cardini). Da varie testimo-
nianze risultano le ingegnose deduzioni di
natura sia aritmetica e geometrica, sia
fisica, dalle quali Filolao traeva conferma
al dominio della decade. A questo punto
tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza di
una semplificazione del mondo fisico che
era assente nella tradizione pitagorica, e
riconosceva nel si- stema empedocleo il più
potente strumento in questo senso. È
propriamente nel- l'assunzione che ne fece
Filolao che le radici di Empedocle si
trasformarono in «elementi», avulsi ormai
dalla vita del cosmo ed inseriti su
di una più fredda strut- tura
numerico-geometrica. Nei quattro elementi,
infatti, e nello « sfero » che
li riassumeva, Filolao vide il veicolo
ideale per la conquista del mondo fisico
da parte dei suoi solidi geometrici.
Per via analogica, il cubo trovò il
suo equivalente nella terra; il tetraedro
nel fuoco; l'ottaedro nell'aria; l'icosaedro
nell'acqua; il dodecaedro, infine, nello «
sfero ». Da un altro punto di
vista, ciò equivale a dire che gli
elementi trovarono il proprio limite, la
propria forma, la propria armonia, infine
la propria razionalità nelle rispettive figure.
I molteplici oggetti dell'espe- rienza e le
loro mutazioni si presentavano ormai come
aggregati degli elementi e dunque come
composizione di forme geometriche semplici;
ma, imbrigliati dal limite, armonizzati
dalla figura, il loro variare nulla
più aveva di misterioso o di
irrazionale, sempre riconducibile com'era, sia
pure per vie complesse e non tutte
esplorate, alla legge del numero. Filolao
giungeva dunque a modificare così l
'assioma pitagorico che i numeri sono
le cose: « Tutte le cose hanno un
numero; senza questo, nulla sarebbe
possibile pensare, né conoscere. » Le
cose hanno un numero perché, come in
un universo cristallografico, hanno una
figura-forma che le delimita e che è
riconducibile a rapporti numerici; 1 e
perché sono inserite in un'armonia cosmica
che ne ritma il divenire e che
è anch'essa riconducibile al rapporto
(logos) numerico. Nel frammento che abbiamo
ora citato Filolao compie un'altra fondamentale
deduzione: poiché la nostra conoscenza, se
vuol essere ve- ra, non può che
muoversi dall'« uno» e seguirne la legge,
poiché il nostro pensiero non può che
essere -e di fatto, nella tradizione
pitagorica, è -logos mathematikòs, ecco che
il numero instaura la sua suprema
armonia fra pensiero e realtà, fra uomo
e mondo; ecco che il linguaggio
dell'uomo è identico al linguaggio di fysis,
e basterà affinarlo nel medesimo senso per
decifrare fysis tutta intiera. Così egli
ristrutturava il pitagorismo in modo da
adeguarlo alle esigenze posteleatiche e
insieme ne allargava l'orizzonte fino a
includervi le necessità di spiegazione
naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno
ricco di quello empedo- cleo, il suo sistema
si prestava a brillanti deduzioni
cosmologiche, ma, posto a confronto con
i problemi del significato e della
vita, era spesso costretto a sce- I È
interessante a questo proposito la fi- gura
di Eurito, un pitagorico del v secolo
spesso associato a Filolao. Eurito era
famoso fra i suoi contemporanei perché,
assegnato a qualsiasi og- getto reale un
determinato numero (non sappiamo come lo
ottenesse), egli dimostrava in un modo caratteristico
la necessità naturale del rapporto fra
l'uno e l'altro: si provvedeva di un
pari numero di sassolini, tracciava la figura
dell'oggetto in que- stione e incastr11va lungo
il suo perimetro tali 75 sassolini
(il numero atto a definire la figura
del- l'uomo era per esempio 250). Variando
le dimen- sioni dell'oggetto, il numero di
sassolini, che ne esprimevano i rapporti
essenziali, non cambiava. In tal modo
Eurito voleva stabilire visivamente la
relazione, tipica anche del pensiero di
Filolao, tra numero e forma limitante
gli enti reali: il nu- mero, tradotto in
forma, era quindi il principio di
individuazione e anche di intelligibilità
della na· tura. gliere la via del
superamento mistico alla maniera del primo
pitagorismo; oscil- lazione riconoscibile lungo
tutto l'arco della riflessione naturalistica
di Filolao. L'« uno», ipostatizzato
fisicamente nel «fuoco», sta al centro
del cosmo; dal suo rapporto con l
'infinito circostante- un rapporto paragona bile
al processo del- la inspirazione ed espirazione - si
è generato tutto quanto il cosmo, che,
come ab- biamo visto, consta di una
sintesi inscindibile di « uno » e
molti, di limitante e illi- mitato. Rinnovando
la meccanica celeste della tradizione
pitagorica, spinto a un tempo dall'esigenza
astronomica di spiegare le eclissi e
da quella mistica di asse- gnare all'«
uno-fuoco» il posto centrale dell'universo,
Filolao fece audacemente della Terra un
pianeta eccentrico e mobile come gli
altri, anticipando così di se- coli la
veduta di Aristarco. La medesima ambiguità
si riscontra nell'ipotesi di un decimo
pianeta, l' Antiterra, in aggiunta ai
nove conosciuti: si trattava, da un
lato, di costruire un modello di
meccanica celeste atto a spiegare fenomeni
quali la maggior frequenza, in uno
stesso luogo, delle eclissi di luna
rispetto a quelle di sole; e,
dall'altro, di trovare un 'ulteriore
conferma al valore universale della decade.
Analogamente ad Empedocle, Filolao riteneva
poi il sole percepito dai nostri
sensi un semplice riflesso focalizzato del
«fuoco » centrale. Filolao fu anche
attento cultore di biologia e di medicina:
operando nel solco della tradizione
alcmeonica, egli accoglieva da un lato
alcune posizioni del sistema vitalistico di
Empedocle, dall'altro, grazie proprio a
quella tradizione, appariva più vicino
all'empirismo esprimentesi nella medicina cnidia;
né poteva riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti di vista
aritmo-geometrici al campo della vita.
Proprio per questa complessità di
approccio, appaiono nel filosofo di Crotone
germi interessanti di teoria medica; essi
passeranno in Platone e in alcune
opere del Corpus hippocraticum, e per
un altro verso nella scuola siciliana
di medicina, ma non troveranno una
diretta continuazione per il progressivo
abbandono, da parte del successivo pitagorismo,
delle ricerche più propriamente naturalistiche.
Un primo movimento analogico permette a
Filolao di ravvisare nel ritmo della
vita organica una stretta affinità
cosmogonica. Principio costitutivo della vita
è lo sperma, il calore originario;
principio del corpo è dunque il calore,
così come il «fuoco» lo era del
cosmo. D'altra parte la respirazione
introduce nel corpo l'ele- mento freddo
necessario ad equilibrare tale calore,
proprio come l'inalazione del- l'illimitato
circostante da parte dell'« uno» originava
l'universo. Gli stessi organi principali
del corpo sono racchiusi in uno
schema quaternario analogo a quello degli
elementi, ed essi sono visti come
rispettivamente egemonici nelle varie classi
di viventi. Il cervello, cui corrisponde
il pensiero, è così egemonico nel- l'uomo
(qui è chiara l'eredità alcmeonica); il
cuore, cui corrisponde il principio della
vita sensibile, è egemonico negli animali
(prevalendo qui l'ispirazione empe- doclea);
l'ombelico, che presiede alla crescita
dell'embrione e alla vita vegetati va,
contrassegna la classe delle piante; i
genitali, infine, da cui proviene il seme
fecon- dante, individuano tutti i viventi
in quanto tali. In senso più
propriamente medicFilolao costruì un'eziologia in
cui i maggiori agenti patogeni, di
derivazione cni- dia, erano la bile (vista
come siero delle carni), il sangue e
il flegma o catarro che si originava
dalle urine ed era comunque il
prodotto di una infiammazione. I fattori
scatenanti i processi morbosi erano poi
ravvisati, alla stregua della dottrina
alcmeonica, nell'eccesso o nella scarsità
di alimenti, di esercizio fisico, dei
fattori ambientali necessari alla vita
dell'uomo. La teoria dell'anima era in
Filolao strettamente connessa alla concezione
del- l'organismo: l'anima rappresentava infatti
da un lato il respiro vitale, il
principio di refrigerazione che temperava
il calore corporeo e dava luogo alla
vita; dall'al- tro essa era l'armonia che
scaturiva dalla tensione degli opposti
elementi fisici - come dalle corde di
uno strumento musicale - e li teneva
connessi nel miracoloso equilibrio della
vita. L'anima era dunque la presenza
dell'armonia universale nel corpo vivente,
e d'altro canto l'espressione intrinseca
dei diversi fattori che si componevano
armonicamente a dar luogo alla vita
stessa. Così strettamente legata all'equilibrio
transeunte della vita organica, l'anima
individuale non poteva sopravvivere al
dissolversi nella morte degli elementi
corporei che essa armo- nizzava; ancora una
volta, per giustificarne l'immortalità secondo
il dettame pitagorico, Filolao era
costretto ad un trascendimento religioso
della propria dottrina. Al contrario di
Empedocle, Filolao veniva così offrendo al
pensiero sia filo- sofico sia tecnico-scientifico
uno strumento d'indagine dotato di una
enorme po- tenzialità: quello cioè dell'analisi
formale e modale della realtà, e
della sua tradu- zione nei termini della
logica aritmo-geometrica. In questo senso,
era fondamentale il suo apporto allo
sviluppo della matema- tica, che poteva
ormai procedere sulla via della
specializzazione arricchita della certezza che
qualsiasi sua scoperta avrebbe comportato
oggettivamente una più vasta e profonda
comprensione della realtà, avrebbe comunque
rivestito un signi- ficato universale. E
parimenti fondamentale - anche se destinato
ad un meno im- mediato successo - era il
suo contributo alla fisica, che per
la via della matematiz- zazione era avviata
ad una intelligibilità, ad un rigore
nuovi; un rigore persino superiore a
quello della fisica atomistica, che, come
ha osservato il Rey, avrebbe dovuto
basarsi sulla meccanica, una disciplina
molto meno progredita nel pensie- ro greco
di quanto non lo fosse l'aritmo-geometria
pitagorica. Se in epoca moderna matematizzazione
e concezione atomica della fisica erano
destinate a riunirsi, dando luogo al «
sistema del mondo » proprio della
scienza a partire dal Seicento, nel
mondo greco pitagorismo ed atomismo
restarono però a lungo contrapposti. Ciò
è dovuto anche all'ambiguità che abbiamo
visto sottendersi a tutta la speculazione
di Filolao. Il logos mathematikòs non
era soltanto, e non tanto, un metodo
del pensiero quanto la struttura
essenziale, garantita, dell'universo; il numero
non era tanto uno strumento euristico
dell'uomo quanto una realtà originaria,
primale, che garantiva la validità della
scienza, ma soprattutto la condizionava al
riconoscimento di sé, principio dogmatico
del conoscibile prima che del conoscere.
Già per la matematica, questa natura del
numero creava una situa- zione di
privilegio necessariamente ambigua: giacché essa
veniva trasvalutata in una sorta di
teologia razionale, secondo un processo che
sarà comune a Platone vecchio e a
tutto il successivo pitagorismo, sempre più
alieno dalla ricerca empi- rica, sempre più
portato a rifiutare il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e naturalistiche. Nel
senso di Filolao, assolutizza- zione delle
matematiche voleva dire dunque anche loro
isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e
contemporaneamente condanna ad uno status
non scientifi- co delle technai di
controllo della natura, dalla meccanica
alla biologia. L'accen- tuarsi della natura
mistica del numero - che all'origine aveva
anche significato l~ preoccupazione di una
saldatura tra uomo e mondo, tra
conoscenza e realtà - avrebbe scavato un
solco sempre più profondo tra il pitagorismo
e le tendenze più vive del pensiero,
conducendo da ultimo alla fusione tra
un pitagorismo teologiz- zante ed un
parimenti infiacchito platonismo. Filolao, con
tutta la sua ricchezza di interessi
metodici .e scientifici, era certamente
lontanissimo da tali esiti. Ma la sua
impossibilità di liberarsi da talune
ambiguità di fondo lo poneva già, nono-
stante tutto, su questa via. Gorgia nacque a Lentini.
La tradizione ci raccontà che e discepolo vuoi
dei pi- tagorici vuoi di Empedocle. Senza
dubbio riuscì a conquistarsi la stima
dei suoi concittadini, tanto è vero
che fu da essi inviato come
ambasciatore ad Atene per chiedere aiuto
contro Siracusa. Viaggiò per tutta la
Grecia, facendo ovunque sfoggio della sua
sottilissima arte dialettica che era basata
su una tecnica analoga a quella di
Zenone. Scrisse varie opere, fra le
quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e
il trattatello Intorno al non ente o
intorno alla natura (Perì tou me
ontos é perì Jjseos). Nella prima viene
svolta, con molta abilità, la paradossale
difesa della celebre eroina, scagionata da
ogni colpa per l'abbandono della casa
del marito, e viene intessuto l'elogio
dell'onnipotenza della parola, specie quando
essa è guidata dalla retorica: « La
parola è un gran dominatore, che con
piccolissimo corpo e invisi- bilissimo,
divinissime cose sa compiere; riesce
infatti a calmar la paura, e a eli-
minare il dolore, e a suscitare la
gioia, e ad aumentare la pietà.»
Nell'altra opera Gorgia espone, una
triplice tesi: a) nulla è; b) se
anche qualcosa fosse, non sa- rebbe
conoscibile; c) se poi fosse conoscibile,
non sarebbe esprimibile, «poiché il mezzo
con cui ci esprimiamo, è la parola;
e la parola non è l'oggetto, ciò
che è realmente; non dunque realtà
esistente noi esprimiamo al nostro vicino,
ma solo parola che è altro
dall'oggetto». La critica della vecchia filosofi
di Parmenide è qui evidente; essa si
fonda sull'equivocità del termine « essere»
usato ora nel senso di « esistere»
ora invece nel senso puramente copulativo.
Ma più ancora di questa critica è
impor- tante la chiarezza con cui si
pongono i problemi della conoscibilità e
dell'espri- mibilità (cioè i problemi se
tutto ciò che esiste possa, per il
solo fatto di esistere, venire conosciuto
e venire espresso). Abbiamo parlato, a
proposito sia di Protagora sia di
Gorgia, di critica al- l'eleatismo. Tale
critica investì certamente il tentativo
dell'eleatismo di stringere in una rigida
unità l'ordine del pensiero e del
linguaggio con quello della realtà
percepita e vissuta, e vi contrappose
la relativa autonomia di questi due
momenti. Ciò premesso, la critica moderna
tende tuttavia a non sottovalutarei legami
che connessero i maggiori sofisti
all'eleatismo, e non solo nel senso
che la situazione di crisi creata da
quest'ultimo rappresentò il loro punto di
partenza. Nell'ordine logico, i sofisti
accettarono infatti i requisiti di verità
imposti dall'eleatismo, quali l'identità
tautologica (di cui la orthoépeia
protagorea sarebbe una versione raffinata)
e la pregnanza di significati esistenziali
e copulativi del verbo «essere». La
rivendicata autonomia dell'esperienza vissuta si
tradurrebbe pertanto in una sizioni
professionali variano da individuo ad in-
dividuo, sicché ognuno, possedendone alcune,
è privo delle altre, la capacità di
contribuire a con- 93 servare e
perfezionare l'organismo sociale deve essere
considerata presente in tutti gli individui
normali. rinuncia a controllarla con strumenti
logici, e in un suo abbandono alla
psico- logia dell'individuo a sua volta
stratificato nella convenzione sociale. Questo
atteggiamento si tradusse, da un lato,
in una certa incapacità della sofistica
di comprendere l'originale rapporto di
logica ed esperienza che si veniva realiz-
zando nella scienza contemporanea (di qui
la polemica di Protagora e di Gorgia
contro la geometria, la fisica e,
indirettamente, contro la medicina); dall'altro,
nella tendenza a considerare il momento
irrazionale del profitto e della forza come
primario nell'ordine sociale, trascurandone le
esigenze etico-storiche. Questo non toglie
nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma certamente sottolinea
la vastità del compito di ricostruzione
scientifica, filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero greco dopo il fallimento
eleatico, l'esaurimento della filosofia della
natura e la critica sofistica. Non
sappiamo se a Crotone, quando vi
approdò Callifonte, l'asclepiade di Cnido,
cui abbiamo fatto cenno nel secondo
paragrafo, già esistesse una scuola di
medicina o se la sua fondazione si
debba a questo scienziato venuto dall'Orien- te.
È certo, tuttavia, che la scuola
conobbe una rapidissima fioritura. Già il
figlio di Callifonte, Democede, si guadagnò
la fama di miglior chirurgo del mondo
greco, e, fatto ritorno alla nativa
costa ionica, impose alla corte del re
di Persia la supremazia della nuova
scuola ellenica su quella tradizionale d
'Egitto. Toccò al crotoniate Alcmeone, nato
verso il 540, di portare la scuola
al suo massimo livello scientifico. E
soprattutto toccò ad Alcmeqne -che il
Wellmann ha definito a buon diritto
pater medicinae grecae - di rinnovare profondamente
il pensiero scientifico ellenico, condizionandone
lo svolgimento lungo tutto il v
secolo. A contatto attraverso la sua
scuola con le esperienze maturate dalla
historle ionica nel VI secolo, egli
entrò d'altro canto in relazione con
le filosofie i tali che che sullo
scorcio di quel secolo si sviluppavano
rapidamente: il pensiero di Senofane da
un lato, il pitagorismo dall'altro. Dalla
critica senofanea al sapere umano, Alcmeone
derivò la consapevolezza, via via affinatasi,
che l'osservazione empirica non può
immediatamente offrire la chiave della
conoscenza, che la verità non si
rivela tutt'intera a chi si limiti a
descrivere la natura. Con il pitagorismo,
Alcmeone mantenne rapporti su di una
base di autonomia, da scuola a
scuola; insofferente del carattere settario,
dogmatico, della dottrina e della prassi
pitago- rica, egli rivolse contro di esse
la sua critica teorica e la sua
azione politica demo- cratica. Fu tuttavia
profondamente interessato non solo dai
progressi che i pi- tagorici facevano compiere
alle. scienze naturali, ma soprattutto dal
loro tentativo di scoprire leggi
dell'esperienza che fungessero da principio
di organizzazione e di interpretazione dei
fenomeni osservati. Ecco dunque che sul
tronco dell'empirismo ionico, cui per altro
restava solidamente ancorato, Alcmeone veniva
innestando una problematica e una
consapevolezza nuove, la cui carenza aveva
sempre frenato, come s'è visto, i
progressi di quell'empirismo. Proprio con
la dichiarazione di questa acquisita
consapevolezza si apre l'opera di Alcmeone:
«Delle cose invisibili, delle cose mortali
gli dei hanno immediata certezza, ma
agli uomini tocca procedere per indizi
(tekmdiresthai). » Bastava un tale punto
di vista gnoseologico ad infrangere
l'illusione dell'immediata trasparenza dell'esperienza,
ad aprire la via ad una osservazione
critica dei fenomeni e ad un più
attivo intervento dello scienziato nella
loro interpretazione. Alcmeone si valeva
del principio così scoperto nel vivo
della propria ricerca scientifica, e
d'altra parte era la ricerca stessa,
divenuta criticamente più vigile, a confermargliene
la validità. Nel campo dei fenomeni
naturali egli non vedeva più alcun «
elemento »alcuna coppia di contrari, alcuna
arché che di per sé valessero a
spiegare la natura e la vita. Da
biologo, egli riconosceva piuttosto nell'empirico
una indefinita molteplicità di principi
attivi o « qualità », vale a
dire di stimoli capaci di de- terminare
nell'organismo una certa reazione fisiologica
(l'amaro, il freddo e così via); di
conseguenza, non v'era continuità fra
organismo senziente e il suo ambiente,
ma il rapporto fra l'uno e l'altro
era quello di stimolo e reazione
(questo è il significato della «
sensazione per contrari » attribuita ad
Alcmeone, in contrasto con la «sensazione per simili»
che, come s'è visto, fu tipica di
Empedocle). Parallelamente, Alcmeone scopriva,
grazie alla pratica coraggiosa- mente scientifica
della dissezione, che la funzione del
percepire è nell'uomo bensì diffusa nei
vari organi di senso, ma che essa
viene poi coordinata da un organo
centrale, e precisamente dal cervello. Con
questa scoperta Alcmeone non solo compiva
un progresso di fondamentale importanza per
tutta la biologia greca, ma trovava altresì
una decisiva conferma al proprio punto di
vista gno- seologico: la funzione del
cervello spezzava di fatto il legame
immediato fra uo- mo e mondo, fra
conoscenza e realtà. Ed Alcmeone rendeva
esplicita questa con- seguenza dichiarando che,
se la «sensibilità» è una proprietà
di tutti gli organi- smi viventi, la
funzione del « comprendere », cioè
del ridurre a sintesi significa- tiva
l'esperienza, e del «prender coscienza»
della sensibilità stessa è propria
esclusivamente dell'uomo. Il valore di
queste asserzioni si po.trà intendere appie-
no ove si ricordi che ancora una
generazione più tardi la dottrina della centralità
del cuore conduceva Empedocle a conclusioni
estremamente antitetiche. In ogni modo,
profondo era il solco così apertosi
fra l'uomo e la realtà che egli
vuol comprendere e trasformare. Il mondo
dell'esperienza riacquistava la sua concretezza,
e l'esperienza stessa veniva riconosciuta
incapace di dare spontaneamente conto di
sé. Così, lo scienziato riconquistava
un'autonomia e una possibilità di comprensione
e di controllo sul mondo, scoprendo un
punto di vista ad esso eterogeneo. Ma
Alcmeone si avvide di una conseguenza
decisiva di questa situazione: la realtà
si faceva a un tratto opaca agli
occhi dello scienziato; la sapienza, intesa
come perfetta trasparenza di tutto il
mondo all'uomo, restava ormai solo una
proprietà degli dei. In termini di
metodo scientifico, la sapienza doveva
allora venir sostituita dall'indagine, la
rivelazione dalla congettura, l'os- servazione e
le analogie che essa sembrava offrire
dovevano essere integrate dal metodo
dell'indizio e della prova. Quando Alcmeone
poneva il tekmdiresthai, il proceder
appunto per indizi, congetture e prove,
come metodo tipico della conoscenza umana,
egli conferiva una consapevolezza teorica alla
prassi della me- dicina, che doveva
interpretare l'esperienza per ritrovare in
essa un significato, un valore di
sintomo, e risalire così all'unità della
malattia e delle sue cause: una
consapevolezza che, come s'è visto, fece
sempre difetto ai cnidi. Sulla base
di queste prospettive teoriche, Alcmeone
poté anche offrire alla medicina una
dottrina fisio-patologica e un'eziologia unitaria
cui i cnidi non avevano potuto pervenire.
Le infinite «qualità» (4Jnàmeis) agenti nell'organismo,
formano nel loro stato normale un
composto (krasis) omogeneo ed armonico
(isonomia). La malattia nasce dalla rottura
di tale equilibrio e dal prevalere patolo-
gico (monarchia) di uno solo di
questi principi, oltre che per l'azione
di una mol- teplicità di fattori
ambientali. È importante notare, per
l'influenza che questa veduta ebbe su
Ippocrate, che Alcmeone lasciò indefinito
il numero delle 4Jndmeis, senza irrigidirle
né nello schema quaternario degli elementi
proprio della scuola empedoclea, né in
quello degli « umori » sviluppatosi
nella tarda scuola di Cos. Queste
determinazioni negative, le uniche che ci
restano delle 4Jndmeis alcmeoniche, sono
tuttavia importanti, perché gettano il seme
di una embrionale chimica fisiologica,
consapevole della molteplicità degli elementi
e dei composti (come ribadirà anche
Anassagora) e attenta soprattutto alla loro
sempre variabile funzionalità nelle sintesi
organiche. D'altra parte, rompendo anche
qui con tutta la tradizione
della_bsiologia, Alcmeone affermava l'irreversi- bilità
dei processi biologici e dunque l
'impossibilità del ciclo: « Gli uomini
per ciò periscono, che non possono
congiungere il principio con la fine.
» Troppo innovatrici erano tuttavia le
sue intuizioni, perché Alcmeone ne potesse
trarre tutte le conseguenze. La via
del metodo scientifico era stata indicata,
ma un lungo cammino doveva essere
ancora percorso perché quel metodo potesse
essere sviluppato e consolidato. Il
problema del rapporto fra pensiero e
realtà, fra teoria ed esperienza era
stato posto senza che le strutture di
quel rapporto potessero essere compiutamente
analizzate e rese esplicite. Questa
mancanza di una chiara elaborazione teorica
spiega come l'eredità alcmeonica si sia suddivisa
in due filoni diversi e contrastanti.
Da un lato, infatti, essa fu
riassorbita dalla fysiologia italica e
siciliana, che utilizzò alcune delle sue
conquiste scientifiche contestandone altre e
soprattutto annullandone via via la carica
innovatrice dal punto di vista del
metodo. Attraverso Empedocle, questo filone
dell'eredità alcmeonica passò, sul finire
del v secolo, alla scuola italica di
medicina, di cui diremo più ampiamente
al capitolo xr. L'altro filone ci
interessa qui più da vicino: tramite
l'autonoma ricerca medico-biologica, esso rifluì
nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque
nel suo crogiuolo ateniese, destandovi
immediatamente l'interesse delle più vive
correnti di pensiero. Ad Anassagora la
lezione alcmeonica apportava la veduta
dell'alterità del conoscere rispetto al
conosciuto, dell'inesauribile concretezza del
mondo empirico, del tekmdiresthai come
metodo della conoscenza; agli scienziati
che si raccoglievano intorno al filosofo,
ai medici come lppocrate, Alcmeone
insegnava l'importanza metodica del sintomo,
la centralità del cervello, le basi
fisiologiche della patologia; agli uomini
di cultura, agli storici come Tucidide,
egli trasmetteva analoghi spunti metodici,
e ancora il suo rifiuto della ciclicità,
la sua concezio"ne - così suggestivamente
trasferibile alle vicende umane- dell'armonia
come salute, della monarchia come sua
rottura patologica Seguendo questo secondo filone
dell'eredità alcmeonica, occorrerà quindi tornare
nell'Atene della metà del v secolo,
dove si venivano intrecciando i nodi
di tutto il pensiero scientifico greco
e grazie a ciò si ponevano le
premesse per le sue conquiste più alte.Nel
seguire al capitolo vn il filone
alcmeonico che si svolgeva attraverso
Anassagora e culminava in Ippocrate,
accennammo anche al permanere di una
scuola medica in Magna Grecia e in
Sicilia, nella quale l'eredità di Alcmeone
doveva però esser ben presto sopraffatta
dal prepotente influsso della fysiologia di
Empedocle. Quest'ultima era in effetti tale
da condizionare sia nelle premesse sia
nei metodi la ricerca medico-biologica,
promuovendone a un tempo lo svi- luppo
e indirizzandolo verso esiti estremamente
insidiosi. La concezione del inondo come
un organismo vivente pareva infatti
assicurare la fondazione più universale e
più valida alle scienze biologiche; e
la riduzione del mondo stesso a
quattro elementi primari, o archai,
sembrava a sua volta offrire uno
strumento decisivo per la comprensione
della struttura del corpo e delle sue
affezioni. La metodica da porre in
opera era pure esemplificata da Empedocle:
si trattava di battere la via
dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè co- stantemente i
fenomeni organici alla struttura di fondo
del corpo e la struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando in
quest'ultima una garanzia di ve- rità e
una premessa per ulteriori spiegazioni.
Entro tale orizzonte la scuola italica
si sviluppò lungo la seconda metà del
v secolo, finché sullo scorcio di
quello stesso secolo e nei primi
decenni del IV, Filistione di Locri
la condusse al suo definitivo assetto
dottrinale e metodico. Importante in senso
dottrinale l'elaborazione della teoria del pneuma
o «respiro», principio vitale che animava
la struttura elementare sia del corpo
sia del cosmo, e che valeva a
spiegare molti fenomeni patologici quando
la sua circolazione or- ganica risultasse
anomala. Ma soprattutto importante, dal
punto di vista metodico, era la
traduzione in senso biologico degli
elementi empedoclei, che certamente Filistione
derivava dalla scuola ma cui egli
conferì una forma destinata a domi- nare
per lunghi secoli il pensiero
naturalistico. Non immemore della lettera al-
meno dell'insegnamento alcmeonico, e impegnato
più direttamente di Empedo- cle nell'osservazione
dei fenomeni organici, Filistione trasformò
gli elementi in « qualità » o
principi organici attivi (c!Jndmeis): così
la terra veniva espressa dalla djnamis
«secco», l'acqua dall'« umido», il fuoco
dal« caldo», l'aria dal« fred- do »:
queste c!Jndmeis erano secondo Filistione
la forma specifica con la quale la
struttura elementare dell'universo si manifesta
nell'organismo umano; grazie tuttavia alloro
legame univoco con gli elementi, esse
non potevano diventare, come in Anassagora
ed in Ippocrate, stati relativi e
mutevoli degli oggetti em- pirici, bensì
restavano principi stabili e necessari
dell'empirico stesso. Il processo analogico
con il quale Filistione giungeva alle
quattro qualità era strettamente affine alla
deduzione empedoclea degli elementi, e non
occorrerà tornare a descri- verlo; e la sua
critica più pertinente, dal punto di
vista del metodo della medicina empirica,
fu del resto anticipata dallo stesso
Ippocrate in Antica medicina, come si
è visto al capitolo vn. L'importanza
storica della rielaborazione di Filistione e la
ragione del suo duraturo successo stanno
da un lato nell'aver offerto alla biolo-
gia uno strumento di spiegazione e di
semplificazione dei fenomeni pur sempre
dogmatico ma tuttavia assai più
riconoscibile nella concretezza dei processi or-
ganici di quanto lo fossero gli
elementi empedoclei (ad esempio il «calore
vitale» e il suo eccesso patologico
rappresentato dalle febbri si spiegano meglio
con le vicende della qualità« caldo»
che con la materia «fuoco»); d'altro
lato, toglien- do dalla fysiologia empedoclea
quanto vi era di materialistico e in
fondo di mec- canicistico, Filistione ne
troncava i pur possibili legami con
l'atomismo e la ren- deva assai meglio
accetta al prevalente indirizzo qualitativo
del pensiero platonico e soprattutto
aristotelico. Un'altra importante evoluzione egli
faceva poi subire all'organicismo del
filosofo di Agrigento. Mentre quest'ultimo
non aveva mai compiuto esplicita- mente il
passo che portava dalla concezione
vitalistica del mondo al ricono.sci- mento
di un finalismo in esso operante,
Filistione trovava, ad esito delle sue ri-
cerche anatomiche sull'organismo, proprio questo
grande principio esplicativo: che la
natura, e soprattutto la natura vivente,
è organizzata in funzione di un si-
stema di fini, che questa organizzazione
si ritrova allivello di .tutti gli
organi, e che dunque l'indagine biologica
non deve vertere tanto sul « che
cosa » e sul «come», quanto sul
«perché» finale dell'assetto dei fenomeni
studiati. Nel trattato sul Cuore (Perì
kardies) - dove tra l'altro, nonostante la
sua grande dottrina anatomica, egli rifiuta
Alcmeone per Empedocle e pone l'intelli-
genza nel cuore stesso - Filistione
concepisce quest'organo come la costru- zione
mirabile di un « buon artefice »,
che tutto ha predisposto affinché la
vita potesse aver luogo nel migliore
dei modi. L'incontro di queste dottrine
con il platonismo, concretatosi in quello
fra Filistione e Platone avvenuto in
Sicilia ver- so il 36o e dunque
all'inizio del periodo di elaborazione del
Timeo, doveva ave- re conseguenze incalcolabili
per la scienza della natura greca.
Attraverso Platone, passarono infatti ad
Aristotele, che le adottò ancor più
risolutamente del maestro, e grazie a
lui conquistarono una egemonia per lungo
tempo quasi incontrastata. Ma prima che
tutto questo avesse luogo, le posizioni
della scuola italica fa- cevano sentire la
loro pressione sulla stessa scuola di
Cos postippocratica, e oc- correrà ora
seguire gli estremi tentativi di
quest'ultima di salvare la techne, «l'an-
tica medicina », da così agguerriti
avversari. Già si parlò nel capitolo v
dell'opera di Filolao,; qui vogliamo ancora
accen- nare ai progressi compiuti, nell'ambito
della matematica, dal filosofo e scienziato
Archita, vissuto a Taranto tra la
fine del v secolo e la prima
metà del IV, ultima figura di
statista pitagorico. Egli resse per lungo
tempo la sua città incrementan- done la
prosperità e la potenza militare, facendone
la prima della Magna Grecia. Si
ritiene che Archita abbia applicato la
propria dottrina matematica alla mecca- nica
militare, e, poiché sappiamo pure che
fece uso di strumenti meccanici per ri-
solvere problemi geometrici, si può dire che
per primo (e sfortunatamente con pochi
imitatori per molto tempo) egli intuì
la fecondità teorica e pratica di una
rela- zione fra matematica e meccanica.
Profonda fu l'impressione che la
personalità di Archita suscitò in Platone
in occasione del suo soggiorno a
Taranto nel 3 89. In campo
matematico, Archita riprese il problema di
Delo secondo le linee tracciate da
Ippocrate di Chio, e lo portò a
soluzione mediante la rappresenta- zione
strumentale di figure geometriche in
movimento. La soluzione di Archita è
troppo complessa per essere qui riportata:
da essa risulta comunque che egli era
familiare con i processi mediante cui
si generano cilindri, coni e altri
solidi di rivoluzione, e che fu il
primo ad usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico. In questo modo,
Archita offriva il primo esempio di
applicazione della geometria dello spazio
alla soluzione dei problemi di geometria
piana, e insieme dava inizio alle
ricerche che concluderanno alla teoria
delle coniche. Ma quello che va messo
in maggiore rilievo, è lo spregiudicato
coraggio con il quale Archita faceva
ricorso - nonostante la polemica·platonica - a
tutti i metodi e gli strumenti che
permettessero di far progredire la ricerca.
Parimenti ardite le sue impostazioni in
aritmetica e in acustica: quanto alla
prima, egli contribuì a sviluppare il
concetto che il numero è essenzialmente un
rapporto, perciò in- dipendente dalle condizioni
di commensurabilità e razionalità, e poté
quindi tor- nare a rivendicare la supremazia
dell'aritmetica fra le scienze matematiche;
quanto alla seconda, egli scoprì che
il suono è dovuto al movimento e
all'urto dei corpi, e che l'aria è
un corpo atto a ricevere la
vibrazione e a propagarla La tradizione, che
fa di Archita uno dei maestri di
Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a
simboleggiare la funzione del tarantino nel
passaggio dalla ma- tematica del v secolo
alla grande fioritura che ebbe luogo
nel IV. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto
né di problemi speculative. Il loro interesse
si concentra tutto sul problema giuridico,
per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente.
La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato
colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,
minacciando di alterarne quei caratteri che costituie la base stessa del suo successo come
civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come Catone, se ne avvidero immediatamente e cercano
di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto
ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della
Macedonia, fossero cacciati da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre
filosofi (Critolao, rappresentando il Liceo, Diogene
di Babilonia, il Portico, e Carneade, l’Accademia).
Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel
Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce
a conquistare la parte più intelligente dell’elite
romana. Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra
il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di
Roma, che fonda la propria potenza sul territorio
strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I
filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare
Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a
fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni,
la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a
studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti
personalità politiche. A Roma e per oltre
un decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio
si lega particolarmente al circolo di Scipione Emiliano,
detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico
romano -- comprende oltre allo storico Polibio,
i maggiori rappresentanti della. cultura
romana del tempo: Terenzio, Lucilio, Caio
Lelio, Quinto Elio Tuberone, ecc. Roma
comincia a diventare un centro culturale
di notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che
la filosofia, con i successi ora
ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre
a Roma la propria stampa.
Che non sia stato così ce lo dimostra il
fatto semplicissimo. Mentre il greco si e
rapidamente diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per esempio in
Egitto), tanto da diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della cultura, nulla di
simile accadde a Roma. Nel campo linguistico, la
resistenza del gran Catone riporta piena vittoria. I
romani ‘filosofano’ in latino, arricchizzendo
il vocabolario. La civiltà mediterranea finì
a poco a poco per diventare latina. Nel
campo della filosofia le qualità più
caratteristiche del temperamento indigeno romano -
buone o cattive che fossero - non
andarono sommerse. La ripugnanza per la speculazione
astratta (‘scolastica’), l'interesse volto più alla conclusion
pratica che alla premessa, la spiccata attitudine
del filosofo romano all’azione, fanno sentire il
peso della loro influenza. I notevoli riflessi
di questo temperamento caratteristico dei
romani hanno conseguenze nell'ambito della ‘filosofia romana.’
Ora può essere opportuno - per dimostrare
l'immediata efficacia che tale spirito ha sugli
stessi studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi
partico- larmente significativi: Polibio e
Strabone. Polibio fu invia,to a Roma
come ostaggio dalla lega achea e vi
rimase per oltre sedici anni, nei
quali ebbe modo di assimilare profon-
damente lo spirito di quel popolo.
Scrisse in greco le Storie (in
quaranta libri) sulle imprese di Roma;
opera solitamente considerata come un
grande trattato, oltreché di storia, anche
di geografia descrittiva, per l'enorme
ricchezza di notizie riferite sugli usi e
costumi dei vari popoli presi in
esame. Orbene il modo con cui è
concepita quest'opera è una prova evidente
che Polibio intende la ricerca scien-
tifica in maniera .completamente diversa
dai suoi connazionali. Proprio nulla,
infatti, lo interessano le teorie generali
e tanto meno le ipotesi sulle zone
lontane e mal note del mondo; esse
non meritano la sua attenzione, perché
prive di im- mediata utilità. Secondo lui,
ogni indagine seria deve essere
giustificata da un ben preciso scopo
pratico. Il compito, per esempio, che egli
si propone è quello di istruire i
romani intorno al mondo mediterraneo in
cui hanno svolto e svolge- ranno le
loro conquiste: tutto ciò, dunque, che
fuoriesce da questo programma non può
che apparirgli privo di senso e
dannoso allo sviluppo della ricerca. Da
un punto di vista metodologico merita
di venire notato che la storiogra- fia
di Poli bio presenta alcune affinità
con quella di Tucidide: la ricerca
tenace della certezza, l'analogia- da lui
resa esplicita- con il metodo della
medicina, la rinuncia ad ogni abbellimento
retorico. Ancora più profonde sono tuttavia
le differenze che lo separano dal
grande ateniese. Polibio credeva nella
diretta fruibilità della storiografia come
magistra vitae, nella autonoma significatività
delle informazioni riferite quanto più
possibilfedelmente, e si ricollegava in tal
modo alle teorie sia di Isocrate sia
di Teofrasto. Gli era ignoto lo
sforzo di com- penetrazione tra ragione e
fatti che Tucidide aveva cercato di
attuate nel suo me- todo storiografico,
convinto com'era che solo da esso
potesse scaturire quella essenziale verità
della storia la cui «utilità» era
certamente meno immediata ma più fondata
e più generalmente feconda. In tal
senso la storiografia di Polibio sta
a quella tucididea esattamente come la
filosofia ellenistica sta a quella del
v e del rv secolo. Strabone visse
un secolo e mezzo dopo (63 a.C.-25
d.C.). Nato ad Amasea nel Ponto da
una famiglia di sangue misto greco-asiatico,
fu anch'egli fortemente influenzato dallo
spirito romano (come ce lo dimostra
la decisione con cui so- stenne il
dominio politico di Roma). Compì lunghi
viaggi e scrisse una Geografia
(Geograftkd), ampio trattato in diciassette
libri. Ebbene, questo trattato dimostra, non
meno della storia di Polibio, il
nuovo tipo di interessi che anima il
suo autore: brevissima è la parte
dedicata all'aspetto matematico della geografia;
ricchissimeLa filosofia postaristotelica e
diffuse sono invece le notizie sugli
usi, le istituzioni, la storia dei
paesi via via presi in esame. La differenza
fra l'indagine di Strabone e quella
compiuta dai geo- grafi alessandrini di
qualche secolo prima non potrebbe essere
maggiore. L'og- getto di studio ha
conservato lo stesso nome, ma il modo
con cui è condotta la ricerca
dimostra che il significato stesso della
scienza è completamente mutato. L'espressione
più caratteristica dell'interesse prevalentemente
pratico del filosofo romano nell'ambito delle ricerche,
è l'eclettismo. Non che esso sia nato
per opera del filosofo romano, né che tutti
i filosofi romani sono direttamente o
indirettamente legati ad esso. Ma nell'ambiente
culturale di Roma, l’ecclettismo trova le ragioni
del suo successo. Il
suo più illustre sostenitore e Cicerone. Per
trovare un esempio di filosofo romano
che non ha compiuto alcuna concessione
all'eclettismo, bisogna riferirsi a Lucrezio. La particolare posizione di Lucrezio non è
che la conseguenza logica della sua
adesione a un sistema o dottrina. Già sappiamo, infatti,
che una dottrinapuo essere un unico indirizzo
dmantenutosi costantemente fedele alla propria
concezione teoretica, e. g. del giardino, senza
evoluzioni interne, e questa sua stessa
staticità esclude che abbiano potuto
sorgere seri tentativi di conciliazione fra
esso e gli indirizzi avversari.
A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire
filosofi romani che non mostrino qualche venatura
di eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Espli-
citamente eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma
anche del genio militare Marco Terenzio Varrone; atteggia-
menti eclettici caratterizzeranno i grandi filosofi
romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del Liceo e l’Accademia.
del periodo del principato. Un po' di
eclettismo, mescolato con molto della “Scesi”, puo
venire
ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e
gli spiriti più raffinati della filosofia romana,
come per esempio in Orazio, che riusce ad esten-
dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche
caratteristiche degli epicurei. L’eclettismo ebbe
le sue prime affermazioni nella cosidetta Accademia
e nel Portico. Esso rappresenta
un tentativo di soluzione della crisi che la
filosofia stav attraversando a Roma, e rispecchiò una
diminuita fiducia da parte di ciascuna delle
sette - nei propri principi..
Da questo punto di vista possiamo giustamente
sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del
rigore e la gravitas dello spirito filosofico, una
profonda stanchezza e una mancanza di
originalità. Esprime anche, però,
la raffinata consapevolezza dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione
di poter
trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi
generali, la via per una comprensione e per una
soluzione a un problema più interessanti per il filosofo romano concreto. Da
student, Cicerone ascolta
con molto interesse le lezioni di filosofi
che,come Filone nell'Accademia e Posidonio nel
Portico, sostenneno la necessità di
un'evoluzione filosofica in senso eclettico,
e si lascia da essi facilmente
convincere che qualcosa di buono si
trova di fatto in varie dottrine,
specialmente nei loro precetti d'ordine
pratico, che
il più delle volte coincidono,
pur venendo fatti derivare da pri11cipi
molto diversi e in apparenza quasi
antitetici. La adesione del avvocato Cicerone
all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente
di studiare con sincero interesse tutta
la storia della filosofia romana,
sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla
accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della
eloquenza latina permitte a Cicerone in particolare, di
trovare espressioni eleganti e so-brie per
le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice
nelle Tusculanae disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta,
e su di essa le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani
nelle faccende attive della vita, puo esserlo
anche, se mi riuscirà, standomene ozioso. Se Cicerone ha il torto di dimenticare, in queste parole, il
contributo dato alla filosofia romana da Lucrezio,egli riesce tut-
tavia
ad esprimerci molto bene l'animo con cui si
accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di
filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un
gravissimo vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente che,
se anche non introduce Nessun concetto originale,
il semplice riuscire a mettere in
circolazione, tra I suoi amici, un patrimonio così
serio come lo e la filosofia costituie un merito di cui
i concittadini dovranno
essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concitta-
dini, ma tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza
gallilei) anche i posteri, poiché i suoi
scritti rappresenteranno per molti secoli
una delle principali fonti per la
conoscenza del pensiero filosofico.Tra
le principali saggi e dialogi di
Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane),
il “Delle leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male,
“La natura degli dei,” “Sui uffizi), il
Sogno di Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio,
(un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente
Agostino, e che era un'imi- tazione del
Protrettico di Aristotele), ecc. E callunniante asseverare
che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo.
Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,
le espone in modo tale da poterle
utilizzare a favore della concezione
eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,
ora invece la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso
dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di Cesare.
Proprio Cicerone aveva pubblicato, postumo, il
poema di Lucrezio, e tale dimenticanza
è dovuta probabilmente alla posizione
dichiaratamente anti-giardino da lui assunta in
sede filosofica.
con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente -secondo Cicerone
-
che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici
discussioni, non prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e
coordinamento delle tesi,
una preoccupazione appare costantemente presente
in Cicerone: quella di rendere ogni romano consapevole
dell'immenso valore della filosofia.
Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere
il valore esatto di essere umano, delle nostre conoscenze;
solo la filosofia ci insegna a
guardare con effettiva serenità la vita,
mostrandoci con chiarezza ove risiede la vera
felicità . Non v'è dubbio che,
per il senso pratico dei romani, questa
capacità della filosofia dialettica costituie la
sua più seria giustificazione: unica
giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e
da tutti accettabile Marc’Aurelio Antonino nacque
a Roma . Salì al trono imperiale alla
morte di Antonino Pio di cui era
figlio adottivo; E convertito al portico dalla
lettura di Epitteto. Scrisse il “ad seipsum,” una
delle più interessan i opere filosofiche
della sua epoca: Colloqui con se
stesso (Ta eis heaut6n), ordinariamente
nota col titolo di Ricordi (in dodici
libri). Le note dominanti della sua filosofia-
nella quale emergono sempre più chiari i
caratteri dell'ultima Stoa - sono un disprezzo
ascetico di tutti i beni esteriori e
una profonda religiosità. L'essere divino
non è semplice fato, ma è soprattutto
provvidenza universale. Il rapporto dell'uomo
con dio è un rapporto di effettiva
parentela, che di conseguenza viene a
legare fra loro tutti gli uomini.
Oltre ai caratteri ora accennati, è
tuttavia presente in Marco Aurelio un
carattere nuovo, evidentemente connesso proprio
al tipo di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in
sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria
carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha
quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai
compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la
forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del
portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in
una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità.
Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa
sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza
dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi
edifici, ma non riuscea a comprendere l'interesse della vera e propria
ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche
direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia.
Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la
massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto
che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere
i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle
varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose
dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse
dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli
Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde
giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo
lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani --
direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di
tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale,
che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno
saggi di ingegneria di qualche pregio, il più importante è Vitruvio,
ingegnere militare di Giulio Cesare e Ottaviano. Il suo saggio principale, “De
architectura", reca evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica e
dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio
ricorda infatti esplicitamente Ctesibio, riferendoci
parecchie sue invenzioni (la pompa, una balestra ad aria compressa,
l'argano idraulico, ecc.). Il voluminoso trattato di
Vitruvio s’articola in libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti:
dalla preparazione filosofica richiesta all'architetto ai problemi
specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati,
all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di
indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per
studiare la cultura tecnologica, e in generale i costumi
dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur
sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario
d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,Vitruvio non può
nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione,
ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e
ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta,
onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi
l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di
esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice
pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una
profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi
aveva manifestamente studiato troppo poca
matematica. Più che di ingegneria la
cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati
di Catone, di Varrone e di Columella. Fu proprio una disciplina tecnicoscientifica
parallela all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più
originali: l 'agrimensura, detta gromatica
dalla groma, lo strumento che gli
agrimensori romani usavano nellamisurazione dei terreni. Il codice
Arceriano ci ha conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui
si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti
compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le
città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle
campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i
tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire
questi funzionari imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto
pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali religiosi
che accompagnavano le loro opere. Fra i maggiori autori
agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera
di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e
infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano,
autore anche di un'opera di arte militare sugli Stratagemmi e di
un'opera sugl’acquedotti di Roma, “De aquis
urbis Romae”. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed with science
as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which
is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types in general use it
– pensée – the idea is something like science, mathematics, philosophy, you
name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started philosophy is
interesting. According to Geymonat it was a generational thing. Catone did not
want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e.
philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is that it
attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock knocking at
the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years later Carneade
and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two comments. For
one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane – would have
something like the Americans call a Rhosdes – they would go to Athens as a
‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione Emiliano started
a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio Terenzio, Cirilio,
Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly interesting comment
Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who called themselves
philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he quotes) did write,
respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman ear’. Geymonat
speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a fourtfold way:
concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather than the premises
– prattico --. So the history by Polibio is only one that may interest a Roman,
a far cry from Thucydides philosophical prose! And the geography of Strabone
has no information on calculus and measures – only bits about institutions of
people the Romans might conquer – nothing about foreign distant lands! The
second most notable remark is then that Scipione Emiliano paid lip service to
the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is seen by the mere
fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano – unlike the
Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of the Eastern
Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins survived this
fashion for things Hellenic! – Geymonat spends enough time on what Cuoco calls
‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and Metoponto – where
Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis, and philospophy
traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and Melisso – reductio
ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti, and that crazy one,
Empedocle, who however wrote some witty things about the four elements (in
verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at Crotone under
Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of Archita of
Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia of Lentini
– and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic origin, and is
molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords:
ragione -- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di
Catone con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I
Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a
Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione
armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Ghersi – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher
-- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi
has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s
something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi
appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s
inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi
enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite
humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just
fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s
personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly
appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s
favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a
frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none
otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in
all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.:
Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide
SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Ghezzi – i tordi ubriachi – filosofia italiana – dirtto artificiale -- Luigi
Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored
‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was
condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it
started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’
– and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics
– also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice:
“Typically of Italian philosophers, he has explored Italian history, ‘ceneri del diritto,’ and a
confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La
Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente
d'Italia. Marginalità e Società, ell'Università
degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il
positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il
tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità,
devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto
Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con
particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico",
introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza”
sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del
nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come
“l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice”
e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico
o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi
contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo.
La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto
come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi
saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente
riferiti a Ghezzi. Altre opera: “Socialismo e sociologia giuridica:
"Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore
nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo, I e II, Patera Palermo Editore, Diversità e pluralismo. La sociologia del
diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina,
Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso
simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La
dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di
Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della
Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio.
Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano Federalismo laico e democratico, Mimesis,
Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano, Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis,
Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della
volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della
morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e
mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti,
alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come
valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno
al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di Ghezzi e Arduino,
C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U.,
edizioni Raccolto, Alle origini
dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine
pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica
contro politica”; Morris L. Ghezzi, edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto,
cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan),
Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger,
Morris L. Ghezzi, Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di
Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica
amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio
permanente sulla criminalità organizzata, Carola Parano, Giuffrè Editore, Stefano
Carluccio, In ricordo di Morris Ghezzi, anima della Società Umanitaria, su
CriticaSociale.net. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del
territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura
“Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia
giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza
del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi
giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su
dialettica e filosofia. Etica contro
politica, di Elias Diaz, Ghezzi, edizione Iesi,
L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul
territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Renzo Gallini,
Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con
richiamo ad art. Di Ghezzi in “Marginalità e Società, II”. Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello
Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario
Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti
storici, Giuffrè Editore, Morris L. Ghezzi, Federalismo Laico e Democratico,
Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Carlo
Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al
Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto
diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra
formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»
Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia",
richiama Morris L. Ghezzi 3 in: Governo dei giudici. La Magistratura tra
diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Ed. Feltrinelli, Berzano,
Gallini, cita di Ghezzi “Alle origini della labelling theory e del concetto di
devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis,
Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di Ghezzi. “come sostiene
Ghezzi essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di
fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando
nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e
crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi
e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive M. Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca,
Silvio Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi,
in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute
sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di Ghezzi (Il
Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero
dell’autore. Giulio Giorello si
intrattiene sul testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne
riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma
dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da
"Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo
di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come
estetica, Furio S. Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come
Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo
del dubbio, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica
(Domenico Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora,
Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Claudia
Roxana Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones
jurídicas de Ghezzi, Il futuro del
diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di Ghezzi, Metodo di ricerca sul rischio sociale, Marco A. Quiroz Vitale, Esistenzialismo e Nihilismo come confini
aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto
come Estetica, Emanuele Severino,
Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione
del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. Ghezzi, Mimesis, Milano,
“Prefazione” di Domenico Mazzullo, “Introduzione” di Giulio Giorello, In
“Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Marco A.
Quiroz Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als
sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione
del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte".
Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis, Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime
parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Cirus
Rinaldi e Pietro Saitta (a cura) in Devianze e crimine, Antologia ragionata di
teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario Minna,
Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici,
Giuffrè Editore, Sociologia del diritto
Filosofia del diritto Criminologia. zi Le doverosità statutarie
ritualirischianoc, on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione
rilevanza originaria, per trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi
quella dimensione creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a
nascita. Dunque, anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si
rischia di far scivolar e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei accomandarono
I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure moltopiacevolee,
comunque retoricamente orientata riempire semplicsi paziscenograficei non ad
essere strumento di autoriflession inedividuale di riflessione collettiva per
la fratellanza tutta sul passato, nonché potente strumentodi stimolo creativo per
affrontare con consapevolezzale realtà future. Pur troppopiù che un rischio tale
situazione si e negliuliimi tempi manifesta t ac o m e avvenimento. Conseguentement
pea r e necessario, prima di entrare direttamente nella sostanza delle questionsiulle
quali riflettere, ricordare brevemente il significatto tradizional e profondo
della relazione morale propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia.
Per comprendere tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di
chi e preposto alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione
Regolament di el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe
assoggettar ma il volere del destino. JohannWolfgang Goethe
assegnano al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico
(ex art. 119 Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente
as volgere queste stesse funzion ainche ex art. 36 Reg., funzione i competenze che,
per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo,
nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la
relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art. 28, letter ad, Cost., in
quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex
art. 38, lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non
può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle
funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione storica
all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e facile comprender
ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio criticodelle attivita svoltee,
soprattutto, della loro incisivita sia all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione,
nonché un programma ed un impegno di attività per il futuro. Dunque, da un
lato, il Grande Oratoree tenuto nella propriarelazionemoralea richiamare l'attenzione
della Comunione sui temi, che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando
nael meno uno,e, dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi
componenti, dei fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza caomportamentale,
che non può essere intesa come mera correttezza giuridica. Conseguentemente la presente
relazione morale verrà idealmente divisa in due parti, l’una riguardante la
situazione morale e giuridica della nostra comunione, e de credo, a tutti
evidente quanto sia necessario un generale richiamo in questa direzionem, entre
l'altra rivolta aite mitrattatei da trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale,
sociale. Per meglio svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale
ho reputato opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero
lavoro solitario dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle
riflessioni della Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente
proficuoai fini dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di
aspettative in materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul
territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione dell'organizzaziod
nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie della nostra tradizione.
A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i Fratelli che avessero desiderio
di partecipar vai, Massa Marittima presso la R. L. Vetuloniae colgo questa
occasione per ringraziare i Fratelli della R. L. Vetulonia per la loro calorosa
accoglienza, nonché tutti i partecipanti all'incontro per i preziosi contribut
fiorn i t i alla discussione. L'incontro ha visto la partecipazione numerosa di
molti Fratelli come singolic, ome rappresentandti associazion ciol legate alla nostra
lstituzione e come operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent
pier tuttii partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose
ed utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora, dunque,
tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita dell'iniziativa,
posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa strada anche in future
ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo modello di incontro.
L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine profana della Libera Muratoria
per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata offuscata dai pregiudizi, dalle
calunniee, talvolta, anche dalla congiura del silenzio perpetrate contro di noi
dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci di integralis meidi totalitarism piolitici,
religiose, i FILOSOFICHE dii ogni colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso
per insipienz ai gnoranza o d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche
dal nostro stesso seno e si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un
masochistico cupio dissolvoi adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo,
peggio ancora, ad una profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di
fratelli, che erano e sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi
fenomeni, sebbene ancora presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat
di a lunghi anno negli antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il
nostroVenerabilissimo Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica
profana grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze
a di impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo
dire, la battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella
società democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica
positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor etra
Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano fedelmente,
anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e le nostre
iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene da
estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le istituzion piubbliche
hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti, riconoscendo cin taluni
ambiti, che storicamente ci appartengono, come interlocutori qualificati
(partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici, etc.); i messagg di elle massime
Autorità dello Stato alle nostre manifestazion si ono ormai diventa te una
felice consuetudine, sempre piu frequentemente politici ed amministrator piubblici
partecipano alle nostre iniziative culturali e le Comunioni massoniche estere guardano
alla nostra realtà con rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società civile ci
ha restituito il ruolo che storicamenti en ltalia e sempre stato nostro.
Poiché, però, nessuna Conquista nella storia umana e definitiva e quandoci si
ferma a contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi rischiadi perdere quanto si
è faticosamente conquistato, non solo è necessario perseverare nell'impegno sino
ad ora profuse nella costruzione della nostra imagine pubblica, ma e altre sì indispensabili
entensifica ruelteriormente in modo operare attraverso un radicamento sempre piu
profondo sempr epiù rigoroso tale impegno e, soprattutto, della nostra imagine nell'azione
sociale effettiva, nella nostra reale presenza storica, nelle azioniche
quotidiana menctei ascuno di noi deve compiere per essere degno della maestranza
cui appartiene. Nelle attuali societa postmodern e l'immagine è molto, talvolta
quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin serve anche la sostanza da cui
tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio nella via iniziatica liberormuratori
all’immagine non dovrebbe essere il vuoto simulacro di irrealistiche
aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della realtà, di cio che vogliamo
esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil Grande Oriente d'ltalia.
Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio necessarie in una societa come
la nostra, per corsa da apparenze sempre più invasive m, a eproprio la nostra natura
iniziatica e tradizionala e imporcdi i essere cio che desideriama opparire P.
erraggiunger qeuesto obiettivoe indispensabil perogettared, a bravi architetti,
una fattiva presenza nella società in cui viviamo; una presenza che sia
significativa, ttraverso le nostre opere.dei valori che da sempre rappresentiamo
T.arepresenza avrà la prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore
e chiamatoa fare come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio
comportamento il buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor r e t t a anche
dalla presenza dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare
maggiormente incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più
istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza sociologica
d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion liazzazion deeisingoil
comportamenti. La situazione interna della nostra Comunione si presentaa, d una
analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e ricca di prospettive per il
futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di taluni fratelli, più animat
di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe o, tre b b ef a r pensare il
contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci onsegui tpiarlano più e meglio
di qual sia s pi e t t e golezzo o d i quals i a s si composto dissenso. La
Comunion es i present ai n costante quantitativa, crescita sia sia qualitativea
segna I'affermarsdii un deciso ringiovanimendto eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon
deve essere trascurato non soloe non tanto perch eil futuroe dei giovani ma
soprattutto perche sono le vecchie generazioni che manifestanmo aggiori
difficoltà ad abbandonaruen modello di Libera Muratoria non consononé alla nostra
tradizione iniziatica ne alla realtà storica attualment esistente. Nel generale
panorama, non solo nazionale, di diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico
(Rotary Club, Lions, partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello
liberomuratorio conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in
contro tendenzae riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei
qualificate forze giovanili. O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon
rinnovatoi mpegno per garantire al nostro interno un ambiente semprepiù
favorevole ad una crescita iniziatica comune. Le adesioni scatur i sconod a
aspettative e l e aspettative piu diffuse sono proprio quelle che hanno
caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica
qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop,
urtroppole note iniziatich deel Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart sono troppo
frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen atinimati
dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La Libera Muratorianon
puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion pi rofanee neppure
un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera Muratoria è una
scuola di perfezionament ion dividua l e finalizza t oa l b e n e dell'Umanita
d; i questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a memoria a
pena d i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e necessario stigmatizzare
negativamente quei comportamentci he, nascendo da uno smisurato narcisismo personale
p, ongono il proprio io in posizione assolutae tentano di imporre il proprio
modo di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni on solo contrastano con
il nostro basilare principio di tolleranza, manche con quella visione relativam,
olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabil si ono quei profani
comportamenti che mercanteggiancoarriere, grembiulie riconoscimenti, prescindend
do a capacità, convinzioni i d, e e e progettoi perativi. Deve risultar eb e n
chiaro a tutti che le funzion iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in
Loggia e nell'lstituzionien, genere, sono servizi prestati alla comunitàe non
orpelli, gerarchieo privilege di a esibire, se non ancheda ostentare.
esibizionei d ostentazionsi i configurano come veri e propriabusi delie
funzioni ricoperte. Se vissute correttamente tali funzioni debbono essere intese
comeonerie, per tanto, non dovrebbero da readito ad alcun litigio in
sedeelettoraleo di nomina alle medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun
interesse personale a ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito
e quellodi servire la comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài
giungonop,oi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti
interni alla nostra Comunione. Questo comportament o c , ertamente favorito dai
moderni mezzi di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.) , induce
prendere posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta
pausa di riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Rispondaelveroquantoaffermo?
E'opportunaoffermarloF? Accioilbene della nostra Comunità affermandolo? Etc. L'azione
dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così immediatcaheprecede il
pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t reiflessioneI . danni d'immagin peernoi
tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà razional deeipochis, i diffondono
profani, trai che leggono iunquele nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea
capirle, ma sempre comprendend cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania,nche
peggiori dlquellpi roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare,
poi, I'uso ormai diffusodi giuridicizzarie contenziosi . -giuridica, interni,
abbandonand lao noslra tradizionme orale i,niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei
tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli
nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano all'interno
della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare direttamenatei
Tribunadliella Repubbliclataliana D. ella illegittimiatà nche giuridicadi tali comportamenst
ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le degrade moralede-lltaradizionme-uratoria,
l comportamen dtei scritti sono decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic,
on estrema algradodi Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo
dovere è di praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele
loro necessità, d i a lleviar e le l o r o disgrazie e d i assiste r l ci o n i
vostri consigli e co l v ostro affetto . e u e s t e virtù, che nel mondo
profane sono considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un
dovere gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei
Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non dovrebbe
rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo ilmeglio c,he inessagiàvive,
pe riniziareun percorsodisempre crescent peerfezionamento. ll Libero Muratore non
può rappresentare il cittadino medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della
società. Fortunatamenltae maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli
meravigliosi, che si distinguono per profondità iniziatica e generosità civile.
Poche piete gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di
Massa Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad
unanumerosaseriedi temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare
momentostorico C. ertamentie temi individua eticheo raverrannoes postni
onsononuo viallanostra Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati
da tutti. In convergenz caonleistanzechedapiirparti della Comunion leibero muratorisailevanol,
apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed all'etica della
responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come ilnostroc, henon
dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi chiaîezzi al
rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che animaquestotema. MaxWeber fu,forse,
il più illustre sociologioedesco della prima metà del secolopassato efucertamente
-postindustriale un acuto osservatore critic dellasocietà e burocraticac'hein
quegli annisi stave formando all'ombra della minaccia dellegrandi dittatur europee,
allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse ociologeo videnziava, primo
poterec'hetendevanao spersonalizzare le decision piolitichien dividuali e
lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona enchesullasolitudinde ell'esserue
mano di fronte alcrescent peoliieismdoei valori del mondo modernop;oliteismo,
chetuttorain esorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa fronte di un
politeismo dilagantenell'estremo soggettivismo, Weber concentrl a apropr i a
analis si u l comportam e n r t ao zional e e sul momento etico, per m a t é i
i a lizzar e dei valoriun comportamento orientato ad un relativismo operativoi
,spirato a à u n a org a nizzazione tutta umana e democraticda ellèsocietà W.
eberaf frontail tema fondante delle societàmoder Àec:omepossano funziona rele
società industriali di massanel rispetto delleindividualit pàersonaluimane? E',dunque,in
questo quadroche I'etica dellalibertàr, i volta allatuteladel singolo essereumano,
deve coordinarsei conciliars cion I'etica della responsabilità, fìnalizzata gli
interessci ollettiveid istituzionalNi. ulladi più attuales, oprattuttoa,
llalucedei present pi roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t
tutela dellelibertà individuaeli di sicurezzad, i partecipazione democraticea
di esigenze di governo p,er citare solo pochi esempi. Aldilà,. comunqued,eg Lsipecificciontenut
ciulturalieberianiiil sempiice richiamao questo Autores primeunelementfoondanie
dellaTradizion leiberomuratoria: a a parlare da trasmettere cheessi rivetano.
in luogo,i mèccanismi burocratic diel incalzae rischiadi sprofon darnel nichilismlo
e dalnulla I'impegno civile e sociale sostenuto da un'etica
radicata nella nostra cultura iniziatica, ossia individuale, personale, propriadi
ciascun LiberoMuratore. La nostraTradizione iniziatica ci assiste ed accompagna
nelle impegnative prove, che I'attuale realta storicaci presenta e, noi, peressere
all'altezzadita leTradizioned, obbiamo essere capacidi re interpretarla a l
presente, non d i ripeterla al passato. La Tradizione e t a l e perc h e s i
pon e fuor i dalla storia in un a perenn e attualitan, onin un richiamo cristallizzato
ad un singolo attimo del tempo passato. La centralitaeticadel nostrolevigarela
pietra grezza di noi stessisi impianta sulle due colonne DI UNA PROFONDA
CONOSCENZA FILOSOFICA e di una altrettanto profonda consapevolezza morale. lgrandi
insegnamenti che ci giungo nodai simboli, dai riti, dalla sapienzae dai lavori dei
nostri Fratelli passatae dalla nostra lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE
FILOSOFICA e morale. Dunque, ciascunodi noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei
nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigoro soportatoredi comportamentisi
pirati alla nostrapiu rigida moralità.Troppo spessosi sentono talun i Fratelli vantarsidi
conoscenz esoteriche, poi, il loro comportamenteo paragonabilae quello dei
peggior pi rofani.Troppo spesosi assiste alleiamente ledi talunifratellpi
erl'assenzad insegnamenti poi, massonci, e loro persistenta essenza non solo a dibattitei
convegnim, aanchee soprattutto agli stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano
taluni fratellli amentarsdii quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae
non domanda rsciosaessidanno allaLiberaMuratoriaT. Uttiquesti comportamenti
rivelanounaassenzadi vera e profond amorale libero muratori a D. e l l ' assen
z da i conoscenza non e n e p pure il caso di parlare. Fortunatamen ta ef r o n
t ed i queste degenerazio nl ai gran parte dei Fratellsi i distingu epe r i
mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict a radizional deella Libera Muratoria.
Per favorire la crescita della nostra lstituzione necessario in, una societa dimassa,
giuocare suigrandi numerie, quindi, selezionare dai grandi numerii migliori uomini,
per inserirlai l nostro interno. Se si raffrontano quantitativamenite Massoni
dell'ottocentiotalianoa quelli attualied entrambi alla rispettiva dimensione numerica
dellasocietà, nellaqualeviviamoe vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto
sotto dimensiona Nt i o. n c r e d o che si poss a pensa r ec h egl i i tali a
n di i oggi siano peggior di i quelli d i ieri, forse , come sembra no testimoni
artealunenostre realtainterne al Grande Oriente è, vero il contrario E.dallorae
nostra carenza non dare la possibilitai migliori di entrare nella nostril stituzione.
questa Su comunicazion è ecentral e e molto s i e fatto in tale direzione s , i
a attraverso incontr pi ubblici, sia grazie ad un a ricca pubblicistica, sia,
in fine , attraverso la presenza s u i mass media. Non si deve r a l lenta r s
l ' impegni on queste direzioni, ma tale impegnopotrebbetrovarefattoridi
moltiplicazionaettraversoun sistematico coordinament noazionaledegliinterventiI.
noltreil moltiplicarscio ordinatodi una rete associazionistica sul territorio nazionalepotrebbedivenireun
utile strumentoa, l contempod, i diffusione dei nostril principei di
informazion ientornoallenostre iniziative, ma anchedi selezione di coloro cheintendono
avvicinarsai noi. A questa selezion esternadeibussantdi eveanche corrisponderuena
selezioneinterna dei Fratelli. Non casualmentegli insegnament liberomuratorvi
engonoim partitsi u tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro) p,
ertantonon puo essere il mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i
grado. Solola conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i
salarioc, omebene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s ca t u r i s
c e dalla somma del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola
selezione non puoche avvenirea seguito di una costantepresenza in Loggiae di un
sistematico lavoro personale di ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii
gradi, nonsoloin quello di Apprendista e ,d, in particolare, i lavori in terzo grado
dovrebberoessere valorizzati, affinchesi possaconstata reche il Grande Orientee
composto da Maestri c, he lavoranonel loro gradoe non in gradodi Apprendistal.l
grado di Maestro e il vertice della nostril stituzione, pertantod , eve
informarela maggioranza dei lavori ritualidi Loggia per evitare che le
ritualitadi altri gradi prendano il sopravvento, snaturando nlea forza iniziaticail:
avorida Apprendistra estano per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi
anni il Grande Oriented' ltaliaha promosso una crescent organizzazion deella
Comunio neal fine di potenziar nela presenza socialee la capacita internadi
creicita qualitativae quantitative In.fattis, emprepiùnumerosei culturalmente
rilevantsionostatii convegnil, etavolerotondee gli i n cont r si i a pubblic si
i apri v a t i ; l a nostra p resenz a sul territorio e s t a t a r a î forzata
da consistent i impegni per fornire a i fratell s i e di dign i t o s e m; a
necessi t a ancor a s i a una maggiore partecipazi o n i e n t erna a i lavor i
della Comuniones,iaunapiu adeguata organizzazione storiche. Rispettoal tema
della partecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debba insisteremoltoper costituzionalech,
e megliorappresentlei attuali esigenze evidenziarnela doverositaolt realla
necessità T. uttaviapare opportune ribadire come la radiceprofonda della Libera
Muratori ari s i e d a n e i tre gradi dell'Ordine e non negl i ulterior gir a
di dei Riti , i qu a l i , a l massimo , possono essereconsiderati delle articolazionsi
pecificheD. unque, nessuna camera rituale puo sostituire sopperi realla carenzadi
lavori nei primitre gradi. Questa riflessione dovrebbe convincere tutti i
Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incrementodi lavoriin cameradi
Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita iniziatichdei
dettacamera. Riguardo , poi , alla nostra organizzazione costituziona l ei
nterna , pa r e necessario constatare com egli episod i cei d occasio n a li in
terven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di disposizioni
spes Ào si constatala stradala contraddittorio carente, abbianoormairesa
evidente la necessitàdi una organicae completari scrittura della nostra Costituzionee
deinostrRi egolamenti. Infattir, isultasubitochiaroa chiunque studila nostril stituzionceome
alla struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae, tc.) della nostra Comunion sei
sovrappongaper dalla nostra appartenenza precisa ad una realtà storicau,
nasovra struttuar associazionistica di inevitabile sapore profanoP. oichenone
possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla societàc, uisiappartienae
pieno titolo,la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci on
l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei . di
pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo delloconfederale
originarivo ersoun modello federale piùo meno centralizzaìo. neirecentpi
rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte allealsociazioni
civiles, i a d ella Liber a Muratoria , siadelrapportocheintercorre pertanto
traquestedue realtàstoriche. Dobbiamo stupircci heancheil
nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi percarriere,
grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di prevaricazion Lea. Libera
Muratorisaialimentadiidealie di spirito diserviziofraterno. In ultimo, ma nonultimo.
A chiusuradi questa relazionme oralemi sembra opportuno
ricordardeuespecifichtematiche, sono dovuteaffrontarein
questoprimoannodellanuova Gran Maestranza. prima intorno allatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria
ed al degradocomportamentale, derivato e, me r s i i n occasion ed e l r i n n
o v odelle cariche di é i u n t a e continua tpi e r v i c a c e mente anchenel
Corso delcorrenteanno. La seconda investe irapporttira Ordine Corpi Ritualei
dhaportato allastesuradi nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on ordine. ll
primotemaaffronta I'ormadi iffuso mal costum dei ricorrerealla giustizia
ordinaria perpresuntedisarmonie in materia libero muratoria, prima anche di
esperire il foro domesticeo di cercare concordiafraterna,come dovrebbe essere nostro
dovere fare. Inolt;e, tali scontrigiudiziarisi connote naoncheper la violenza,
la ripetitivite à la caparbiareiteraziondei atti,citazionei,sposti, richiest de
i accertamentin via preventivaed in via risarcitoria, querele,richiestedi
prowedimentiourgenzae quant'altro consenta I'articolato ordinamentgoiudiziario
si sommaancheun corrispondente di massa (giornalil,eúere,siti internet,
esigenze socialei giuridichdeipendenti etc.)ai e giuridic armonicae,ntrola
qualesvolgereinostri architettonici finedi costituireunaunitàistituzionale
lavori D' el resto tale problemaha naturaTradizional peo, ichenon nasceoggrm,
aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della Massoneri OaDerativa. La
Tradizione costituzionale della Muratoria Universale, Infattil, e Loggesovranesiunisconoc,
onservandlaopropriasovranitàp,erformareuna Gran Loggiam, ail sistemaè
lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale. comeperaltroè
awenuio anchenellecostituziosntiatal (iSvizzera, U.S.A., In sintesis, i è
materialealla Costituzion feormaleorigtnariaC.iòha sovrappost uana, cosìdetta dai
giuristi C, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointorno all'autonomidaelle
Logge, comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano. Maanchea
presclnderdealleantinomied, allelacunee dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo,
comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec,
ristallizzate nellaloro immobilitàIn. Questi ultimai nniabbiamo assistit aollerapidetrasfor,
Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuove esigenze. Owlamente
I'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe, nendo anche conto
delle dimension ci rescendtiella nostral stituzioned, elle regolamentazioni,
che si sonodate le altre Massonerie stranieree, delle normative degli ordinamengtiii
ridici statalie sovranazionali. .. Una ultima riflessjonmei portaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò
divenireuna organizzazion perofana. Essa è e deve restareuna
lstituzioneTradizionaleIniziaticaper il perfezionamento dell'essere umano. CiÒ,
erò,presuppone non iniziatico, simbolico e rituale, debb a ancheche i Fratelli avivanoinquestospiritoe,
italianoP. eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione
e-mails, ms, etc.), perlo più anonimo, tendentea screditare la nostra lstituzionaédín,
particolaie, alcunsi uoi esponendtii verticeN. onparenecessarisooffermarsui
llaprofaniteà, spessoa, ncheilliceitàgiuridicdaitali
comportamenstie,mbra,inveceo, pportuno sotlolineare comeessirendanodi dominio pubúicole
nostre c o n t e s ei n terne, violando non certo il segreto massonico p, o i c
h én o n viè nu l l ad i segre i oi n simili miserie umane,ma umiliandoil
buongusto,il dirittodei fratellai d una immaginepubblica internodistesoed alla
riservatezzadelle proprieproblematiche f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità
ed ancor più I'accanimenntoel la litigiosità -una sono pessimbi igliettdi a
visitae forniscono immagine Oriente d'ltalia. finedi evidenziar
qeualidebbanoessere i comportamenti correùiinialematerianella nostra Comunioneln.
Nostra lstituzioneT.utti possono percepire idanniche questsi considerati Poiché
il Grande Oratore traipropricompitiistituzionali quello haanche di interpretare
e di custodirle leggiho reputatomio precisidoverecompiereun lavorodi
esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l chesi La riguardala riflessione
chène è connessoe deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad
un clima breve, risultaevidenteche la nostraTradizione non consente
un facile ricorso alle giustizie or6inariein materia liberomuratorie,
comunquen, on tollera una eccessiv animosita neldifenderàl" proprie presunte
ragioni. Se non e possible parlare dell'esistenzna el nostro ordinamento giuridicodi
una vera e propria clausolacorx promissorai assimilabil ae quelletipichedell'associazionism
proófanoe, tuttavia evidente come il ricorso alla grustizia ordinaria venga costantementv
eistoe vissuto comeun comportament poatologicoe talvolta anchecomeuna vera e propria
colpa massonica L.asituazionesi aggravaper I'attoiequalorail giudizt o
massonico o anche solo quello profano di a a lui torto; poiche in tàle caso si
evidenzia senza equivocei d incertezzeun comportamentnoonfraternoneiconfrcntdi
elconvenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche ho provveduto ad
una analisi delle nostre fonti di diritto, analisiche gia evidenzia quantosopraesposto,
ma che raccomandapiù puntualmi odifiche normativenei nostril regola menta il
fine di rendere esplicita a, nche sul piano associazionistico,
nostroordinamentgoiuridicodi unaclausola compromissoria. ll pareresulle fonti
del diritto libero muratorio del Grande Oriente d'ltaliae sul vincolodei
Fratellai limitarsni
eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll
secondorilevantetemaaffrontatoin questoanno massonicori guardai Protocoldl i'lntesatra
il Grande O r i e n t ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo
anche i comportamenti che hanno costretto ad affrontaretaletematicanon sono
certo commendevolei rivelanoilmaisopitotentativo delle arganizzazioni
ritual di i costituirsciomeuna MassonerianellaMassoneria, come un livello
superiore di controllò dell'Ordine Libero Muratorio dei primi ed unici tre
gradi, contravvenendo in tale modo alle regole massoniche internazional mentrei
conosciute. Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati
all'applicazion delle normative internazionali in materia ed hanno inteso
pericolosa, correggerela anchese tra Ordinee CorpiRituali
nuoviProtocolldi'lntesasifondanosuquattro
forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al finedi
ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriented'ltalia,
svolgeuna indiscutibiled originaria'funzionieniziaticamente fondantee
giuridicamente legittimante regolarizzantreispettoai Corpi Rituali. | Corpi Ritualihannotuttiparidignitadi
fronteal Grande Oriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit
daovutead oggettive differenze storiches, onougualipertuttii Corpi Rituali.
Ordinee Corpi Ritual gi odono della più assolutae reciproc autonomiaE. ',
quindi, fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi
interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavita dell'Ordine ed in modo
particolare nei momenti istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi
governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenere incompatibili
dell'Ordine de I Corpi Rituali. l-e normative interne dei Corpi Rituali devono
essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtie conosciute
particolare, ed, in a quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia,nonche,
ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei
Protocoll di 'lntesatra Grande Oriente d'ltaliae Corpi Rituali viene riportata
per esteso nell'alleganto. A conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare
con profondo doloree fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia
Grande Oratore Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato
all'Oriente Eterno. La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli
idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hanno avutoil privilegiodi
conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare quanta nobilta generosita e d amore
fraterno albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed
amicoscomparsovoglio dedicareal suo ricordoquestemie brevi
riflessiondiiuntempogiovanileormaiperduto: RINTOCHI Se le campanesuonanos,
egnando il miofato; seilgiornoe lanottecircolarmente si avvicendano; Conil triplice
fraterno saluto. se il mare arrotolacadenzatriicciolbi ianchi; se i
montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonte
guida alla madre, ma tu sei un rigido segmento. IL GRANDE ORATORE. Prima di
formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche rivolte,
soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire che sono
infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad Agostino Carrino ed a don Paolo
Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto de- dicare al mio
lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la
ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che
non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi,
diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti
vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni
affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e
curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti
appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della
struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia
dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che
né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non
assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei,
eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano,
che separa il divino dall’umano, è scelta meramente arbitraria e priva di un
solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che mai, metafisico o
religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la
sintesi teologica, il ponte tra fisico e metafisico avviene attraverso la
figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo,
espressione della trinità divina. Afferma, infatti, Massimo Cacciari,
commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire
nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si
tratta, tuttavia di una Resurrezione/rivelazione di natura puramente spirituale
e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte
nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di
credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire,
fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come
nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano
(pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel
panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia
dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si
presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le
affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono
essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te
possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come
asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in
evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno
natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici
qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura
esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie
mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili
e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della
perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica
dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comun-
que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro
percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non
testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che
referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto
diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione
animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 M.
Cacciari, “Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981,
cit., p. VIII. M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione
sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato dall’essere umano. In altre
parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento euristico del metodo
empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano e dubita delle sue
categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul medesimo piano di quella
metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori indimostrabile. Infatti,
giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura originaria, che implica
per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a questa struttura, che si
può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto e dell’empiria. In
termini religiosi il problema non muta: il divino intende permeare l’umano in
modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora
non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il medesimo quesito: il
meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo dialetticamente?
Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere negativa. Dunque il
dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi. Ovviamente a questi dubbi
mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale di Kant: non fondabile
teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella sua comportamentalità
pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente
ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana del mi piace,
nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria (strutturale? ontologica?)
dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande e pesante ostruisce la
strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non kantiana) e del diritto: il
tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere
umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva
teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma
purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel dubbio, e
scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero arbitrio,
ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria strada da
percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non ha alcun
fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente
riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il
tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo,
come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica; ma il telos
(τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio dell’assenza di
fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle scelte, che si
sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del diritto
pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente politica e
l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova, a
vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più
radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare superiore, più auspicabile in
assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al Caos, il disordine, quando, come
dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio di entropia, è
quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze
soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio
personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner
delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per
altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera
di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu-
sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una
sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma
come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume
il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è
nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra
fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente
realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta
come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di
questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo:
“L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col
tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma
della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso
dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto
perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo
ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della
negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione
cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già
implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme
all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua
situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la
cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza
sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che
Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo
dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con
estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e
neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto
compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente
pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos
kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p.
30. 3 A. Emo, op. cit., p.39. M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita:
una riflessione sulle critiche ricevute 141 (καλòς καì αγαθός) degli antichi
greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche
buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile
all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio
comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle
metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato
ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar-
bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso-
na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si
crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma
soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e
direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita
non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre
sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure
prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di
salirvi; non conoscono il luogo nel quale si tro- vano e non sanno neppure
nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in
soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti.
Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza,
oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure
non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa
fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine
deve pur esistere come riferimento sia del sog- getto, sia dell’oggetto,
affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia
oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria
vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa con- tinuamente nella forza,
come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in
se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che
osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e
l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza e forma, due volti del medesimo
fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non
esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un
vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea
l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due
enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se
stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte,
tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha
identità fissa. Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di
osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due
indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da
parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che
costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la
tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma
l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo
indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in
India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo
terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli
elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le
forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le
quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un
essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del
nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4). L’indeterminato
si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di
sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che
per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è
sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale
profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina
l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria
ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci
informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla
nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano
per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui
manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso
dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure
trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile
verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone
progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui
si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma
strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si
conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte
al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze
pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca risposte
con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo punto il
mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della creatività,
della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento costitutivo,
proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è usata da
Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra
materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il
trascendente nell’ambito dell’inesistenza. 16 Il diritto come estetica un
inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano,
in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con
quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta,
relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano
l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da
Platone nell’Apologia: so di non sapere2. Può la psicologia umana accettare un
verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti,
le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel
tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza
aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi
discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano
come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro
collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o,
forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento.
Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza
anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è,
in qualche misura, conna- turato con l’essere umano come il fisico; è una
componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica,
cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno
dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella
giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla
legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al
mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il
vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare,
l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come
obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene
con la constatazione empirica, che le scelte umane sono 2 “Infatti, operando
con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed
esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi
l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava
Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che
include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non
è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza.
Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che
ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco
all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente
lontano. Così come il molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è
la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry
Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011,
pp. 14-15.Premessa 17 guidate dal piacere e non dal dovere, anche se talvolta i
due termini coinci- dono. Dover essere e piacere divengono i due poli reali del
disagio esisten- ziale umano e, contemporaneamente, anche il tentativo di
risolverlo. Solo di un tentativo purtroppo si tratta. Il diritto come estetica
non esclude, e non può escludere, la dimensione metafisica, ma rafforza la
descrittività empirica del comportamento umano, consiglia maggiore
consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi uma- ni ed apre nuove
prospettive di regolamentazione sociale. Ogni demistificazione è un atto di
liberazione della conoscenza, ma non è possibile illudersi di poter superare
gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia assoluta, sia relativa del
mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la dea Tyche (Τύχη), le
Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono,
interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti
Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra- ziamento
ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad ascoltare le
mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il quale ha
setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a me
sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di
misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il
mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La frase, come risulta dalla
lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del
bene e del male, non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel
Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a
mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in
seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i
nostri progenitori erano immortali ed, infatti, compartecipavano della
conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il giurista nella narrazione
biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il
concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed è
indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se
l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e
del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si
compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte
di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1
Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un
paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio
dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero
della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del
male”. Genesi, 2, 8-9. da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti
dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto,
appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di bene e di
male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la
teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la ragione
divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può essere
definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a statuire
norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male,
allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che
statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il
concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la
conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero.
[...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male;
sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo
sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è
questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma
è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere
umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e
quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito
dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente
l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in
profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del
bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone
apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una
disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai
atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a
condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della
mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere
come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come
nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare
simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del
brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma
sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni
condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla
consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della
norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H.
Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91. ciò
che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è
male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta
del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di
colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi
ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e,
quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e
compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf
Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne
mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale
dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione
di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche
e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di
un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario
risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una
situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma
comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina,
che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere,
dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in
una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo
luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo
luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso,
come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando
il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare
la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma- zione
dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono,
del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace,
perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a
fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo, sua
immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia,
cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già
in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque
quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di
Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una
conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura
e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e
la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti
dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross,
Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19. plarla
nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono
conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta
conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli
occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di
un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si amano.
Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il
suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza
del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli
sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una
tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare prendere5. Il
rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di equilibrio
creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa
compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza).
L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si
estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo
(somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri
del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente
Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità,
ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria
dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione
acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché l’uomo non è più nella
contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica
della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere.
Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto
conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente
posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina,
della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale,
assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella dimensione della
totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento7. Il
comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come
un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik, Dire l’uomo.
Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp. 227-228. 6 M.I.
Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in
eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo.
La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74. ed Eva, ma come una
informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando
dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede il passo al
relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna
altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che
produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto
commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe
simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla
leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una
conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di
abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata,
individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e
prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale,
la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla
persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e
a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col
ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza.
L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto,
ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo
interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà
dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è
l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più
un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri
come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso
dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione
spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere
ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma
nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto,
soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto;
abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una
soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato originale,
infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue molteplici
parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura nel creato
(diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa fu anche
rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non identità)
era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona,
cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234. Mandò dunque il Signore Dio ad
Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle
coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad
Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco,
questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata
virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la
madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale
rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una
medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che
appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di
alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in
apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad
attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso
l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra
rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione
(diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della materia (il
serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e
priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo spirito
universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di Albert Einstein
(1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di
energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la visione propria di
un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato: E=mc2. Henry Corbin
(1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio- ne,
dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice: 9
È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la visione dell’unità
nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra
necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la
visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È
attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda,
quella stessa in forza della Genesi, 2, 21-24. quale il pluralismo
metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero
i molti, ma caos e indifferenziazione10. I nostri simbolici progenitori, Adamo
ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza
specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza
limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione
è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere
subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non
essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non
può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto,
non può esi- stere senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed
inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di
Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente
rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te
che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente
nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano
godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza
ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo
la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre
immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire
alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di
Friedrich W. Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. –
Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti
che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero della
vita11. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte
pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più
stret- tamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a
distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se
stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un
alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti
il pensiero di Eraclito (535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei
(πάντα ρει), a quello di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un
Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente
rilevabile il non 10 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F.
Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p.
797. essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece,
con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire.
Ma a livel- lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se
stesso e l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso
essere a sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente
sviluppata ai nostri giorni da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il
divenire e co- struisce una logica di identità degli eterni, che si separa e
distingue dalla logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si
addice ad un mondo metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica,
empiricamente verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani.
Commentando Corbin, Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che
teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al
divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote-
lico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la base
stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che
dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di
affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente.
Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si
ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non
contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità
[...] non consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude
dal discorso [...] la dimensione dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente
un ente esistente13. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni
non è tanto l’af- fermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica,
quanto piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la
possibilità di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato
nell’episodio biblico del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame
tra l’Albero della conoscenza del bene e del male e quello della vita appare
ancora più indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica
conoscitiva umana del divenire, che trascina con sé, come compagna
inseparabile, la morte. Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima
non esiste, poi esiste, quindi torna nel nulla. Non è questa la logica
conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e
nell’eternità. Scrive Massimo Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino,
Rizzoli, Milano 2006. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del destino,
Rizzoli, Milano 2009. 13 C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry
Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 12. [...], nel testo biblico l’Albero della Vita
o delle vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare,
molto probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una
verità che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire.
Facendoci innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro
sempre ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia,
la speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad
ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte.
Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che
avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da
quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente
portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare
dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile
dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos
avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante
il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente
limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa
intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla
posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso
medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del
male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire
teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben
due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima
conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del
divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di
possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a
principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori
necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono
essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a
posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si
potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi.
Quest’ultima lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e,
come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche
realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica
dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione
sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e
del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata
dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene
ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del
nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.attraverso un’opera di
architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo
asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella
sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice
universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...].
Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo
stavano edificando, e disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per
tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero
sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e
confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del
prossimo suo”15. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà.
Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in
esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una
volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze
de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto
parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che
si separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare
un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente,
l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico:
così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione
più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della
Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa
da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la
punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco)
o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è
che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle
lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in
lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e
delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico,
una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel
mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro
che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza,
Roma-Bari 2007, pp. 134-135. è relativo e non assoluto; è finito e non
infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di
queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro
come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella
concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa
consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto
responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente
espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che
esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità
giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene
collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama
riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una
responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu
commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta
accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a
quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso
dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non
solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa,
responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il
divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere
che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia
una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo,
un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni
mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata
come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a
dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua
stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu
neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece,
responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva
avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve
essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.
dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio.
Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste
condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature.
Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata,
nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e
differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur
imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno
dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio
genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio
esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa
del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui
quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di
comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare
prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di
natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione
prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed
anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle
lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo
attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia
empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri-
co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una
consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e
non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben
diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la
consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del
Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della
parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia
nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente
umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle
caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia
sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza
uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia
individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di
consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici
articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e
l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno
in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono
con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o
come entità ulteriore, può, e secondo quali modalità, percepire se stesso?
Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia
che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in
qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di
sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è
solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una
dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un
bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo
polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono
o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici
manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la
distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel
dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e
valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i
secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione
relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule
valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le
esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un
contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure
vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad
esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique
suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda
per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che
potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio
o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può
essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono
queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può
incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se
non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia
della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico,
in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la
conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è
sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro
dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e
metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di
una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo
comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità
alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta
anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di logica, come risultato
dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio,
oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464)
con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha
nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per
accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità,
perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19.
Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra
la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino,
l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione
dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile, misteriosa.
L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi,
anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al
mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato
nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso,
che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti. 19 N.
Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37. Carcharias Taurus è
il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una
caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura
biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo
intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri
embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo
biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la
fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla
morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors
tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di
sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si
esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo
l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità
esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte,
nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta
per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega
all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in
una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno,
poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari)
combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi,
che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro
ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più
forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si
estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e
sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la
struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo
compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non
si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a
forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche
il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la
discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così non
si comprende la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di
quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica
gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il
vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba
saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità
gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo
biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la
quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello
sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere
delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la
nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e
dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso
del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico
verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale
del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino
d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle
(1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter
faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una
cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una
fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro
uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla
morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per
chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed...
all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari,
messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico
disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in
particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono
a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei
vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo
animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo,
con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura
capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il
sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in
favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del
biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il
sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se
Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è
accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema
legge e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire
all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in
Dio2. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire
il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il
Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da
Baruch Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro
che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali
concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un
certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e
i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i
pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti
certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò
che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove
si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio,
il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale
dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui,
ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo
potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la
sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa
si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione
di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a
pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è
naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli
uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di
ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi
e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua
natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne
ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione.
Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per
cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai
la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a
ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni
illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus,
Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il
pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se
avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua
assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il
colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo
figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò
in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi
dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è
ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr.
anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S.
Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico,
Mimesis, Milano 2004. in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla
natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la
grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è
chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria
natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma
anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una
particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a
ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice
della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più
potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento,
per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento,
dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa
visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per
ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma
la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la
mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto
in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata
da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe
facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla
luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione
etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e
dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le
parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un
islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo
è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di
ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare
a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che
distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello
che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che
lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino
1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p.
288. La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il
grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio
di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non
si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma
di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale
unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione
(Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si
richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe
appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe
esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse
est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo
senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che
tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni
specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e
la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di
Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che
le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo
stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo
sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è
posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo
del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile
trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale,
verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione
empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del
sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la
morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio.
Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla
religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di
Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7 si sono contese questo mondo
astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso
del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente.
5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach,
L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza
del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e
fede, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul piano razionale sono stati elaborati
assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili,
concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie
e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se
vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del
resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che
è possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità,
cioè siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto
notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere
estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle
riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello
relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa
coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le
premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af-
fermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono
interessanti anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali
della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e
l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra
credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se
noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e
nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza
sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci
quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La
ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes
tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la
seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella
tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana
potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico,
tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i
due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa
concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per
necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come
espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976)
va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo,
presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi
scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38. Cartesio non si fa
offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base
a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo
diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al
mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una
scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a
determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente
ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale
la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così
filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia
tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen-
dentali9. Del resto anche Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici-
tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di
indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti
fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione,
radicata fin da Cartesio, del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi
nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso si
rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era più
possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la
ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere
umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del
quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso
interpretata più come un dono divino che come una conquista personale11.
Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo
dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni
filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele
Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, 9 M.
Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo
sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95.
11 “La fede essenzialmente una negazione implicita o violenta di una realtà o
della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma, fortunatamente, una
prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare queste muraglie, insegna
il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una affermazione di questa
realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della realtà è appunto quello
di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci a fuggire la realtà,
insegnando a negarla. La scienza appare come superiore alla fede, appunto
perché essa è una liberazione dalla negazione”. A. Emo, Il Dio negativo.
Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio, Venezia 1989, p. 5. degli universi
paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici,
da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche.
Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone
(428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà
metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie
degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli arche- tipi, le idee
delle qualità e degli Enti emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono
questi a presentarsi come la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene
manifesta tutta la propria imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico,
come brutta copia del mondo iperuranico, metafisico, spirituale, privo di
spazio e di tempo, posto oltre la volta celeste e sede delle idee, produce una
duplicazione consolatoria, sottraendo il concetto di verità alla percezione dei
sensi ed attribuendolo all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito
nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo
ne è il modo, perché bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità
soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora
quella essenza incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo
dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della
vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura
scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò
che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e
con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione
circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa
contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma
non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che
noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è12. Il
mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una
conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi
completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la
luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta
da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza.
Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla
luce [...], pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li,
incatenati gambe e collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce
d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo
questa 12 Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p.
755. pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi
che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi
i burattini. [...]. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo
oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, [...]. Strana immagine è la tua,
disse, e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che
tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le
ombre proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di
fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di
per se stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed
esse vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il
ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo
senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune
risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma
comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo
luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In
secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere
umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria.
In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi
umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del
divino. La dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito
critico cristiano da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile
per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se
infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli
angeli [= arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento
divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz-
zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro
pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento
dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono-
scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon-
damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé;
assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in
genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed
Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che
appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile
apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta
allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone,
Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura
di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
2001, pp. 6-7. Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo
nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del
mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per
questo meno probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i
dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente
l’origine del concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi
percorrono sia le visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie
luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il
loro stesso carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in
esse è già insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno
peggiore, ma anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di
continuità dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e
religiose. Del resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere
del dualismo con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza
consente l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità
dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico
prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in
precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti
dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo,
poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente
considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di
fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di David
Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere predicato di
falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di
fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di
ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica
empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente evidente tra
oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più
rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra valori relativi e
valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre- supporre per avere
senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta,
alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente
razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Immanuel
Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una
dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en
el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá
2007. Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto
simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi
fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e
libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare
che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi
avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni;
perché un solo e medesimo essere, agente come fenomeno (anche davanti al
proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre
conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la
persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza
pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un
motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso
stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel
mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto17, mentre quelli relativi si
situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a
sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque,
rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al
pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista
può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il
sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più
oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della
separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i
giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché
possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica.
Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché
sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate
attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che
possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al
soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be
sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una
propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal
cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I.
Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp. 139-140. 17 “[...]
la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante
nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o
sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla
conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante
l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se
stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59. collettivo18. Una ulteriore difficoltà
è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità
di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il tempo (tp), la
lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse,
definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile
o, ancora forse, anche privo di significato procedere19. Riguardo ai giudizi di
valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori
assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un
mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno
soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi
ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa
significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno
inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure
la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...] l’incosciente
razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di materiali
artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di
questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla
nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma,
opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente,
non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di
attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho
chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale”.
Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi,
Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità quantistica è proprio la scoperta che
non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla
divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di
Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck”. C.
Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare della cosa,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 201. “Analogamente a come, secondo
la teoria della relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il
cui valore superi quello della velocità della luce, così non si può nemmeno
parlare sensatamente di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia
inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della
fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi
della natura contengono realmente una terza costante universale nella dimensione
della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter
applicare i nostri concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo
che siano grandi rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci
fenomeni di un carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti
ci avviciniamo a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi
nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che,
fin qui, è risultato soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità
matematica, potrebbe perciò appartenere a queste minimissime regioni”. W.
Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano 2015, p. 165. valori
scaturisce da preferenze personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è
stato educato e/o vive (consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle
proprie individuali attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non
certo da timore di ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di
qualche tipo per se stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si
sarebbe in presenza di un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover
essere consiste in una scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente
almeno da un punto di vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un
conflitto tra un appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento
dell’ottemperanza al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà
in favore dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se
di appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna
propria autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il
concetto più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del
resto, è lo stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni
inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e
l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle
inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge
morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le
nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore;
e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti
a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza
di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il
dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere
riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la
propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen-
denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare
oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se
stessi della bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione
non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità
etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di
riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo
processo è il concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni
ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal
tenere, in una data situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della
ragion pratica, cit., p. 90. prescritto per legge, ma contrario ai
convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni
autori21, che comunemente dai divi- sionisti viene definito con l’espressione
fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i
due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo
modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri
perché immanenti ed empi- ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover
essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria
funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio
diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide,
semplicemente si identifi- ca, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso
ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente
accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgo- glio), se non
questo potere di produrre piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del
dover essere, ma, se questa è l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di
ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi
di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che
articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono,
ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto
agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul
piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e
relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed
intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della
Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo,
giusto/ingiusto il dualismo bello/brut- to significa conservare l’elemento
soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una
realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in
questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti,
alle psicologie individuali, all’e- ducazione, alla cultura ed alle tradizioni.
Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della
metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto
agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi
psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte
comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità
più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G. Carcaterra, Il
problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere
dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura umana,
Bompiani, Milano 2001, p. 599. uno dei suoi due termini) e non produce
più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura
ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità
oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande
Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di
fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il
primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo,
come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il
secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto;
ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo
giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione
di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a
questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per
propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una
realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica
dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né
l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto
verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da
una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è
dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come
sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor
più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale
energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero
essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo
il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia
da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi
dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti
(complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in
concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23.
La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada
ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì,
oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra
soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli,
Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo
di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore
indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei possibilità
oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali
soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo,
visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica
dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque
il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del
mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi
continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.):
Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola
volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è
data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare
che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone;
ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava
paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra
e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri
fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione
si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata
variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure,
ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno
ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di
una profonda revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare dal principio
stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza
scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle
[particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare nuclei di elementi
leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di
ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello
stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala
nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione
artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la
fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso
cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta
a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria
appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i
fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la
misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con
l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento
della libertà nei processi naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le
metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol. I, p. 453. Monismo e dualismo
del mondo 51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei
protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a
produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di
circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento
decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento
elio26. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora-
neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e
di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il
principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente
opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora
irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della
filosofia1. Senza presun- zione di poter risolvere tale dubbio, conviene
tuttavia, per affrontare l’ar- gomento con sufficiente chiarezza, tentare
qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione.
In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto
storico tra Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546),
rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed,
il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di
libero arbitrio: [...] noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere
della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che
lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La
contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata
sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata
attraverso le opere umane: 1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo
per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio
ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare
né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente
questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza
ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità;
e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M.
Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia
filosofica, Carocci Editore, Roma 2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione
sul libero arbitrio, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio.
Servo arbitrio, cit., p. 57. libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto
da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere
infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione
intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in
ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome
Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire
o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a
contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile,
proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime
posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere
umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la
conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di
libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto
autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso;
autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e
detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori
esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di
fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono-
mia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti
(eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di
condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per
necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o
sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in-
termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una
libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai
limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che,
per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è
assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto,
l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal
fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso
che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per
soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi
entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali,
piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata
parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro
esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin
Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di),
trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una
forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per
volare, può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non
possedere talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa
fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller-
gie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente
esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato
dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il
conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e
dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il momento
della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio, forse).
Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non può
escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica del
mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della
reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito
platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddi- smo,
etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano
riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo
costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica [aristotelici],
le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma
quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora
vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso
i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco
trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero
terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione
del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa
si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza
uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza
siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo,
l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali
involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento
di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle
sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è
chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di Scipione, Bompiani,, Milano
“I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire.
Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore.
L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né
davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di
ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma
che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno
del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i
mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono
capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi
sono il rapporto lecito il paragone, siamo come una entità di forma
predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un
grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare
ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della
caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa domanda converrà ora
approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo
comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando
si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si
possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross,
individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire
attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le
costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire
che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la
volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è
necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua
(occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo).
A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero
arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di
condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le
condizioni soggettive (capacità) ed oggettive (occasioni) dell’individuo.
Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare
queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può
presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: 1) la scelta non è
riconducibile al soggetto agente (volontà divina); 2) la scelta è condizionata
da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o
collettivo, psicologia, etc.); 3) la scelta dipende dalla struttura biologica,
biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La
Mettrie (1709- 1751) ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella
struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di
condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più
opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di
condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su
quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo
(fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”.
M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di), La questione della brocca,
Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p.
264. senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto
ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in
altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu
compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e
di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un qual- siasi
collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le
azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà
divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la
dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente
sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore,
data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano
potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella
onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu
lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue
sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla
certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è
strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione
il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla
concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima
considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua
stessa esistenza. Già Auguste Comte (1798-1857) ne metteva in evidenza la
natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento
degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni
in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la
riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il
mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce
per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed
invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per
il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato
sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal
punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di
fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione
una struttura logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del
ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo
dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di
soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale
occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia
i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente
autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce
allo stato ponendo un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2005, p. 154. tentare di concepire per quale
potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto,
saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che
sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene
negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo
significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei
fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa,
di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche
esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il
principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul
quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta
verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un
ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione
probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi
generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità
statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso
causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza
di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo
tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo
tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un
generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio
probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello
fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in parte,
ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero
arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze 1969, pp.
182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato
probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto
provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono
gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo
trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio
logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano
1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti
nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in
un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere
determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B.
Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione subentra
dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia, il cui
diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce dal
centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W. Heisenberg,
Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101. Il nesso
causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa
determinismo/indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà
del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni
metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo
estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse
addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel
grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della
causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le
azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva,
considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non
condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col
dopo. [...]. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di
ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del
pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico
di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali.
Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di
libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori
fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12.
Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi
biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi
scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener-
gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è
possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di
tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le
del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di
glucosio (PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale,
per il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un
esperimento specifico, condotto da Benjamin Libet (1916-2007) e finalizzato a
misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento
elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di
movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio.
Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame
si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque,
sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di
agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel
mondo esterno dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere
1870/1881, cit., p. 529. Si può ritenere che le azioni volontarie
comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La
volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono
proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte
abortire in modo che non compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che
l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli,
una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo in atto per
giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio,
come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non tanto, che il
concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che
il concetto di conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è
possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per
crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si
possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da
dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia
l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del
resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la
verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti
causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi
non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione. Soprattutto non
possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti
e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo
empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150
msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un
nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o
ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici
condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella
coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 143. 14 “Nessuna libertà
assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità
biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle
esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o
dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio
di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte
costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia,
determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101.
Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino 2013. L’Autore affida
lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza,
la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere
anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano 2003.
Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica dell’esistenza
del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di nessi
causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò si- gnifica
che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta- zione
empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni empirici
non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non può
essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a realtà
trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo- lontà
significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera solo se
priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore-
ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una
volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta
soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua
psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia
ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una
indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di
un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità,
si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel
corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo-
mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia
conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico
– è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non
migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi
naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella
deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di
vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che
compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette,
almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi
convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo
possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere
assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo!
Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema
da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia
conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un
livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo
fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la
necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto
focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza,
cit., p. 160. discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed
effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le
probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il
fattore con- dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il
fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa
tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in
movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di
movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al
determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore
forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso
causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie
qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali.
Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte
si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità
della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge
al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene
causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si
potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono
che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta
di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e
conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono
dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno
giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il
suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di
distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica
di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal
seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non
sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per
il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi
predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è
addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non
possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i
predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata
con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti, alla natura di una cosa
non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della
causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della
causa efficiente accade necessariamente”. certo scherno e si diranno
probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li
amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza
che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione,
volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di
resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che
essa si manifesti come forza17. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si
sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza,
nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della forza,
della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente
si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali
ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le
diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla
loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La
forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede
organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per
frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel
medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito
pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono
manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali
limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira
anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare
esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo
determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i
propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi,
ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani
nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del
vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo,
cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia
proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei
due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di
poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi-
nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla
volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a
questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La
prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi
causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche,
Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma mondo programmato in via
di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico,
privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima
ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere
presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un Essere
(realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui
si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di
nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in
ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la
variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora,
non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione
sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del
divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa
strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger,
consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il
tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella
distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è
temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto
a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti
distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso
temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e
l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte.
Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una
determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura18. Il panorama del tempo
heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si
manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro
il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. È
solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa
intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio
dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione
fondamentale: l’essere-nel-tempo19. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono
anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la
memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova
dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il
passato, ma, a parte 18 M. Heidegger, Essere e tempo, Heidegger, op. cit., p.
492. De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un
mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli
eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana
memoria, della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del
tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una
esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio
questo sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una
semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non
ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui
fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il
risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni
significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. La
nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali,
ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del
futuro. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro
più di quanto la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell
costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei
fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di
fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce
necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente
la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un
insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le
suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di
divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del
divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento
senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la scuola eleatica e della formulazione
del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non
essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non
essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste
riflessioni di natura filosofica, nel se- colo passato hanno trovato sostegni e
conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo
l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è
simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse
configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di
tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- Russell, La conoscenza del
mondo esterno, cit., pp. 224-225. ma estensione della teoria della
struttura atomica e, simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di
nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni
sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del
mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta
anche di Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la meccanica quantistica,
che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega,
per descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce
De Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora
completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente,
che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di
tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana
della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del
tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma
anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di
cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente
espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente
intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere
un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si
può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo
presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto),
nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti
libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre
quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile.
In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti,
ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di
eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante
dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non
esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere
o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola
cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della
successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si preferisce
un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della quale è
possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi alloggiano, ma
completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J. Barbour, La fine del
tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino. Cfr. anche P.
Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il
Saggiatore, Milano 2006. De libero o de servo arbitrio? (salvo che divina
non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e
ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è
determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella
del ladro, il quale si difendeva dicendo che, essendo egli determinato ad agire
così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla
necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e
ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo
comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che
governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto
suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come
la Sua e perciò io Le infliggo una pena. Il contesto della storiella si colloca
all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta
ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso
parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel
luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma
da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta
di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi
di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica
empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve
essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione
empirica del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente
impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per
l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si
presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie
l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non
dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere
questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa
volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso
non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia
rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per
la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da
mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da
sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere
l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta
impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., pp. 184-185. presente pare possibile accedere
solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione
assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce
di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a
posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre
all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si
presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il
determinismo descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla
struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura,
essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta
deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e
delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di
sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è
deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le
convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è
indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero
essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno
al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo
a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è
deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni
che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per
conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che
lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo
compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente
petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento
mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto
(tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di
validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro
(teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio
considerato inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale,
il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione
che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che
osserviamo il mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come
ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina, Milano. “Il
tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle
cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra
ignoranza”. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un
ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo
diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si
discosta dal modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione
speculare, ma perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde
l’astratto; al particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito
l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il
divino. Questa specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte
del diritto positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un
diritto assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo
potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per
specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si
presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo
valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza tra i due
diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo
e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di
questi concetti, rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale
propone come propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la
Ragione o la Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre
denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che
muta è solo il necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio,
a fronte della duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia
con la realtà dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può
appartenere solo al mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può
anche risiedere nel mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta
intono alla Natura, che può essere vista come una realtà completamente
immanente o come il corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non
conviene addentrasi nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica,
giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se
non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi
ad un concetto di Natura immanente e procedere con lo strumento della
constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano due diversi
significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si intende
descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità,
le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare
le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è
semplicemente descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la
stessa espressione acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che
possono essere seguiti o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi
dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello
dell’Assoluto si impongono come inderogabili, necessitanti, poiché a tale
livello conoscenza e volontà coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel
mondo umano in valorialità assoluta sul piano morale e, tuttavia, non
necessitante su quello fisico come le leggi naturali, descrittive di fenomeni.
Ancora una volta la scriminante passa attraverso il libero arbitrio: se esiste,
la legge naturale non è necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo
caso, scompare la differenza tra i due significati dell’espressione, che resta
solo descrittiva. A livello empirico è facilmente constatabile che i
comportamenti umani non sono omogenei, uniformi, ma divergono, anche
profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli uni è male per gli
altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da taluni autori come
prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in quanto prescrizione
giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di
tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge
naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il
fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una immediata
percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può
la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio
di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni
metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo
intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al
dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il
proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che
il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura,
ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti
naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro
carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo,
individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p.
246. ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario
ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la
realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il
panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale
cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il
biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva
sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti.
Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già
Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché mai fu data all’infelice
la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur
non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i quali si rallegrano oltre
ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? [Perché fu data la luce]
all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso
lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella
dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni
empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la
vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere
umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non
naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli.
L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse
anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna
o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è
possibile ricordare Leibniz, quale sostenitore dell’affermazione che questo è
il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie
Arouet, detto Voltaire, che contesta tale posizione da un punto di vista
filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e
teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito
filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la
affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3,
20-23. Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita
oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti
il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si
agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché
abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse
risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto
della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste
mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico,
umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto
naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista
monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità
dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto
sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche
dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali,
oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità
congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali.
Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con
l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano
impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio
corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti
interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale
per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione
umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche
tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica
pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione
della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la
coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo
fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali
intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo
invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di
stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R.
Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto
rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un
tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi,
relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo,
Publidue, Bolzano Novarese Searle, La mente, cit., p. 104. in cui sorge.
In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come
il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti
artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali,
poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere
umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con
l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone
un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta
l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in
cosa si diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che
manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la
speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed
immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha
prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene
posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì
sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del
diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il
contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come
soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non
si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di
un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato,
carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si
dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere
l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i
suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel
soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del
giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente gli
esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che
potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in
comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino
d’Ippona, all’Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella
(1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure
di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl
Marx, al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G.
Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck,
Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980. solo
esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra-
verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela-
tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui
valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio
instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o
quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione
di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen-
sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di-
versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli
individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga-
nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie
visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo,
possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di
sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo
dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali
dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un
ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale,
dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento
metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico,
al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati
e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto
naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai
concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim:
[...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con-
dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non
sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor-
mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un
osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa
distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire
poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia
l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo
qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei
modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti
e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7.
In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei
gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C.
Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia, il
Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198. dualizzazione si manifesta all’incirca
il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed
anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane,
relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è
solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e
chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale,
al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica
od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la
voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto,
in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si
trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui
fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga,
con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed
il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva),
si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere perde di senso in
favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso
corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente
identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto
positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano
come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire,
nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od
il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura,
monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche
quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo
quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul
singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova
espressione attraverso la se- parazione del concetto di ordinamento giuridico
da quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria
di doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le
regole imposte dallo Stato potessero vivere di vita propria senza lo Stato che
le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al
diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato.
Immanen- za e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo
dilemma tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e
divino. Ma il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può
avva- lersi di prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono
impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico-
razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una
ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque,
arbitraria, affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e
solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto
tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta
sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura,
come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la
sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei sog- getti consapevoli
intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente,
il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in
gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si
limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in
istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con
il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale
organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società
contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto sopra,
originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre parole, il
diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti intersoggettivi
umani, si organizza in un sistema burocratico istituzionalizzato. Il diritto,
quindi, diviene tecnica e si produce e si applica attraverso pro- cedure
burocratiche, a loro volta determinate dal diritto stesso. Il diritto ge- nera
se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici, quali i concetti di
doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo quel comportamento
concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto di adempie- re ad
un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo canali per convogliare
o mediare il consenso dei soggetti intorno alle proposizioni normative e queste
ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o la non azione, ma la norma
resta il fatto concretamente materializzato dell’azione compiuta e non
perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il diritto altro non è che
l’opinione giuridica del soggetto intorno ai comportamenti da tenere. Il
comportamento conseguente a tale opinione potrà anche essere sanzionato, ma ciò
non potrà cancellare la natura giuridica di tale opinione e del conseguente
comportamento. Ciò spiega anche come il diritto natu- rale possa considerarsi
diritto al pari di quello positivo, non solo in quanto entrambe artificiali, ma
anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo nella convinzione di
obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al diritto come tecnica burocratica
pare opportuno preci- sare che la burocrazia si forma come strumento di
garanzia della certezza e della velocizzazione delle procedure, ossia come
strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri dell’organizzazione,
cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe consistere nella
realizzazione della giustizia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di
giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei
singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a
fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il
trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono
forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La
tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il
rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o
capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo
scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà
capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi
della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non
sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica
(e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la
tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per
incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se
stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di
dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di
espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e
diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur sollevando vari dubbi
intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di
tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della
decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce
il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è
incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere scopi, chi decide, nel
silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui
quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di
risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non
hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal
giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima
domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel
dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per sempre immutate,
perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente
della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino, Atto secondo, in N. Irti, E.
Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2001, p.
80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e
tecnica, cit., pp. 20-21. al metafisico, ma la risposta giunge dal noto
broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo
dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste
autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio
dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e
prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il
servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con operazioni
a computer autogestite dalla clientela e da co- dici segreti; completamente
sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro rigidi schemi e
variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del servizio, con
limitato, se non inesistente, accesso ad un dia- logo, ad una trattativa
personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi. La tecnica
ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo tecnologico. Ciò che
vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto tecnica: si estende
senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la giuridicizzazione del
mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si creano aspettative di
certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate dall’inevitabile varietà del
mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente l’artificialità del diritto si
affanna a prevedere futuri comportamen- ti possibili da governare, i
comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa velocità delle regole e
l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia l’estendersi della
tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a soppiantare nella
regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro lato, accoppiata
ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un nuovo diritto
naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano, per natura,
pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte; le domande le
pone il computer. I termini dei proble- mi li determina il computer e le
soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di disumanizzazione,
ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi della sua
realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque, si
assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione
decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in
fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione,
che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene
diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto
positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a
nascere, ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale,
trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il
metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso
l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra-
scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova
legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in
essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei
comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi
nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così
dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali,
delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto
naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità
empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in
quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più
per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro
ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà
rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un
nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra-
scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento
giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità
umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il
mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un
nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn (1922- 1996)10. Del
resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla
conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la
natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte.
Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse
più essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla
contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo, del quale egli
esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente con-
dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il
rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co-
munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10 Cfr.
Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee
della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.Anche il concetto stesso
di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del
relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta
come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana),
ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede
contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista
dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere
una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La
stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il
prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione
rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di
trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di
salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica. Le
strade che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in
seguito la differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne
dal riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane
e conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella
convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo
logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi
della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo
panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che
si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non
essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato
nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è andato Dio? –
gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i
suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo fatto, quando
abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo attraverso un
nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto? [...]. Non
sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo
ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è
troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei
noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma più soltanto al
sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né a quello
dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita incredulità per
qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire (del
fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta ogni
sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un
sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75.
2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp.
121-122. Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca
dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un
certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse
sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di
riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia
astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del
Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta;
ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al
subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al
futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze,
nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle
sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia
la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e
prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il
punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla
nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap-
presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da
Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo
genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte,
ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si
è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del
soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa
è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla
verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla
quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con
evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o
sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica
della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e
l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è
il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede
che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come
certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più
esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e
costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una
limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale
l’uomo funge nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro.
L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini
cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della
verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si
è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli-
cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di
quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della
fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em-
pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte
relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo
verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via
soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta
l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di
sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società
priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe
strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non
appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel
dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma
questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un
fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è
che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche
l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal
Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la
pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di
quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica
e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle
proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione
di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham. Questo
principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più
adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori,
quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe
essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione
immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le
leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere
ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un
tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.
interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi,
privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per
misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità
comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti-
ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire
senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em-
piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività
dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro
immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma-
nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se
dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo- tivarle
valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo
dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile
carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare
i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se
stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e
timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una
sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la
duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una
qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è
antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente,
come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio
del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la
duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro
sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama,
conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920)
indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare
l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone
fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4
“La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber
certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la
perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la
assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la
consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di
un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di
ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si
svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del
nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C. Galli,
V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza, Roma-Bari
2000, p. 188. Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come cosa
estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o estetica,
ogni significatività della cultura o valutazione della personalità,
pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la
sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa
essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni
considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il
vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma
di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si tratta in
ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una
lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio.
[...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se
molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono-
scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione
singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come
un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una
concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone)
sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo
essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti
individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valuta-
zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi
cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il
senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente
immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo
si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura
burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che
la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile
intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini del nichilismo
ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità degli
interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale
molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti
valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber,
Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6
“La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo,
l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua
espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane
ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del
razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che
non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber,
Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101. il monolitismo
sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si
presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino
intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che
nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per
Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che
il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di
contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire
nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo
concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano
immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non
sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e
nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in
questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere,
ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei
potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere
– nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra
soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste
alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E
se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale
possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può
essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che
potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare
evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla
negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare
dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la
medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno
in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia
nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di
Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità
di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi,
ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che,
consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione,
qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995,
p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di
Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2006. Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la
negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in
breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente,
ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha
identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere
niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e
l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del
niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo,
meta- fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo,
assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-
tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune
alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo
immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si
identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o
assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e
all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità
tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la
strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si
presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di
qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori.
L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la vera
e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit., p.
137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale del
6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei [Ghezzi]
considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno al
libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa
posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere
(quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi
essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso
è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura
originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si
mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il
decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità
dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere.
Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie
posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto
e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si
afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal
suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende,
vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa-
zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino
a questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La
distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico.
Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si
contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come
analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio,
la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà
dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine
nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti.
Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la
capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si
identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli
Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti-
mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di
rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice
e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto
abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza
e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La
volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione
ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al
confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia
la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare
alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare
l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12.
Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di
vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto
di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti,
Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso
contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto,
dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che
crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto
alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto,
Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza
che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere
1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico.
L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p.
146. Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene
sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo
capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può
semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente,
come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda
relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi
la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste
come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è
dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E
può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come
affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque
scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente
di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di
Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström
(1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La
prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il
carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di
nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za
dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è
criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori.
Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi
indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà
temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro
che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di
situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un
nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche
nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta,
in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di
operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare
vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua
volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su
discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th.
Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere
anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e
l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46. [...] la
persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può
sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la
pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali
posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as-
serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti
pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente
una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente
tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di
verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i
suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una
teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei
valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile;
Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria
esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la
veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende
soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei
valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso,
ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è
desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore
dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità
di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli
sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non
è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una
enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano
meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la
veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul
quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate;
Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è
proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16.
Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è
stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, Geiger,
op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di
unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che
pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false .
[...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla
posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non
soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è
teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142. Nichilismo e nihilismo
91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed
è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare
minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e
sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri-
ca). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg,
riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a
fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come
l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica,
essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni
possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una
combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di
significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un
criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere
considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto
quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di
assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto
l’eccezione che la regola17. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di
definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia
dall’impossibilità di verifi- ca empirica degli assiomi su cui si fondano le
teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma
Michel Foucault (1926- 1984), le parole (simboli) e le cose (fenomeni) non
coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria
quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il lin- guaggio era un segno delle
cose assolutamente certo e trasparente poiché asso- migliava ad esse. I nomi
erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del
leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è
stampato sulla fronte degli uomini: mediante la forma della simi- litudine.
Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue
furono separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in
cui venne anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva
costituito l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che
conosciamo non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine
smarrita e nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo
tra divino ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra
certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17 W. Heisenberg, Fisica e
filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50.
alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne
sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile,
infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di
Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di
Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo
come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute,
siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del
mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di
valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via
eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta,
quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità,
della varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di
valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili
per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse
entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di
guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno
all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della
possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i
giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento
del prossimo capitolo. Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da
uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp.
173-195. L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista
trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le
sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in
sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione delle idee,
una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e
brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace.
Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.), nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui
significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale
giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una
percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia
prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura
umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi
ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come
quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le
prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi
oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni
invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali
più ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di
suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo
strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la
decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una
imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione
pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto
positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre
l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con
canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue
particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si
intende comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice,
Firenze 1940, p. 10. mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con
il suo diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in
modo arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che,
seppur arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il
diritto positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere
che il bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo
senso si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey
(1785-1859): Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di
scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si
rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve
stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di
una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il
concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del
Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed
estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale,
personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione,
tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un
divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello
individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente
dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi.
[...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en-
trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le
nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della
coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una
creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può
piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci
consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo
sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro
comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia
non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per
seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato
indotto dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più
evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA,
Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e
nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.nella visione del bello metafisico, del
Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come
mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri
letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo
dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. –
Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora,
pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di
letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche
necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico
letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé,
ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha
prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del
bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e
perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere
l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa,
cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta
completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo
del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore
duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è probabilmente
prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per
quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e
l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che
potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo
che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze
idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse
con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed
azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi
metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del
mondo già più volte discussa, pare interessan- te approfondire il termine
estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica
un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa
percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che
producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni
provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è
questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma
percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori
Laterza, Bari 1967, p. 427. zioni interiori, sentimenti provenienti da
precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da
convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato
il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono
essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto
che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata
dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la
percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione,
poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del
sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le
percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il
soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può,
tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal
soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una
sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza
l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giu- dicare è una
entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è
impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che
alla mente non si presentano che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni
si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva
una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle
idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguia- mo la virtù dal
vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà
tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di
preciso e di esatto in merito al presente argomento5. La percezione, dunque, è
legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre
l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il
percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché
abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella
sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è
artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la
distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché
quella distinzione ha sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione
non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa
mediata di un’azione, destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato
sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 903. ma non bisogna
pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia fal- so, possa
accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si limita a negare la predicabilità
di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta anche la natura di questo
ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi
conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male.
La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo
agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichia- rare che
l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva
dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di
questo. [...]. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci
esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal
vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella
bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla
percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria,
non esisto- no due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria,
forse possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella
mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione
empiri- ca. Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione,
pri- va in questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato
sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e
conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è
un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro
e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che
una forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In
questo caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni
prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la
duplicazione strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni
esterne, produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta
esistenza di un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le
sensazioni interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La
risposta potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere,
ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga
percepito e sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915.
7 D. Hume, op. cit., p. 931. mente la tradizione, l’educazione, le
convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale
nella determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle
esteriori. Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono
essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo
una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze
si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale:
provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti
sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti
fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico;
le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero
arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le
sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine
dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente;
pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei
particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un
mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune
interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente
presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una
certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e
dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato
chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei
annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La dimensione
piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza8.
Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empiri- ca, ossia
può essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto
passare da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la
reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non ri- guardo
all’oggettività del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione
percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio
estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione
produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua
stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere
anche privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità
giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio
per questo motivo, sembra appartenere più 8 J.R. Searle, La mente, cit., p.
128. al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene
continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo
concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscien- za, ma come
qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9. Siamo vicini
concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua
astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne
rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto
percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non
rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo
soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale
cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di
piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al
desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale
fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di adattamento
non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo considerare gli
stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di
soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per
i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per
i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera
soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande
Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la
descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non
esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la
sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto.
Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come
scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono
empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi
etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di
recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141.
10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?,
vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la risposta
si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni
di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che
sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione
psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del
contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.valore, un metafisico
assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che,
rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio
estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si
preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni
(piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici
(impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi
piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine,
possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi
estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma
mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere
personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del
comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa
possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto
all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per
quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del
soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il
primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva
sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si
distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu-
stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di
là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche,
pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una
preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili,
che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di
valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento
sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non
riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle
scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è,
invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la
loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può
venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di
un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto
medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il
pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un
vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un
immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente
verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere
disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile
nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere originario
della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla
verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto,
a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso
riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere
studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore
significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos
dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento
totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una
specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e
cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo,
che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come
espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e
questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così
facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia
dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di
torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a
porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante
aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo,
come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di
valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo
del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non
sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella
attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio,
che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per
continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune
considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una
compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di
giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono
evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma
fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche, Genealogia
della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...] quello che
vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per quelli
morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi sulla
società industriale, cit., pp. 452-453.La possibile indipendenza della validità
della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la
necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità
attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua
capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene
al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria.
Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta;
valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico
vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di
convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può
essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente
anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si
impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di
astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità
con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un
determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque,
si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la
validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico
o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca
di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere,
verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è
sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale
carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto,
con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il
primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia
tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera
forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire
gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità,
prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno
diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di
impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la
fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina
pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F.
Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103 si
vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio-
nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed
intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi
che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante
del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del
mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è
che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la
convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea
non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante
intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire
una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il
diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante,
sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario;
neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto.
Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo
dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale
e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i problemi
disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica
da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale
rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il
diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello
che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che
ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è
trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non
si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di
attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà umana.
In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una
preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee,
riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante,
sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il
modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro
non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi
piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si
discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere
umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp.
9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari
1987. la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie,
architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non
solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle
nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli
ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il
nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è
scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si
svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico
accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e
di inserirmi in una od altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza
stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale
umana19; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad
oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed
indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la
duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con
le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie
angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere
compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che
il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali
dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza
ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che
riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche
sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva.
[...] la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni
secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni
fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre-
sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere
celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui
durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il
graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica
il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente
pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a
vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N.
Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi
robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del
Diritto, 2001/3, pp. 5-15. morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a
causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume
si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine
giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò
produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e
da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de
gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere
gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto
piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile
architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il
soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a
qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo,
quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine
personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità
assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali
certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e
ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire
questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo
sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza
fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura
nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce
tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se
rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche
verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la
censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio
capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi
limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro
umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le
dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita
stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla
ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non
ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello
che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che
risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit.,
p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino
2013, pp. 227-228. Il diritto come estetica La partita intorno al
nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione
metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non
sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere
trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa),
potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte
estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del
determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover
essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la
prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel
secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno
condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza
del soggetto singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può
essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare
da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi
proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare
ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il
determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da
verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che
si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è
evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui,
come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma
una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo
pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e
scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno
ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso)
eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere
in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un
soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano
insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata
a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non
certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun
titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente.
Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in
questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22
F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14. Il
diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il
senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma
solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso
di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile,
ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con
espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo
espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un
imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una
descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già
esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo
smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del
diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro
né la trascendenza universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica
della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è
interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva
sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la
conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo
concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi,
curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata
infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone.
Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca,
il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica,
tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.)
esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica
universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione
giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi,
consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in
una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione
dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte
umane. Nota infatti senza esitazioni Guido Alpa: Un po’ di sano realismo
consente di dissacrare i dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il
velo dell’omertà su dogmi interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius.
L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.Il diritto
come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice,
danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o espedienti possono essere
considerati per l’appunto schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e
quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non
riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la linea che la
maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione corretta24.
Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto
estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti
giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente subite. Poiché
l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della
legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono
anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano
ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né legali né
illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del
non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche
se il successo di performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di
un esempio, di uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e
delle convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna-
zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle
suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione
dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo
ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per discutere
del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente,
anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica
del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma
anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una
non metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il
primo, (metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo,
(come espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è
inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente,
dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la
dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un
Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle
regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), Diritto, Giustizia
e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 210. 25 J. Derrida, Diritto alla
giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., pp. 16-17 Il
diritto come estetica 109 ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e
trina e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella
materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri
equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma
anche la negazione, il Nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di
assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato
nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la
scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla.
Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del
legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo
essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle
affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione
kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del
nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui
Heidegger caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la
vicenda nella quale dell’essere come tale non ne è (più) nulla. Nichilismo, se
non deve (e non può) intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è
il nulla, non può che pensarsi come la storia (senza fine – senza conclusione
in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla) in cui l’essere,
asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce26. Il Nulla è entità
metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione
dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a
livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il
principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è
definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un
principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa
negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla
presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della
presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di
qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa
che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere
presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto
perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo, Fare giustizia del diritto, in
J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p. 286. 27 A. Emo, Il Dio
negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp. 18-19110 Il diritto come
estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per la sua
alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa della
metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poi- ché
mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la
prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che,
proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica nega- tiva
conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non cono- scenza e non
volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella
quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare
nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro.
Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra sci- volare
nell’altro, tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica,
ossia del pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la
dimensione conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e
fatica ad immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo
più stretto al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel
seguente modo: se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella
realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di
potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come
estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela- tivizzandolo, e di
affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in
questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una
vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina- le, deviante, ma
pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat- tesa. Il
disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a piegarla
alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante. Disattendere
il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si possono subire
le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la volontà di
potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno
di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re sdoppiamento nel
soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in
sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto estetico è ciò che
resta del diritto dopo questa demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica
e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio
sembrano proprio essere il sigillo della condizione umana. Infatti, la
duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la volontà si
presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla solitudine
angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura fisiologica del
biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione, dunque, si manifesta
sia come una contromisura psicologica ed artificiale Il diritto come
estetica 111 alla condizione umana di assenza di senso esistenziale, sia come
naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della vita. La singola cellula aliena
parte di se stessa, scindendosi in due cellule. Dalla madre fuoriesce per
espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il sacrificio di parte del proprio
corpo per generare il corpo dell’altro è un processo traumatico di riproduzione,
che tendenzialmente volge verso l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi-
sti, che ne interrompono lo sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un
secondo uno, il due, ed, una volta iniziata la pluralità, automaticamente,
sopraggiungono gli altri numeri (3, 4, 5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito,
come idea, è richiamato da questo processo moltiplicativo, ma, come in
matematica, è una duplicazione (finito/infinito) espressione di un processo al
limite, che mai si compie, che, per sua stessa natura, non può compiersi,
giungere al termine, altrimenti cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe
solo il finito. La vita propone la tentazione dell’infinito, ma, subito,
infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si presenta come speranza e si
accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto, della cui identità tutto o
quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure certezza della sua stessa
esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se non attraverso l’atto
comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni,
giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici,
etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi
piace. Nella solitudine dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal
contenuto vario e variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli
soggetti; una certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi.
Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as
a thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values,
Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of
value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il
fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto –
diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale,
fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism,
nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza,
devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi:
l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Ghisleri – atlante filosofico – federalismo contrarivoluzione – lo stato
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice:
“Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and
counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the
pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile
– as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by
eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian
philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of
Roman philosophy!” -- “He was into
politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani.
Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova
e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione
per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti
nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie
necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione
Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno") di chiare simpatie
democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò
nella Loggia "Pontida" di Bergamo e nel 1906 fu affiliato alla Loggia
"Carlo Cattaneo" di Milano.
Ghisleri diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica,
rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia
intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e
progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo,
in coincidenza con il trasferimento del Ghislèri al Sarpi di quella città. Si
dedica con assiduità agli studi di geografia e di cartografia, che aveva
cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora si era sentito
mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano adottati atlanti
stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica dell'Italia. Dopo
aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica” (Bergamo) volle
perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata: la realizzazione
di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione
storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento
"Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle
iniziative editoriali promosse da Ghisleri, si trasformò in Istituto italiano
d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. Ghisleri concepì il
suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e
cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca.
L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma
suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al
Ghisleri superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia
dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del
resto ricercata dal Ghisleri che, in polemica con il tradizionale approccio
alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi
scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento
della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista,
fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di
idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in
campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi
alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un
ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto
opera di Conti. Diresse la rivista
Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del
popolo. Al Congresso del Partito
Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione
meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del
primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori,
Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre opera: “La Scapigliatura democratica:
carteggi” (Pier Carlo Masini,Milano), L'archivio di Ghisleri fu ritrovato da Pier
Carlo Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia
come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica
Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente,
Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara,
monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano
d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non
ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad
e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella
vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima colonia africana della Germania,
Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto
Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G.Roggero, G.Ricchieri,
A.Ghisleri) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna,
Roma, La questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria
politica moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia
in particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro
programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di
Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante
d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal
of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra Ghisleri e
Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani, L'Italia risorgimentale di Ghisleri, Milano,
Angeli, Aroldo Benini, Vita e tempi di Ghisleri, con appendice bibliografica,
Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in Arcangelo Ghisleri: con una scelta
di lettere inedite dell'archivio Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, Ghisleri: mente
e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore,
Treccani. Arcangelo Ghisleri, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Arcangelo Ghisleri, su Liber
Liber. Opere di Arcangelo Ghisleri, su
openMLOL, Horizons. ANTROPOGEOGRAFIA. 21. Antiobb
oe.sti b vicbndb storiodb DBLL'I- TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. — Avanzi di armi
e di stru¬ menti di pietra primitivi, preistorioi (punte di soioe»
epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di ferro» nonobè avanzi di
palafitte, di abitazioni umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti
In più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia
settentrionale fu abitata nelle età più remote, anohe prima^ del xieriodo
storioo, quand'ossa era io gran parte oooupata da foreste e da
paludi. Ma di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla Allorché
si oominotano ad avere documenti sto- rfoi sulle popolazioni dell* Malia
settentrionale questa si trova abitata in qualche tratto delle Alpi
centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬ sciarono il loro nome alle
Api Retiohe; ma per massima parte del resto, sopratutto nel
bassopiano Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la
L/)mbardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne appunto il nome
antico éìOallia ei$alpina. Nella attuale Liguria, invece» erano i Liguri,
ohe si ore- dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orien¬
tale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon- Borva appunto anohe
attualmente. l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli
abitanti e li assimilarono; non oosl però ohe non si distin¬ guano
anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce delle antiche genti nel vari
oompartimenti. Pinal- roente nel medio evo avvennero lo Invasioni
bar¬ bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento I>oohl di
numero» invece di far soomparire ia po¬ polazione vinta, si ooufusoro oon
essa» adottan¬ done la piviltà e la lingua o lasoiando di sO ap¬
pena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai Longobardi).
Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti i Longobardi, fu
dal PonteHoe di Roma incoronato Imperatore Augusto, considerato cioè
quale erede dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano
d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino al jprinoipio del 13ii0,
vale a diro por diooi seooli. H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno
e i suoi Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spo- oiulmente
deiritalia sottoritrioiialo e della cen¬ trale» mentre 'l' Italia
meridionale oontfnuò per oiroa due seooli a
oonslderarsiinolusaneirimpero d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo
raen di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di- Noendenti dì
Carlo Magno ai ro Germanioi anche l'Italia settentrionale e oentralo fooe
parte del oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione Germanica e
fu divisa in feudi, assegnati ai vas¬ salli dei sovrani tedoaohi. Questi
però si trovarono in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma,
quanto oolle popolazioni» soprattutto delle città; le quali, cresciute in
potenza e rionhezza oon le industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi
e governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni di ouosti, oome
Milano e le città marittime di Ve- nesia e di Genova acquistarono, colla
libertà» una importanza e potenza, una gloria e prosperità sempre
maggiore. — Disgraziatamonto. però» le lotte fra oittà o oitt.à o quello
intorno tra lo olassl scoiali, prepararono la trasformazione dei
oomuni in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e mili¬ tarmente
debole» proprio nel moatroaldi là delle Alpi, in luogo del frazionamento
dei feudi e del oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e
nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa» giunta allora al colmo
della floridezza eoonomioa e oivile. Cosi fu ohe dalla fine
del 1400 Tltalia fu Invasa Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl.
Bonza ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza D'allora
In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa di Savoja e la repubblica di
Venezia poterono oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato
di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli nitri stati minori
(Ducato di Parma, di Modena, Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi
indiret- laiuonte soggetti. Dulia metà del 1500 fin al
prlnoipio del 1700 do¬ minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna»
a oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d- l'RmiUa (la
cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ra¬ venna» Ferrara) apparteneva alto
stat^/dolla Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Fran¬ cese
e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe nell'Italia settentrionale
grandi mutamenti. Pur troppo però» il Congresso di Vienna del 1815
as¬ segnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬ bardia
airAustria, mentre la Casa di Savoia ag- U Liguria al Piemoote ed alia
Sardegna, le derivava il titolo del itegno. tla l’e- rimento per la
liberaiione nazionale trovò nel Piemonte e nell* Italia
settentrionale mtri e focolari maggiori e s’iniziarono le ria unità
e l’indipendenza, l’ultima delle . tra coronata dalle gloriose vittorie
del li Vittorio Veneto. (Ved. Atl. tav. VI). 22. Sdpbbfioib b
popolazionb. — Sopra una superfloio ohe si può oaloolare, entro ai
oonfiiii fisioi, di circa 132 000 kmq., ha ora una popolazione che ei
calcola di circa 18 700000 di ab. pi codesta superfloie i
oonBni del Regno inelu' devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa,
mentre ora ne inoludono IZ7 000 ; e includevano otre» 16 milioni 0
>/z di ab., mentre ora la popolazione, per i nuovi acquisti (oiroa 1
milione e i/il o per il oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18
mi¬ lioni. Tale popolazione tende continuamente a
crescere, nonostante la forte emigrazione di alcuni compartimenti,
soprattutto del Veneto, del Piemonte e della Lombardia. La
densità dunque dell’Italia Bettentrio- nale entro ai nuovi oonBni del
Regno ri¬ sulta in media 141 ab. per kmc^., mentre entro ai vecchi
confini sarebbe di IBO. L’I¬ talia settentrionale ha perciò una
densità superiore alla media di tutta Italia, che nei 1921 risultò
di I2fj ab. per kmq. ed è fra le regioni d’Europa più popolose.
La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe province supera 200
e In quella di àlllano arriva fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e
speoial- mente nelle regioni montuose può soendero a mono di 60 por
kmq. — Oltre a oio 6 da osservare ohe, aehbeue la popolazione per le
indusirie tenda ad aumentare nello città, anche la popolazione
eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa e vive in case sparse e
in pioooli villaggi, ohe dànno alle sue campagne un aspetto molto
dille- rento da quello dell’Italia meridionale e della Bioilia.
Delle città deli’ Italia settentrionale consi¬ derate nella cerchia
del comune, una supera ormai i 700 000 ab-, Milano — una e^cra già
'/; milione, Torino — una supera 300000 ab., Genova — due superano 200
000, — Trieste e Bologna — una vi s’avvicina, Venezia — due superano
100000, Padova e Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano,
Brescia e Verona. La popolazione di quasi tutte le città dell’Italia
settentrionale tende a crescere. 83 Gruppi ni liroua kazioràlitX btraviera — Abbiamo già
detto ohe nelle valli Alpine Pie¬ montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e
nelle valli dpi Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS mila
individui : i quali sono però di eentimenti nazionali perfettamente
italiani. — Ugualmente legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe
par¬ lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros- soney.
Alagna, Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto- piano dui Sette Comuni in
provinola di Yioenza, oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU.
mentre inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^ oompatta
nelle valli superiori, oaloolata circa ZOO mila Individtii.ò stata finora
delle piò ostili contro l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si
tro¬ vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila
Sloeeni ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi nazionalmente fedeli
all’Italia : ma oltre ad essi si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini
del regno d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬
troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume oiroa i/i milione di
Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora molto ostili agli Italiani.
24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI PBO- DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl.
tav. IX). — L’agricollura occupa il maggior numero di abitanti ed ò
in più luoghi agricoltura in¬ tensiva, con vigneti (specialmente in
Pi^ monte) ed orti e veri giardini per la colti¬ vazione dei fiori
(in Liguria), — con campi ohe dànno un prodotto por ettaro pan a
quello dei paesi più progrediti dollaTerra, — con risaie (speoialmonte in
provinoia di Novara), — con prati irrigui (mar- oite) specialmente
nella bassa Lombardia, ohe permettono il girando allevamento del
bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo- digiano, come pure nel
Parmigiano); — fi¬ nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬
milia, — con la coltura della barbabietola da zucchero (nell’Emilia, nel
basso Veneto e altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto nella
Liguria e i gelsi diffusi in tutto il bassopiano permettono uno sviluppo
della bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi di maggior
produzione dellaseta nella'Terra. La Venezia Tridentina darà
all’Italia grande quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano
uu- nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>- londanti
nulla zona alpina. — La pesca t> fonte abbastanza importante di
guadagni lungo le coste dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di
Gomaoohio eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure. Ma
l’occupazione che subito dopo all’ a- griooltura ha raggiunto nell’
Italia setten¬ trionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindu- sfria
nelle sue svariatissime manifestazioni. Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale
supera senza confronto il resto d’Italia e può gareggiare con le regioni
più industriali dol- Pestero, nonostante la mancanza di mate- ' rie
prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io è uno degli ostacoli maggiori
alla prosperità eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza di
carbone mal si provvede con le ligniti o con il poco petrolio dell’Emilia
e molto più efficacemente, invece, ma sempre in modo inadeguato ai
bisogni, con le energie elet¬ triche ottenute dai corsi d’acqua.
Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono quelle
metallurgiche o mecoaniohe per fusione e lavorazione di metalli e
fabbrioazione di maooliine, di automobili, di navi, specialmente a
Milano, a Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Sa¬ vona
eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre località, come nel
Bergamasco e nel Bresciano. Non meno importanti sono le induatrie
teeaili: soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove, in modo
da gareggiare con I piu progrediti paesi della Terra sotto questo
riguardo ; del ootone, pure nel Milanese e nelle province di Torino, di
Novara, di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno
acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella (prov. di Novara) o di
Schio (prov. di VIoenza). Delle induetrie alimentari ha preso
grande svi- gliingova dalla qua foioo mo'
appatj»^ { •uoi 06 ^crre pe quali fu 5 Piave e
d luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di barbabietola
specialmente nell’Elmilia, nel Veneto o in Liguria. A (lenora sono anche
numerose le fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le t
alum trix di Modena e di liologna. Terzo grande ramo d’oootipazione
degli abitanti nell’ Italia settentrionale sono il commercio e la
navigazione ; il primo age¬ volato dalla posizione goograflna, e
dalla rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬ cialmente di
ferrovie, ohe s’intrecoiano in tutti i sensi e_ traversano, come
abbiamo veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse s’aggiungeranno Io
vie d’acqua interne, specialmente quella Padana. La
navigazione ò occupazione delle pili antiche per gli abitanti dei
litorali della Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio evo le
più potenti città marinare di quei tempi. Uenclib superati ormai sulla
Terra e nello stesso Mediterraneo da altri d’altre regionij i porti
di Genova, Venezia e Trieste gareggiano con i maggiori od è a
crederò furmamente che avranno uno sviluppo commerciale sempre più
intenso. Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬ trionale
supera le altre parti d’Italia in ricchezza e in generale anche nelle
varie formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬ tevolmente
sviluppata, d’ogni ramo o grado: gli analfabeti, sebbene pur troppo
non manchino, sono in generalo in numero mi¬ nore ohe altrove,
soprattutto nel Piemonte tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬
bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su 25. Rboio.vi stobiohb b
divisioni aumini- STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I- tiilia
settentrionale si divide in 8 compar¬ timenti 0 regioni storiche :
Piemonte. Liqu- ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino, che
costituisce la parto maggiore della Sviz¬ zera italiana, Venezia propria,
Venezia Tri- dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume, ed Emilia,
con la piccola repubblica indipen¬ dente di S. Marino. Di
questi compartimenti o regioni sto¬ riche (delle quali il Canton Ticino o
il Niz¬ zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte del Regno
d’Italia) diamo qui sotto la su¬ perfìcie e la popolazione, secondo il
cen¬ simento del 1921. Si noti, però, ohe tale superfìcie e
popolazione corrisponde alla somma di quelle delle provinole (che
sono le maggiori oiroosorizioni amministrative del Regno) ; ma i
uonfìni di queste non sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬
nici 0 storici dei compartimenti. In fìne al volume diamo in una
tabella i dati statistici particolari per le varie pro¬
vinole. Si noti poi ohe la popolazione che indi¬ chiamo fra
parentesi per le varie città nella | descrizione dei vari compartimenti
corri¬ sponde a quella della cerchia del comune, non del centro
principale abitato, che h la città vera. Tra l’una o l’altra di
tali cifre vi sono assai spesso differenze gran¬ dissime, ohe
rileveremo a mano a mano quando l’occasione se ne presenterà.
Dati statistici relativi alle ragioni dell’ Italia
settentrionale. Entro 1 nuovi confini politioi e
amministrativi. Superficie Popol. nel 1921
In km> assol. relat. l’iemonto
29 8b6 3 88S 000 116 Liguria . . .
. S 280 1 S'IO flOO 248
Iximbardia 24 180 S uo ooo 211
Vanesia propria . 28 010 4 2IS OOO
150 Venezia 'Tridentina . 18 800 645
000 47 Venezia Giulia 8 iOO OiO
flOO 103 Emilia . . . . 21 848
3 012 000 138 RepubhItQt di 8. Marino 00 12
OOO 200 Nizzardo ool Principato di
Monaco . 600 200 OOO 290
Svizzera italiana 8 8J0 170 000
43 Dati piò speolfioati, soprattutto per
lo'province. Si trovano in aopendioo at fasotoolo.
lo - IL PIEMONTE. r Confini e nosloni generali. —
Il Piemonte (In S latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si
T può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla { crosta
dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1 tuli 0 t'entrali fino alle
sorgenti dolla Tooe e al 4 lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide
soloiJ in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <| perohò
a questa appartrngono la Lomellioa o il I cosi detto Oltrepò Pavese,
formante il curioso ou- 4 neo di Bobbio. '4 Pisioaraento
ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL nura piemontese da Ounoo ai Ticino,
Il paeso ool- J linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y
Divisione in province. — II Piemonte, di oul / sopra abbiamo
indioato la suporfloie e la popole-'V alone a>soluta o relativa, ò
diviso in t province: ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione)
ohe 'I abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè gran parte
delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- . liane e parie dolio Cozie, un
tratto piano luogo il Poe le colline sulla destra del fiume; —di
Cuneo (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo' SW ; —
di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’ laz.) por niussima parto
formata dal Monferrato;! — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a
NE, , par.e alpina e parte piana. Occupazioiij degli abitanti
e prodotti. — I vi-, gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo] risaie
aoì Vercellese, dànno i prodotti più caratteristici del Piemonte. Il
quale ha ' grande sviluppo anche industriale a To¬ rino e dintorni
(industrie metallurgiche e > meccaniche), nel Diellese per la
tessitura di • lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J silura
di cotone, in Valsesia per cartiere^ Città principali. — Torino
6'20) capitale de l Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j 1885)
già capitale del regno d’Italia, o entro] deU'tilt.i valle del Po e delle
relazioni cora-J meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1
cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale] città d’Italia. Si
distingua da tutte le^altrej grandi oitt& italiane per la re^olarith
delle vie o le sue costruzioni tuoderno. Torino Tu oiilU 'Ini
risor|;irapnio itahiiiio r pa¬ tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U
ih'ranso, Kali'O, liio- (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo
(;.i- yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe
oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola flno a Carlo
Alberto. Impila provincia di Torino sono da ricordare an-
oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città d'orisine romana
di notevole importanza storica _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e
capo- luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome. Cuneo
(30), allo sboooo delle etrmle dei passi di Tenda e dell' Argenterà.
Sostenne oon esito felice otto assedi dei Francesi. Nella sua
provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo di un Uarohesato, patria di Silvio
Pellioo. Novara (60), molto commerciante. Sotto le sue mura
avvennero importanti battaglie nel 1613 e nel 1849. Grande centro di
pro- iluzione di riso. Nella sua provincia: ttirl/a (13),
soprannominata la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-
renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città sulla ferrovia
Torino-àlilano, in territorio fertilis¬ simo: centro del mercato del riso.
Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬ barda contro Federico
Barbarossa alla con¬ fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella pianti
rar di Marengo : ebbe in passato no¬ tevole importanza strategica.
Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima, repubblica dei
medio evo; centro vinifero del Pie¬ monte. patria di Vittorio Autori. —
Aeaui (15), fa¬ mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome. —
Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già oapiiale del ducato di
Monferrato. Importante centro vinloolo. 2o . LA LIGURIA.
Confini e nozioni generali — La Liguria fl- slonmente oooupa il
versante dell’ Appennino e delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a
W en¬ tro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle della
ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce della .Magra.
Etnograficamente però ed anche am- inliiistraciraraente la Liguriapassa
in qualohepunto al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò
con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto oon la lx>mbardia,
in causa del cuneo di Bobbio, oon l'Emilia e oon la Tosoana.
Divisione In province. — Ni divide in duo pro- rinoe : di Oenova a
E (la maggioro per sup. e par popol.) e Porto Maurizio a W.
Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo ristretUL moatuoso e
naturalmente poco fertile. Gli abitanti però seppero trarne il
maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed orti, che dànno, per il
clima, fiori e legumi primatiooi, ohe si spediscono in altre re¬
gioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti abbondanti sono : olio,
castagne, vino e a- riimi. Le industrie prinoipali sono
quelle el ferro e dei cantieri navali a Genova, a S. Pier
(l’Arena, a Savona ed alla Spezia; poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi),
del co¬ tone, eco.. Ma la riochozza di Genova b il commercio
marittimo, che supera quello di tutto il resto d’Italia.
Città principali. — Genova (300), sorta nel punto della costa ligure pili
opportuno per le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è il primo
porto e insieme una delle pili belle citth d' Italia. Edificata ad
anfiteatro su per il monte, ohe salo subito dal mare, manca di
spazio por allargursi ; e le costruzioni anche per l'ingrandimento del
porto furono assai difficili e costose. Un tempo ora pure piazp
forte ; ora non pili. I molti e son¬ tuosi palazzi le meritarono il nome
di Su¬ perba. Decaduta dalla sua prima potenza e dal suo splendore
dal 1600 in poi, riac¬ quistò tutta la sua importanza nel secolo
passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura del oanale di Suez e con i
trafori del S. Got¬ tardo e del Sempione. Ora Genova è rivale di
Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche por le industrie Vi nacquero
Cristoforo Colombo e Giuseppe Mazzini. Nell.a sua (Tovincla:
8. J-Her d’Arma (SOI, ò quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM
fon¬ derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-
deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon- siderarooome ti
porto del Piemonte — Npezia( 90), pruno porto militaru d'Italia, si trova
In fondo ad un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬
tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror d'acqua ^sta
diventando anche centro industriale. — Molte altre cittadine minori,
amenissime, Af- bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni
olimatloho di fama internazionale.j Porto Maurizio (9) è il
(piooolo c^oluogo della provincia a cui dà il nome. E’ diviso da
Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬ rente Impero, alla cui foce;fe il
piooolo,porto comune.Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me'
città ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome la Tlolna
Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii' km. dal oonflna franoese;
grande mordalo di (lori. Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante
filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana –
classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo,
rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato
federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia
romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.
Grice e Giacchè – l’altra visione dell’altro – Barba,
Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like Giacché; for
one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should appreciate!”
Grice: “Giacché is what I would call a philosophical anthropologist.”
Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision dell’altro,” for
example – difficult to translate, but genial nonetheless, or perhaps genial
because uneasily translatable!” – “He has philosophised on spectator and
participant, which is conversational in tone – there’s no monologue, but
dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of performances like
traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si
occupa di varie problematiche socio-culturali quali condizione giovanile,
devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa, politica culturale. Saggi:
Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo
spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano,
Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione
dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo,
Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino,
Roma. CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a
contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio
culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno-
antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di
Castiglione del Lago, PG) - anni accademici TITOLI DI STUDIO E INCARICHI
ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in Etnologia
conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di Perugia,
con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie
nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con voti 100 su
100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per “ricerche nel
campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia
culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto quadriennale (dal
1.11.77 al 31.10.81) presso la Facoltà di lettere e filosofia della stessa
università. Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della
stessa Facoltà, per gli anni accademici Ricercatore confermato dal 1° settembre
1981 al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia
culturale dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli
di lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della
devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello
spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc.
1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale
(unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni
accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia
culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di
Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il
Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di
Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di
Perugia, dal 23.12.2004 al 31. 12. 2013. Professore a contratto, docente di
Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della
L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio – anni
accademici Professore invitato, nel
quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Libre de Bruxelles -
facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere (9 - 27 febbraio 1998); (10
-15 marzo 2000). Visiting Professor presso l’Università di Malta, Facoltà di
Scienze della Formazione (23 – 29 aprile 2001). Professore invitato, nel quadro
del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII – Département d’Etudes
théâtrales (7 - 15 dicembre 2000 ; 10 – 20 gennaio 2002; 7 – 9 aprile 2004; 12
– 14 gennaio 2005). Professore invitato dall’Université Paris VIII per un
seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia della Maison de
l’Homme – Paris Nord Membro della Commissione per la Procedura di valutazione
comparativa per il reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline
demoetnoantropologiche (gennaio – luglio 2002). Docente del Dottorato
Internazionale in Antropologia ed Etnologia (A.E.D.E.) – anni accademici 2CONSULENZE,
COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente socio-antropologico
per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale dell’Umbria: “Decentramento e
sviluppo urbanistico” (15 - 25 ottobre 1979); “Anticamera” (novembre 1980 -
aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982). Consulente antropologico del
Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978 (Ricerca
sulla “popolazione reale”). Consulente del Comitato Regionale Umbro
Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul sistema dell’emitttenza
locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al 1989). Consulente e
collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo
di Romagna (edizioni: 1981 e 1982). Consulente e collaboratore del Teatro
Studio 3 di Perugia, dal 1981 al 1985. 2 Consulente e collaboratore della
1^ Rassegna Internazionale del Teatro di Strada (Montecelio di Guidonia, 24 -
31 luglio 1982). Consulente artistico e scientifico del festival di teatro,
musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno (edizioni 1985, 1986, 1987).
Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi centro teatrale “Dramma
Teatri”, dal 1982 al 1995. Consulente e assistente, in qualità di antropologo
del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013, della rappresentazione
teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la escuela jesuita en el
siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del congresso De los Colegios a
las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus relatos cotidianos, organizzato
da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de Mexico (Città del Messico, 25-29
ottobre 2013). Membro del comitato scientifico dell’International School of
Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con sede a Holstebro, Danimarca
(dal 1981 al 1997). Membro del gruppo di lavoro internazionale di Sociologia
del teatro, con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio (dal 1992
fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della Maison de
Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines” Membro
del comitato scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques,
Publics” della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro
del Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica
Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de
Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la
Société d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo
straniero. Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione
– 1997 – ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e
co-direttore de “La terra vista dalla luna” (1995-1996). Collaboratore della
rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti,
dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista
trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996.
Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal
2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al
2005). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni
e le Attività Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di
valutazione dei progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i
Beni e le Attività culturali. (giugno-luglio 2007). 3 Consulente della
Regione dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione
ed esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 –
settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero
per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato
Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal
2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale
europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in
qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la
formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione
umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e
aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di
prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna,
27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore
del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione
professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno,
febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati
di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico
regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione
professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di
biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali”
(Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni
di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier:
centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23
dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”,
seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori
(Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4 • Corso di Formation
Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris
VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia
della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università
“La Sapienza” di Roma (lezione del 29 gennaio 1991). • “Teatro, gioco,
narrazione”, progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e
Città di Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario
teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio
1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per
gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università
Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia
(Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41
dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario
di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte drammatica
“Paolo Grassi” (Milano, 24 e 25 marzo 1994). • V Corso Universitario
Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”,
organizzato dall’Unicef di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro:
culture del mondo a confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del
teatro nella scuola - Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina,
Roma, 19 - 21 ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle
scuole medie superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996).
• III Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo,
organizzato dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del
Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro contemporaneo.
Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio Calabria, 9 - 16
giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura
teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana -
organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre -
novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro”
(Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e
dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal
Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola”
(Forte dei Marmi, 21 - 23 febbraio 1997). • Convegno-seminario “La musa fra i
banchi di scuola. Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro e
scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997). 5 • Università del Teatro
Euroasiano, sessione dedicata alla formazione dell’attore e intitolata
“Apprendere ad apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). •
Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo! Tecniche originarie e tecniche nuove nel
teatro d’attore” - seminario interno al Corso di Sociologia dell’Educazione
dell’Università di Parma (Parma, 19 marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro,
per una formazione dell’educatore teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal
Teatro delle Briciole, dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e
tenutosi in tre sessioni a Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia
(17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento
per insegnanti degli Istituti medi e superiori su “1968 - 1969. Gli anni della
contestazione” (Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del verso »,
seminario di e con Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma,
Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Criticando criticando. Laboratorio d’analisi
dello spettacolo”, organizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale
Critici di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno
1998; sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. •
“I mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di autoapprendimento per
operatori dell’area penale esterna, organizzato dal Teatro Kismet e
dall’Università di Bari, con il patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia
(Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia
della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo, in
collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri
organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia
(ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68
e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di
aggiornamento per insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”,
Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti
delle scuole elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile
1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel
quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro
Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”,
seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24
novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del
1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come
disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000) 6 • “Divenire teatro”,
incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di
Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile
2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri di formazione
politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e
movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio
2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia”
(Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla
compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione dell’Università di
Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia”
(3.11.00). • “L’utopia del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo
2001), nel quadro di incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena
attorno ai “Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla
filosofia del teatro” (Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per
favorire l’inclusione sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del
corso organizzato dal Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna
Teatro (Modena, 19 ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione
della sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de
Sciences de l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza
sul Living Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le
idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro
Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo
Bene o delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del
‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo”
organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). •
“Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal
Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata). • Corso
per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro
Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del teatro e
spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005). •
Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato dalla
Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce (Lecce, 19
marzo 2004). 7 • Dimostrazione-conferenza “L’attore compositore:
Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro Internazionale
Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia, 30 aprile 2004). • Quattro giornate di
lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera,
Teatro di via Manzoni), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”,
organizzazione e cura della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole
des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le
visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National
d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du
Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati
dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). • “Arte
dello spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal Teatro
Stabile d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004
– aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo, organizzato
dalla Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica
“Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di lettere e
filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di
studio nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e
visioni dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune
di Roma (Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005);
comunicazione L’ultimo Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro
seminariale “Parole chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato
dai Cantieri teatrali Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza
dibattito sul libro di C. Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei
Priori, 23 novembre 2005). • Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro:
confronto su un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S.
Margherita, Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione
della ASL 2 di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale
Sperelliana, 17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la
nuova barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal
Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T.
(Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen
conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de
Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18
febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8
• “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini
organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio
di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che facciamo, nel
quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato dall’Istituto di
Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia
psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio
2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura – Seminari di
studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio –
aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della cultura
(Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”,
conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della
Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). •
Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche culturali”,
a cura del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), Modena, ottobre
2007- gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una prospettiva
antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II
(Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre culturas: La
adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint
en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e
organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio
2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello
spettacolo. • Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in
collaborazione con l’International School of Theatre Anthropology, organizzata
dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione
su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a
Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello
Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008);
Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. •
“Il potere di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi,
14 febbraio 2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società
Operaia di Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di
studi “La religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata
dalla L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda
Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni.
Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento
Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9 • “Voler Bene al cinema.
Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di
“Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la
ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare
la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre
2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura
di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes
Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production,
performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su
“Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire
“SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA,
Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour
quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito”
(Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo.
Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI
edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa
nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel
quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la
celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e
partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su
“La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). •
Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto
“Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio
per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25
giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare
dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita
Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism: Piergiorgio
Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia, Padiglione
Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della performance THE
INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo, 54th
International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre 2011). •
Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare dell’Istituto
Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo dell’anima? (Perugia, 11
giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un antropologo e un avvocato su
Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze di teatro in carcere 2011.
Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia Romagna” (Modena, Teatro delle
Passioni, 29 ottobre 2011). 10 • “La congiura della creatività”,
seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini, organizzato dal collettivo
Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio 2012). • Incontro con Marc
Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato dal Circolo dei lettori di
Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). • Incontro con Piergiorgio
Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, Milano, 12
luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce, teatro, cinema, televisione
secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. • “Memorie del sottosuolo. Il
teatro raccontato da spettatori speciali: Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene”
(Giardino del MUSAS, Santarcangelo di Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di
Santarcangelo 12 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio
’12. • “Raduno degli artisti della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia
alla scena”, incontro seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal
Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea
12: le arti della scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). •
Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario residenziale Università Elementare
de Gli asini nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia
aprile 2014) • Seminario su “La parabola dell’animazione teatrale” nel quadro
della seconda edizione della Summer School di Arti performative e Community
care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio
Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi
privati e pubbliche virtù, nel quadro della decima edizione del “Festival
Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014
(Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza
Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro” nel quadro della XVII edizione de
“IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e diffusione del teatro contemporaneo”,
organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). •
Conferenza Dal Living Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti
collaterali. Ciclo di incontri per la formazione degli operatori e del
pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18
dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere giovani, essere attori” (Pistoia,
Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile 2015) per il seminario residenziale
Università Elementare de Gli asini “La cultura di massa dall’emancipazione
all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia
9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze
etiche tra globale e locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del
presente: il globale e il locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto
Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste
Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al
globale e ritorno”. 11 • Corso di formazione per docenti presso
l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento
formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d
formazione per docenti “Teatro come cultura delle differenze”, organizzato dal
1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di
Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14
giugno 2016). Curatore e ideatore dei seguenti progetti o seminari speciali: •
“La casa de l’Odin”, Ciclo di conferenze sulla cultura teatrale e
sull’antropologia del teatro (Valencia, Barcellona, Castellon e Madrid, marzo -
aprile 1983). • “Apriamo un salotto: appuntamenti di restaurazione culturale” -
tre cicli di conferenze sulle attività e sulla politica culturale (Perugia,
marzo - giugno 1984). • “Storia & Geografia. Corso effimero di educazione permanente”
- cinque incontri dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per
favorire l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio
1985). • “La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di
conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile
1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli
ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro.
Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali
(Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” -
convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la
pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario
“L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma,
14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore
del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale.
Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000),
all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di
incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di
Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del
Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per
insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In
Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione
(Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore
(assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il
Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio
2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di
Perugia. 12 • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di
osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival
Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a
S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni,
Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di
innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. •
Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo
Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN)
luglio 2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione
dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le
ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti
italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato
dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e
conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore
teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15
ottobre 2011). • Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per
allievi attori delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione
teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte
Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e
coordinatore dei sei incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il
piccolo spettatore” a cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di
Perugia e del Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica –
dell’Università degli studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2
maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e
attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea
Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). •
Curatore e coordinatore del laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”,
organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia
nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto Interregionale di
promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente” (Teatro Brecht di
Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre 2013). • Curatore e
direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per un’accademia dello
spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal
dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del progetto “Verso
Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione
“Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima sessione
presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda sessione presso
il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13 • Ideatore e curatore
del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015),
organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale
Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla
Resistenza: problemi e contributi di ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). •
Convegno internazionale su “Droga. Dalle esperienze ad una proposta concreta. Aspetti
terapeutici, sociali e legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro
seminariale “Musica, Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 -
17 maggio 1981). • Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of
Theatre Anthropology (Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi
su “Improvvisazione e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di
studi su “Vedere ed essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno
di studi su “Come si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio -
4 giugno 1982). • Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17
- 18 giugno 1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali
e creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come
titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel
quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile
1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile
1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea
Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e
costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze
in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986).
14 • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro
delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno
Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987).
• Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello
spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su
“Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). •
“Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della
scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes
Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas
para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). •
Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17
- 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente”
(Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro
(Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un
espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta
sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della rappresentazione
e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth World Congress
of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di fondazione di “Mantis.
Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento funzionale” (Palermo, 15
e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate e teatro in Europa.
Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e culture europee”
(Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della Università del Teatro
Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno internazionale su “Teatro
Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17 maggio 1992). • 3°
Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione Gubelkian, Lisbona,
30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza nella storia. Eventi,
liturgie, rappresentazioni” (Università di Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre
1992). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano -
“Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993). • Giornate di
incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio 1994). • 1°
Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma, 28 - 30
aprile 1994). 15 • Convegno “L’identità collettiva e la memoria storica:
un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata d’Italia e
dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). • Convegno di
studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza Università di
Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e Carcere - “Immaginazione
contro emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi
e i salvati. Come, perché, dove e per chi fare teatro?” (Terza Università di
Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno internazionale per la fondazione del Centre
International d’Ethnoscènologie (Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su
“Pacifismo, disobbedienza civile, obiezione di coscienza: il ruolo della
Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo, 13 - 14 maggio 1995). • Congresso
Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics - “Pourquoi aller au théâtre
aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). • Convegno su “Teatro antropologico e
Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno 1995). • Convegno su “Tradizione e
modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto 1995). • Convegno Internazionale su “Teatro
e Scuola: Università ed Educazione al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). •
Convegno “Teatro e Scuola fra espressività e percezione” (Modena, 15 - 16
novembre 1996). • 5ème Congres International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20
- 23 marzo 1997). • Convegno Nazionale su “Arte del narrare, arte del
convivere. Incontro tra immigrati, educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 -
5 aprile 1997). • Convegno di studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività
nei possibili percorsi della riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16
- 17 ottobre 1997). • Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di
ricerca e nuovi orizzonti teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello -
Università di Salerno, 21 - 23 novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del teatro.
L’animazione trent’anni dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno
“Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina,
24 aprile 1998). • Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio.
Sulla verticalità del verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting,
Life, and Style”, convegno per un progetto internazionale di ricerca
organizzato dall’Italienska Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal
Teatervetenskapliga Institutionen della Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 -
13 settembre 1998). 16 • 3° Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso
il Duemila, il cammino di un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998),
tavola rotonda su “Il costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno
“Io sono la prima attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap”
(Milano). • Convegno “Un teatro per domani”, all’interno della X edizione di
Galassia Gutemberg Mostra mercato del libro e della multimedialità (Napoli,
Mostra d’Oltremare, Galleria Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di
studio per dirigenti e docenti della scuola “Il Corpo - la Macchina tra
avventura, traduzione, mistero” (Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). •
Congresso “Le Corps du Théâtre. À partir de la Méditerranée: organicité,
contemporanéité, interculturalité” (Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato
dalla Maison de Sciences de l’Homme, Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S.
dell’Università di Bologna. • Encontro Internacional de Novo Teatro para
Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa – Portugal, Centro cultural de
Bélem). • “Per un teatro popolare di ricerca”, convegno organizzato da La Corte
Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25 giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di
Studi “I teatri delle diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult.
Nuove Catarsi (Cartoceto –Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale
“Intrecci tra Educazione Arte Natura nella prospettiva della conversione
ecologica” (Amelia, 29 marzo – 1 aprile 2001), organizzato dalla Casa
Laboratorio di Cenci. • Giornate di studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti”
(Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001, organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e
dall’Università di Lecce. • Convegno “Il cinema al limite, al limite il cinema”
(Perugia, 9 novembre 2001), organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho
sognato che vivevo. Teatri della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze
di teatro con protagonisti non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati,
portatori di deficit, immigrati) a confronto con studiosi e amministratori”,
(Arena del Sole, Bologna) convegno organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e
dalla Regione Emilia-Romagna. • Convegno di Studi “Antropologia e poesia”
(Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), organizzato dall’Università degli studi
di Salerno e dall’A.I.S.E.A.- Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno
“Per un nuovo Teatro in Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio
2002), organizzato dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri
2001-2002”. 17 • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di
S.Agostino, 21 giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del
festival “Non voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e
alterità”. • Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino,
Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002),
organizzato dalla Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in
Scienze e Arti di Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through –
Tradition as Research at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards”
(Vienna, Theater des Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere.
Pratiche teatrali. Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze
di teatro con minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française,
28 febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo
dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia
Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International
d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) •
Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle
Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san
Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio
nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la
Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale). Controscuola. Riflessioni
ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero”
(Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International
symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared Reality”
(in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy Grotowski
and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile 2006. •
Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en Etudes
Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée d’Art et
d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa. Crisi dei
sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”, convegno
organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza Venezia, 1°
Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della
recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal
Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle
Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola
Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o
l’esempio di Carmelo Bene. 18 • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su
“Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa”
(Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione
dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della
tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro
della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra,
Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore.
• Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro
da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro,
nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera
del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio
2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. •
Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato
dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro
Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence
dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del
progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. •
“Ricordando Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010),
organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di
Macerata. • Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente.
1° Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera,
Museo Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera
Espressione e dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez
pas ça tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la
politique” (Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne,
nel quadro di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il
Living Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt
Brecht, 27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale
del Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide
della società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5
aprile 2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA
di Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19 • “Il
n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution
poétique” – incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche
artistiche e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba”
(Terni, Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab,).
• Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on
performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris
Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François
Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale
della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di
Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction
and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre
construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria
Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno
2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e
la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della
manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro
delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. •
Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque
International du Projet Européen PROSPERO (Salle académique dell’Università di
Liegi – Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université
de Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul
Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris
Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre
– 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après
Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire
National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon), organizzato da HAR,
Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8
Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di
Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia
Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio,
Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e
dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro
della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18
marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative,
mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei
Lincei. 20 • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura
e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto”
(Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international
d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université
Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013)
• Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11
settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna
Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma). • Convegno
Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia,
Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre
2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle
Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da
Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di
riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro
(Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro
della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro
Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche
teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi
strutturali dei processi di criminalizzazione” La solitudine abitativa come
fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed
esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 -
1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche L’identità dello spettatore e i modelli di
fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità,
Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992
- 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del
cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques
dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe
international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de
l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e
la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli
operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea,
progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano. ricerche empiriche: • Gli
atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione
carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno
1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico
per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile
(aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di
democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 -
1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione
“reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine
sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro
per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul
comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle
elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). •
Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca
dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre
1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del
Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei
risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca
del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e
sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per
l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). •
L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del
Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 -
giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria
(ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre
1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste
religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22 • “In compagnia:
ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore
teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa
dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro
con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen
Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting
Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla
definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del
progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera
Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il
nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di
innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta
Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con
le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del
“Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi
integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo –
costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia
Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale Sull’opera e il pensiero
degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione),
“Lo straniero Arte Cultura Società”, Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo
straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 –
92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli,
Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll.,
Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il
potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte
Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109.
Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll.
con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il
territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99
- 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in
coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp.
Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13
- 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10.
Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II,
n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e
intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La
Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7,
settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014,
pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati.
Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n.
21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24 La organizzazione del consenso nel
regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in
coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5,
Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in:
G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per
ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30
Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento
elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in
coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome...,
in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49
- 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX,
n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore
culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e
naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del
vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 -
64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica,
“Linea d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del
maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n.
1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a
Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4, giugno
1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista
dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura
da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria
della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M.
Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della
coscienza , trad. di G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola
del buon rettore, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno
1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura
Società”, anno II, n. 6, primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere,
“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63.
Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16,
primavera 2001, pp. 165 – 176. 25 Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto
dell’università, fra la nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura
Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco
(per tacere di sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI,
n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo
straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa
e quella guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39,
agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio
2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005,
pp. 10 –13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco
Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un
cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La
montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n.
94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore),
In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008,
pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp.
18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini
– E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca
l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18).
Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che
viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève,
ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del
prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127,
dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26 Teatro e politica
all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento
sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168.
Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133,
luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di
Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21.
Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni
dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due
tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo
2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima
volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n.
154, aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista
di educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e
meritocrazia nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013,
pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp.
35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura,
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171,
agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini
Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti
autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo
Opposizione e liberazione. Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del
Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile) della coscienza, “La terra
vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto
1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista
dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 -
49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o,
Roma, 1996. L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123
– 133. Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti
pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226
pp. 27 Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009,
(www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli
amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di
chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9,
aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello
spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni
di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del
sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno
di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12,
novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie
viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9.
Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento dell’approccio
socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III, n. 1, aprile
1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la identidad
del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto 1989, pp.
93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche
anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23,
1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos
Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio
1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul
teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90.
Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini
e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero,
in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività
teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 -
76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del
teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992,
pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea
d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra
antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64.
L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3
- 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione
della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia:
eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995,
pp. 201 - 254. 28 Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per
Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra
ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie,
“Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de
Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico.
Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del
teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna
Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina
attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente del
Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au
théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre
aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes
Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio
Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”,
anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo,
“Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 –
14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della
diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia”
19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77.
Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de
Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès
International de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) ,
Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato
dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 -
26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna
Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno
(Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre
1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone
(recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998,
pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di
teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux
confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie , “Diogène”,
n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At
the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and Anthropology,
“Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’
del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro
di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici
teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di
ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64.
29 Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana
ripartoriti dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n.
10, ottobre 1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini,
(intervista), “La porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le
bugie della scuola e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 –
45 (ripubblicato in: Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe,
allegato a “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004,
pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno
XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo
terzo. Incontro con Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5,
maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il
cielo. Incontro con Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura
di), Tragicamente. Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano
(PI), giugno 2000, pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo
Teatro a cielo aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n.
6, luglio – agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè
(a cura di), Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di
Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene.
Incontro con Carmelo Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp.
48 – 59. Il teatro fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia,
in: F. Gentili (a cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la
memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere
i suoni e ascoltare le visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle
Politiche Educative, Arte del narrare, arte del convivere (Atti del Convegno
nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo,
2000, pp. 123 – 138. L’identità dello spettatore. Un saggio di Antropologia
Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000, pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir
les sons et écouter les visions, “Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp.
100 – 113 (ripubblicato nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing
Sounds and Haering Visions, “Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002,
pp.77-87.) Carmelo Bene, attore della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura
Società”, anno VI, n. 22, aprile 2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro
e il pubblico del rito, in: A. Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di
Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale. Testimonianze e
proposte a partire dai 20 anni di esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci,
Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino,
Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e
il Teatro: un anno senza “stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del
’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza
“stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII,
n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71). 30 L’avventura finale di Benigni
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31,
dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53. Questa non è una tragedia
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 44, febbraio
2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e
teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di
psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in
“Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp.
68 – 75, con il titolo Perdere un amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato
in: B. Massimilla (a cura di), La perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium
ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150). Apparire alla Madonna, postfazione a: C.
Bene, Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani,
Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè du spectateur. Essai d’anthropologie
théâtrale, “L’Ethnographie. Création, Pratiques, Publics”, n. 3, printemps
2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro in festa (recensione), “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno X, n. 72, giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76,
ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo alla poesia: l’esempio e il metodo di
Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura di), La coscienza altra. Antropologia e
poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni (SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio
“Antropologia e poesia”, organizzato dall’Università di Salerno,
Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212. Carmelo Bene. Antropologia
di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani ed.,
Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota (recensione), “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83, maggio 2007, pp. 107 – 109.
“Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura del mondo, in: Teatro delle
Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori), Suburbia. Molti Ubu in giro per
il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008, pp. 99 – 109. La verticalità e
la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M. Biagini (curatori), Opere e
sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, Bulzoni ed.,
Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le mithe dans le théâtre
contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV., Réécritures de Mèdée , (sous
la direction de N. Setti – Centre de Recherche en Etudes Féminines et Etudes de
genre, Université Paris 8), “Travaux et Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230.
Saldi di fine stagione, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII,
nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp. 104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, n. 100,
ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31 Un soffio di teatro, in AA.VV., In
cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era – In carne ed ossa), (a cura di
S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp. 118 – 126. De la consommation du
théâtre au théâtre dans la société de la consommation (nouvelle édition),
“Degrés. Revue de synthèse à orientation sémiologique”,
L’effetLiving.Lavisiond’Artaudparles“Balinais”deNewYork,“Theatre/Public”
(L’avant- garde américaine et l’Europe / II. Impact), n. 191, décembre 2008,
pp. 9 -12. Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio
Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo
Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5
avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al
cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 –
6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109,
luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, Bene Detto. Dispensa per Oratorio e
Laboratorio, (a cura di P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G.
Fofi, P. Giacchè, J.P. Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora,
Mondaino, 2009-2010, 143 pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U.
Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma (curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del
Teatro, Hollitzer Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3
– 16. Los verbos transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a
cura di), Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp.
153 – 182. Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son
double, “UBU Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le
théâtre européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais /
bilingual English-French review, Uomini e dei in un film francese (recensione),
“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, L’antropologia del teatro e il
teatro della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il
campo della cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis
Edizioni, Milano- Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si guarda
da sola, “L’altrapagina”, Lo spettatore ospite, “Culture teatrali. Studi,
interviste e scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di Voce,
a cura di L. Amara e P. Di Matteo), La parabola dell’animazione teatrale, in:
D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini.
Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, Non fare
l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata, (trad.inglese:
pp. 175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XV, Les Menoventi et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G.
Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la
scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de
l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), Liquidité
et/ou verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides –
territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives
théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue
“Alternatives théâtrales”), Le public est mort. Vive le Public! Sur la poétique
et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu –
L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards sur le mauvais spectateur –
Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca,
Romania, Barba e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro
e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., (riedito in francese,
traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre.
Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine Naugrette),
Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris, Il pubblico troppo
emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”, Espectador-Hòspede, “Revista
Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, - http://www seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le
Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er
trimestre 2013, Bruxelles, Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre
de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée
(Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29
settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, Teatro e
comunità, “Scena”, Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V.
Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto
editore, Firenze, Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di
drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, Un Pinocchio letto per Bene,
introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano, 2014. 33
Vers la verticalité du vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, (D’Après Carmelo
Bene. Actualité), pp. 345-354. Il combattimento tra la teoria e la poesia
(dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste
teatrali”, anno XIX, nn. Il teatro piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le
sue regioni. L’età repubblicana, vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L.
Sciolla)”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,
Abramo Printing, Catanzaro, 2015, pp. 485 – 503. Carmelo selon Jean-Paul in:
Croisement d’écritures France-Italie. Hommage à Jean-Paul (sous a direction de
Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca Salza), éd. Mimésis, Vêtements liturgiques
et corps dévôts, in: Jean-Marie Pradier (sous la direction de), La croyance et
le corps. Esthétiques, corporeité des croyances et identités (Actes du 7°
colloque international d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires
de Bordeaux, 2015, pp. 113 – 121. Il presente curriculum comprende i titoli, le
attività e le pubblicazioni al 31 dicembre 2016 Il sottoscritto è a conoscenza
che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le dichiarazioni mendaci, la
falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti ai sensi del codice penale
e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto autorizza al trattamento dei
dati personali, secondo quanto previsto dalla Legge 196/03. Quanto dichiarato
nel presente curriculum vitae corrisponde al vero ai sensi degli artt. 46 e 47
del D.P.R. Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords: l’altra visione dell’altro, Clifton,
religion and education, ego et tu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A
Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giacomo – icona -- sensibile, imagine, presentazione, rappresentazione,
formante e formato, contentente e contenudo -- l’inspiegabile – filosofia
italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Avola).
Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e figura, immagine, rappresentazione.
Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana
d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia
l'interpretazione che vede una'immagine come lo specchio di una cosa
(“Fido”-Fido). E necessario rifiutare anche quella interpretazione del concetto
di ‘imagine’ che la considera esclusivamente come un segno significante di se
stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’ implica qualcosa che si mostra e nel
manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della rappresentazione stessa.
Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine manifesta l'altro del
perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si rivela nel perceptibile,
nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una immagine si fa un ‘icono’ di
quello che e altro il perceptibile. Afferma la tendenziale perdita di ‘figurativita’
di una immagine e del continuare a sussistere dell'immagine stessa. Una
immagine, infatti, è una segno e insieme una non-segno. E il paradosso di una
“irrealta reale”. Si riferisce al tentativo di scindere la natura ancipite
dell'immagine negli elementi che la compongono. Da una parte in un “readymade”
(come l’urinale di Duchamp), nel quale la dimensione rap-presentativa si
dissolve in una dimensione puramente PRE-sentativa, e dall'altra in una pura
immagine soggetiva, dotata di un debole supporto materiale. Una immagine e una
meta-immgine: l’immagine di una immagine (homuncular regressus ad infinitum of
Griceian theories of representation, according to Cummings, but not Grice!). Di
questo modo, una immagine non e neppure propriamente immagini quanto piuttosto una
‘simul-azioni’, simile allo imperceptibile, un “simul-acro”. Non a caso una immagine, in quanto ri-produzione
(doppia) ha uno scarso valore di immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere
dell’ ‘aspetto’ di una cosa. L’immagine
perde così quella connessione di ‘trasparenza’ o ‘opacità’ che caratterizza una
immagine autentica. Di qui, appunto, la questione di realizzare una immagine
vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione epifanica che è
propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di mani-festazione
di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una concezione
dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni pretesa di
esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può essere
interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’ (translation)
in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è impossibile
raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non* con la
memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa
che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né
“indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a
partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine
valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile
(spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è
una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna
compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto
col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere
l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e
quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un
orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano
essere abbando il NON-senso. Altre opera: “Dalla logica all'estetica”
(Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo,
Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul
Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis,
Milano, "Volti della memoria", Mimesis, Milano,
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano,
Mimesis, "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al
Minimalismo", Carocci, Roma, Fuori dagli schemi. Estetica e figura
dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, "Arte e modernità. Una
guida filosofica", Carocci, Roma, "Una pittura filosofica: l'informale",
Mimesis, Milano, "F. Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio,
Milano, Media e divulgazione Art
and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo
da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra
estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra
Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle
origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”, "La questione dell'aura tra Benjamin e
Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”. Giuseppe Di Giacomo
è stato Professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia della Sapienza Università di Roma fino al 2015 e, dopo il pensiona-
mento, dal 2015 al 2017, è stato professore a contratto di Estetica presso
stessa la Facol- tà. Sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della
Sapienza Università di Roma, è stato membro del Collegio dei Docenti del
Dottorato di Ricerca in “Filosofia e Storia della filosofia” e Presidente del
Corso di Laurea Magistrale in “Filosofia e Storia della filosofia”. È socio
fondatore e membro del Consiglio di Garanzia della Società Italiana d’Estetica
(SIE). È direttore della collana Figure dell’estetica presso l’editore Albover-
sorio (Milano) e della collana Forme del possibile, presso l’editore Mimesis
(Milano); fa parte del Comitato scientifico della rivista Paradigmi, della
rivista Studi di estetica, della Rivista di estetica, della rivista Estetica.
Studi e ricerche, della rivista Compren- dre. Revista catalana de filosofia,
della rivista on line Memoria di Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean
Studies e di Aesthetica Preprint, collana editoriale del Centro In-
ternazionale Studi di Estetica. Fa parte inoltre del Comitato scientifico delle
seguenti collane editoriali: Filosofie (Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi
(Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis, Milano). È stato Coordinatore nazionale
dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Ita- liana di Estetica e
coordinatore, dal 2001, di numerose Ricerche di Ateneo dell’Università degli studi
di Roma “La Sapienza” relative a diverse tematiche filosofi- che, estetiche e
artistiche. E’ stato inoltre responsabile di diversi progetti PRIN. Dal no-
vembre 2012 all’ottobre 2015 è stato Direttore del Museo Laboratorio di Arte
Contem- poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del
Museo Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha
ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte
Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di
carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la
musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo
all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul
teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la
Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio).
Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a
Wittgenstein (Parma, 1989); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine
tra presentazione e rappresentazione (Palermo, 1999); Estetica e letteratura.
Il grande romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua
spagnola a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia,
Servicio de Publicaciones, 2014); Intro- duzione a Paul Klee (Roma-Bari, 2003);
Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari, 2008); Beckett ultimo
atto (Milano, 2009), Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e
astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto nella pratica artistica, (Para- digmi, 2,
2010), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica,
2013), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma,
2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi
(Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al
margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo
XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro
(Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi
di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni
(Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1
Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e
l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca
internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e
di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni
di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di correlatore o
tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere
sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat
de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de
Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona;
Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic;
Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca;
Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca;
Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de València;
Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi
post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for
the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic
University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC),
Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; Monografie ·
Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al-
boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 · Una
pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 · Fuori
dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza,
Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al
margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo
XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) ·
Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma,
2014 ·
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis,
Milano, 2012 ·
Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 ·
Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza,
Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal-
quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de
Publicaciones, 2014); 2 · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine tra
presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla
logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989
Curatele · G. Di
Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane. Otello e Re Lear,
«Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti
visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) · G. Di
Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni,
Mimesis, Milano, Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e
Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le
arti. Trent’anni di estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di
Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di Estetica», 52 (2013) · G. Di
Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di Estetica», 45
(2012) · G. Di
Giacomo (a cura di), Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 · G. Di
Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra di
Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2
(2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura
di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 · G. Di
Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano,
2009 · G. Di
Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte con-
temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D. Malquori,
L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a Ginostra,
Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, 2018, pp. 5-10. 2017 Il problema
della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di),
Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore,
Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un
mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a
cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3,
2017, pp. 85-108. 3 2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo
della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture
shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017
Dostoevsky, a writer and philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU-
DITORUM”, Publishing house of the
Russian Christian Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i
innovació en l’art, in “La Tradició”, Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de
Filosofia, Institut d’Estudis Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017
Understanding of the «image» in Plato, in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE»,
Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF
PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA- NITIES, Saint Petersburg,
June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di Fascia A (in Russia “VAK”)
“Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov
R. V., Robinson T. M. (Canada), Protopopova I. A., Mochalo- va I. N.,
Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova E. V., pp. 163-170. 2016 Form,
appearance, testimony: reflections on Adorno’s Aesthetics, in G. Matteucci, S.
Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and Dialectical Experience /
Verità ed esperienza dialettica, “Discipline filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet,
Macerata, Tàpies e Bill Viola: un'arte che sopravvive alla mercificazione, in
G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica,
architettura, “Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione,
costruzione, icona nella concezione artistica di Pavel Florenskij, in D.
Guastini, A. Ardovino (a cura di), I percorsi dell'immaginazione. Studi in
onore di Pietro Montani, Pellegrini Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016
Prefazione a A. Lanzetta, Opaco mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog-
gia, pp. 7-9 2016 Reflexions filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i
eternitat, in “La festa”, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia,
XX, Vic, pp. 51-66 2015 The Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what
Greek myth has already taught us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P.
Persichetti (a cura di), Art of Blade. A book about surgery and humanity,
T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis
de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella
Recherche di Marcel Proust, in G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita.
Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138.
4 2015 Lettura dell’Amleto, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di),
Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015
Lettura del Macbeth, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e
teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 111-125. 2014 Arte,
linguaggio e rappresentazione nella riflessione filosofica di Wittgenstein in
Comprendre. Revista Catalana de Filosofia, 16,2, pp.29-50. 2014 Icona e
immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R. Menna, P. Poglia- ni
(a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro,
Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves representacions, in
L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014 Dalla modernità alla
contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di Giacomo, L. Marchetti
(a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Stu- di di
Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i el silenci: la
filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni Bosch-Veciana,
"Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de Filosofia, URL, 2013
2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra “visibile” e “visivo”,
in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a cura di), Costellazioni
estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini
e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La questione dell'aura tra
Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013), pp. 235-256 2012
Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a cura di), La
vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp. 37-48 2012
Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012), pp. 65-94
2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre.
Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de
la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat
Catalana de Filosofia, Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's
Philosophical Reflection, in “Aisthe- sis. Pratiche, linguaggi e saperi
dell’estetico”, anno VI, n. 1, pp. 151-172 (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/
article/view/12844/12158) 5 2012 L'opera di Kafka come narrazione
infinita, in A. Valentini, Il silenzio delle Sire- ne. Mito e letteratura in
Kafka, Mimesis, Milano, 2012, pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto paradossale del museo
tra globalizzazione e apertura all'alterità, in «Studi di Estetica», 45 (2012)
"Il Museo oggi", a cura di G. Di Giacomo e A. Valentini, pp. 7-26
2012 Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in Volti della memoria, a
cura di G. Di Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano, 2012, pp. 445-481 2011 La
idea d'Europa entre la cosciència de l'ocàs i l'obertura a l'altre, in Europa,
in J. Monserrat, I. Roviró, B. Torres (a cura di), Societat Catalana de
Filosofia, Barcelo- na, 2011, pp. 71-78 [Atti del convegno, Col•loquis de Vic,
XV, Vic, 2010] 2011 Arte e mondo. A proposito di alcune riflessioni di Georges
Didi-Huberman su Bertolt Brecht, in D. Guastini, A. Campo, D. Cecchi (a cura
di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La
Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011 Intervista sulla bellezza, in
Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su bellezza, chirurgia plastica
e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 128-136 2011 La
produzione artistica contemporanea attraverso la riflessione di Benjamin e
Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp. 5-20 La relaciò entre imatge
i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin i Adorno, in I. Rovirò
Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro- pea. Estudis d’estètica:
entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp. 9-27 L’immagine-tempo da
Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati- che, linguaggi e saperi
dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80,
(http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010
Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2
(2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero
Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in
G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una
mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010
2010 6 2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia
Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010
Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica,
«Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi.
Produzioni artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a
cura di), Il male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e
moda nella riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici.
Scritti in onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009,
pp. 213-225 2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura
di), Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer,
Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della
rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo
atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera
d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto
estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La
questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle
"Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al
di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos,
Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione
estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini,
Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions
artistiques et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp.
153-171 2008 Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di),
Dialettica negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp.
195-207 2008 C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A
proposito di Luigi Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine,
Mimesis, Milano, 2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C.
Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza,
Roma-Bari, 2008, pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un
incontro, in in F. Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora
nella relazione analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat,
Societat Catalana de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e
arte, in J. Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del
convegno, Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7 2007 Dal cosmo al caos:
la pittura di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print
Company, Roma, 2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di),
Perché si ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo,
2007, pp. 133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del
Novecento, in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia
dell'arte e beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di),
Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der
Brenner, Bolzano - Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a
Benjamin: riflessioni sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R.
Colombo (a cura di), «Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39
2006 Il "Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione,
in G. Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre»,
2 (2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della
prospettiva, ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006
Sul corpo. Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006),
pp. 9-20 2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della
psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura
di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di
Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz,
in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla
"Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005
Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura
di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint»,
Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella
"Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004),
pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de
Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle
"Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004,
pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P.
Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino
Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della
rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp.
79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura
di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le
nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur-
go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del
Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8 2003
Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa
guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001
Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3
(2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura
di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001,
pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo
perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998
Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra
di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998,
pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura
di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione
del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, Etica ed estetica nella
filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo,
Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in
"Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione
possibile», 5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo
nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp.
48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in
«Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del
linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna,
Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della
filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la
cultura contemporanea, Longo, Ravenna, Implicazioni e aspetti epistemologici
della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di),
Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e
cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi"
di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di),
L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp.
37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente
promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica
analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a
confronto 9 Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN /
Responsabile nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e
rappresentazione nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR
2007, 24 mesi; Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di
Ateneo: Immagine e rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici
Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto
di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento
- Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; -
Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto-
Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura
dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La
Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza
nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore:
Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di
Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e
artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 /
12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella
riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita
nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche
- Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di
Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at-
tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La -
Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella
riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma
"La Sapienza" 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente
promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto-
re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10
Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della
Società Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università
degli studi di Roma “La Sapienza” - Seminario sul tema Estetica e storia
dell’arte: necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema
Fine (della storia) dell'arte?; - Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual
Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto
comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; -
18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?;Seminario sul tema
Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web ufficiale:
www.giuseppedigiacomo.it - https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ;
https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/
wiki/Giuseppe_Di_ Giacomo
https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and
playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the
old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created
swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well
as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the
Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a
large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter
Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and
playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that
supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist
in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the
aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a
Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The
play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the
sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the
entitled, privileged, and violent Alfredo. Parallel to this love story,
the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and
Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a
grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite to defend
the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s
commission for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s
artist was thus, in no uncertain terms, a struggling genius waiting for
recognition from his fellow artists even at the height of his success. Indeed,
the episode concludes with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete
più il povero Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no
longer the poor ‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1
Loosely based on actual historical personages, the tale is almost entirely
fantasy. Such theatrical characterizations are nevertheless of great
importance, for they help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s
sixteenth-century notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth
century, Carlo Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the
artist, were the primary sources for many of these tasty morsels, and while
scholars have tried to sift fiction from reality, some myths are just too
delectable to give up. We still hear repeated, for instance, the unfounded
story that the young Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not
entirely impossible, but there isn’t a shred of solid evidence to confirm the
tale (any more than Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as
a boy so that father and daughter could wander the city streets unimpeded by
society’s strict gender expectations). The image of
Tintoretto-as-rebel would culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner
of Venice”(1964), where the artist is reinvented as an existentialist hero, a
lone wolf fighting against the stultifying rules of the system: Fate has
decreed that Jacopo unwittingly expose an age which refuses to recognize
itself. Now we understand the meaning of his destiny and the secret of Venetian
malice. Tintoretto displeases everyone: patricians because he reveals to them
the puritanism and fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he
destroys the corporate order and reveals, under their apparent professional solidarity,
the rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied state of
painting and the absence of God discloses to them, under his brush, an absurd
and unpredictable world in which anything can occur, even the death of
Venice.2 At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best
played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996),
in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum
(really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a
Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius
for painting “outside the academic convention of sixteenth-century
Venice.” Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto
myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the
celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth.
Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international
banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the
Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie
dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at
the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s
Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at
the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings
and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art. The fete
continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where
slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions
go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian
Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for
audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto
and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art
historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the
Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan
Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general
should take note. IT’S HARD NOT TO get swept up in all the
unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an
opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work.
To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a
pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as
a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs.
Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For
instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption
of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement
was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait
(with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was
called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a
court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas
to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di
San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576
during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale,
destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with
works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably
no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists
might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in
constant antagonistic competition. Many romantic myths are
dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue
essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as
“The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano”
(After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as
influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large,
powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the
Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these
achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section
labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci,
Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found
inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme
foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot
worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and
busted-out straw chairs? The oft-repeated trope that Tintoretto was an
outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider,
born in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and
Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by
Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon.
While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic
lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the
artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania
Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies
“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize
the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be
more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born
woman.” The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable
enough to give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to
befriend the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi,
including the notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an
early supporter of Tintoretto). Like his father, Tintoretto married
up. His father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential
family of Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di
San Marco, where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest
early work, Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping
in headfirst from the sky to protect a slave from being martyred for his faith.
Current viewers need not be intimidated by the religious matter of the vast
majority of Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and
death. According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one
beholder of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint,
and the piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt
like wax and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic
doctrine in pictures, these works were meant to move, delight, and instruct
their audience. Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive
today, he would be an unapologetic fan of action films and special effects.
Looking at Miracle, with its explosive light and tense shadows, its superhuman
heroes and racially profiled villains, and its meticulous staging of powerful,
muscular, controlled bodies, one might think he invented the genre. No wonder
Boschini described him as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4
Unfortunately, Miracle of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic.
Audiences in D.C. can, however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing
the Lame (ca. 1550) and the always pleasing Creation of the Animals (1550–53),
which the French philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God
as a referee “at the start of a handicapped race, in which the birds and the
fish leave first, while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await
their turn.”5 While Miracle has been in the possession of the Gallerie
dell’Accademia for many decades now, seeing it anew, rehung next to the
diminutive bronze relief of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo
Sansovino, was one of the highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With
the works placed next to each other in a darkened room, the similarities and
differences were enlightening. Designed and executed between 1541 and 1546 for
the north tribune of the choir at the Basilica di San Marco, Sansovino’s
glowing bronze panel reduces the scene to a compact, tactile, monochromatic
field of chiaroscuro with a vibrant mass of bodies emerging from the picture
plane in dynamic, agitated poses. Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth
year when he painted Miracle, clearly looked closely at the dramatic effects
that could be sculpted out of gesture, form, and composition alone. To this art
he would add the detail of expression, the intensity of extreme lighting, the
terribilità that often comes with scale, and the incomparable power of
color.WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY audiences might think it odd for an
ambitious artist to unveil a painting so closely modeled on a recent work by
another artist, the reuse of motifs was a common Italian Renaissance practice,
as was made clear in an insightful section of the Palazzo Ducale exhibition
simply called “The Recycler.” Tintoretto and his assistants, after all,
produced more square footage of painting than any other workshop in the
Venetian Renaissance. In one instance, the painter salvaged an old composition
from his painting Mystic Crucifixion by cutting, splitting, and reintegrating
the canvas into a new picture, The Nativity(ca. 1550s and 1570s); on another
occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a previously used figure of St.
Lawrence intended for the Bonomi family altar in San Francesco della Vigna,
transforming the martyr into Helen of Troy. Such shortcuts were standard in
most Renaissance workshops, especially prolific ones that had to turn out
hundreds of altarpieces, portraits, mythological paintings, battle scenes, and
other pictures. The juxtaposition between the Florentine sculptor and the
Venetian painter also underlines Tintoretto’s connectedness with other artists.
He painted Sansovino’s portrait more than once, even signing one of the works
as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus” (which, if you believe the
inscription, means they were Renaissance BFFs). Tintoretto was an artist’s
artist. His profound sense of community comes across in a rather touching
contract found in the Venetian archives and included in the small but brilliant
“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at the Scuola Grande di San
Marco. In this document, drafted and signed shortly after Christmas in 1585,
the artist agrees to provide works and forgo any payment on the condition that
the confraternity admit four people: his son Giovanni Battista Robusti; his
son-in-law Marco Augusta (the real-life husband of Marietta); the tailor
Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo Girardi. His dedication to
his family, friends, and students is also borne out in numerous workshop
drawings, which are well represented in D.C. Offering important
opportunities for artistic communion, drawing had its pragmatic as well as
pleasurable purposes. In several sketches made after a copy of the ancient bust
known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands working seemingly side by
side, line by line, smudge by smudge, highlight by highlight, with the goal of
mastering the visible world around them. The willful way that these graphic
studies dematerialize carved stone and reincarnate the male portrait head into
what looks at first glance like the image of a flesh-and-blood subject is
remarkable. In this sequence, note especially the Morgan Library drawing
rendered by what the curator identifies as a “left-handed draftsman.” The work
seems almost too bold in its deliberate, sweeping gestures to be “workshop,”
but then Tintoretto was clearly a very good master with some very capable
assistants. In Tintoretto’s drawings and paintings, one often feels
that he is “sculpting” with chalk, charcoal, watercolor, oil, and pigment,
ignoring the flat surface of the paper or canvas. This comes across not only in
the speckled black-and-white patterns of his drawings from sculptures (which he
avidly collected) but in his life studies, too. His rendering of flesh
frequently seems to be rippling and quivering with animal energy, as if the
artist were trying to catch the living body in motion. His is possibly the most
atomistic rendering of the human form in the Renaissance. The frenetic,
vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm (ca. 1577), for instance,
exemplify this stylistic peculiarity: the contours of the mythological body can
never sit still but seem to be in a constant state of flex and flux. (Indeed,
Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s Nude Descending a Staircase
and every episode of “The Incredible Hulk” seem old hat when they appear
centuries later.) One of the art-historical myths destroyed—hopefully
once and for all—by the exhibitions in honor of Tintoretto is that Venetians
did not really draw. Some did more than others, and Tintoretto and his
assistants surely drew up a storm. On various sheets we find words such as fa
(make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good) scrawled across the
surface; sometimes figures are singled out by an asterisk. These marks were
workshop instructions on designs that had been cleared for production by the
master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat (1578–79) were
frequently greased and held up to the light so that forms could be retraced on
the verso, offering compositional options. Many have squaring grids drawn
across them. In some instances, this facilitated the transfer of the design
onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction of
foreshortening and the adjustment of figural proportions. Of the
thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National
Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists.
The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to
map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of
light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many
Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for
example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out
his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white
gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however,
Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and
forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was
completed. PAINTERS AND people interested in the way things
are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process
is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the
didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil sketch
Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included in the
2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in New
York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with flesh
and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds these
drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland
Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition
catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral,
intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely
scripted. Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of
Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings who
endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must admit
that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly spot
on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical
composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55): Everything is
simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single
instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the
spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but
each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of
things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated
from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works,
we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its
predecessor which returns, behind our backs, to its original status of
petrified memory.6 Time and space collapse in on the spectator’s embodied
experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as
early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described
in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and
walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a
drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These
fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart
jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7 One must
be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force
of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with
Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these
works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem
capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to
devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick
ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas,
the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently
depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to
engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form
of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but
for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous
variability and richness. In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the
difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly
figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s
schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green,
pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the
master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in
reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black
patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly
into near abstraction. Renaissance drawings are so fragile and sensitive
to light that they can be exhibited only rarely, and many Tintoretto
paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of
their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial
retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on
the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be
missed. Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei
quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46. 2.
Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of
Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore,
1983, p. 185. 3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by
Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966,
p. 280. 4. Ibid., p. 4. 5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic
of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7. 6.
Sartre quoted in Lepschy, p. 189. 7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too
good an artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking
affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and
stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the
second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin,
who was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after
his father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five
undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione,
Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have
never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able
to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on
occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls,
ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing
commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was
not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest
paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet
long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and
perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent,
brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures
whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to ashes.
But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest
daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too
late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a
brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his
behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him.
Nothing inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of
Tintorettos in European and American collections with a few loans from Venice,
where hundreds of his paintings—including his greatest works, such as “The
Miracle of the Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and
galleries. The show more than overcomes doubts about presuming to assess the
artist outside his home town, which he is known to have left just twice,
briefly, in his life. The well-restored canvases, shown in good light, sparkle
and blaze. Some make plungingly deep space with muscular figures of different
sizes; your mind provides perspective that the artist didn’t deign to chart.
Others array action on intersecting diagonals, along which someone is apt to be
arriving from somewhere at terrific speed. (There is an old line that
Tintoretto invented the movies; his ways of enkindling routine scenarios, with
thrilling visual rhythms that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with
his brush, light over dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous
density to forms that are hit with highlights like spatters of sun. He is
supposed to have said that his favorite colors were black and white, but he
could be every bit the startling and seductive Venetian colorist when a
commission required it. With abject competitive fury, he was not above
imitating the grand dragon of the Venice art world, Titian, and his designated
successor, Veronese. “As a matter of fact, he almost never takes the
liberty of being himself unless someone builds up his confidence and leaves him
alone in an empty room,” Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian
Pariah.” For Sartre, Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was
both behind his time—as the last native-born master on a scene ruled by a
cosmopolitan élite—and ahead of it, as the ideal artist for a rising
bourgeoisie that was too intimidated by the pomp of the ducal republic to
recognize itself in his demotic trashings of aristocratic decorum.
Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s gifts, scolded him for
being too fast, careless, and insolent; when Vasari credited him with “the most
extraordinary brain that the art of painting has ever produced,” it wasn’t
meant as unalloyed praise. (Vasari also called him the medium’s “worst
madcap.”) As a boy, Tintoretto is said to have entered Titian’s workshop
as an apprentice but was thrown out after a few days, having either frightened
the master with his aptitude or irked him with his personality; at any rate,
Titian’s attitude toward him was plated with permafrost. Little is known of
Tintoretto’s subsequent training. His earliest surviving work, from the early
fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically sculptural and draftsmanly,
embracing Central Italian influences. Then something happened which the art
historian Alexander Nagel compares to the bluesman Robert Johnson’s “going down
to the crossroads and coming back with scary new powers.” “The Miracle of the
Slave,” made for the Scuola Grande di San Marco, electrified Venice. Its
unprecedented range of spatial, chromatic, and kinetic effect suggested a
synthesis of “the disegno of Michelangelo and the coloring of Titian”—a
contemporaneous formula, often cited, for ultimate greatness in painting. He
was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s literary ally, added a
caveat about his lack of “patience in the making.” Commissions came in bunches
to the new hero, but solid status skittered out of reach. He compensated
by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian refused to slacken his grip
on preëminence, let alone die. When he finally expired, at the age of
eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no peace. Though he was now,
by general consent, Italy’s leading painter, he responded with pictures as
flailingly ambitious and various as ever. Three from the late fifteen-seventies
triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,” the hauntingly lovely
captive languishes in the corner of a churning land-sea battle scene, with
scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which you can all but
hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly fleshy protagonists
struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and breaking a necklace
that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend from the canvas, as
if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which took hold two
decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification of tendencies
already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence” is a sketchy
and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory whiff of Goya.
Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for Rubens, and
fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip IV. “What is
a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the show’s catalogue.
The answer might be almost anything touched with genius and a strange, thorny, dashing
humor. Tintoretto was reported to be a witty man who never smiled. What is his
“Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand lark? A luxuriant, glowing
nude sits outdoors, surrounded by a glittering still-life of jewelry and
implements of beauty, and is ogled by dirty old men (one pokes his bald pate,
at ground level, practically out of the canvas) from behind a hedge that forms
part of a corridor-like recession into the far background. There are distant
little ducks, and the rear end of a stag. But the picture’s form is too
disorienting to sustain any particular response, including amusement. The
backstage space outside the hedge ignores the unity of the central perspective,
bespeaking a world that rolls away in all directions, indifferent to pocket
realms of mythic anecdote. The effect is stirring and confusing. “Who is
Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling question. No other
great artist before modern times, in which shifting contingency affects every
enterprise, seems less certain of whom he is addressing, and why. It might as
well be you or me as some cinquecento ingrate, and, if we happen to think of
people we know who may be interested, the artist encourages us to contact them
without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio è che l’orizzonte
problematico entro il quale si muove da sempre la pittura faccia tutt’uno con
le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale, soprattutto nella
riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua atten- zione sul
problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi aspetti iconici.
Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale problema: l’immagine
può essere considerata come og- getto particolare, o come immagine di un altro;
nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta
un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che l’immagine rappresenta.
Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione si rivolga o al-
l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che l’im- magine
rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di distanza un
pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il problema
dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente
improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più
delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura
estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve
dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di
reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per
esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein
porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con
un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto
(un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni
hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se
io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo
rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano
davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa
mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se
stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua
propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali
termini tuttavia Wittgenstein non in- 7 tende affatto contrapporre
un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare
l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e
un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di
presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto,
continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il
dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein
queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa
come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di
‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo
chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi
la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del
comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da
un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere
sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir
sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è
qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che
soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere
una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due
significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di
‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6.
Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione –
quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla
proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e
quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che
il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il
caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi
tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein
aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo
di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé,
soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può
essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se
stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua
‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto
che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così
questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che,
seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo
per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e
meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa
ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8 no
piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori
dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire:
Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])»
7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da
tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il
fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo
luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della
proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo
Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è
dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a
qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la
«fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero
identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere
qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein
si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo
signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato,
dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo
qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o
l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse
mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione
interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di
unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a
dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del
rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera
d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del
Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò
che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della
logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra,
che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della
rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta
l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel
visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante
l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein
sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì
all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il
silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso
mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò
che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e
rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra
cono- 9 scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a
mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua
‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e
rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della
natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme
aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi
all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua
del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della
presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale
non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una
condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di
Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del
visibile, il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal
momento che questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così
l’iconoclastia del Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte,
ma ciò che l’arte deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte
qualcosa è rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello
stesso tempo ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide,
si lacera, nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione
e presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si
lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che
possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo
rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo
dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa-
ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di
ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’
dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta
par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di-
scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre-
scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché
mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta
paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale
non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un
assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij,
attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in
essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e
l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere
con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i
problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella
contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10 L’arte astratta fa
appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto
della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è
in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già
Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati
d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a
una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo,
la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra-
dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le
mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In
Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario,
l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione
della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La
concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di
interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il
«misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart,
che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in
grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere;
un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo
naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti
e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore»
si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di
un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto
rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a
quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose
rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi
dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione
delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di
Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si
pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa
la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein,
il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso
consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque
che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la
loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile
limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il
non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità.
Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da
all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere
tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11
del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno
ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato
manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»:
è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come
‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando
solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale
totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto
interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij,
come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona,
altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera
su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma
una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella
dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di
Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia
– tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva –
mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è
la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore
suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ
non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere
come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo
apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad
alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in
questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo
spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal
pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi-
ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione
logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione
dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in
relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità,
la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il
«che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra,
non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa
che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come
l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere
infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli
oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto
spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla
rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che
rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12 E,
se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa,
ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di
dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il
silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve
continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della
pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian
presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò
che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non
nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si
mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la
sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta
alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente
nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale,
nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in
rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la
‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale
ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione
pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi
riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non
del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di
Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo –
definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la
presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del
mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca
una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e
immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera
di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel
divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito
dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione,
portando avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva,
non vede nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale
genesi si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi
dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel
fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura
come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così
l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so-
miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13
no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata,
ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra
somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di
«somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana
– e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso
nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa
della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna
logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento
di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono
presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così
l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto
del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici
determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun
principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale
evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del
ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa
necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel
«che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma
Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta
insomma di quel senso che è la condi- zione dei tanti significati possibili:
l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione
del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque
soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per
questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della
creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine
e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A.
Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”,
Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de
Gruyter, Berlin – New York 1981; Id., Signum negli scritti filosofici e
teologici fra XIII e XIV secolo, di imminen- te pubblicazione. 2 L.
Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, § 518 (ed. or.
Philoso- phische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953). 3 Ivi, § 522. 4 Ivi,
§ 523. 5 Ivi, § 531. 6 Ivi, § 532. 7 Ivi, § 524. 8 L. Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968, 5.142 (ed. or.
Tractatus logico-philosophicus, London 1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini
si equivalgono, dal momento che «La proposizione è un’immagine della realtà»
Vedi su questo G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a
Witt- genstein, Pratiche Editrice, Parma 1989. 15 L. Wittgenstein,
Tractatus..., cSi veda in proposito E. Garroni, Estetica. Uno
sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, in part. pp. 245-270. 18
L’espressione è usata nel senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, §§
89,90. 19 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, pp. 168-196
(ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1972).Giuseppe
Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura; ‘impiegatura como
spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona, segno segnante segnato
presentazione rappresentazione contenente contenuto formante formato,
Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacomo: impiegatura
come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giametta – il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo. Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta
be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I
did!” -- Grice: Giametta’s philosophy is
full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian
heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso,
Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha
scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche
romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza
filosofica e morale; attitudine
stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente
incontro di letteratura e filosofia. Nella
"Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” -- L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti),
elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale.
L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura,
intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans,
implicaturus) sia come “naturata” (cf.
Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem:
‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana
come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di
tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono
spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento
di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo,
spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o
pessimisti...". Alter opera: “Oltre
il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar,
Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e
i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della
fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi
nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo”
(Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano);
“Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita”
BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie
crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione
a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La
dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia,
Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli,
Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva,
Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina,
Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo;
Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci
napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo
di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola.
Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano. La passione della conoscenza. Pensa
Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte
in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in
Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ). Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer
Giorgio Colli Mazzino Montinari. DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28
marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al
centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di
cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva,
mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi
proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano
economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i
primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento,
perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme,
come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e
rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso"
(morale, culturale, civile). La famiglia De Sanctis apparteneva a quel
ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i
pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però
viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un
"buon matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi
progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe;
medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì
soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come
molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro
De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e
antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in
esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il
patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come
titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio
privato). Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo
zio Carlo. Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare
l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la
durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica,
Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e
inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una
serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e
innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo
ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie
di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i
sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria"). Poiché i
cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in
due anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di
don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni
sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di
"Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del
Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come
atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia
dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il
sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a
Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano
bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di
aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza
successiva (quella degli studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove
(con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici
napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi
avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente
(poiché, scartata una primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava
di far di lui un avvocato), ma a determinare una diversa scelta di vita
intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla
quale il peso della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed
egli divenne fonte di sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la
morte della primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle,
che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben
poche gratificazioni affettive o sociali). Un altro avvenimento, questo
di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di
interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua
italiana" del marchese Basilio Puoti: di un "maestro", cioè, che
rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della
cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è
in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua
volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio Eritreo (Discorso
contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e
del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del
Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale
di Feo Belcari (1836). Non è da qui però che si può ricavare l'immagine
complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio
del suo primo magistero. Certo, la competenza grammaticale e testuale e
la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui
penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano
allora e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e
maestro (questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga
sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva all'interno della
metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza
culturale egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e
ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del
sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli sottolinea con
forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo
dai suoi "ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con
profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini, greci, filosofi, storici e
giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori,
dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo,
Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona
"moderna" ed "europea" andava rapidamente allargandosi: a poco
più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da
Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e
Hugo). La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva
(grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o meno
contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla scuola dei
sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella,
prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con la
"scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli
all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua
stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti
documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si
attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima
scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella
definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il
decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto
(nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo
e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti
affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita,
e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche,
politiche. I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo
insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto
dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei
diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri
libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta,
perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a
stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e
dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il
neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello
storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni
sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune
presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D.
testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della
scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano
appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della
ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo
romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro
possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di
precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della
"grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo
documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare
con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura
italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già
alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in
ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente
letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore
"contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista
neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia
è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato
dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in
Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità
notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45
(Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi
dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre
Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che
introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni
successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione
francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame
della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di
Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto
di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti
Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi"
(autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno
di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il
livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca
desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione
laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte
rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché
una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli
entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre
che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima
"filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al
centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto
compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti
giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio
1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più
ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in
qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza
musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri,
furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più
matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la
prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso",
perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata"
(come recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad
interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e
attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu
arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali
agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin".
Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di
"carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso
("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato per gli
Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C.
De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a
Malta, per raggiungere il Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera
degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da
ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G.
Nicotera, E. Cosenz). Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia
rappresentano la punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il
pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due
saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di
F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente
politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine di un'epoca, quella dell'individualismo,
dalla quale va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata
in senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in
prosa, il Torquato Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più
vicino è quello goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è
l'identificazione personale-politica dell'autore con l'intellettuale
perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì
sia per tradurre il Manuale di una storia generale della poesia di K.
Rosenkranz, sia per leggere in lingua originale la Logica di Hegel, che
ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa
dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo
(nel 1850-51) è certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti
(l'unica prova poetica, se si esclude qualche poesia d'occasione), che
rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con
il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto
al neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una
proposta politico-ideologica chiaramente ispirata all'interpretazione "di
sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di
atteggiamento nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e
scettica divulgata nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce
un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che offre, del
resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come
storia metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la
tirannia, l'oscurantismo, l'ingiustizia sociale). A Torino il D. rimase
dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis
e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e
culturale. Il suo unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano
nell'istituto femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio
d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà
d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati
dal nome prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio
elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del
periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni
pubbliche" su Dante: conferenze organizzate dai suoi amici per soccorrerlo
"nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono
alla cultura italiana. Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici
letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e
proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso
anno risale anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la
pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di interventi contro il
"murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione
"diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza
di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase di avvicinamento del D.
alla monarchia sabauda (questa viene proposta come unico possibile strumento di
unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo
costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente
fedele). Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio,
fu finalmente gratificato di un importante incarico pro- fessionale:
l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto universitario
politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo
furono anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli stesso
diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto importanti: l'elaborazione
di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra miliare della sua ricerca
critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto
con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in Europa
(Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer,
ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare criticamente (per esempio,
prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto
prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i
limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito
in Italia). Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna
lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di
una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi (undici
di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio)
sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai
problemi dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante.
Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi figure
alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata, Francesca,
Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei maggiori saggi
desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola fino a
percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al
1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da appunti). Da tale
lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su Dante e sul suo
tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le
idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui raggiunti negli
anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti giornalistici (che
furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici). Il Pier delle
Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di Firenze,
da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i "grandi
caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e ne analizza
le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La Divina
Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine
dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di
oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia
(1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella
sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta
la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più
problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857
Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del
sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto
contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D.
definitivo). Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o
d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte
raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno
"militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo
critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente politico
di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a livello
nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del romanzo, il
gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo manzoniano,
ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista: il suo
ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi
codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa sempre
attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della letteratura.
In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza: di fronte al
poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore riman
freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi
è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il
primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi
testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione
rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati:
essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi
politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel
"vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi
comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della
"grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio,
e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi
ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con
parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di
poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi
"critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla
"meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del
presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e
retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa
tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi
contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la
Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la
rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco,
nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa
rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e
Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e
la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours
familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito
il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e
"Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il
recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei
grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo
ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di
"realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il
sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee
riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un
uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo
personaggio poetico". La progressiva conquista di un punto di vista "realistico"
con cui guardare al testo letterario è registrata dai ricchi appunti che ci
restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul Poema epico.
Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine "realismo"
(ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui lo deriva), mentre
ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come strumento di
critica letteraria e conferma la validità degli strumenti d'approccio al testo
ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più complessivo, nell'ultima
fase del suo esilio e del suo vitale contatto con le avanguardie europee, fu
affidato dal D. al dialogo Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo
ha una struttura leopardiana (ispirata alla provocatoria ironia delle Operette
morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte, dedicando molto
spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer, indicato come il
liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove", "del
Trenta", "del Quarantotto") che egli considera
"un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La
filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica
dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo
Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di
stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in
Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva
riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima
vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer;
ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto
interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria)
dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza
non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo
"spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile
"inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della
retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce
come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al
progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è
scettico, e ti fa credente"). Dopo le speranze e le delusioni della
seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò
improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un
ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito
garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito
"piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di
preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di
Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della
guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso violento
in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo, fu
direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il
novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme
liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e
propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad
insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a
Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo
gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri
elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò
l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della
luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come
il periodo eroico della sua vita). Eletto deputato al primo Parlamento
nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con
Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata
a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta
e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre
una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere
con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo
del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza
teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi
reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori,
quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo
effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero
... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo
ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di
"scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché
l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate
furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella
che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad
insegnare fisiologia nell'università di Torino). Dopo questo incarico
ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un
anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione
rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via
via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea
mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si
pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al
gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio
nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai
tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un
importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo
ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della
sua partecipazione politica. Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria
Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero
figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la
sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di
réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno
inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che
gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò
in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici
dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura
italiana, i Nuovi saggi critici. Il Saggio critico sul Petrarca (1869)
ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con
"pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso
si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al
suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e
analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista
per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata
dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli
anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo,
dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti
panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita
dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente",
secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In quest'ottica,
Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva
segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè dalla
sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico"). La
"poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari
"situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei
momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti
dall'educazione "rettorica" e da una visione
"spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla
figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la
creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua
"realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si
spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa
"situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia
sublime"). La Storia della letteratura italiana nacque come testo
scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran
parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena
illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto
complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione
nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del
D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta.
Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della
letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio
direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi
scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un
graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi
della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa
morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché
l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso
mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione,
di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o
divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la
forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo
letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo
monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe
soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime
elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali,
muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra
fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal
familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di
carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le
caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della
Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come
"scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della
corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità",
radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di
radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma
centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che
si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto
d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il
breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce
dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca
della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo
moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per
esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono
"l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che
restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo"
Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai
Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla
"maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge,
romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca
"commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui
nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base
ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto
ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa
poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di
poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di
passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri,
quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi
letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il
"Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un
"artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma
è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante,
"volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e
latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da
una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza
laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione",
"imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli,
la storia della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il
Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della
dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un
"niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo,
non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle "alte
regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede
l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni
storiche per un avvicinamento tra cultura e "popolo" (ad esempio,
nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti grandi vertici di
raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine
il Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura
"idilli" ed "elegie", "voluttà" e
"musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al
movimento della cultura europea e a tutte le lotte del pensiero",
stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano".
Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli
episodi letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori,
dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La
Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto
(L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi:
inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi
dell'intero Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso
scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo
adulto" (cioè divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà
"borghese", pur nell'accettazione di fatto della realtà
"cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza
ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto
ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato storico-culturale. Il
poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura
controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in
senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella
"falsa" religiosità, ma nell'"idillio",
nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato
al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e
Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta
alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che
riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia
opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato"
("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia
rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della
"teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la
verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza
accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti").
Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve
moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite
d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a
simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché
il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui
esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai
giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi
indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che
indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e
concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene
attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a
distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva
della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La
nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi
è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla
"scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il
miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà
intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno"
(i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire"
per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella,
Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle
spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come
s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante
ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la
scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo
autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con
dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi
vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti
negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua
tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia,
modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario
è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
"esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G.
Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale
moderna". Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei
Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti
per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e
che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico
è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che,
recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su
"pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che
nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di
autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si
contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi
sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in
cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano,
così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma
che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro
interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia,
filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata
(risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia,
esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera
maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa).
Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia
risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868.
Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma,
per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il
materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e
impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la
stroncatura di un purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e
intelligente rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu
"bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione"
nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del
"metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della
fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta
storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi
del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante)
nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e, in
particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di
"monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e
scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi
prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in
chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio
politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici
(Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in
questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica
"attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo
l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del
Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra
Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui
"particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale,
politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase,
di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del
Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni
passo"). Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura
comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal
1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola
napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su
Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi).
Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici,
Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli
orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe
continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il
1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle
elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in
particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale,
la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia
d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche
pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo
Un viaggio elettorale, 1876). Al 1877 data il terzo e ultimo episodio
importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno
battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e
antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto
soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D.
il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880, riproponendo,
dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la "scuola per
l'infanzia", la "scuola primaria", la formazione dei maestri) e
quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura
"scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma
ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del suo programma (la
traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento dell'educazione fisica tra
le materie d'insegnamento: un omaggio alla rivalutazione positivistica
dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò
l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni di vita a un lavoro di
riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando alla nipote Agnese) e
critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della riflessione petrarchesca
e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi
ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della malattia, si dedicò sino alla
fine. Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano,
anche le lezioni della "seconda scuola napoletana" sono documentate
da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e ufficialmente
accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo 1872) fu dedicato a
Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di una riflessione iniziata all'epoca
della "prima scuola", sviluppata a Zurigo e rimasta sempre centrale
nella ricerca del D., pur senza trovare una sistemazione editoriale. In queste
lezioni le posizioni ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati
rispetto agli anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di
valore. La grandezza del Manzoni è identificata ora nella sua capacità di
"calare l'ideale nel reale": da lui escono tre "grandi idee
critiche che hanno importanza universale": la "misura
dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma"
diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione
della letteratura "moderna" in Italia e le "scuole
letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte né su
quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo
svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni, dividendola
(secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da Settembrini e da
altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola
liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola liberale fu
dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di
giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione
popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno
esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi,
Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini ripropongono una dimensione
"metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato
su una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante
excursus riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco
noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con
interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica,
e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti,
Berchet, Niccolini non possono fornire il modello della "nuova
letteratura". Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente
pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione
del principio del "realismo". I saggi più importanti elaborati
dal D. nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del
realismo (alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici,
del 1879). Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono
da ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878),
Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo
è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col
materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è
molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e
attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni)
"l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac
forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la
reazione, l'autoritarismo sempre in agguato. Nell'ultima fase della sua
vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità"
del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici
all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui
sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove
concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio
"familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con
estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e
che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica.
L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio
elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della
provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco
chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col
patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del
testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può
dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in
contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni
prima dei Malavoglia (1881). Alla vigilia della morte (sempre su
materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio
familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di
un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la
prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il
frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il
frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due
nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici
della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti,
professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie
serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico"
di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo
nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della
"prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D.
(utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola")
vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando
come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la
Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e
teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma
resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la
scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le
utopie libertarie del primo '800 napoletano. Nell'ultimo anno
d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era
stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di
vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della
vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia
critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta,
chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i
grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di
Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e
fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si
giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di
"realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo
romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure
femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o
quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile",
ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del
Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era
stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti
considerazioni della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo,
problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della
Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca
della Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La
Nerina, 1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti)
della donna nella poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra...
La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della
Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire".
Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento
suscitato nei giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la
storia del dibattito sul D. bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale
"sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi
maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno
al '70). A causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista
"attardato" (e perciò più meritevole di giudizi sommari che di
attenzione testuale), nel clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti
si offrivano ad un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto
che il D. ignorasse "la pazienza della ricerca e dello studio", e G.
Carducci gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e dei
documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente
pregiudiziale, venisse del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del
D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione
"realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio
a causa della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin
d'allora, da qualche attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D.
poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il
rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva
riaffermazione culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del
'900. Al Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la
cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua
appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo);
ma, contemporaneamente, Croce prese a "rielaborare" il
"pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del
"puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D.
come punto di arrivo di "tutte le esperienze della critica romantica in
Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di
questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di
G. Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).
Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di
sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito
diversamente impostato, volto al recupero della complessità della figura del
D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico"
dell'opera (1928) e la sua "intelligenza dell'arte" come
notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua
"poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale
(1934), la sua visione della letteratura come "vita morale" (1940).
Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore
del concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò
i suoi rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui
la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo
necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine,
presentando una importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G.
Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione di studiosi, l'uscita
dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del
D. e la necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi
desanctisiani, con tutta la loro problematicità anche irrisolta. Ma lo
spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione
dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua
celebre affermazione che "il tipo di critica letteraria proprio della
filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì
per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere
"militante" della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e
politici" che, secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica,
evidentemente, molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente
storico, dopo e contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio
fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra
l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere
il D. su testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da
Einaudi e Laterza (e dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la
pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi
anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è
scarsissima) due importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella
sua grande Storia della critica moderna del 1957 presentò il D. come autore
della "più bella storia che sia stata mai scritta di una
letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia
una documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso, negli anni
'50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite sui legami tra il D. e
la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini). Alla fine degli
anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai insofferente
dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato", si affermò
l'esigenza di uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di
sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati) la
distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli
interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei
partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il
realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal
centenario desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C.
Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985)
si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di chiarificazione e
approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica
desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole
orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua ricerca si mosse. Il
materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di
quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale,
bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl.
prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll. dell'Epistolario,
relativi agli anni 1870-1883. Le raccolte degli scritti, dopo le
incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi quella
laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo,
incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C.
Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario). La raccolta
laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec. XIX, I
(A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola
democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W.
Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce 19121,
19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti, 1962;
Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura
di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954.
La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume
seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G.
Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di
scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo
(scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T.
Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672;
Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo
(prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di
estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della
letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La
letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D.
Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura
di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica
(a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C.
Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici,
conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo
Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F.
Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi
dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da
discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a
cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M.
Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a
cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura
di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie
degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N.
Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961). Fonti e Bibl.: Per la bibl.
delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro
varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis,
Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia
desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne:
M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio,
Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola, LXXXVI
(1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo
decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari
1985. Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi
d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari,
F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution
intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E.
Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener
presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia
della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo
storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola
del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia
desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in
Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80;
G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani,
L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i
generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta,
Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono
indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli
1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D.,
Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a
Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F.
D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi
(1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso
Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di
F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi,
D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture
zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono
da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo
stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del
D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un
secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D.
politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e
l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit.,
pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario,
Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di
F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E.
Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali
(tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri,
cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast.,
Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta Irpinia"). Tra
gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura
della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del
Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana,
CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia
1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura
italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi,
VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in
Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della
civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F.
D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la
risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la
cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp.
850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura
italiana (Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le
introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da
tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in
Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti
(Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché
quelle di W. Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella
prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal Cinquecento al
Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De Sanctis,
Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie,
Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura
italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della critica moderna,
IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le miscellanee: F. D. e il
realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della
cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura
("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino 1984; D. -
Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D., Bellinzona 1985;
F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli
1989. Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli
scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica napoletana
dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già
citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni,
cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà
moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia
(F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a
cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella
storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit. Tra i tanti
altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D.,
Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna Moretti, La lingua di
F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F.
D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A.
Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi"
e altri inediti, Firenze Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza
politica di F. D., Napoli Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della
critica, Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra
coinvolgimento e ideologia, Roma; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro.
Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e
la questione della lingua, Napoli 1984. Per i rapporti con le altre
letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese
(ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise,
Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo
dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in
Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari Westhoff,
Schiller e D., Roma Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D. in
Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo
angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in
F. D. - Un secolo dopo cit., Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F.
D. nella storia della cultura cit., e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D.
- Un secolo dopo cit., pp. 651-63. Per la fortuna critica dell'opera del
D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani
nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De
Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi, Longo,
Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma Cfr. pure,
al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate a
proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il
volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo
Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il
pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e
Montanari! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta:
cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giandomenico – l’apertura semantica e
l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carunchio).
Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes excellent commentary on
Bernard’s controversial, deterministic idea of life – from amoeba to man, in
Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections with my method in
philosophical psychology, from the banal to the bizarre, which actually starts
with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows that while Bernard
never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does
propose this or that criterio: for one he tries to prove that self-nourishment
cannot be the criterion – but I’m not sure what the positive he poes, if any!” Si
laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce,
Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia nei Licei. Studia filosofia della
comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per
la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e
Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della
storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica,
teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria
del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha
trattato il contributo scientifico di Pende. Analizza i fondamenti
dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in
evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed
informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche
nella ricerca umanistica. Le ricerche condotte nell'ambito
dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi
linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del
livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como ‘implicatura’
-- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio di software
dedicati. Il primo progetto ha riguardato l'analisi della conversazione
nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo. Usando un software,
creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava un “vocabolario”
(filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico) galileiano,
procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi “semantica”
di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi spunti in
una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con quelli della
vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica. Altre
opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento” Bari,
Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “ Introduzione a
Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna, Transeuropa); “
Filosofia e informatica. Bari: G. Laterza); “L'uomo e la macchina trent'anni
dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari, G. Laterza);
“Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea umanistica”
in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G. Laterza); “Laboratori
di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa Multimedia); “La prosa di
Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo); “La filosofia come
strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore); La Società
Filosofica Italiana, Roma, Armando,. Note
M. Triggiani, Cultura, un fronte unico. Università e Comune per una rete
dei contenitori, in Gazzetta del Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il
master in orecchiette, in Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio,
Dall'archivio al futuro, in L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia
della scienza. Milano, Franco Angeli.
L’esperire immediato e l’esperienza mediata Affronteremo in questa
lezione il difficile rapporto che s’instaura tra il mondo-della-vita e quello
della scienza, tra esperienza diretta ed immediata ed organizzazione razionale.
Husserl ritiene che le scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno
di un nuovo fondamento, diverso e ben più solido di quello che vien loro
solitamente attribuito dalla comunità degli scienziati, dei logici e dei
metodologi. Per trovare questo nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente
al mondo-della -vita, cioè al mondo dell’esperienza concreta, nel quale le
intuizioni si presentano al loro stato originario, non ancora elaborate in
concetti: in una parola, si rivolge al mondo del precategoriale. A questo
proposito egli mette in guardia gli scienziati, i quali ritengono di
considerare la natura come è realmente e non si accorgono dell’astrazione
attraverso la quale essa è diventata per loro un tema scientifico, non si
accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento - perfino quando parlano di
oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e della sperimentazione - sono
in realtà il frutto di un precedente, assai complesso e artificioso, lavoro
categoriale. Possiamo ricordare, a questo proposito, le procedure operative che
oggi (in maniera più evidente di quanto si poteva percepire ai tempi di
Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco un esempio. Vedere, nella
scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni
generati da strumenti: tra la vista di un astronomo del nostro tempo che fa uso
del telescopio spaziale Kepler e una di quelle lontane galassie che
appassionano gli astrofisici ed accendono la fantasia di tutti gli esseri umani
sono interposti oltre una dozzina di complicati apparati mediatori del tipo: un
satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema
fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari
computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e
memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a
terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che
ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che
ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una
stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la scienza ha due
attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di
immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità
delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero iter
della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta:
rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e
interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione
scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo
libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo,
l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a
ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per
questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto
con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione
della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante
strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica
contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata
da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue
barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la
coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è
esterna alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione!
Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) 4 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa
accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un
contenuto empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e
strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.La tesi di Husserl è,
invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette
empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle
intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci
coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta,
la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti
noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le
scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e
le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli
oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di
qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica,
ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo
esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono
attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo
circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre
esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di
validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza,
ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già
possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in
quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a
piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione,
mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto
nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in
quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci
troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati,
corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del
nostro porre problemi e del nostro ricavare soluzioni teoretiche in relazione
alla natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima
altro che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente
sperimentato o, comunque, già presente alla coscienza e già valido
scientificamente o pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati,
che vivono con noi in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le
stesse verità, oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con
noi nell’unità di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico.
D’altra parte noi possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri
oggetti; invece che nella comunità dell’unità di un interesse teoretico
attuale, possiamo conoscerci reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo
conoscere gli atti del pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente,
altri atti, come fatti obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza
un’adesione o un rifiuto critico”. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee,
cit. pp. 134-135, 139). Ogni pensiero scientifico e qualsiasi problematica
filosofica, secondo Husserl, implicano sempre certe ovvietà, per esempio la
certezza che il mondo esiste, che è già sempre preliminarmente, e che qualsiasi
rettifica di un’opinione di qualsiasi tipo, presuppone sempre il mondo in
quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è e vale. Anche la scienza oggettiva
pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo, il quale, però, è sempre già
da prima, che è già a partire dalla vita prescientifica. Essa, come qualsiasi
prassi, presuppone il suo essere; ma, insieme, si pone come fine la
trasformazione del sapere prescientifico (che è imperfetto sia nella sua
portata che nella sua consistenza), in un sapere compiuto, conformemente
all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben determinato, e verità
scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle verità in sé. In altri
termini, il suo compito è quello di attuare questa esplicazione attraverso un
processo sistematico, attraverso gradi di compiutezza, utilizzando un metodo
che permetta un costante progresso. In realtà Husserl tende a realizzare
una descrizione dello strato precategoriale (o antepredicativo) posto a
fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo strato può presentarsi sia
come un piano autonomo d’esperienza che ignora la destinazione predicativa, sia
come un’anteriorità funzionale, cioè come un precategoriale non autonomo in
quanto indirizzato verso il piano predicativo (o categoriale). In questo
secondo caso, il predicativo assume il valore di interpretazione ed esposizione
linguistica dell’antepredicativo cioè dell’originario d’esperienza. Il criterio
che egli assume, peraltro, richiede che ogni fondazione e chiarificazione
conoscitiva acquisisca, dal punto di vista fenomenologico, la forma del rinvio
all’intuizione fondante. In tal modo il rapporto tra sensibilità ed intelletto
(è evidente qui il richiamo critico alle due “fonti della conoscenza”, di
kantiana memoria) si traduce nel rapporto tra “sensibile” e “categoriale”: il
non-categoriale, il precategoriale è collocato nella sfera del sensibile con
tutta la sua valenza fondativa per gli atti logici superiori. di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 3
Agrimensura empirica e geometria scientifica Tra le pagine più note, nelle
quali Husserl analizza il rapporto fondativo del precategoriale incarnato nel
mondo-della-vita ed il categoriale consacrato nei paradigmi scientifici, quelle
dedicate alla genesi della geomertia e della geometrizzazione della natura sono
particolarmente idonee per le tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa
subito che la sua indagine “genealogica” non mira ad una ricostruzione
“storiograficamente corretta” delle origini della geometria (emblematicamente
assurta a simbolo della scienza “esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole
rintracciare il senso profondo, originario della sua collocazione categoriale.
“Il problema dell'origine della geometria (e sotto il titolo di geometria
raccogliamo qui, a fine di concisione, tutte quelle discipline che si occupano
delle forme esistenti matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un
problema storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri
che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né
quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro
interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si
è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva
per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è
presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi
presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori.
Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più
antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire
agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi
“originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti.
Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente
nell’ambito delle generalità, ma, come La rivincita della conoscenza comune
risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione
offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti
che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire, compiuta,
a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La nostra
esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni. Tutto
il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla tradizione.
Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente: noi sappiamo
anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è costituita nel nostro
spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è spiritualmente
divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua precisa
provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E tuttavia,
anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente, un sapere
che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”. (E.
Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le radici,
nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei concetti
geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di determinazioni
piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti sommari, a occhio
e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi. Vi sono
situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo vendere
il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro,
presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e
il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque
metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della misurazione
abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine. Pur
essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci problemi
teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente disorganica. Per
escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare una certa
classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei
ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò
sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione
propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad
esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme
elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento teorico,
ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente ed
esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha
evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine. In
altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate
proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge
dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È
innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”,
ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un
racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione
geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione “genetica”
non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra tuttavia,
in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini.
Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione operativa di
alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme fondamentali, in
quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla metodica esercitata già
nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo, dapprima in modo rudimentale
poi secondo regole d’arte, alla metodica della misurazione e in generale della
determinazione misurativa. Le sue finalità hanno un’origine, che è rivelatrice,
nella forma essenziale di questo mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente
esperibili e sensibilmente- intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi
pensabili, a qualsiasi grado di generalità, si connettono continuamente le une
con gli altri. In questa continuità essi riempiono la spazio- temporalità
(sensibilmente intuitiva) che è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in
questa aperta infinità, anche quando è data come un fatto nella realtà, è priva
di “obiettività”, perciò non è determinabile intersoggettivamente da chiunque -
per es. da un altro che non la veda di fatto -, né comunicabile nella sua
determinatezza. Evidentemente a costui serve la misurazione. La misurazione è
qualcosa di molto differenziato, il misurare vero e proprio non è che il suo
momento conclusivo: da un lato si tratta di produrre concetti adatti per le
forme corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici, ecc. che di regola devono
rinunciare a concetti e a nomi rigorosamente determinanti; innanzitutto per le
loro “forme” (nell’ambito della somiglianza visiva), e poi per le loro
grandezze e per i loro rapporti di grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante
la determinazione delle distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi
e a direzioni presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente
la possibilità di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che
sono concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili
ed empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere
scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare
intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in
sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si
capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza
“filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere
obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente-
praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico
in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare
così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la
geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl,
ibidem, pp. 57-58). Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la
guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere
documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state
anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i
problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche
stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera
motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un
“mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è
costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo
ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote
a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi
progetti. Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa
interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le
scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e,
tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua attività
filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche logiche
(1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio (1939),
egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con il
logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a
Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la
logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per
quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è
sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere
l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto
mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la
capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente
nella percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò,
si differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria
specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che
bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa.
Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è
l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista
della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in
logica trascendentale. Scrive Husserl: “Chiarito il contrasto tra scienza
obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale
connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali,
la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in
quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso,
di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita,
nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una
costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi,
viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri
scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma
così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di
persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone
quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni
logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo
sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche
costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono
“rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in
sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro
telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta
nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e
alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del
mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella
delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche,
sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le
formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi
originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli
scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc.
che sono state elaborate in comune”. (E. Husserl, ibidem, pp. 158-159). Come
potete notare, si tratta di un’ampia riflessione sul come le strutture logiche
siano o meno adeguate alla dimensione della realtà oggettiva. In questo senso
la logica trascendentale si presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno
ad essa che si costituisce la logica come scienza formale. La logica formale
tradizionale, invece, ha ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia
la validità delle proprie leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere
valutato come un atto soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo
contenuto. Per questo motivo le leggi logiche formali, che siano normative del
giudizio, ma che non tengono conto del fatto che sono normative anche del suo
contenuto, fanno sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul
mondo naturale e sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo
punto di vista, Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale
in rapporto alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la
logica si configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso
logico sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso
sulla logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come
una forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai
fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche
storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche,
ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne
rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica
è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica,
filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in
contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della
questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e
nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Le scienze, invece, che
non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento
trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure
tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico.
Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots
karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica,
Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi,
la filosofia positivistica italiana -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots
karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani – implicatura mistica – l’implicatura
di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia).
Filosofo italiano. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because
I fought against the Italians during the so-called ‘second world war,’
so-called!” Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what
he aptly called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his
‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola
di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set
at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica". Partì
come volontario di guerra e morì sul fronte. Dopo aver frequentato il
Liceo ginnasio Dante Alighieri di Trieste si trasferì a Milano, dove si
iscrisse a Milano e quindi ai Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente
apertura della scuola sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e
moschetto" della Scuola di Mistica. Ne divenne direttore, carica che
lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da
tenersi a Roma in occasione dellaI iunione della Società Italiana per il
Progresso delle Scienze che coincideva anche con il decennale della Marcia su
Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola. Su impulso di Giani si
comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di mistica. Poche
settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una lettera inviata a
Mussolini, per contrasti interni con il segretario politico dei Gruppi
Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della Scuola nella
vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La
richiesta di entrare in possesso de "Il Covo" puntava ad ottenere il
possesso di uno degli ambienti più importanti dell'immaginario fascista.
Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo
d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento
sociale dello Stato" gli fece ottenere la libera docenza e e quindi la
cattedra di Storia a Pavia ma parte volontario per la guerra d'Etiopia
arruolandosi col grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale nel CXXVIII Battaglione"Vercelli".
Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della
chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano.
Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di
Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione
della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e
sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista
mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si
dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca
prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore:
Alfredo Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla
campagna fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al
"biologico" La Cronaca
prealpina dopo la nomina di Giani a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.
L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del
"Covo" ai "mistici" della Scuola. Su impulso di Giani, con
una cerimonia presieduta di Starace, la sede ufficiale della Scuola di Mistica
si spostò nel medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il
Popolo d'Italia, chiamato "il Covo". Il "Covo" negli anni era
stato trasformato in una galleria. La palazzina e proclamata monumento nazionale
con tanto di guardia d'onore svolta da
squadristi e combattenti. Per esplicita decisione di Mussolini, fu ufficialmente
consegnata ai mistici della scuola. L'evento fu vissuto come una autentica
consacrazione dei insegnanti riuniti intorno a Giani. In realtà la consegna era
già stata disposta come risulta da un foglio d'ordini del PNF e in
quell'occasione il consiglio direttivo era stato ricevuto a Roma da Mussolini.
Mussolini li aveva spro continuare nella loro attività. A Milano, in
occasione del decennale dalla fondazione della scuola, organizzò il
"Convegno nazionale di mistica" che nelle sue intenzioni avrebbe
dovuto essere il primo della serie. Obiettivo che sfumò a causa dell'entrata in
guerra. L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ebbe l'adesione della maggior
parte degli filosofi dell'epoca. Come gran parte dei "mistici",
partecipa nuovamente come volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto
nel quale vedeva il presagio di una rivoluzione in vista di una nuova
era. Inquadrato nell'11º reggimento alpini prese parte alla battaglia
delle Alpi Occidentali contro la Francia e venendo decorato con la medaglia
d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito
all'armistizio tornò alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra
in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere
soddisfazione. Alla fine ottenne di partire
come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca
prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della Regia
aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività
di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune
azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in
Italia dove riassunse la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente
incorporato nell'11º reggimento alpini riparte infine come volontario per la
campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la
conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa
missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco
ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi
i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico
L'Illustrazione Italiana scrisse, senza riportare dove o come avrebbe potuto
registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte
avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come
un dio o un demone". Il corpo di Giani andò disperso e gli altri
assaltatori che avevano preso parte all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente
incalzati dai soldati greci. Fu pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati
che era anche vice-direttore della Scuola di mistica. Le ricerche a causa della
perdurante situazione di guerra furono nulle, e riuscì solo ad individuare il
luogo in cui era caduto. In quell'occasione, richiesta un'udienza al
Duce, chiese che potessero partire per l'Albania il cognato Guido Giani e il
fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero la salma sepolta in maniera
anonima in territorio greco. Di qui la salma fu translata nel piccolo cimitero
militare di Klisura. Mussolini fu preso come principale punto di
riferimento dalla Scuola di Mistica. Elabora un discorso programmatico in cui
enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica fascista. Compito
nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il
pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di mistica ed ecco il suo
compito: elaborare e precisare i nuovi valori che sono nell'opera del Duce. (Giani in La marcia sul mondo). Inizialmente i
principi esposti da Giani facevano parte di un discorso più ampio da tenersi a
Roma in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle
Scienze. L'ampio discorso fu poi pubblicato nella serie dei
"Quaderni" voluti da Giani con il titolo "La marcia sul mondo
della Civiltà". Si impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo
rivoluzionario, riallacciandosi idealmente all'esperienza delle prime squadre
d'azione e degli arditi della Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una
più radicale rivoluzione coniugata al recupero di una più integralistica
tradizione". Ma più che legati agli enunciati politici del manifesto di
sansepolcro i mistici di quella esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro
la borghesia affaristica del primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante
proprio di questo mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della
rivoluzione permanente e in contrasto con gli opportunisti e i
trasformisti. Individuava nell'epoca contemporanea *quattro* principali
mistiche, destinate ad apportare in un primo tempo dei benefici ma poi a
fallire: liberale, democratica, socialista e comunista. Liberalismo,
democrazia, socialismo e comunismo sono le quattro mistiche dominanti nella
societa. Il bilanciolo abbiamo già visto è per tutte negativo. Il liberalismo
porta all'anarchia. La democrazia porta all'instabilità politica e sociale. Il
socialism porta alla otta civile. Il comunismo porta alla vita primitiva. Queste
quattro mistiche sono pertanto anti-storiche. A fronte di esse l'unica mistica
in grado di superare tali crisi era quella come sviluppato nel capitolo intitolato
"La marcia ideale" la cui conoscenza e diffusione presso le masse era
compito della élite. Medaglia d'argento al valor militarenastrino per uniforme
ordinariaMedaglia d'argento al valor militare «Volontario nella guerra d'Africa
ove prese parte volontario a diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne
di essere anche in quest guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato
all'11º alpini volontario a due azioni del battaglione Bolzano chiese di
partecipare alla ardita discesa di due compagnie del battaglione Trento
effettuata in una valle occupata dal nemico e avanzò con la prima pattuglia
sotto intenso bombardamento, sprezzante del grave pericolo di sorprese e di
accerchiamento nemico, esempio trascinante a ufficiali e soldati, e prova di
dedizione alla patria, di alta fede e di valore.» Medaglia di bronzo al valor
militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di bronzo al valor militare
«Corrispondente di guerra presso una squadra aerea disimpegnava il suo
particolare e delicato servizio con alto senso di responsabilità. Spesso
presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente battuti dall'offesa nemica
allo scopo di rendersi conto di ogni particolare, partecipava volontariamente a
difficili e rischiose missioni di guerra, dando sicura prova anche nelle più
critiche circostanze di sereno sprezzo del pericolo e completa dedizione al
dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino per uniforme ordinaria Medaglia
d'oro al valor militare «Volontariamente, come aveva fatto altre volte,
assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato
affidato il compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori,
con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un
ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla
resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi
superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l'ultima
bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di:
«Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio
di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria.» — Punta
NordMali Scindeli (Fronte greco), 14 marzo 1941. Opere: “La via della
gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti su
l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché
siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di
scritti, Il Cinabro, Longo, “I vincitori
della guerra perduta” (sezione su Giani), Edizioni Settimo sigillo, Roma.Carini,
Giani e la scuola di mistica fascista,
Mursia, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate,Antonellis,
Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Tomas Carini nella
prefazione su Giani, La marcia sul
mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia,Tomas
Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia, Carini, Giani e la scuola di
mistica fascista, Mursia, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul
mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Grandi, Gli eroi, Giani e la Scuola di mistica,
Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia, una cui sommaria sintesi è
nel sito varesenews Archiviato. Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani,
La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Il saggio, edito da Dottrina
Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale tenuta da Giani per
l'inaugurazione del corso per maestri della Scuola di Mistica. Cfr. a tale
proposito le ricerche di Enzo Laforgia in Aldo Grandi, Gli eroi di Mussolini,
BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani,
La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Longo, Gli
eroi della guerra perduta, edizioni settimo sigillo, Roma, L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di
Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cAldo Grandi, Gli
eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cNiccolò
Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella
prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Marcello
Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Giani,
La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella
prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Tomas
Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore,
Pinerolo, Tomas Carini, Giani e la
Scuola di mistica, prefazione di Marcello Veneziani, Mursia, Milano, Grandi,
Gli eroi di Mussolini. Giani e la Scuola di mistica, BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, RaidoSpeciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M., Coscienza e dovere.
Niccolò Giani MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti,
1932-1941, pp. 302, euro 15.00 In libreria dal 27 novembre In
breve: «Siamo mistici perchè siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così
si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi
anche assurdi [...]. Del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono gli
spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo».
(Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più significati testi di Niccolò
Giani, tra i massimi esponenti della corrente più radicale, oltranzista e
universale del Fascismo, la Scuola di Mistica Fascista. Questa antologia
rappresenta la prima raccolta organica dei più significativi scritti di Niccolò
Giani nel periodo che va dal 1932 al 1941. È, a nostro giudizio, il modo
migliore per illustrare senza filtri la sua persona, il suo pensiero e la sua
azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che fu il Fascismo universale
e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita comoda”, al
rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione. Esempio di eroismo
che, al di là della contingenza storica, seppe essere coerente con i propri
principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio; quasi innalzando il
Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come fonte inesauribile di
spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione dell’uomo e del mondo.
Niccolò Giani, nato a Muggia il 20 giugno 1909, cadde sul fronte greco il 14
marzo 1941, nello slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo
muto. Dimostrò con la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e
fede, la continuità tra dottrina ed azione, e della autentica Rivoluzione rimane
il puro rappresentante della giovinezza nuova: per questo il suo esempio sarà
il seme fecondo dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la
strada, con l’intransigenza insegnare l’esempio. I «tesserati» furono i suoi
avversari. Contro di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli
esibizionisti, i retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che
considerarono la Rivoluzione come atto di ordinaria amministrazione,
sfruttabile per fini personali. Il Cinabro Ufficio stampa ufficiostampa@ilcinabro.it
INDICE: Saggi introduttivi: - Luca Leonello Rimbotti: Mistica Fascista.
L’ordine della Milizia sacra - Maurizio Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo
Nuovo. Tra milizia politica e metapolitica la scuola rivoluzionaria del
Fascismo *** Introduzione: - Fernando Mezzasoma: Niccolò Giani discepolo di
Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà
fascista Generazioni di Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista
civiltà dello spirito Aver Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come
dottrina del fascismo Le due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e
Autarchia Il Centro di preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni
della Rivoluzione Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco
Perché siamo dei mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio
Niccolò Giani: Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto
alla prima linea, ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che,
oggi, domani, sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla
Rivoluzione, come, con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella
sua relazione che ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più
autenticamente fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il
nemico di fuori e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità
territoriale, ma anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli
attentatori della nostra integrità spirituale.” (Niccolò Giani) Le
conseguenze derivate dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi
5 crisi strutturale delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza
che non aveva avuto precedenti nella storia, le società europee, vennero allora
giudicate come l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita
politica e civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una
deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che
modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e
nazioni. Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si
affacciava con ruvida decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto
nella Storia. L’alba delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente
europeo e i popoli si sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e
esaltanti Weltanschauung. Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi
e tra i più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si
tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente:
“Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro
quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si
produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione
radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di
potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento
dall’Illuminismo.” Il periodo che immediatamente fece seguito al termine
di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti
osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza
rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di
entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale
e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da
sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite,
attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più annichilite
da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di una
mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute
utilitaristiche e mercantilistiche. Le conseguenze della fine della
grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e
un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una
esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani,
esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai
reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente
esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni
imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle
ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole
consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche,
sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche. Dalle
forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del
termine. Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda
ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo
laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e sociali.
Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che avevano creduto fino
in fondo ad una particolare visione eroica della vita propria di una ideologia
della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del sacrificio bellico e del
sangue versato – subendo poi la frustrazione di una vittoria conseguita sul
campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata negli accordi di pace
internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una innovativa e
volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un nazionalismo
intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più avanzate e
spregiudicate chiavi di lettura sociali. La grande guerra di popolo aveva
travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e sociale verso
scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che sarebbe stata
cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo, il
culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della Stirpe
italica. Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare tutti
questi motivi nelle battaglie di piazza. Sorti dalla guerra di popolo,
divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il coronamento dei
loro sacrifici, la loro apoteosi. D’altronde era stato lo stesso
Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le migliori
condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe stata la
prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del Carso,
nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma poi
dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana deve
assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che noi
combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento, porterà
alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare quello che
la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del mondo del
lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo incatenano. A
ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra, rovesciato i
vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro naturali
conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri popoli.” Una
lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi accaduto in tutta
l’Europa. Tutto questo si pose, in maniera del tutto naturale, in totale
opposizione al principio democratico in politica e a quello liberale nel campo
economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione elitaria, fortemente
gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la valorizzazione delle minoranze
attivistiche e carismatiche con la conseguente affermazione del principio guida
del Capo, con il mito dello Stato totalitario come asse formante e legittimante
della Comunità nazionale e non ultimo la funzione pedagogica del Partito unico,
soprattutto mediante una costante mobilitazione politica delle masse, una
sacralizzazione della politica attraverso il ricorso a liturgie collettive,
miti e simbologie, e una crescente militarizzazione della vita sociale e
civile, l’intervento statale attraverso gli istituti del Corporativismo per una
razionale direzione disciplinata dell’economia che ponesse termine all’epoca
del predominio delle oligarchie mercantilistiche e parassitarie e riportasse la
vita economica al servizio dell’interesse collettivo subordinandola alle
necessità politiche nazionali. Infine, l’affermazione sovrana di una
particolare e severa tipologia umana di nuova impronta che avrebbe
rappresentato lo spirito del nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come
manifestazione vivente di una Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la
capacità di tradursi in Rivoluzione. Proprio nel senso di
quell’interpretazione che Niccolò Giani seppe dare, facendosi portavoce di
quegli ambienti del Fascismo intransigente e rivoluzionario che vollero
interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani: “Il Fascismo è un
richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una ripetizione. Per noi
fascisti la Tradizione come lo dice il significato etimologico del termine e
come Evola ha documentato, è e non può essere che dinamica. Altrimenti si
parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la Tradizione è continua
coniugazione, attraverso il presente, del passato e dell’avvenire; è processo
inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con la quale ogni popolo
illumina la propria strada e corre nel tempo verso l’avvenire. Ecco perché,
oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma anzi si identificano e questo
spiega il culto che noi abbiamo pel passato e dice ai soliti uomini dai
paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che essere fascista.”
Questa nuova visione della politica rappresentata dal Fascismo rappresentò
inequivocabilmente la radicale negazione dei principi emersi dalla rivoluzione
francese, una evidente antitesi storica e culturale di quanto fu incarnato
dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le manifestazioni
materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da quelle
individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite, genericamente
progressiste e marxiste. Il Fascismo, anche nella sua più vasta
comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un
discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società
borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia
rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme
passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il
vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente
dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato
nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle
democrazie liberali. Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva
ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione
spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo
creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata
alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e
spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e
popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933
all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo
integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è
guerriero.” Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo,
capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura
rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di
ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di
sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di mussoliniana
memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché cartesianamente
pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente” intese,
eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei sentimenti.
Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il discorso sull’Uomo Nuovo
si andava a concretizzare poi nell’ideale della gioventù, una gioventù non
solamente intesa in senso spirituale ma anche come dato anagrafico, poiché il
concetto di gioventù rimandava all’ansia del cambiamento e all’impeto
rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali della forza e della
bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito vitale di un futuro
tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora proponevano i rappresentanti
delle democrazie borghesi con tutte le loro desuete convenzioni e i loro logori
formalismi, con tutta la loro boriosa rispettabilità e lasciva ipocrisia.
Il Fascismo fu quindi profondamente giovane e irruento, meravigliosamente
violento e lo fu sia spiritualmente che anagraficamente. Il comune
denominatore della più intransigente e autentica cultura fascista, quella
derivata appunto dalla passionale ed eroica stagione dello squadrismo, si
trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un originale disegno politico ed
esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti radicali frutto di una ferma
volontà rivoluzionaria che armonizzava i riferimenti alla rivolta romantica
dell’interventismo e alla mistica eroica evocata dalla guerra di trincea con i
nuovi miti palingenetici di trasformazione della società e dello Stato. Questa
cultura dell’azione che si nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro
l’ordinamento borghese in nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era
la caratteristica di quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per
esperienza diretta, nel mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo
– quella trincerocrazia più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita
e di coraggio rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta,
letta ed interpretata non solamente come una reazione organizzata e armata
volta all’annientamento dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma
soprattutto come militanza rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione
della Nazione e alla creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che
si svolgeva anche in aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita
del governo presieduto da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma,
rappresentasse la fase risolutiva del Fascismo. In questo modo, il
Fascismo, doveva e poteva assumere una superiore valenza metafisica affermando
il suo essere come un completamento naturale e organico della storia della
Nazione italiana, andando ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e
anti-modernista – non a caso lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento
sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come
qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è
stata invece l’ostetrica della nuova storia. E sorta una nuova civiltà capace
di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.” Per costoro,
che in fondo rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche
quella intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva
assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che
in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si
adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece
mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere
in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una
rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità
e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente
dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma
che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata
bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai
margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate,
controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di
rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto
mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere
integrale.” Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si
evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a
Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani
dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così
una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta
nella persona del Duce. Al loro fianco si schierarono altre personalità
di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo
fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica,
Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.
La Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Mussolini, il figlio
prematuramente scomparso di Mussolini. Giani, Pallotta, Mezzasoma e molti
altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo
Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla
Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta
a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva
farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna
rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove
generazioni. Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione:
“Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo
si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che
il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella.
Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed
elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica
fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del
Fascismo che sono nell’opera del Duce.” Quindi una rivoluzione culturale,
del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del
mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni
metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe
approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in
Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di
adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della
storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali
della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento
dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle
utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista.
Certamente nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era
la ferma consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale
della società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo
anche una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica
proposta non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato,
l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente
e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le
potenzialità ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere
fino a provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei
ricordi – una lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e
della memoria – che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale
che rispecchiasse le concezioni del pensiero irrazionalista,
anti-intellettualista e pragmatista dei decenni trascorsi, un pensiero
profondamente permeato di sfumature di matrice nietzschiana e soreliana.
Anche i richiami alla Mistica insita nel Fascismo erano animati dallo spirito
di rivolta, contro le mentalità borghesi ancora sussistenti, delle nuove
generazioni cresciute ed allevate nelle organizzazioni totalitarie giovanili e
universitarie, una rivolta che si manifestava con i forti caratteri di un
idealismo morale ed etico qualitativamente aristocratico esprimente
l’esaltazione di una giovinezza istintiva, disinteressata e piena di spirito
vitale, aggressiva, pura e decisa a dare battaglia a qualsiasi forma di
conservatorismo e di borghese “buon senso” pur di affermare il carattere
intransigente e le finalità rivoluzionarie sociali e spirituali del
Fascismo. Non vi era nessun punto di convergenza con eventuali nostalgie
reazionarie, mentre invece era presente una totale e coerente aderenza alle
istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo esigeva e che ancor di
più il Duce imponeva. Per questi giovani attivisti non vi era altra
strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità, esplosa alla
fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale del popolo
italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire solamente da una
fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo tempo con
l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della guerra di
popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta squadristica, per
approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di popolo, corporativo
e totalitario, il compimento finale del rinnovamento sociale e spirituale della
Stirpe e della grandezza politica della Nazione. Nel corso degli anni che
trascorsero dal 1930 fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola
di Mistica Fascista assolse in maniera esemplare ai compiti che si era
prefissata, ovvero l’ambizione di voler rappresentare l’infrangibile scudo
morale, etico e dottrinario contro il quale si sarebbero dovute infrangere le
velleità dei nemici del Duce e del Fascismo, soprattutto i nemici interni, i
più pericolosi, quelli che si annidavano tra le pieghe del regime per minarlo
alla base. Affinché lo scudo della rivoluzione fosse solido i mistici
della Scuola, i soldati politici dell’Idea, vollero essere loro stessi esempio
di virtù civiche, morali e politiche, di fedeltà indiscussa nei confronti della
guida della rivoluzione, il Duce, spesso descritto come il genio della Stirpe,
l’Eroe che con la sua instancabile opera dava quotidianamente prova di
rappresentare pienamente la coscienza e la voce dell’anima del popolo,
soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva restituito la dignità politica
e sociale e un’unità spirituale che attingeva dalla viva coscienza di
appartenere integralmente all’organismo della Nazione. Da questa chiave
di lettura emergeva, quindi, una superiore comunione mistica che legava il Duce
al suo popolo, cementata dalla comune fede fascista, una fede intensa che a sua
volta veniva elevata al rango di una sorta di religione mistico-popolare
sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai martiri dello squadrismo
sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione continua che, come affermava un
giovane esponente della Scuola, procedeva impetuosamente la sua marcia: “I
giovani della Mistica si sono irradiati tra le file delle generazioni vecchie e
nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo di pane del conforto, hanno
sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La Rivoluzione ha attraversato
le ubertose valli della sua fase politica, ora sale. Guai a chi volesse tentare
di derogare alle direttive di marcia per evitare le asprezze della salita e
impedire che dalla politicità si torni alla rivoluzione piena e travolgente
delle ore di audacia e di lotta.” Per queste nobili motivazioni gli
esponenti della Mistica fascista chiesero e ottennero nel 1939 che la Scuola
divenisse la custode del famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il
sacrario della rivoluzione delle camicie nere, appunto il Covo del fascio
primogenito dove la fede fascista aveva mosso i primi passi e dove il Duce
aveva chiamato all’adunata.rossi Un luogo simbolico carico di suggestivi
richiami emozionali, ben presente nell’immaginario collettivo della militanza
squadristica, che avrebbe dovuto essere la fonte di irradiamento della Mistica
fascista verso tutta la Nazione. Il cosiddetto “Covo” del fascio
primogenito rivestì sempre per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro
immaginario dottrinario, rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana,
il principio fondante del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per
riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di
ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i
simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli:
“Qui è tutta l’attualità e la contemporaneità del “Covo”. Attualità e
contemporaneità che non dovranno mai tramontare. Non solo per noi, infatti, ma
per i nostri figli e per i figli dei nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere
l’Arca dei valori della Rivoluzione, la bussola cui guardare nei momenti di
indecisione, la guida cui ispirarsi, la stella polare che il navigante dello
Spirito deve vedere sempre alta e lucente davanti a se. E ad esso oggi, domani,
sempre gli italiani dovranno salire in pellegrinaggio, per meditare, per
ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno sempre con stupore religioso
per imparare che nulla allo Spirito è impossibile.” Il Fascismo, come
spesso ripeteva il Duce, era una fede coltivata nella lotta che aveva avuto i
suoi caduti, i suoi martiri che immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera
la avevano rafforzata e sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da
mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina
di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia
conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi
caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di
tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia
dello spirito umano.” Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti
della Scuola aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più
appassionati apostoli. Anche loro si stavano preparando al combattimento
– nella sua duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare
degnamente il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta
di vita versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria. Morire
all’ombra dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo
eroico – Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come
narravano antiche saghe. Che l’intensa e interessante attività svolta
dalla Scuola nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista
fosse il risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande
serietà venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo
l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il
riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li
encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a
Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi
della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti
questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in
primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la
mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando
una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata.
Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo
ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli
nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la
politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori
eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per
far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella
politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della
politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano
presenti in voi. Avete tempo di riflettere.” Il secondo conflitto
mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno
successivo. I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme
conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo
la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore
dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di
cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte,
convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile
accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno
a ruota l’esempio dei loro capi. La loro esemplare condotta evidenzierà
una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di
fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada
per chi vuole percorrerla. Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di
eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente
coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo
volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel
marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove
coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando,
altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel
cirenaico. Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi
migliori campioni. Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo
dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi
sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce
aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando
Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il
dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le
intime motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È
questa nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato,
delle battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che,
se ci consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona
fede e di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci
obbliga tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro
che agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori
compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa
perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura
la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere
oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani.
Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i
superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica
gioventù italiana.” Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai
partigiani. Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per
onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così
facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con
il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di
esecuzione. Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro memoria,
la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene
nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini
caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per
il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna
ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi
debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma
deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a
vivere tra di noi. Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è
ancora terminata. Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni
pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse
associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore
dei debitori, le distri buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli
edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e
carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi ravano tutte a
combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a
paralizzarne gli effetti, ben ché nella loro essenza e origine avessero
carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la
simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni,
sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è
il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di
soccorso isti tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo
dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la
classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i
romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade,
circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono
efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO SECONDO LA CONCEZIONE
FASCISTA. LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE FUNZIONI DELLO
STATO. LA FUNZIONE SOCIALE DELLO STATO. PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE
SOCIALE DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGISLAZIONE SOCIALE. In Roma
sino all’editto di Costantino.Durante il medioevo.Dopo la riforma protestante.
Ordinamento sociale dello Stato fascista In Italia . L’evoluzione e la
trasformazione della legislazione sociale. La legislazione sulla beneficenza e
sulla assistenza pubblica e privata. La legislazione sulla mutualità e sulla
previdenza. La legislazione del lavoro. La legislazione sull’istruzione pubblica.
La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica. La legislazione sui
servizi e sulle opere pubbliche. GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE
DELLO STATO FASCISTA. I soggetti . Gli obiettivi . Gli obiettivi
relativi ai cittadini in genere. Gli obiettivi inerenti alle condizioni
generali di vita . Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di
forma¬ zione e di preparazione del cittadino, a quella di
produttività e a quella di riposo. Gli obiettivi relativi ai cittadini
benemeriti . Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non
rieducabili. Gli strumenti . Il criterio, profondamente corporativo,
adottato dal legi¬ slatore fascista per la scelta degli strumenti
attuanti la politica sociale. La famiglia. L’associazione professionale .
42Le istituzioni promananti, singolarmente o pariteticamente, dalle
associazioni professionali. Gli enti locali. Le opere nazionali parastatali. I
limiti . LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA Di alcune considerazioni preliminari. LE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . La- legislazione
inerente alla sicurezza, all’igiene e alla sanità pubblica . Per
garantire la sicurezza. Per assicurare l’igiene e la sanità. La legislazione
inerente alla previdenza . Per incrementare il risparmio . Per potenziare la
mutualità. Per favorire la cooperazione. Per diffondere le assicurazioni
Ubere.La legislazione inerente alla assistenza di soccorso. Per l soccorsi in
natura e in contanti. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri. La
legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬ grazione culturale e al
perfezionamento scientìfico . Per favorire il perfezionamento scientifico
.... Per la propaganda e l’integrazione
culturale .... La legislazione inerente all’integrazione della forma¬
zione e dell’educazione fisica e sportiva . La legislazione inerente alla
costituzione e all’in¬ cremento del nucleo familiare . Per favorire la
costituzione della famiglia. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia
famiglia . La legislazione inerente a particolari servizi pubblici.Per
garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . Per assicurare i rapporti e
i contatti economico-sociali . Per valorizzare il patrimonio nazionale. Ordinamento
sociale dello Stato fascista La legislazione inerente al
controlla, <UVadegua¬ mento e al collegamento ielle istituzioni
dell’ordinamento sociale e alla selezione dei suoi soggetti . Per
assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬ zioni sociali . Per
ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordinamento sociale. Per assicurare
la formazione della classe dirigente mediante la selezione totalitaria del
cittadini . IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZAZIONI
DIPENDENTI.Origine, natura e funzione sociale del P. N. F . I Fasci di Combattimento ..I compiti .I
soggetti .L’ordinamento. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e
Mutilati e Invalidi per la Causa Nazionale .I compiti . I soggetti.
L’ordinamento. L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... I compiti
I soggetti . L’ordinamento. L’Unione nazionale fascista del Senato . I
compiti . I soggetti . L’ordinamento. Gruppi Universitari Fascisti . I compiti
. I soggetti . L’ordinamento. I Fasci
Giovanili di Combattimento . a- I compiti . I soggetti. L’ordinamento. I
compiti . I soggetti . L’ordinamento. L’Opera Nazionale
Dopolavoro . I compiti .I soggetti . L’ordmamento. Le
Associazioni fasciste ..I compiti I soggetti L’ordinamento.
Il Comitato intersindacale . I
compiti. I soggetti. L'ordinamento. Gli Uffici di Collocamento
I compiti. I soggetti. L’ordinamento. L'Ente Opere
Assistenziali I compiti. I soggetti . L’ordinamento.
L'Opera Universitaria .I compiti . I soggetti. L’ordinamento. Il
Comitato olimpionico nazionale italiano. I compiti. I soggetti.
L’ordinamento. Di alcune considerazioni sul P. N. E. . La
legislazione richiamata . DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI
RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO. Ordinamento
sodale dello Stato fascista. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬
ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSONALE-NAZIONALE DEL
CITTADINO . La legislazione inerente al nucleo familiare per la formazione
fisico-militare del cittadino . S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa
dei mezzi economici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune
sue funzioni. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi
della famiglia. L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELL’INFANZIA.
L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. I compiti . Per
l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta da altri enti
o istituti o da privati. Per la vigilanza e il controllo delle singole
istituzioni di assistenza. Per la propaganda e la vigilanza suU’applieazione
delle leggi e dei regolamenti riguardanti l'assistenza materna e
infantile. I soggetti . .L’ordinamento .
Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 . La legislazione richiamata. La
legislazione inerente all’istruzione e alla formazione professionale del
cittadino. Per garantire l’istruzione professionale del cittadino sino
al 14° anno di età. Per favorire e incrementare l’istruzione
professionale La legislazione inerente all’educazione e alla
formazione fisica, premilitare, morale e nazionale del cittadino. L’OPERA
NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA
GIOVENTÙ’ .L’origine, la natura e la funzione somale dell’.O.N.B. . . I compiti
. I soggetti .. L’ordinamento . 161 Di alcune considerazioni
sull’O.N.B. La legislazione richiamata. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE
ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMAZIONE FISICO-MILITARE E ALLA
PREPARAZIONE PROFESSIONALE- NAZIONALE DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI
SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.La-
legislazione inerente all’azione sociale attuata dalle associazioni
professionali . Per garantire l’azione sociale da attuarsi direttamente
dai sindacati . Per assicurare l’azione sociale da attuarsi dai
sindacati a mezzo di speciali istituzioni. IL PATRONATO
NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE. L'origine, la natura e la funzione sociale
del P.N.A.S. .I compiti . I soggetti . L’ordinamento . Di alcune considerazioni
sul P.N.A.S. La legislazione richiamata. La legislazione inerente all’azione sociale
attuata. dalle corporazioni. Per garantire il produttore
obiettivamente e subiettivamente di fronte alle condizioni del lavoro. Per
tutelare i reciproci rapporti fra i produttori nella loro dualità
di datori di lavoro e di prestatori d’opera . Per favorire ii perfezionamento e
l'elevazione professio¬ nale del produttore. Ordinamento sociale dello
Stato fascista. La legislazione inerente alla conservazione dello spirito
nazionale e della preparazione fisico-militare del produttore. DI
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI
PRODUTTIVITÀ DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI
RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. La legislazione inerente all’obbligo delle
garanzie previdenziali per la fase di riposo-vecchiaia. La legislazione
inerente a speciali interventi statuali a favore del vecchio bisognoso. DI
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI 'SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI
RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HANNO
BENEMERITATO DALLO STATO . La legislazione inerente alle benemerenze collettive.
La legislazione inerente alle benemerenze individuali. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI
SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI. LE ISTITUZIONI
SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI. La
legislazione inerente ai minorati assolutamente non produttori .La
legislazione inerente ni minorati relativamente non produttori . DI
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI MINORATI NON
RISANABILI E NON INEDUCABILI.LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL
CITTADINO NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE Di alcune considerazioni
preliminari . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NASCITA ALLA MAGGIORE
ETÀ’. L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato sino al
quinto anno . Per la costituzione della famiglia.Per la esistenza e
l’incremento della famiglia . .Per li cittadino neonato . Per Viilegittimo e
l’esposto. Per l’orfano. Per iì cittadino infante. Di alcune considerazioni
sull’azione previdenziale e assisten¬ ziale dello Stato sino al quinto
anno. L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal sesto
al quattordicesimo anno . Per la formazione e lo sviluppo fisico, militare,
morale e nazionale. Per la formazione intellettuale e professionale
. Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assistenziale dello
Stato dal sesto al quattordicesimo anno . L’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno .
Ordinamento sociale dello Stato fascista.
Per il cittadino che studia. Per il cittadino che lavora. Di alcune
considera «ioni sull’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal
quindicesimo al ventunesimo anno. DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO
PRODUTTORE . L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato per
il cittadino ohe è produttore. L’azione previdenziale e assistenziale
dello Stato per la famiglia e i suoi membri . LA POLITICA
SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO
BENEMERITO. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO MINORATO NON RISANABILE E
NON RIEDUCABILE. LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO FASCISTA. DELL’AZIONE SVOLTA
DIRETTAMENTE DALLO STATO ATTRAVERSO AI SUOI ORGANI. Per la
riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬ sione della rete consolare
. DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE DI CONVENZIONI BILATERALI E
PLURILATERALI E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. Le convenzioni bilaterali e
plurilaterali ..Le convenzioni intemazionali, le raccomandazioni e
le risoluzioni dell'O.I.L . La legislazione richiamata. Appartene alla
categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa
ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo
Maestro: da Arnaldo im parò che prima di agire e costruire è necessario ele
varsi, purificare il proprio spirito, temprare il proprio carattere; allora
soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro.
Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli al tri è prima
indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri
difetti, affinare inces santemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà
aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può
suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò
che non costa non vale; ciò che non procura fatica e sof ferenza non
dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le
ricchezze sono effimere e ca duche cose. Quello che importa è quanto è dentro
di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a
strapparci la carne viva di dosso. Es sere se stessi in ogni momento, rimanere
se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini. Uomo di fede Un
uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che non vacillano
mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che
traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre
nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti cristalline attingono le
intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che
se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol te vette bisogna scalare e talvolta
anche scendere da alcune per risalire su aifre vette più alte ancora. In 8
i Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spi rituale, da
un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il
Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì fonda ». Egli credeva in Dio,
nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a cui dobbiamo non soltanto il
dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a
continuare la missione di civiltà e di giustizia che la gente nostra svolge nel
mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica enunciata da
Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sa
crificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di
educare gli uomini a una visione vasta ed umana delle cose, di creare un nuovo
tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in Mussolini perchè lo
considerava l'uomo della Provvidenza, l'e sponente di una razza eletta, il
fondatore di una ci viltà universale, il protagonista e l'artefice di una
nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE, a cui non occorre
chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perchè
dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9 ‘1 del
suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno. Credeva
nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo, educati alla severa
scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, gene
rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna va una classe
dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio,
di essere de gna del nostro grande popolo e del nostro grande Capo; una classe
dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale — la
sola ric chezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro — e dotati
di tutte le virtù spirituali, intellet tuali e fisiche che sono indispensabili
per poter eser citare con dignità e con efficacia la missione dei co mando.
Concepiva la famiglia nel senso più tradizio nalmente nostro; amava cioè la
sana numerosa fami glia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sboc
ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o com battendo-per la Patria e
la donna che nel piccolo gran de regno della casa vive nella serena ed operosa
attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non tornerà la 10 — donna lo
piangerà senza lacrime perchè egli sopravvi va nella fierezza dei figli, I
quali continueranno, nella luce del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella
Patria come ne « la più pura, la più grande, la più umana delle realtà », amava
la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna.
Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria
è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saran
no; la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le
più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di
territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera;
per essa si combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e
Maestro dei giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli
intendeva il giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di
educazione e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca
Preal- " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci sta
» si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario,
dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun
zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un
giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della
Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse gnamento si
era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte
le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara
zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della
sua beila cultura fatta di conoscen za e di azione, illuminata dalla fede,
riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi gliore di
se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla
Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da
lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co me un mirabile esempio ai
giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai
comandamenti del Duce ». Era il migliore tra noi: il più limpido,
ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo
e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì
missionari, i portatori del no stro credo politico e fu egli stesso il più
tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda mento deiia
nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani- poio di
credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli
squadristi un tempo amava no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la
Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i
Gruppi Fascisti Uni versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten-
zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio vani, ma la sua
azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono
con in tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al lievi della
Scuola, le due più preziose virtù dello squa drismo: la fedeltà e la
intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di
Niccolò Giani è legato alla riapertura del Covo di Via Paolo da Cannobio, prima
sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto
affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le
giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia nostra Ri
voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori gini, la poesia e il
fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed un in
transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici sanno
dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo spirito si
ribellava a qualunque forma di com promesso; sul terreno della fede non
ammetteva pat teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della
barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di
ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia
nostra guer ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im pazienza
di decisione. Il tema del Convegno era bru ciante: «Perchè siamo dei
mistici?». I problemi dell'inteiligenza e deila cultura furono esaminati al
lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a
viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della
ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La dottrina che conquista è
quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed
oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene tra e trasforma e non
quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse in un'atmosfera di
fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu
data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale
a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non si può se non si è
mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si
combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica,
che i giovani della generazione del Litto rio affermarono solennemente il loro
diritto al combat timento, Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i
primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti
una coe renza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come
volontario alla guerra per la con quista dell'Impero, aveva chiesto
ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente
sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli
alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi
mento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insod disfatto, Andò in Africa
settentrionale come corrispon dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando
seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo.
Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì
per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu
appagato, la terza volta fu l'ultima. I suoi uomini lo adoravano; con lui
sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un
manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una
ricognizione sulle po sizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e
rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato
poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato
l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro
che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare.
Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta,
sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un
presidio greco. Circon dato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola '
gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza.
Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli
altri, Ètriste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il
nostro spirito alia polla purissima della sua fede; ma egli ha chiuso la sua
vita terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto
della vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò
Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come
sa morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica,
non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto
anche se il cuore in questo momento acce lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma
noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo
spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la
strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere
anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore
anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo
ed il nostro Mae stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo
figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore
dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in
ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce
lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri
cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene,
15 lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si
riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per
chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo mini più forti e i soldati
più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi scono
cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive va più di
150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen te, nello stesso periodo in cui Roma
combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta gine. Ma, a
questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè
Ro ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di
Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era
solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema
di vita. Roma rurale, Ro ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com batteva
anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano,
ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i
suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo
stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro mano nella gente nata dai campi,
cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem prata nelle
lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma
no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16 essi, Apollonio
Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo
nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica
che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel l’interesse della
Repubblica è prova di saldi prin cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a
Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio ne « Pro Fiacco ». E
nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai
sordi in quale dispregio avessero i romani i traf ficanti di denaro. Ecco
infatti come Cicerone rac conta che Catone rispondesse a chi lo interroga va
sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale
altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E
poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè
del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi dell’uccidere
un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat ta, avrebbero potuto,
non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità ebraica? E se è vero che
nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda Maccabeo si iniziano i primi
rapporti di plomatici tra Roma e Gerusalemme, se è vero che nel 143 e nel 139
seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio Cesare e Ottaviano li tolle
rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché essere grati e devoti allo stato
romano ricambia- 17 2 rio con disordini e con tradimenti la
generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da un decreto di tolleranza passa
alla loro espulsione e ciò per chè, come testimoniano numerosi scrittori lati
ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli
Ebrei conside rano come profano tutto ciò che da noi è consi derato sacro »
(cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per chè « essi hanno un culto particolare,
leggi par ticolari, disprezzano le leggi romane » (cfr. Gio venale, Im. Lat.;
XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto di civiltà e questa antitesi
di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva alla spedizione di Tito :
all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in tal mo do, due secoli dopo
Cartagine, anche sull’or goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e
viene cosparso il sale. Così quei giudei che pretendevano di essere il popolo
eletto e che per invidia di capi e per in comprensione ingenerosa di popolo
avevano tra dito e condannato nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del
Profeta che smentirono la profe zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La
profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza zione per mano di Tito, di quel
Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile volontà di quel Dio che egli
inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto contro il cielo eterno di Roma,
quasi a testimonia re e ammonire le genti e il mondo intero della giu-
18 stizia e della verità che promanano dai sette colli sacrati
all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo.Niccolò Giani. Giani. Keywords:
implicature mistica, mistico, il mistico – la mistica del liberalismo – la
mistica del comunismo – la mistica della democrazia – la mistica del socialismo
– filosofia politica – dottrina liberale – dottrina comunista – dottrina
democratica – dottrina socialista --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Giani – la radice italica del melodramma -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Giani;
for one, he was less fanatic than Nietzsche, even if it is Nietzsche’s
fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is more careful: if ‘music’
comes from the muses, which are Apollonian, why has Nietzsche to emphasise in a
piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth in the ‘spirit’ of “music” –
surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no ‘music’ in Dionysus, only
noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that point!” -- Appartene ad una famiglia dell'alta borghesia
torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per l'arte: lo
zio Giuseppe (Cerano d'Intelvi) fu pittore piuttosto noto, docente
all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si
dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi fino alla laurea. Si interessa inoltre al
fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di
Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla
seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro
musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo
difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca,
della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante
gli scritti di Giani, soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo
e note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a
Giani anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una
rivista che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo
positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di
altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte
aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per
tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la
cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la
naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa
manifestazione dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito,
che egli da allora considerò incondizionatamente un maestro: al tempo Boito
aveva reso pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto
vivacemente e con alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La
posizione intorno al Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i
requisiti che la cerchia di Giani e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa
tragedia farebbe parte del novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo,
suono della parola, gesto, musica concorrono alla creazione di un che di
superiore. Tuttavia, quando la musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara
una certa delusione. Uomo dalla cultura enciclopedica, versato con competenza
anche negli studi di letteratura, Giani cura L'estetica di Leopardi. Vede inLeopardi
il luogo in cui le immagini della sua poesia si comporrebbero in un universo
etico ed estetico coerente. All'interno della storia della critica leopardiana,
pare avvicinabile ora alla posizione di Croce, di distinzione tra il momento
della poesia e il momento della riflessione, ora a quelle positivistiche.
Singolarmente,parla di musica e dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il
ruolo del coro nelle Operette morali solo nella conclusione, benché in termini
acuti. Avrebbe contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari,
quello della musica nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella
tragedia” -- Fin dal saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La
nascita della tragedia dallo spirito della musica”. Giani non condivide l'opinione
di Nietzsche secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento
la portata dionisiaca della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un
livello musicale altissimo. Per affermare questo ricostruisce il ruolo della
musica nei testi tragici sulla base delle fonti antiche, dedicandosi alle
singole parti e forme musicali dei drammi, sempre attento a sottolineare la
valenza estetica complessiva della tragedia o melodramma, ma nel contempo senza
trascurare le posizioni metodologiche della scuola filologica. Fino ad
allora non aveva stretto profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito),
si avvicina sempre più alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti,
approvandone principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa
spiritualità nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della
Voce, ma prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in
particolare dai drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte
totalmente compiute. Un legame creativo e biografico molto più stretto
strinse con Ghedini, anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per
Ghedini, che sta ancora cercando una personale posizione estetica e anda
raggiungendo progressivamente le conquiste di stile e di linguaggio che lo
avrebbero reso famoso, Giani valse come una sorta di pigmalione, suggerendo
testi da musicare per le liriche e esaminando con occhio critico le
composizioni di Ghedini. Giani stesso fu librettista. Ridusse L'Intrusa
di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso
il termine della sua vita, divenne molto noto in tutta Italia per i suoi
scritti di radicale confutazione di Croce. Non era particolarmente ostile
all'idealismo di Croce, anzi considerava la teoria dell'arte come intuizione
una delle chiavi per la valutazione della creatività anche musicale e teatrale.
Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di Croce veniva sistematizzata dal suo
stesso autore, ma soprattutto da alcuni suoi pedestri seguaci mal tollerati dal
nostro, attaccò tale concezione con il bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La
fionda di Davide, criticando che in essa non vi fosse posto per il lato tecnico
e materiale della creazione e che addirittura la stessa musica non fosse stata
debitamente considerata da Croce al medesimo livello delle altre arti che
diedero lustro al passato italiano. Il posto di Giani nella storia della
musicografia è tutto particolare.Pestalozza vi ha addirittura visto un predecessore
della “fenomenologia musicale.”In realtà, ad un attento esame quantitativo dei
suoi scritti, pare essersi dedicato assai poco a questa o quella musica in
particolare, mentre il suo contributo fu assolutamente preponderante nei temi
di estetica musicale.Fu una voce originale, fuori dal coro, che inizialmente
difese il dramma di Wagner, quindi auspice fermamente all'interno dei testi
musicati dai compositori qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò,
pur da lontano, i compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca
continua di stile e di linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della
musica, che doveva essere cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila
"figuratrice dell'invisibile", cioè l'elemento che dà corpo alle
sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie suscitate dai testi musicati e non
immediatamente in essi esplicate. Una posizione la sua che può essere
paragonata a quella del "critico-artista" teorizzata da Wilde, che
Giani ben conosceva: un "critico-artista" nel senso di ri-creatore
dei percorsi attraverso cui la composizione è venuta alla luce, e ignoti al
compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a identificarsi una volta
che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose per testamento che i
suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di piccola Città preferibilmente
Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca Civica "Camillo
Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo che prese il suo
nome. Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in proposito di uno studio
di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, -- aristocrazia, democrazia,
crazia – kratos – il concetto di potere -- Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista
Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di
Anticlo: Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale
Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco
Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano: La fionda di
Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico
degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista
Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale
Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza,
Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano,
Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista
Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in
proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e
Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo
Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli
interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di
Casagrande, Baldi, Betta, Cavallo,
Balbo, Fenoglio. GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da
Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.
Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura
patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso
tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile,
ebbe profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti,
ampliate dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte
europee. Nel 1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della
Rivista musicale italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per
trentasette anni, spesso valendosi di pseudonimi. Esordì sul primo numero
della rivista con la critica "I Medici". Parole e musica di R.
Leoncavallo. Il dramma (Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso
numero diede il via alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid.), ove
poneva in luce difetti e pregi dei testi inviati da autori sconosciuti per
dimostrare che la poesia del melodramma era forma d'arte. Nel 1896, in
Per l'arte aristocratica (ibid., III, pp. 92-127), sostenne una vivace polemica
con L. Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale parteciparono M. Pilo, D.
Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare che la formula
"l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica" non era cosa
assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto di un'evoluzione.
Nel 1901 pubblicò il saggio critico Il"Nerone"di A. Boito
(Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr. Riv. mus. ital.), che gli
procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò numerose lettere in cui si
dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume L'estetica nei
"Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid. 1928; cfr. Riv.
musicale italiana) il G. oltre a ricostruire il pensiero estetico del poeta di
Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte musicale. Nel 1899, per la
"Biblioteca di scienze moderne" del Bocca, era stato pubblicato Così
parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da E. Weisel; il G., ritenendo la
traduzione non fedele all'originale, ne approntò una nuova versione d'accordo
con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel 1906. Nel 1913, con lo
pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli spiriti della musica nella
tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana, XX, pp. 821-887). Nel
1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore nel Canzoniere di F.
Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul ritmo), considerata
dalla critica, forse, la sua opera più riuscita. Il G. inoltre traduceva
per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e dal francese; come
poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther (Riv. musicale
italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti ispirata dal testo
biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti, e L'Intrusa
(ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in prosa di M.
Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non rappresentato), e poi
da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel 1940. La
pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il Breviario,celebrazione
dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana), apparso sotto lo pseudonimo
di Luigi Pagano, rappresentò un attacco all'estetica crociana che diede origine
a una polemica col Croce stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò
infondati alcuni concetti del filosofo, come l'eccessivo idealismo che
considerava la musica estranea ai fenomeni fisici che la originano e alla
tecnica, espressi in Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale (1902) e nel Breviario di estetica, opere che il G. ironicamente
chiama Vangelo e Breviario. Con Socrate e la pulce (ibid.) rispondeva allo
scritto La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il
Pannain assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello
del Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino
1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di
Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il
Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e
a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo
de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella
teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola
dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa
del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva
"età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650;
la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò
con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254). Il G.
scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana
e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri
pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella. Il G. morì a Torino il 16 genn.
1931. Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio
drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia,
in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli
"Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp.
677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica
nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26,
14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio
1905. Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella
tragedia greca, in Riv. mus. ital., L. Ronga, In morte di R. G., ibid.,Botto
Micca, R. G. (Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, Pastore,
In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, Vajro, R. G., ibid., LIII
(1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.;
Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo
Giani. Giani. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Giannantoni – la dialettica – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Perugia).
Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for one, he believes, with me, that there
is Athenian dialectic, Roman dialectic, Florentine dialectic and Oxonian
dialectic; like me, he has explored mostly ‘Athenian dialectic,’ and he has
noted that its birth (‘nascita’) is in the ‘dialogo socratico,’ so it should
surprise nobody that I have based my philosophy on the facts of conversation!” Si
laurea a Roma sotto Calogero. In “Il dialogo di Socrate e la dialettica di
Platone” attribuisce a Socrate una concezione molto laica della divinità e
della religiosità («Religiosità, che Socrate, il quale era certamente una
personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente
era sentita a quell'epoca»). La sua dottrina storico-filosofica si fonda sul
principio che ogni seria riflessione filosofica si debba basare su un'accurata
e rigorosa ricerca filologica delle fonti. Questo spiega l'enorme dispiego di tempo
dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate” (“Socratis
et Socraticorum reliquiae”). Giannantoni ha sempre seguito il criterio di Croce
e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire tramite
l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo scopo
di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare da
questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente basata
sulle fonti. Convinto dell'onestà
intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della
storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla
ricostruzione filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni
personali. Traccia un profilo “ideale” dello «storico autentico» della
filosofia, che ha il «dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più
possibile al mondo del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non
basta ancora se non è accompagnato da una sensibilità filosofica e da una
consapevolezza teoretica e storica insieme. Di qui conclude il fascino di una
ricerca che, rendendoci consapevoli di una grande quantità di problemi
altrimenti inavvertiti, termina in un autentico arricchimento spirituale. Il
suo insegnamento è stato caratterizzato dalla volontà di essere semplice e
chiaro nell'espressione del pensiero considerando questo un dovere morale
dell'intellettuale nei confronti degli altri studiosi. Anche allo scopo di realizzare una scrittura
filosofica quanto più scientificamente precisa, ha compiuto studi approfonditi
sulla logica di Aristotele e sulla storia della semantica filosofica (teoria
del segno). Nella sua vita e nella
dottrina si è sempre impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico,
così come fece il suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio
sulla regola d’oro: il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici
di Diels e Kranz. Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa
ha veramente detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni);
“Filosofia romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano:
Vallardi); Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti
della logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino:
Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da
Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere;
introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti,
testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze
e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino:
Loescher. La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae.
Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni, 2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di
filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni;
Introduzione di Francesco Adorno: per Gabriele Giannantoni: un dialogo, Editore
Bibliopolis (collana Elenchos), 2009 Deputati
della V, VI, VII legislatura. Op.cit.
Bruno Centrone, ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone,
Bibliopolis, Edizioni di filosofia, ILIESI CNR
La traduzione dei Presocratici da parte di Giannantoni è stata criticata
da Giovanni Reale nell'introduzione alla sua nuova traduzione dei Presocratici
del 2006, critiche riportate in due articoli-intervista comparsi sul
"Corriere della Sera" nei quali Giannantoni, di formazione gramsciana veniva
accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di avervi
perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio
all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero
di Socrate#Socrate: l'interpretazione di Giannantoni Guido Calogero La teoria sul
pensiero greco arcaico. Per chi abbia svolto la propria attività di
ricerca o abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della
storiografia filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di Gabriele Giannantoni
(Perugia, 1932 – Roma, 1998) è legato anche al Centro di Studio del Pensiero
Antico (CSPA). dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Roma,1 su
richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in sostituzione del precedente
Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica –, il Centro di
Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale e internazionale
della ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì allo sviluppo di
una disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente al duplice
contesto della storiografia filosofica e delle scienze dell’antichità. Il
Centro fu attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a seguito di una
riforma che ridisegnò la rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
esso fu accorpato con il Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo
per dar vita all’ Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle
Idee (ILIESI), sotto la direzione di Tullio Gregory.2 L’attività del Centro di
Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata al percorso intellettuale
e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non esclusivo. In questo breve
profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i motivi culturali che furono
alla base della costituzione di questa realtà, nonché alcuni modelli
scientifici di riferimento che ne hanno determinato in certa misura la
configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi originali che il
Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di propria competenza,
in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto la guida di
Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto del
Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione tra
il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal Presidente
del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda “Elenchos”, 1,
1980, pp. 201-202. 2 Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto
per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti
normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979 presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
MOTIVI CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica
del Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da
precise scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto
l’istituzione. Per dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno
riassumere i motivi che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato
agli studi storici sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo
luogo, la possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una
disciplina dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo
quanto a materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la
nascita, o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità
greca e romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le
cosiddette scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche
discendono direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la
rivisitazione del patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione
indiretta che ha conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di
quei filosofi antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola
opera completa –. Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi
continentale che fece della dossografia antica una vera e propria categoria
storiografica con risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato
alla dossografia, oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di
derivazione socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si
è conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui
Giannantoni era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come
direttore del Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta
la dossografia relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco
di questi tre indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di
Gabriele Giannantoni abbiano maggiormente pesato sulle strategie generali e
sulle iniziative specifiche del Centro, nonché sulla formazione professionale
che esso ha reso possibile. Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo
specifico della storia della filosofia antica presuppose, da parte di
Giannantoni, una approfondita analisi della visione storica che la cultura
filosofica italiana era venuta maturando intorno alla filosofia antica. In
questa analisi, i cui esiti si leggono, non a caso, nell’articolo di apertura
della 6 ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista “Elenchos”
intitolato La storiografia idealistica e gli studi sul pensiero antico
(“Elenchos”), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del pensiero
antico seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua valutazione
critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due caratteri, l’uno
teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non favorirono lo sviluppo di
una moderna storiografia del pensiero antico. Per un verso, tanto Croce che
Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i limiti di un pensiero
oggettivo, astratto e naturalistico, che mai sarebbe arrivato a concepire la
positività dell’idea di infinito, né quella della soggettività. I punti più
alti raggiunti dalla filosofia teoretica greca, Socrate, Platone, Aristotele,
coincidevano rispettivamente con la delineazione del concetto, o universale
astratto, con la sua separazione dalla realtà sensibile (la teoria delle idee
trascendenti e la scienza come dialettica delle sole idee) e con una logica
puramente strumentale (la sillogistica), alla quale sarebbe mancata la
teorizzazione del giudizio individuale, o giudizio storico,3 nonché la capacità
di superare l’astrattezza e attingere l’atto stesso del pensiero.4 Nella
filosofia pratica parimenti i Greci antichi, pur non mancando di intuizioni
profonde, non avrebbero superato il precettismo e l’empirismo, e la loro etica
ingenua non sarebbe mai giunta a distinguere etica ed economica, morale e
diritto, come categorie dello spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13, rimanda a
Croce 19092, di cui diamo qui i riferimenti da Croce. 4 Ciò Giannantoni
ricavava, pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici
che possiamo leggere in Gentile e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da
Gentile 1964. 5 Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda
Croce e a Croce 19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165. ILIESI digitale Temi e
strumenti 7 Figura 1: copertina di “Elenchos”, 1, 1980.
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero
Antico Per l’altro verso, però, l’idealismo formulò una critica, entro certi
limiti giusta e salutare, alla filologia classica – cioè alla filologia
classica moderna sviluppata in Germania nel corso del XIX secolo, distintasi,
tra le altre cose, per una predilezione della cultura greca rispetto alla
latina –, colpevole sostanzialmente di non essere una disciplina veramente
storica. La filologia classica, malgrado i grandi risultati raggiunti nella
costituzione dei testi della letteratura antica, nella revisione della
tradizione bizantina e nelle nuove acquisizioni, si affermò come una procedura
tecnica complessa e molto raffinata ma priva della visione della storicità del
documento, del suo autore, dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo
testimone. La questione, che emerse inizialmente nel campo delle edizioni
letterarie,6 non è meno complessa per quelle filosofiche: i testi della
filosofia antica richiedono anche una comprensione dei contenuti teorici e
pretendono di essere inquadrati in sistemi di pensiero il cui senso trascende
il ripristino del testo, o quanto meno se ne distingue in data misura. Questo
fu il nodo che si dovette sciogliere perché si potesse cominciare a delineare
una storia della filosofia antica che includesse tanto la capacità di fornire
edizioni affidabili sotto il profilo testuale, quanto quella di storicizzare i
documenti, cioè di comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali
congrue con le epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque
imputata da Giannantoni di evidenti limiti interpretativi del pensiero antico,
come fu ben presto mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di
Rodolfo Mondolfo sull’infinito nel pensiero greco e sul soggetto umano
nell’antichità,7 che smentivano l’idea di un connaturato e irreparabile
oggettivismo della filosofia greca. Tuttavia l’idealismo ha fornito
un’importante lezione e soprattutto ha indicato con chiarezza un ostacolo da
superare: 6 In particolare, la critica crociana a cui Giannantoni fa
riferimento prese le mosse da edizioni
di testi poetici e si volse contro la “mera filologia” e la Kulturgeschichte
che, nella pretesa di restituire il senso del testo letterario, non apportavano
comprensione né storica né concettuale. Cfr. ad esempio la recensione alla
monografia del 1950 di Ettore Romagnoli su Aristofane e che si può leggere in
Croce. Dice Giannantoni al riguardo (p. 19): “...il problema del rapporto tra
filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra filologia e filosofia sta
al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”. Giannantoni probabilmente
pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al “filologismo” che
affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia della filosofia, in
Gentile 1Mondolfo 1933; Mondolfo 1958. 8 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero
Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di B. Croce per il suo 80°
compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama complessivo degli studi di
filosofia antica nel cinquantennio, Guido Calogero non ritenne di dover
prendere in considerazione né Croce stesso né Gentile (e neppure De Ruggiero)
quali interpreti del pensiero antico; né altri ne hanno trattato in modo
approfondito (mentre studi importanti esistono sulle loro interpretazioni di
altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione ... è da ricercare in
una persistente separazione, non solo concettuale, ma anche di organizzazione
degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non poco a consolidare, tra
considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine filologica. Gli
studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo particolare di una
vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i compiti esclusivi
del filologo e quelle che erano considerate le competenze dello storico e del
filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti apparire troppo
filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo filosofici per entrare
di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti chiamare la “scienza
dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste parole (cioè nel 1980),
era persuaso che la scissione non fosse superata e fosse causa, oltre che di
una durevole influenza idealistica, anche di un pregiudizio nei rispetti della
filologia, malgrado i grandi progressi e le messe a punto di tanta prestigiosa
filologia classica italiana.9 Stante, quindi, una situazione di progresso
“zoppicante”, per così dire, degli studi storiografici italiani sulla filosofia
antica, Giannantoni nutrì l’aspirazione di delimitare un preciso terreno
metodologico cogliendo la preziosa occasione che il Consiglio Nazionale delle
Ricerche gli offriva. Il secondo indirizzo è quello che, almeno a prima vista,
rivela maggiormente la stretta relazione tra il percorso scientifico
individuale di Giannantoni e lo spettro di interessi messi in campo da quanti
hanno operato nel o col Centro, a cominciare dai suoi allievi. Tanto più che
l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle tradizioni socratiche ed
ellenistiche non è del tutto indipendente dalla questione dell’impatto
dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia filosofica
dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di Socrate,
Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio deprezzamento delle
tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 Giannantoni 1980, pp. 7-8. Il
riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp. 43-59. 9 Si veda al
riguardo il chiarimento di Giannantoni relativo all’opera di Giorgio Pasquali,
che pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità di metodo, non di
contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della filologia
classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo, inteso
come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie” del
pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le
rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (cfr. 1980, p. 37). 10
Cfr. Croce 19455, p. 201: “... col considerare principalmente il contrasto
delle passioni verso la volontà razionale sorsero le scuole opposte dei cinici
e cirenaici, ILIESI digitale Temi e strumenti 9 Francesca Alesse
G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico ricordare che la
figura di Socrate, a cui deve farsi risalire il terreno di ricerca costituito
dalle scuole socratiche e buona parte di quello attinente alle tradizioni
ellenistiche, fu al centro di importanti riflessioni teoretiche e
storiografiche di Guido Calogero,11 che di Giannantoni fu il maestro. Abbiamo
poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più scuole
anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”, tali
cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in più,
conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine degli
anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate, in
particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione
scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica
la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni 1958). In essa si
profilano le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che
concettuali, relative alla intricata questione della eredità socratica:
l’edizione critica di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la
possibilità di dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica
aneddotica; la contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu
composito in cui si intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica
classica e il magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le
dottrine di tutte coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come
precetti di vita più o meno convenienti a individui, classi e tempi
determinati, non ne presentano alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto
concetti filosofici; e cinici e cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che
filosofi sembrano monaci, seguaci di questa o quella regola”. Sulle “scuole
socratiche minori” cfr. anche il giudizio, meno sommario, di Gentile. Com’è
molto noto, Socrate occupò un ruolo centrale nella personale riflessione
teorica di Guido Calogero, che elaborò la sua “filosofia del dialogo”
esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi platonici, nel quale il
filosofo italiano vide la prima formulazione di un’istanza intellettuale e
morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo” conclusivo e assertivo –
destinata a far giustizia della pretesa di fondare l’etica sulla epistemologia
e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla base della moderna
concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu anche al centro di
importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei quali aprirono la
strada alla ricerca della posterità del magistero socratico nel pensiero
tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da quella di
Giannantoni, ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da Socrate
nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a
Giannantoni 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali:
Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967;
Mannebach 1961; Decleva Caizzi 1966; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella
filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione
delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di
Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung
tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove
possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda
metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il
Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed
accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che
precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre
sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di
Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata
allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa
editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976,
mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie
riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali
tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono
aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione
delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso
esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano,
nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le
13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti; Decleva Caizzi; Ioppolo 1977;
Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI digitale
Temi e strumenti 11 Figura 2: copertina di G. Giannantoni, I
Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo,
Firenze, Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero
Antico peculiarità e la notevole problematicità, soprattutto sotto il profilo
filologico, di una edizione di testi filosofici e di molti autori. Emerge da
questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma un criterio programmatico
che non considera sufficienti, benché certamente necessarie, le sole competenze
della filologia classica, ma pretende una sensibilità storica e una capacità di
comprensione teorica che gli sforzi della Altertumswissenschaft tradizionale
non avevano sempre garantito. L’edizione di testi filosofici di trasmissione
indiretta non può limitarsi alla costituzione del testo e alla redazione di
apparati critici da cui si desuma il meticoloso lavoro di collazione dell’editore,
ma deve tener conto dei contesti storici e problematici nei quali sono vissuti
tanto il filosofo quanto il suo testimone. Inoltre, un’edizione che sia, in
più, una silloge di testi relativi a (e non provenienti da) molti filosofi,
comporta di andare oltre la natura estrinseca14 della singola testimonianza
(epoca e ambiente del testimone, distanza cronologica dall’autore, genere
letterario della fonte, parametri stilistici, etc.) e di individuare alcune
strutture di pensiero che, in un lasso di tempo abbastanza lungo, si facciano
riconoscere per caratteri salienti e durevoli e, al contempo, riflettano le
condizioni storiche che ne determinano la specificità (secondo i dettami dello
storicismo), diventando pagine e capitoli di una lunghissima storia culturale;
si configurino, cioè, come tradizioni: Il fatto è che a proposito di una
raccolta di testi che riguardano uno o più filosofi, emerge molto più
nettamente che in altri casi l’impossibilità di considerare la testimonianza
antica come un dato puramente oggettivo, e quindi la necessità di storicizzarla
fino in fondo: in realtà essa deve essere considerata come un capitolo di una
vera e propria storia della cultura durata all’incirca un millennio, e perciò
da ricondurre di volta in volta al suo tempo e alle tendenze storicamente
determinate che la produssero: parleremmo di un Diogene irreale e mai esistito
se pensassimo di poter adoperare come ingredienti mescolabili a piacere
Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e Giuliano l’Apostata, un padre della
chiesa e le epistole apocrife che vanno sotto il nome del cinico.15 Il terzo
indirizzo, relativo alla dossografia, è quello che presenta, almeno in
apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto alle problematiche ecdotiche ed
interpretative attinenti allo studio di 14 Sulla cosiddetta filologia
“esterna”, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni filosofiche e sui suoi
limiti, si veda Giannantoni 1980, p. 15, a proposito dell’opera di Girolamo
Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia antica è legata
specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici di Giovanni
Filopono. 15 Giannantoni 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero
Antico dottrine riportate da testimoni spesso assai lontani, per cronologia ed
orientamento intellettuale, dagli autori di cui si vuole conoscere il pensiero.
D’altra parte, la dossografia si è rivelata un capitolo importantissimo di
quella millenaria storia culturale che costituisce il terreno di indagine della
storia della filosofia antica. Non si potrebbe ancora oggi redigere una storia
della storiografia filosofica dell’antichità senza iniziare non solo dalle
grandi raccolte di testi e frammenti allestite dalla filologia ottocentesca e
comparse nei primi anni del XX secolo (le raccolte di Usener,16 Diels,17
Arnim,18 per citare degli esempi), ma anche dalla prima grande opera di analisi
e comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di Hermann Diels;19 come è
altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei più recenti e sistematici
contributi all’analisi della dossografia filosofica, cioè gli Aëtiana di Jaap
Mansfeld e David Runia.20 I più importanti progetti editoriali varati negli
ultimi decenni, inoltre, si sono strettamente legati alla problematica della
dossografia e all’analisi dei testimoni, a lato di quelle condotte sugli autori
e sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di autori di grande notorietà e
impatto della tradizione culturale antica, ai quali si deve gran parte della
conoscenza dei filosofi precedenti, come Cicerone e Plutarco, si è venuta
affiancando una sempre maggiore familiarità con testimoni meno noti ma che
hanno rivelato un’importanza fondamentale, come Filodemo, Diogene Laerzio,
Sesto Empirico, Galeno, Giovanni Stobeo. L’indirizzo dossografico fu quindi un
segno della tempestività e della sensibilità di Gabriele Giannantoni nei
rispetti di un terreno di ricerca che si veniva imponendo in ambito
internazionale, e che di fatto contribuì alla dimensione internazionale dello
stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale fu in buona misura
dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed imperiale. Si può far
rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di attività di studi la
cui ragione storiografica fu oggetto di un vivacissimo 16 Usener 1887. 17 Diels
1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia 1997; Mansfeld-Runia
2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare che le parole stesse
“doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Hermann Diels. Sulla dossografia
e sul suo sviluppo come categoria filologico-storiografica, cfr. Mansfeld 1998,
rist. in Mansfeld-Runia 2010, Mansfeld 2002, rist. in Mansfeld-Runia 2010.
ILIESI digitale Temi e strumenti 13 Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dibattito e che è nota
come la questione delle dottrine non scritte di Platone. Sorta nell’accademia
tedesca, in particolare a Tübingen, da un’ipotesi schleiermacheriana, la
questione degli agrapha dogmata consisteva, molto in breve, nella convinzione
che Platone avesse teorizzato una dottrina dei principi (Uno e Molteplice),
della quale non resta traccia nei suoi scritti – perché oggetto di pura
trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica – ma solo sparsi indizi in
pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del Centro, Giannantoni
invitò Konrad Gaiser, ordinario di filologia classica all’Università di
Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di questa ipotesi, a tenere una lezione
presso la Sapienza sul tema La teoria dei principi in Platone, il cui testo
venne pubblicato nel primo numero della rivista “Elenchos”.21 Tuttavia, il
punto che merita attenzione in questa sede è che la questione delle dottrine
non scritte di Platone fu, oltre che un tema rilevante per se stesso, anche un
“pretesto” per riconsiderare Aristotele come testimone egli stesso del passato
filosofico, più precisamente per le cosiddette filosofie presocratiche. Com’è
noto, Aristotele può essere considerato se non il primo testimone in assoluto
delle precedenti tradizioni di pensiero, certamente il primo testimone che ne
offre una informazione organizzata secondo criteri espositivi dettati dalle
proprie esigenze filosofiche e che hanno inevitabilmente condizionato la visione
storiografica moderna. Per quanto apparisse improprio, naturalmente, definire
Aristotele un dossografo, il riesame della sua testimonianza della filosofia
precedente, anch’essa una tradizione indiretta, apparve a Giannantoni una linea
d’azione congrua con quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie
ellenistiche, ancorché meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro.
A conclusione di questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del
Centro di Studio del Pensiero Antico non fu del tutto priva di modelli in
Italia e fuori e che con alcuni di essi si instaurò una costante
collaborazione. L’esempio più immediato, sia sotto il profilo tematico e
scientifico, che sotto quello del funzionamento istituzionale, fu il – Léon
Robin, una unità di ricerca del 21 Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e
strumenti Centre de Recherches sur la Pensée Antique Centre
National de la Recherche Scientifique (CNRS), ma operante all’interno e
sotto l’egida Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico dell’Université Paris-Sorbonne (perciò
definito anche Unité Mixte de Recherche, o UMR), in modo non troppo
dissimile dai Centri di Studio del CNR istituiti in regime di convenzione
con i vari Atenei italiani. La collaborazione con questo Centro si
focalizzò sulle tematiche socratiche e dette luogo al ripetuto scambio di
studiosi tra le due sedi nel biennio 1994-1995 nell’ambito del programma di
ricerca “Socrate e la storia del pensiero antico: rottura o continuità?”; i contributi
pubblicati nel 1997 sotto il titolo di Lezioni socratiche, a cura di
furono Gabriele Giannantoni e Michel Narcy, per l’Editore
Bibliopolis di Napoli. Un’altra importante istituzione scientifica a cui
Giannantoni guardò con particolare attenzione e con cui intrecciò stretti
rapporti scientifici nonché di cordiale amicizia è stata senz’altro il
Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi, oggi
intitolato a Marcello Gigante, che ne fu il fondatore nel 1969. I motivi
di tale collaborazione erano dettati ovviamente dall’interesse intrinseco
per la grande opera editoriale a cui il Centro fondato da Gigante
era votato. La pubblicazione delle nuove edizioni critiche dei papiri
reperiti nel sito ercolanese offriva alla comunità scientifica un
patrimonio inestimabile per la conoscenza dell’Epicureismo, della
tradizione socratica, dello Stoicismo. Ma furono anche ragioni
metodologiche a sancire un sodalizio importante, che si concretizzò in
varie iniziative e pubblicazioni cui parteciparono entrambi i Centri: i
testi ercolanesi, com’è molto noto, costituiscono un materiale che
permette di arricchire enormemente la conoscenza di molte importanti
tradizioni filosofiche e letterarie, a condizione di possedere un complesso
di conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente possono
trovarsi nella medesima personalità e che però vanno applicate
contestualmente. In altre parole, l’esperienza collaborativa tra questi
due Centri, forti, l’uno, di una formazione propriamente storica e
filosofica, l’altro, di alte competenze filologiche, contribuì in modo
significativo a costituire quella storiografia della filosofia antica che
aveva, almeno per la cultura accademica italiana dei primi decenni del
’900, faticato ad assumere uno statuto proprio. ILIESI digitale Temi e
strumenti 15 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del
Pensiero Antico Quanto detto nel precedente paragrafo trova un riflesso,
diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del Centro, nonché nelle sue
pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della storia della filosofia
antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo impianto metodologico,
oltre che di un preciso confine cronologico, viene perseguito tramite
l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si dà qui una
descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di tutto, una
iniziativa promossa da Giannantoni dopo l’istituzione del Centro, in conformità
di un indirizzo dell’organo direttivo della rivista “Elenchos”, e dedicata alla
problematica storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo della rivista
“Elenchos” è emersa più volte l’opportunità di aprire una discussione sul
metodo o, meglio, sui metodi attuali della storiografia filosofica relativa al
pensiero antico. Si è pensato perciò di cominciare con una “tavola rotonda”,
chiamando a parteciparvi esponenti di orientamenti diversi e significativi, ai
quali è stato chiesto di intervenire liberamente su tre questioni principali:
1) se ha senso parlare ancora di una storia della filosofia (e quindi anche di
una storia della filosofia antica) come disciplina a se stante e in sé
autonoma; 2) quali innovazioni si possono riconoscere all’ampliarsi e al
differenziarsi delle impostazioni teoriche che sono sottese ai vari approcci
metodici alla storia del pensiero antico; 3) quale è il contributo che viene,
una volta tramontato il vecchio mito classicistico, dall’applicazione di
categorie elaborate dalle “scienze umane”.22 Alla tavola rotonda parteciparono
Enrico Berti, Mario Vegetti, Carlo Augusto Viano, e lo stesso Giannantoni,
ciascuno portando un contributo molto peculiare e strettamente conforme al
proprio orientamento intellettuale. L’intervento di Giannantoni rispecchia le
riflessioni condotte qualche anno prima e pubblicate nel già citato articolo di
apertura della Rivista (La storiografica idealistica), di cui ripropone le
premesse problematiche e a cui aggiunge precise prese di posizioni sulla
specificità della storia della filosofia antica e sul modo di salvaguardarla:
... senza perdere di vista il fatto che lo scopo principale (scil. dello
storico della filosofia antica) resta la comprensione dei testi che ci
trasmettono il pensiero antico, ritengo necessario rivendicare
l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica impostazione filologica, anche
se tale impostazione non può non venire assumendo sempre più, essa stessa, una
fisionomia storica: quella della storia degli studi ... ciò dovrebbe indurre a
uscire da un tradizionale isolamento e a promuovere una 22 Giannantoni 1983, p.
147. 16 ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico organizzazione del lavoro
diversa e meno diffidente verso i sussidi che la tecnologia moderna può
offrire. In ogni caso, la storia degli studi è ormai elemento costitutivo di
ogni indagine che voglia avere un minimo di serietà, non solo per le conoscenze
che ha acquisito ma anche per le divergenze che ha proposto. L’alternativa a
questa impostazione è o l’arbitrio nella scelta dei riferimenti o l’illusione
di un ritorno alla “lettura diretta” dei testi.23 In queste parole possiamo
rintracciare ad un tempo la finalità della costituzione del Centro e la visione
di Giannantoni del modo di operare storiografico: più che il cenno alle nuove
tecnologie e più che l’esortazione ad abbandonare l’isolamento, sicuramente
importanti l’uno e l’altra, conta sottolineare, a mio parere, il richiamo alla
storia degli studi come parte integrante della storia della filosofia, in
particolare della filosofia antica, affidata in larghissima misura alla
tradizione indiretta. La “serietà”, cioè la plausibilità dei risultati della
ricerca storico-filosofica sono messi a rischio dalla “illusione” di poter
leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se antico, senza gli
strumenti della conoscenza filologica, linguistica e culturale nel senso più
lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia possibile, anche una
storia intelligente delle letture altrui. Uscire dall’“isolamento” è, allora,
non solo la cooperazione tra colleghi ad un progetto scientifico unitario, ma
anche la conoscenza e la valutazione delle migliori offerte interpretative che
di un testo e del suo contesto siano state date entro un certo arco di tempo.
23 Giannantoni 1983, pp. 182-183. ILIESI digitale Temi e strumenti 17
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
Sia nelle azioni istituzionali, che investirono e coinvolsero il complesso
delle risorse del Centro, incluse le relazioni stabilite con il mondo
universitario, sia nelle attività di ricerca individuali, un ruolo primario fu
senz’altro svolto dalle tradizioni ellenistiche e dall’analisi della
letteratura dossografica. Già nel 1980, il Centro organizza un convegno sullo
scetticismo antico,24 e tra il 1982 e il 1986 coopera strettamente con
l’Università degli Studi di Pavia e in particolare con Mario Vegetti, ordinario
di Storia della filosofia antica di quella Università, e con i suoi più stretti
collaboratori, sostenendo l’organizzazione di due importanti convegni: “La
scienza ellenistica” (Pavia, 1982)25 e “ 1986).26 Ancora alla filosofia
ellenistica è dedicata l’importante pubblicazione dei Proceedings del quarto
simposio internazionale sulla filosofia ellenistica, che vide tra i suoi
partecipanti esperti di caratura internazionale, alcuni di stretta
collaborazione con il Centro stesso.27 Figura 3: copertina del
primo volume di Lo scetticismo antico, Atti del convegno, a cura di G.
Giannantoni, Napoli, 1981. Le opere psicologiche di Galeno” (Pavia, 10-12
settembre 14-16 aprile ILIESI digitale Temi e strumenti Giannantoni
1981. Giannantoni-Vegetti 1985. Manuli-Vegetti 1988.
Barnes-Mignucci 1988. Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro
di Studio del Pensiero Antico Carattere sistematico ebbe anche la linea
d’azione dedicata allo studio della dossografia. Il Centro organizza, nel 1985,
il congresso internazionale sull’opera del biografo di età imperiale Diogene
Laerzio (“Diogene Laerzio storico del pensiero antico”, Napoli-Amalfi, 30 settembre-3
ottobre 198528) e, nel 1991, il congresso internazionale sull’opera del medico
scettico di età imperiale Sesto Empirico (“Sesto Empirico e il pensiero
antico”, Sestri Levante, 28 maggio-1 giugno 199129). Si delinea in entrambi gli
eventi un’unica prospettiva, grazie alla quale l’oggetto dell’indagine
storiografica è, per così dire, duplice e contestuale: l’autore, cioè il
filosofo il cui pensiero è oggetto di trasmissione da parte di un testimone, e
il testimone stesso, la sua epoca, il suo orientamento, nonché la struttura
formale della sua testimonianza, struttura che rivela assai spesso una
tesaurizzazione delle informazioni attraverso i differenti metodi per la loro
esposizione. Così, mentre l’opera di Diogene Laerzio, che già da lungo tempo
aveva attirato l’attenzione della filologia classica, conserva una concezione
ampia del genere biografico, restituendo non solo informazioni biografiche e
dottrinali dei singoli filosofi nonché cataloghi d’autore, ma anche specifici
schemi espositivi presi a prestito dalla letteratura storica (il più
caratteristico è senz’altro quello delle “successioni”), l’opera di Sesto
Empirico mostra le conseguenze sul piano storiografico di un modello
propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro forte sodalizio, quello con il
Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi di Marcello Gigante,
permise di allestire negli anni subito successivi un grande congresso
internazionale sul tema “L’Epicureismo greco e romano” (Napoli-Anacapri, 19-26
ILIESI digitale Temi e strumenti 19 Figura 4: copertina di Diogene
Laerzio storico del pensiero antico, Atti del congresso, “Elenchos”, 7,
1986. 28 Atti pubblicati nel volume 7 dell’annata 1986 della rivista
“Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13 dell’annata 1992 della rivista
“Elenchos”. Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento di ampio spettro tematico e
cronologico all’interno del quale poterono cimentarsi papirologi e papirologi
ercolanesi, filologi classici, paleografi ed epigrafisti, storici, storici
della letteratura e della poesia greca e romana e, ovviamente, storici della
filosofia antica. Proprio di questo incontro fu il suo carattere
transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso presso il
Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche individuali sulla
relazione tra l’Epicureismo e le rilevanti tradizioni (le scuole socratiche, la
Stoa, la scepsi accademica e pirroniana) che impegnavano in quegli anni sia
Giannantoni in prima persona che il suo gruppo di lavoro operante presso la
Sapienza e il Centro. Tra gli ultimi impegni di Giannantoni in qualità di
direttore del Centro ci fu l’organizzazione di due altri convegni: “ “Empedocle
e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un frammento inedito della
sua opera” (Agrigento, 4-6 settembre 1997).32 Il primo raccolse un gruppo
consistente di esperti della cultura greco- romana e fu un raro esperimento di
indagine lessicale da parte del Centro, volto a delineare l’area semantica
dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse manifestazioni
della cultura classica antica, dalla letteratura, dal teatro e dall’arte
figurativa, alla filosofia e alla medicina. Il secondo convegno fu un altro
esempio del modo in cui Giannantoni intendeva inserire la vita scientifica del
Centro all’interno di una rete di relazioni istituzionali, oltre che
scientifiche e accademiche, perché il convegno, motivato dalla 30
Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1 dell’annata 1995
della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2 dell’annata 1998
della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e strumenti
Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco e romano, Atti
del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli, 1992. Il
concetto di pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4 giugno
1994);31 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico recente scoperta del Papiro di Strasburgo contenente
una porzione del poema empedocleo, fu organizzato in collaborazione con la
sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre doveva essere
una prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e
filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia, e che non vide la luce per la
scomparsa dello stesso Giannantoni. *** Sarebbe un errore pensare che le
strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le
istituzioni accademiche italiane e straniere. Certamente, uno degli obiettivi
di Giannantoni era quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino
collettore degli interessi intorno al pensiero antico, e tali interessi erano,
di fatto, collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della
didattica e della formazione universitarie. Ma il Centro partecipò anche alla
realizzazione di una delle maggiori iniziative che il Consiglio Nazionale delle
Ricerche abbia dedicato al settore delle scienze umane, e cioè il progetto
strategico intitolato “Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e
Specificità Nazionali”.33 Questo grande progetto fu articolato in cinque
linee di indagine, la prima delle quali dedicata al mondo antico, in
particolare greco- romano.34 Fu in questo contesto che Giannantoni, oltre
a scrivere il saggio La tradizione culturale greca in Magna Grecia e
Sicilia, apparso nel 2002 nel volume che raccoglieva i risultati delle
attività promosse dal progetto,35 maturò l’idea di una linea di attività,
cui si è fatto cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna
Grecia e della Sicilia, linea che avrebbe dovuto raccogliere e mettere a
frutto le metodologie sperimentate nella più generale attività del
Centro 33 Il Progetto Strategico, svoltosi negli anni 1995-2000 e
coordinato da Antonello Folco Biagini fu varato nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini
2002. ILIESI digitale Temi e strumenti 21 Comitato Nazionale di
Consulenza del CNR per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche,
allo scopo di convogliare tutte le competenze rappresentate ed espresse dalla
rete scientifica costituita dai Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al
Comitato stesso, in una grande area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al
fondo della decisione del Comitato era la convinzione che il Mediterraneo
costituisse non un’entità identitaria ma un complesso “sistema” di realtà
molteplici, tradizionalmente oggetto di indagine da parte di settori
disciplinari indipendenti. Si trattava perciò di conferire unità strategica e
di metodo ad una naturale e fisiologica molteplicità di fenomeni
culturali. Origine e incontri di culture nell’antichità”.
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero
Antico (studio della dossografia e delle tradizioni indirette). Rivisse,
in questo progetto non realizzato, l’antico interesse di Giannantoni per
la trasmissione delle cosiddette tradizioni presocratiche, molte
delle quali per l’appunto fiorite nelle aree magnogreche (l’Eleatismo,
il Pitagorismo, Empedocle, Gorgia di Leontini), e per il ruolo svolto
in tale trasmissione da Platone e Aristotele. A questo più antico
arco cronologico, si sarebbe poi unito il costante interesse per
l’Epicureismo, nella forma storica dell’Epicureismo campano. Vale la pena
ricordare, infine, l’attività formativa che il Centro riuscì a svolgere,
facilitata, come è facile comprendere, dalla posizione accademica di
Giannantoni. Il Centro di Studio del Pensiero Antico si formò infatti
raccogliendo i suoi allievi, che si unirono ai ricercatori già in forza
presso il precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia
Filosofica. L’attività progettuale, inoltre, non si limitava alla sola attività
di pianificazione scientifica e ancor meno alla sola organizzazione dei
convegni, ma prevedeva lavori continuativi di studio collettivo e di confronto
sulle tematiche di principale interesse e di rilevanza strategica. I
maggiori convegni venivano quindi preceduti da seminari propedeutici
sulle dossografie antiche, sull’opera di Diogene Laerzio e su quella di
Sesto Empirico, e su quest’ultimo autore, anzi, si svolse un seminario
aperto anche ai dottorandi di ricerca della Sapienza. Nell’ambito del
progetto strategico “Mediterraneo” e quindi della linea di ricerca sul
Mediterraneo antico, il Centro ottenne dal Comitato di Consulenza per le
Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche tre borse di studio
(1995-1996). 22 ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse
G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico LE PUBBLICAZIONI DEL
CENTRO Un discorso a parte merita l’attività editoriale a cui il Centro
riuscì a dar vita. Due furono le iniziative editoriali, strettamente
coerenti con l’idea programmatica che ispirò la costituzione del Centro:
la serie “Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico”, e il
periodico “Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico”. La scelta
del medesimo nome per le due iniziative si spiegava facilmente in
riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale dello
stesso Giannantoni, che riteneva la discussione, il confronto (elenchos,
appunto), in primo luogo, uno dei lasciti più significativi della cultura
filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito alla formazione
della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e secondo un’angolatura più
tecnica, Giannantoni vedeva nella discussione, intesa come analisi
critica, il metodo per eccellenza dello studio del testo filosofico
antico e della dottrina in esso contenuta, come avevano mostrano i primi
autori di una nascente “storia della filosofia” ancora in forma di
dossografia, Platone e soprattutto, com’è assai noto, Aristotele. In
omaggio dunque, all’ideale dialogico trasmesso dal magistero di Guido
Calogero, l’elenchos fu, nei limiti del possibile, il contrassegno delle
ricerche realizzate o promosse dal Centro e divenne il nome delle due
pubblicazioni, entrambe affidate alla casa editrice napoletana
Bibliopolis, Edizioni di Filosofia e Scienza, di Francesco del
Franco. La collana era destinata in larga misura, benché non
esclusivamente, a premiare le ricerche individuali, le quali dovevano
concretarsi in studi monografici, edizioni di testi e strumenti per la
ricerca. Non deve stupire che in questa sede ci si limiti a mettere in
primo piano l’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit,
disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 1990, 4
voll. Frutto di una ricerca individuale più che trentennale, preparato da
molte precedenti pubblicazioni, questa edizione delle testimonianze
relative a Socrate e alle scuole socratiche, corredata di apparati
critici e note di commento (e senza traduzione, secondo la prassi
dell’austera filologia classica moderna), rappresentò la più importante
espressione degli interessi tematici e dei principi metodologici che
caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti considerare i volumi
usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle tradizioni
socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle edizioni di
ILIESI digitale Temi e strumenti 23 Francesca Alesse G. Giannantoni e il
Centro di Studio del Pensiero Antico testi e frammenti di autori
ancora poco studiati, per apprezzare l’impatto delle ricerche
di Giannantoni su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi
accademica. ricerca del Centro.36 Naturalmente la collana non
fu preclusa ad critici su tematiche di grande rilevanza
nell’ambito del platonismo e dell’aristotelismo e delle filosofie
della tarda antichità,37 promuovendo in tal modo uno scambio
costante con la più ampia comunità Quanto alla rivista, è
forse opportuno rimandare direttamente alla Presentazione che
Giannantoni Figura 6: copertina del primo volume di G. Giannantoni,
Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli, 1990. antepose al primo
fascicolo: essa fa molto ben intendere tanto la relazione
essenziale tra il programma scientifico del Centro e il periodico che di
quel programma doveva essere lo strumento di diffusione; quanto
l’apertura al dibattito scientifico che la rivista (e quindi il Centro stesso)
si prefiggeva; quanto, infine, la tempestività di un’operazione culturale
che il Consiglio Nazionale delle Ricerche ebbe la sagacia di
sostenere: Questa rivista ... intende dare attuazione ad uno dei punti
programmatici contenuti nella convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale
delle Ricerche e l’Università di Roma, e che sta alla base del neocostituito
Centro di Studio del Pensiero Antico ... essa non è, tuttavia, in senso stretto
espressione soltanto di questo Centro: al contrario, chi ha la responsabilità di
dirigerla intende farne uno strumento di studio e di ricerca aperto alle
collaborazioni più ampie, un punto di incontro e di confronto e un’occasione a
disposizione sia di studiosi già affermati sia di giovani ricercatori ...
Questa rivista è l’unica dedicata interamente al pensiero antico che si
pubblichi in Italia38 e perciò essa non può non proporsi anche un compito di
promozione di questi 36 I titoli della collana “Elenchos”, corredati da
schede riassuntive, sono consultabili al sito web dell’Istituto per il Lessico
Intellettuale Europeo e Storia delle idee
http://www.iliesi.cnr.it/pubblicazioni.shtml 37 Mi limito a citare il grande
progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso e
diretto da Mario Vegetti, e i cui primi tre volumi furono stampati quando
Giannantoni era ancora in vita: Vegetti
Questa situazione è rimasta invariata fino al 2007, e cioè fino alla
comparsa della rivista “Antiquorum Philosophia”, edita da Fabrizio Serra Editore,
Roma-Pisa, e diretta da Giuseppe Cambiano.
ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico studi ... Ma essa
si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è vero, che la
storia del pensiero antico è un campo in cui debbono potersi incontrare ... gli
apporti e le problematiche della storiografia filosofica e del metodo
filologico; e se è vero, come è vero, che tanto la storiografia filosofica
quanto il metodo filologico attraversano ... una fase di ripensamento critico
molto profondo dei propri presupposti e delle proprie certezze, allora ad una
rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito di proporsi come sede di
verifica di discipline diverse e di modi diversi di affrontare lo studio del
pensiero antico e di aprire le sue pagine ... anche a contributi che per la
conoscenza del pensiero antico possono venirci da storici dell’antichità,
filologi classici, studiosi delle lingue e delle letterature classiche,
archeologi, papirologi ... Per questi motivi di fondo – oltre e più che per la
sua origine istituzionale – questa rivista si caratterizza per l’unità del
campo di ricerca, non per l’unità dell’orientamento interpretative. LA
PERMANENZA DI UN PATRIMONIO E L’ATTUALITÀ DI UN METODO In accordo con gli
obiettivi enunciati nella Presentazione della rivista “Elenchos” e nel
protocollo che lo istituiva, il Centro di Studio del Pensiero Antico si dotò di
un consiglio scientifico che affiancò Gabriele Giannantoni nella direzione del
Centro e delle pubblicazioni che esso produsse, il quale contò tra i propri
membri eminenti storici della filosofia, quali Francesco Adorno, Enrico Berti,
Giovanni Reale, Carlo Augusto Viano, Anna Maria Ioppolo, Aldo Brancacci e
Vincenza Celluprica, nonché eminenti filologi classici e storici della
letteratura greca quali Marcello Gigante e Luigi Enrico Rossi. Il Centro poté
disporre di sufficienti risorse e di una struttura organizzativa40 che gli 39
“Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40 Fecero parte del Centro in qualità di
ricercatori inquadrati nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche:
Barbara Faes (direttrice del Centro nel 1999), Gigliola Caporali, Stefano
Garroni, Vincenza Celluprica (direttrice del Centro per il biennio 2000-2001 e
poi responsabile della linea relativa al pensiero antico nell’ILIESI fino al
2005), Lucina Ferraria, Aldo Brancacci (poi docente presso l’Università degli
Studi di Roma “Tor Vergata”), Bruno Centrone (poi docente presso l’Università
degli Studi di Pisa), Francesca Alesse, Maria Cristina Dalfino, Luca Simeoni,
Riccardo Chiaradonna (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre).
Collaborarono in modo istituzionale e continuativo con il Centro Anna Maria
Ioppolo (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Luciana Repici
(Università degli Studi di Torino); Giuseppina Santese (Università degli Studi
di Roma “La Sapienza”); Giovanna Sillitti (Università degli Studi di Roma “La
Sapienza”); Carmela Baffioni (Università degli Studi di Napoli l’Orientale);
Emidio Spinelli (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Francesco
Aronadio (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). Molti sono stati i
giovani che, nel corso della loro formazione post lauream sono venuti in
contatto con Gabriele Giannantoni e con il Centro, lavorando fattivamente alla
redazione di “Elenchos” o adoperandosi in attività editoriali e scientifiche in
senso proprio. Tra questi mi è gradito ricordare Rosa Maria Piccione
(Università degli Studi di Torino), Michele Alessandrelli (ILIESI-CNR), Diana
Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Francesco Fronterotta (Sapienza
Università di Roma), Adriano ILIESI digitale Temi e strumenti 25
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
consentirono di diventare un organismo collettore di attività di ricerca nel
campo dell’edizione critica e dell’interpretazione dei testi della filosofia
antica, fino al 2001. Chi scrive non crede che l’esperienza acquisita nei poco
più che vent’anni di vita del Centro sia andata perduta né dimenticata. Quando,
nel 2001, nacque l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle
Idee, al suo interno fu garantita la prosecuzione e l’autonomia delle indagini
relative alla storia della filosofia antica, per esplicito volere di Tullio
Gregory che del nuovo Istituto fu il primo direttore. Queste indagini
confluirono in una linea progettuale denominata prima “Storia del pensiero
filosofico- scientifico e della terminologia della cultura mediterranea
greco-latina, ebraica e araba” e successivamente “ Il pensiero filosofico
nel mondo antico: testi e studi”.41 L’impegno principale della linea
fu rappresentato da una serie di progetti che in parte proseguivano
le tematiche di studio e le strategie cooperative del Centro di Studio
del Pensiero Antico, e in parte introducevano nuove tipologie di
analisi, connesse alle tecnologie digitali. La continuità culturale fu
inoltre garantita dal mantenimento delle due pubblicazioni, la
collana “Elenchos” e la rivista “Elenchos”. Da questa permanenza
delle ricerche sul pensiero antico nella nuova realtà istituzionale si
deve ricavare non solo e non tanto l’attualità di una disciplina (che si
è comunque stabilizzata nel mondo accademico con la benefica
diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e fuori),
quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo metodo di
lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un nuovo
diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in modo
competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia abbastanza bene
la disposizione intellettuale e comportamentale di Gabriele Giannantoni,
uomo tanto pacato nelle discussioni con i contemporanei, quanto fermo
nelle sue strategie di ricerca sul mondo antico. Gioè, Matteo Nucci, Mariacarolina
Santoro, Francesca Gambetti e Cristina Cunsolo (a quest’ultima si deve
l’allestimento della bibliografia ragionata digitale Le tradizioni filosofiche
e culturali greche della Magna Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di
aggiornamento ad opera di Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da
Vincenza Celluprica fino al 2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti
nel Centro, a cui si aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in
storia delle religioni del mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI
digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il
Centro di Studio del Pensiero Antico BIBLIOGRAFIA Arnim 1903 = Hans von Arnim,
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Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia
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Celluprica, L'argomento dominatore di Diodoro Crono e il concetto di possibile
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Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis. Croce
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ILIESI digitale Temi e strumenti 27 Francesca Alesse G. Giannantoni
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Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. V (Libri VI-VII).
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Vol. VI (Libri VIII-IX). Vegetti 2007 = Platone. La Repubblica, traduzione
Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). e commento a cura di Mario e
commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario
e commento a cura di Mario Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro
X). a BS’l RATTO <Ia 1 Bollettino (ti Filologia
Classica Anno XXIV. - Fase. 2-3-1 - Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917
X II 6xi|iòvtov di Soorate — Como già nei tempi antichi, cosi
anello più tardi il 3 r.|iàviov di Socrate lui sempre suscitato il più
vivo inte¬ resso ed è rimasto lino ai giorni nostri oggetto di studio.
Ma, per quanto sia stato scritto attorno ad essa e per quanto no sia
stata ago- volata la compronsione por merito di Seliloiormacher e dei
suoi suc¬ cessori, non si può dire clic si sia linoni riusciti a trovare
una spie¬ gazione soddisfacente di questo fenomeno, che fu una dèlio
cause dèlia tragica fine del grande pensatore. Le fonti, alle
quali dobbiamo attingere nella nostra ricerca, sono, come si sa', gli
scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui ci troviamo subito di fronte ad
una questione molto discussa c cioè; quale dei due autori sia rispetto
alla dottrina socratica il più attendibile. Poiché i rapporti di Platono
o di Senofonte si contraddicono riguardo allo ma¬ nifestazioni del
Satpdviov di Socrato in un modo assai pronunciato, è chiaro che dalla
decisione alla quale arriviamo rispetto a questo divario, deliba infine
dipendere la soluzione del problema. 1 > m ,to che nel
diciottesimo secolo si fece strada il parere del leib- niziuno Brucfecr,
secondo il quale gli scritti di Senofonte sarebbero per lo studio del
socratismo i più veritieri, parere che ha avuto fino ad oggi i suoi
fautori. Di quest’opinione è in linea generalo anche Hegel (IJ. 1|S.
principio del secolo passato però, Schleiermacher (2) ed altri
insistettero che por la valutazione della dottrina socratica do vesso
tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a queste due
correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo chiamare
intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che, sebbene gli
atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi, diventa sem¬ pre
più salda la convinzione, che senza uno studio profondo di Platone una comprensione
del socratismo non è possibile (-1). Ma con ciò il no¬ stro quesito non è
ancora risolto. Secondo Platone il Sxigóvwv agisce in modo
esclusivamente inibitorio, esso non è mai incitativo. Secondo Senofonte,
però, funziona nei due modi. Si è, è vero, creduto che la contraddizione
tra lo due versioni fosse soltanto apparente, perchè, se il «aigóviov non
inibiva Socrate nel 6uo fare, ciò equivaleva, si è detto, ad
un'atrcrmaziono nel senso «C. (1) G. W. F. Hegel, Vorl.
ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69, 1812. (2) F.
Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50 seg. (3) E.
Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91 seg., p. 131
Mg. 1869. (4) Cfr. G. Zuocantb, Socrate, pòrte prima,di un
ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la diversità venga con
una talo interpretazione soltanto celata, ma non eliminata, perchè in
realtà le differenze tra i rapporti doi due autori sono do¬ vute a
processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice, ad es. : non
andare via ! quosto equivale praticamente al comando positivo: rosta ! Ma
con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo qualcheduno, che devo
guidaro, da una azione, che egli è in procinto di compiere, do, è vero,
con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma la sua azione scaturì
da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue secondo leggi psichiche. E
so, in un altro caso, lo freno con un semplice: no! senza però dargli
altri ordini positivi, io non permetto che egli ese¬ guisca quello che
stava per fare, ma con ciò non gli indico ancora quanto devo in sua vece
intraprendere. Il suo agiro dipende di nuovo unicamente da lui o si
sviluppa ancora da motivi che sorgono in lui stesso. Ma so gli dico: fa
cosi ! allora lo sottopongo in senso positivo ad una volontà non sua o lo
faccio compiere un’azione, i cui motivi sorsero nella mia coscienza e non
nella sua. Egli diventa lo strumento del volere di un’altra persona, e,
se consideriamo il fatto dal lato etico, la responsabilità per lo
conseguenze di una tale azione cado in questo caso interamente su di rao
o per nulla su di lui. Non occorrono altri esempi : in fondo la diversità
doi due rapporti si riduco presso a poco al caso citato. Secondo
Senofonte, Socrate riceve anche ordini positivi dalla divinità, egli
compie quindi azioni, che non furono da lui deciso, secondo Platone mai.
Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in se¬ guito a motivi, che
appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬ pre la sua volontà che
lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato, per l'intorvonto del
Baijióvwv, una decisione presa. Como si vede, la differenza non si
lascia eliminare. Per quanto si corchi di celarla, essa riappare sempre.
Mi sembra quindi più savio di riconoscerla. Ma ciò facondo ammettiamo
anche che una dello due versioni non può essere esatta e cho si deve
decidere, quale delle due si abbia da riconoscere come vera.
Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia viene oggi
quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo conto. Degli
altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed il Con¬ vito.
Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva lette¬ ratura o
specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono arri¬ vato alla
conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi Meni. 1, 1, 2
segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta sicurezza da
considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da parte in questa
breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8, 5. Dalle
opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano del Saipóviov
escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto apo¬ lli
K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad. d. Wiss . i zu
Wien, 1875, 1876. orilo. L’autenticità dell'A Icibinde 1 è
fortemente messa in dubbio, lo accettiamo con riserva. Non posso
decidermi di respingere 1 Fall frane, malgrado lo obiezioni di Ueborwog
(I). Dogli altri scritti platonici limino per noi valore VApologià,
YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica. Senza entrare rpii
noi particolari della questiono, (pialo sia I ordino cronologico delle
opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca in cui fu scritta Y
Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta in- i rmazione intorno
al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli stu- .dcigi — c ciò è per
noi importante — fa salirò l’origine di quest o- pcra ad un’epoca non
molto distante dalla condanna o dalla morte del illusolo, l’orsino autori
elio sono del parere clic Platone 1 abbia scritta a Megara, ammettono con
ciò (dio questo importante documento ap¬ partiene al suo primo periodo di
attivila, scientifica. Allo stesso risul¬ tato giunse Lutoslawski per
mezzo del suo metodo stilometrico. Quan¬ tunque si debba riconoscere
l’unilateralità di questo metodo e per •quanto sarebbe arrischiato di
fondarci unicamente su di esso, ci co- -stringono nondimeno ragioni
psicologiche di non negargli ogni valore. Alla questione esposta si
connetto quost’altra, cioè, so nell’Apologià .di Platone si tratti di una
fedele riproduzione di quanto Socrate real¬ mente disse davanti al
tribunale di Atene, o se si tratti soltanto di una riproduzione piu o
meno fedele del contenuto dei suoi discorsi. La prima opinione è quella
di Schleiermacher (2), della seconda è Stcinhart (3), elio vede
nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo spirito -socratico o quello di
Platone si trovano armonicamente fusi insieme. Ambedue le opinioni hanno
avuto i loro fautori. Considerazioni psico¬ logiche mi hanno condotto
nelle duo questioni accennato a con' inzioni che risultano da quanto
seguo. Come si vuol spiegare l'influenza che quest'opera ha sempre
eser¬ citata sui più grandi spiriti della razza umana, o come si
potrebbo comprendere la elevazione morale clic ognuno devo provare in
sè, quando vi si abbandona senza pregiudizio, so non si ammette che
essa suscita nel lettore la convinzione di sentire la parola viva di
Socrate stesso ? Quale valore potrebbo avere questo scritto, se si
volesse con¬ siderarlo unicamente come una creazione d'arto, come una
descrizione dell’ideale platonico? In questo caso dovremmo bensì
inchinarci da¬ vanti all’autore quale artista, ma in fondo avremmo cosi
un Socrate come Platono avrebbo desiderato che egli fosso, ma non come
real¬ mente era. Non stava in Socrato piuttosto la verità incorporata
da¬ vanti ad Atene decadente, davanti alla stessa Atene che egli
aveva conosciuta nello splendore del periodo di Pericle? Non era quest uomo
un idealo morale di una tale grandezza elio ogni tentativo di idealiz¬
zarlo maggiormente doveva necessariamente rimpicciolì rio ? P.
Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u. Zeitfolge piatoli. Schriflen , F.
Schle i rum ache R, Plalons Werke, I H. MQli.er e K. Stf.inhart, Plalons
sàmmtl. Werke, Per quali ragioni poi l
'Apologia non fu scritta in forma di dialogo? Nessuna introduzione,
nessuna descrizione dello scenario, nessun nesso tra i singoli discorsi,
nessun accenno a circostanze secondarie inter¬ rompono l'azione in questo
meraviglioso documento. Non dovremo con¬ venire che soltanto forti motivi
psicologici indussero l’autore ad esporre cosi lo sviluppo del processo?
Non si dimentichi neppure quanto di¬ versamente Socrate parla della morte
ne\\'Apologia e nel Fedone, la qual opera, senza alcun dubbio, fu scritta
molto più tardi. Nell’yfpo/ofna è in verità Socrate stesso che parla,
mentre nel Fedone è Platone che motto, entro la cornice della realtà
storica, la propria convinzione in bocca al suo amato maestro.
Vi sono poi altri fatti psicologici da rilevare. Ricordiamo che
Platone ascoltava un maestro, che aveva seguito con tutto l'ardore del
suo en¬ tusiasmo giovanile per lunghi anni, e dal quale emanava un
lascino che faceva dimenticare a lui come ad altri giovani greci la
figura di Sileno clic nascondeva il vero essere del grande innovatore.
Ricordiamo clic Platone era penetrato nello spirito della dottrina
socratica come nessun altro e clic egli solo è stato capace di salvarla
interamente per la filosofia occidentale. Gli orano quindi lamiliari
tutti i partico¬ lari esteriori che sono caratteristici por ogni
personalità umana o senza i quali non possiamo neppure rappresentarcela. Conosceva
esattamente il timbro e la cadenza della sua voce, il suo vocabolario, il
suo perio¬ dare, i suoi movimenti mimici e pantomimici, in breve tutti i
numerosi fattori clic, secondo la leggo della fusione psichica, cooperano
a lar sorgere in noi l’immagine di una persona a noi nota c che, tutti
quanti, esercitano la loro influenza dormito la riproduzione di un suo
discorso. È inoltro cosa saputa che ogni riproduzione di un
discorso riesce tanto più fedele, quanto piu l'attenzione rimaneva tosa,
quanto mag¬ giore era l’interesse che l'oratore suscitava in chi
l'ascoltava. Si può immaginano un’attènzione piu concentrata elio nel
caso presente? Figuriamoci lo stato d’animo del giovano Platone,
che pende dalle labbra del suo maestro e che appercepisce attivamente
ogni parola da lui pronunciata; ridestiamo nella nostra immaginazione
l’uragano di emozioni che lo travolge, le fluttuazioni della sua anima
tra la spe¬ ranza ed il timore, tra l'ammirazione della grandezza
sovrumana che si palesa e lo schianto per la certezza della perdita
irrimediabile, e si dovrà convenire elio l’organismo umano forse non
sopporterebbe tali stati d’animo una seconda volta. Sappiamo che emozioni
come queste non passano facilmente, ma (die tornano sempre in nuovo
on¬ dato. Sappiamo inoltro che nessun moto d'animo rimane senza
espres¬ sione o elio lo singolo persone a questo riguardo si comportano
diver¬ samente. Anche l’anima dell’artista lui le sue reazioni ed ogni
artista le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò la sua vita. Ora,
anche Pla¬ tone era artista o come tale non potevano rimaner mute lesile
emo¬ zioni. Ma egli era anello scienziato, uno scolaro, anzi Io scolaro
per eccellenza, ili quoH'uomo che durante una lunga vita non aveva
ccrrato altro ohe la verità. Oli era impossibile di rinchiudere in se ciò
clic aveva vissuto quel giorno. Cosi, appena può, prende lo stile por
dare uno slogo all'emozione olia lo soffoca. li se il suo stato non diede
luogo a fenomeni precisamente nllucinnttfri, nondimeno tutto ciò che
aveva visto e sentito, torna a vivere in lui, conio per il poeta vivono
ed agiscalo lo persone croato dalla sua fantasia. Cosi, io penso,
nacque VApologia platonica. Essa non è un rapporto stonogralico, perché è
certo olle anche questa riproduzione doveva su¬ bire quei cambiamenti
che, secondo i risultati della trattazione speri¬ mentale. hanno luogo in
tutti i processi riproduttivi. Perciò non ogni parola ebbe il suo posto
originario, un pensiero avrà avuto un'espres¬ sione un po' più breve, un
altro una l'orma un po' più lunga, eco., ma quanto al resto il documento
è. come per il contenuto, cosi puro pol¬ la forma tanto fedele, quanto,
data la mente Idi un Platone, era uma¬ namente possibile. Con ciò ho esposto
II mio punto di vista rispetto allo due questioni sovracconnatc. No
risulta che dobbiamo fondarci nella nostra ricerca4U/-quanto viene
riferito in quest'opera intorno al &ti- póviov di Socrate. Aggiungo
die gli accenni contenuti negli altri scritti di Platone non contraddicono
in alcun modo i dati precisi dell’Apologià. Per quanto concerno lo
opero di Senofonte che ci interessano, bi¬ sogna ricordare che esse
furono scritte parecchi anni dopo la morto di Socrate, o die in esse i.on
veniamo mai informati intorno al feno¬ meno da Socrate stesso. Desideroso
di dimostrare l'innocenza del grande filosofo, come puro la ingiustizia
dell’accusa c della condanna, Senofouto metto, convinto, beninteso, di
scrivere la verità, il Saipòvcov di Socrate in relazione colla fedo
popolare nello divinazioni. Ciò non può sorpren¬ dere, quando si pensa
all'abuso che il popolo di qucH'epoea, già invaso dallo scetticismo, fece
dei divinatori, c quando si tiene presente elio Souofontc non ora
filosofo, ma uomo politico. Per questa ragione non dove recar meraviglia,
se Senofonte non aveva compreso ciò che era nuovo ed essenziale nella
concezione socratica del fenomeno. In Meni. I, I, 2 è detto clic la
divinità (vi Saipòviov) dava segni a Socrate ed in I, 4 viono aggiunto
elio egli comunicava tali messaggi a quelli clic lo ci re urlavano o elio
aveva loro predetto ciò che dove¬ vano faro e ciò elio non dovevano
l'aro, come puro elio quelli elio se¬ guivano questi consigli ne ebbero
vantaggi, mentre gli altri elio non li seguivano, dovevano poi
pentirsene. Meni. 1, 4 contiene il noto colloquio con Aristodemo.
In 4, 11 Socrate domanda ad Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro
per convin¬ cerlo elio si curavano anche di lui. A ciò Aristodemo,
alludendo al S-x.aó e.'j'i. risponde, un po' ironicamente, che dovevano
mandargli dei consiglieri per fargli sapere quello elio doveva faro e non
fare, corno Socrate pretendeva che fosse il caso spo. In
Cono. 8, 5 Socrate non aveva affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o non no
parla neppure in seguito. Antistuno, però, gli fa il rimprovero, come se
egli se no servisse per trarsi d'impiccio. È evidente che, se non
avessimo lo rispettivo, opere platoniche, il ixigiviov di Socrate sarebbe
rimasto per sompro un fenomeno inespli¬ cabile. D'altra parte però le
comunicazioni di Senofonte sono di grande valore, in (pianto che fanno
vedere il modo in cui in Atene si giudi¬ cava questo fonomono, ivi assai
conosciuto. Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate
disse nel suo primo discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato
di altari politici, perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico
(Dstov r. -/.od Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza
(è-/. r.x'.Sif) vi era stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale,
ogni volta che gli so¬ pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma
che non l’aveva mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40
a-c) Socrate spiega, come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi))
l’avesse nel passato sovento fermato, trattandosi anche di coso molto
piccole (jiàvu érti opi- xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO
a^pstov) non gli era soprav¬ venuto durante tutto il giorno c neppure
durante tutto il suo parlare, mentre durante altri discorsi l'aveva
spesso frenato. Dice ancoraché la morte non poteva essere un male per
lui, perché nel caso contrario il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J
l'avrebbe cortamente trattenuto nel parlare. Alla fine di questo
discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva ora essere per lui la
miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij- pstov) l'avrebbe
avvertito. Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener
conto, non pos¬ sono naturalmente iù avere il valore storico, elio
abbiamo attribuito all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu
già detto, non sono menomamente in contraddizione con quolli dell'
Apologia, essi hanno certamente un fondamento storico. In ogni modo
illustrano, come Pla¬ tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga
inteso. Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per
iniziare il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se
da tanti anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura
non umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx)
gliene aveva impedito. ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a
Socrate, su che cosa Meleto abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico
che Meleto gli rimprovera di introdurre nuovi dei c di non credere negli
antichi. E Eutifrono gli risponde di aver capito ora, che è perchè
Socrate parla sempre del suo Sxtpóviov. Noi Teetelo (150
c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che molti discepoli
l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la sua arto, lo tenevano
in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬ netti tornavano da lui,
il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬ diva di accoglierne
alcuni, mentre ad altri non era contrario e che questi facevano di nuovo
progressi. Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa
vedere tutto il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega
Socrate di parlargli di duo solisti. Socrato consento o dico clic il
giorno innanzi ora stato seduto noi liceo od in procinto di andarsene, quando
gli ora sopravvenuto il solito sogno demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò
ìaqiòvt'vv}. Poreiù ora rimasto seduto o tosto quei duo, cioè Kutidemo e
Dioniso- doro orano entrati. Noi Fedro (241 a-d) Platone ha
già oltrepassato di molto il socialismo puro e semplice, come risulta
dalla spiegazione elio dà dell’anima o dello ideo. Dopo una meravigliosa
descrizione del paesaggio vediamo corno Socrato o Fodro si coricano sulla
sponda dell’Ilisso nell'omhra di un albero. Socrato ticno il discorso sul
bel ragazzo che aveva avuto molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse
su questo tema, ma So¬ crate gli risponde che, in procinto di
attravorsare il fiume, gli era so¬ pravvenuto il solito segno demonico
(tò ìxqiòvtòv t= usci tò siiottòs aijgEìovl, gli era parso di sentire una
corta voce (za{ tivx cpiovijv iìi-a aòTò!M=v àzoùoai), elio lo impediva
di andare via prima di essersi purificato da un peccato commesso contro
la divinità. Dice ancora che egli deve essere veramente un divinatore, ma
soltanto per ciò elio riguarda lui stesso, e continuando rileva dm la sua
divinazione rassomiglia all'arte di quelli che leggono c scrivono male,
perché anche questi possono ser¬ virsene soltanto per i propri bisogni.
Con ciò egli passa man mano agli splendidi discorsi elio tutti conoscono.
— Platone si serve in que¬ st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo
similo a quello in cui so n'è servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli
introduce il fenomeno per rendere possibili i discorsi che seguono.
Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico
(tò ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o
quasi a nessuno. So analizziamo più da vicino il problema,
vediamo che esso rac¬ chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere
l’uno dopo l'altro. S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate
abbia potuto -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si
connette l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente
inteso per questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la
psicologia empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito
e, fino ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia
dei popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia
indi¬ viduale. I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal
punto di vista della psi¬ cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è
sorto da primitive ve¬ dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo
sviluppo, duranto il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni
magiche, subisce molte trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca
in cui appare l’eroe, questi 'lue concetti si fondano man mano in una
rappresentazione to- talo, nella quale il concetto del demone perde il
suo carattere imper¬ sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità
sovrumane. Cosi nasce il panteismo. Importante è però in tutto questo
sviluppo, che la rappresontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione
degli dei pa¬ gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono
attribuite anche ai demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non
distinguo sempre nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto
del demone, sotto l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi
un’altra modifica¬ zione, in quanto i demoni vengono considerati come
esseri elio stanno tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo
proposito la descrizione deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone
(802 dj, come pure il primo discorso di Socrate nel .['Apologià platonica
(27 c). Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro
elio col «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima
umana, nella quale, per motivi psicologici e per processi di oggettivazione,
è nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed eticamente purificato
(1). E caratteristico per tutto questo sviluppo elio Socrate nel Convito
di Senofonte chiama l'anima umana un santuario dell’Eros (Vili, 1).
, 2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ? — Prendo le mosse da
un punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone e precisamente
dal punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare esattamente, se egli
nella sua accusa intenda di diro clic Socrate non creda negli dei dello
Stato, o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo. Quando Meleto
an¬ nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea di far
vedere l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi crede
in qual¬ che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere
l'esistenza ili demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i
demoni sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi
può ere- dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza
credere con ciò anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio
lo ritenevano colpevole, erano in piccola maggioranza. Se
prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora ilei suo
2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la chiave
per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare che intendo
il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os- sorvaziono
dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico questo per
respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬ ciale spirito
custode. Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla
fedo popo¬ lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e
ven- .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il
demonico in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó
3-iCov, il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo
qual¬ cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli
credeva puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di
tutte (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni;
Clemente der VSt/cerpsi/chol.,(21 Op. cd., p. 309. — Cfr. puro B. E.
Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo, XXVIII, ri, p. 185. 1911.
lo azioni di Socrate sta il bisogno etico della cortezza(1), cosi egli
è assolutamente certo che in casi, in cui la propria ragione lo lascia
in asso, una volontà divina lo trattiene in ogni circostanza, piccola
o grande, dolla vita, quando è in pericolo di non agire giustamente,
cioè di non compiere la sua missione. In questa cortezza, che forma
una parte della sua fedo religiosa, sta la giustificazione otica dolla
ironia, colla quale egli lancia l'accusa indietro sull’avversario. Ma
oltre ad essere qualche cosa di divino, il demonico in Socrate è poi
anche qualche cosa di umano, perché si produce nell’anima umana o diventa
sua pro¬ prietà, cioè un oracolo interiore. Per ciò il demonico stava
veramente, come il demone della mitologia, in mezzo tra il divino e
l'umano. Si aggiunga elio Socrate ora in fondo persuaso che prima di lui
questo dono non era stato posseduto da nessun altro mortale. Ecco ciò
che vi ha di nuovo nella concezione socratica della divinazione, di
fronte a quella della fede popolare. Como dalla Repubblica di Piatone,
questo fatto risulta anche dalle superbe parole, colle quali Socrate si
esprime sul suo valore davanti ai suoi giudici (Apoi. 31 a-38c). Tali
parole può pronunciare un ammalato di mente, che si deve compatire,
ma quando escono dalla bocca di un Socrate, sono l'espressione di una
pro¬ fonda convinzione religiosa, che deve scuotere chiunque miri a
tini etici. Importante è per la fede di Socrate che egli non cerca di
scol¬ parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato, ma solo in
quanto al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche (Apoi.
35d). Por quanto concorno la teologia socratica, elio al pari della
sua etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché sistematico
(2), è importante ricordare che Socrate trovò nella sua naz.iono il
poli¬ teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il monoteismo
giudaico. Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del suo tempo.
Educato in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo, esteriormente
legato allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva sul serio la
mas¬ sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava l'altra di
ubbidire alle leggi. L’ultima parola del filosofo morente era la
raccomandazione di non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio
(Fedone. 118), e poco prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il
calice fatale, se ora permesso di farne una libazione. In questo modo
Socrate non rag¬ giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si
avvicina ad essa, perchè sulla*larga base della religione popolare si
eleva, quale sintesi della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al
quale si deve ubbi¬ dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui
egli si credeva un apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la
fede della moltitu¬ dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa
l’universo e per il quale non trova neppure un nome, un Dio onnisciente
ed onnipresente, che (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a
cura di B. Croce, p. 5, 35, 76, 80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g.,
176, 274 seg. 1909. (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155,
179 segg., 250 segg., 271 segg. si cura ilei Leno di
tutti gli nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue pratiche religioso
sono in fondo rivolto n quest'unico Dio senza nomo, clic si rivela agli
uomini in molti modi. Con una espressione di ledo in questo Dio
onnisciente, si chiudo ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi presente
questo concetto della divinità, si comprendo la sua incrolla¬ bile fede
nel S»tpóvtov come in una rivelazione della medesima. Il l'atto che
il plurale oi '.Hol si trova in Platono come in Senofonte accanto al sì
neolaro 6 tei? potrebbe destare il sospotto elio Sorrato accanto
all'intelletto universale abbia ammesso ancora dolio altro forme divino.
Ma ciò è escluso. Egli sceglie il plurale in modo simile come, per es.,
nella Genesi il plurale Eloliim sta por il singolare della di¬ vinità.
Non è qui il luogo ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬ tanto
elio troviamo precedenti in Senofane e che audio Anassagora aveva già
riconosciuto un unico principio immateriale che tutto or¬ dina secondo
lini. Cho Socrate abbia conosciuta l'opera di Anassagora, apprendiamo
direttamente da Platone (Fedone. U7). Non ho bisogno di rilevare
che, con quanto fu esposto, sono sen¬ z’altro respinte le opinioni di Lèi
ut o di altri, cho considerano Socrate come un ammalato di mente, come
pure il parere di Dii l’rel, che mette il Sxqidvtov di Socrate in
relazione collo proprio teorie mistiche (2). 3. // 8r.pó/tov di
Sacrale dal punto di vista detta psicologia empirica moderna. — So
teniamo conto di tutti i fatti che Platone ci presenta, è evidente che
nel «atpivtov di Socrate si tratti ili un processo che ap¬ partiene al
campo delle inibizioni psichiche. Naturalmente non può trattarsi qui di
una inibizione nel senso della dottrina intcllcttuuli- tstica di Horbart.
Ciò che nel nostro caso è inibitorio, non appartiene all'atto al
contenuto oggettivabile della coscienza umana, ma si trova piuttosto
dalla parte puramente soggettiva di essa, cioè da quella dei sentimenti.
Da questo punto di vista dobbiamo cercare di risolvere il problema.
L’inibizione procede da un sentimento totale, che si forma in base ad un
numero più o meno grande di intensivi sentimenti par¬ ziali, legati ad
clementi rappresentativi che rimangono al limito della coscienza e che
non giungono all’appercezione. Con questo è inteso, che non può trattarsi
nel caso di Socrate, come è stalo ripetutamento affermato, di processi
allucinatoci (3). Nel fatto che l’inibizione parte da un sentimento, al
quale non corrisponde un contenuto oggettivo, sta la ragione, perchè
Socrato non può fare alcuna indicazione precisa (l) Cfr. pure (I.
/Cuccanti:, op. cit., pirte IV, c«p. XIII. tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion
de Si,croie ni. 1 4556. — C. Du Prel, Ine Ma¬ stiti d. alt. (ìrieclien,
p. 121 seg. 1.333. E caratteristico che Du Prel l'accia uso ilei Teapele
, benché riconosca che questo non sia un'opera di Platone. d) Cile
Platone colla frase nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx:
„ non vuol alludere ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza
anche lo Cuccante (op. cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di
Socrate avesse tale origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi
racconti platonici, ciò che non è assolutamente il caso. -
intorno al fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬
mente il demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla,
ad es., di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della
coscienza,,. Questo sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene
poi atti¬ vamente appercopito e, riferito alla divinità, acquista il
carattere di un motivo imperativo che, coll'intensità di una forza
morale, lo co¬ stringe ad abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho
l’inibizione viene da Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio
in lui non possono mai nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro
persone. Non vi è mai in un tal caso una lotta tra motivi in lui, mai
alcun conflitto tra doveri. Appena egli s'accorge dell’inibizione, è
assoluta¬ mente sicuro di aver avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la
rifles¬ sione o la fedo nel suo Sztjióv»/diventano i principi
fondamentali, che lo guidano nella sua intera attività filosòfica ed
etica. In ultima analisi si tratta qui di un fatto psichico clic si
verifica in ogni coscienza normale più o meno frequentemente, benché
molte per¬ sone non lo osservino o non si lascino da esso frenare. Di
James Stuart Mill ci viene riferito elio egli osservò il fenomeno in se
stesso molto intensamente (1). A me molte persone hanno dotto di aver
notato in sè tali inibizioni sentimentali. Siccome Socrate ci informa che
egli aveva osservato il fenomeno spesso in sè dai tempi della sua
fanciul¬ lezza, non è escluso che vi sia stata in lui por lo sviluppo di
esso una certa disposizione. Ma d'altra parto si devo ricordare (dio egli
per tempo si abituò a fare molto sul serio l'esame di se stesso o cho il
fenomeno era una parte integrale della sua fede religiosa. Dal momento
cho egli era corto cho il sentimento inibitorio era una rivelazione
divina, questa convinzione doveva dominare tutta l’anima sua. Dato questo
continuo autoesame in connessione collo sviluppo (lolla sua convinzione
teolo¬ gica, si comprendo, come dovesse entrare in giuoco un principio
che governa ogni vita psichica, cioè quello dell’esercizio.
L’ininterrotto esercizio doveva renderlo capaco di riconoscere
l'inibizione di ogni grado appena sorta e di afferrarla coll'attenzione.
Si aggiunga (die la coscienziosità colla quale cercò continuamente di
compiere la sua mis¬ sione, e colla quale mirava sempre ai medesimi lini,
doveva renderlo straordinariamente sensibile o facilitare la formazione
di tali senti¬ menti. Cosi si spiega il frequente ripetersi del fenomeno
in tutto lo sue azioni. Io credo clic, con quanto fu esposto, siano
trovati i punti principali «he debbono guidarci nella spiegazione
psicologica del Sacgóviov di Socrate. Tornerò sull’argomento in un lavoro
più esteso, ed in questo sarà tenuto conto delle opinioni di altri autori
più di quanto mi è stato possibile di fare in questa breve
comunicazione. (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378. JL ~jt
e 3 Federico Kiesow. SOCRATE ET
VoAmour Grec. SOCRATE ET IPAmour Grec
( Socrates sanctus nai Sepaatrjs ) D1SSERTATlON DE
Jean-Matthias GESNER Traduite en Francais pour la premiere
fois Texte Latin en regard Par Alcide
BONNEAU PARIS Isidore LISEUX , Editeur Rue Bonaparte,
jegg^arean-Matthias Gesner, 1’auteurde «JgE cette curieuse dissertation,
est I S&fe l un erudit Allemand du xvm e sie- cle, dont les
travaux ne sont pas tres- connus en France. On lui doit d’excel-
lentes etudes sur les Scriptores rei rus- ticce , une Chrestomathie de
Ciceron, une Chrestomathie Grecque , des Lexi- ques, une traduction
Latine des ceu- vres de Lucien, des editions de Pline le
jeune, de Claudien, de Quintilien, de Rutilius Lupus et autres
anciens a rheteurs, toutcs enrichies de notes
sa- vantes et de longs prolegomenes; plus, un nombre formidable de
dissertations sur toutes sortes de sujets, Opuscula di- versi
argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol, in-8°), parmi lesquelles son
Socrates sanctus pce der asta tire forcement l’oeil par la bizarrerie
de son titre. Cette bizarrerie a valu au livre sa no-
toriete, et en meme temps lui a fait grand tort. Beaucoup de gens, entre
autres Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit Tudesque, n’ont pas
ete au dela, et iis ont construit sur cette minee donnee un ouvrage
tout entier de leur fantaisie, a 1 ’extreme desavantage du pauvre
Gesner. D’autres ont cru Voltaire sur parole et sont arrives au
meme resultat. C’est Larcher, THelleniste, qui le pre- mier
chez nous mit en lumiere cet opus- cule, dans son Supplemenl &
THistoire universelle de labbe Bapn (1767, in-8°), en le citant
parmi les ouvragcs a consulter sur le proces de Socrate ; il se contenta
d’en faire mention, sans meme traduire ni expliquer le titre, ne
s’ima- ginant pas qu’on put s’y meprendre, et qu’un homme tel que
Gesner fut suppose capable d’une indecente apologie. Vol- taire,
dont le vif et alerte esprit se plai- sait a effleurer les surfaces, sans
presque jamais approfondir, ne connaissait sans doute pas Gesner et
certainement n’avait pas lu son Socrates. Le Supplement a VHistoire
nniverselle n’etait d 7 ailleurs qu une refutation tres-savante,
quoique un peu lourde, de son Introduction a 1'Essai sur les maeurs
, publiee d^abord a part et sous le pseudonyme de 1’abbe Bazin;
quelques critiques justes qu’on y rencontre le mirent de mauvaise humeur
, et, battu sur divers points d’erudition, il chercha une occasion
de dauber Larcher, a cote du sujet, selon son habitude. Il crut la
trouver dans le livre etrange qu’il supposa, d’aprcs le titre cite qu’il
interpretait mal, s’indigna de ce qu’on osait donner comme
faisantautoritedesimons- trueuses elucubrations (le monstrueux
n’etait que dans ce qu’il imaginait), et tantot sous le pseudonyme
d’Orbilius, tantot sous celui de M Ilc Bazin ( Defense de mon oncle,
un de ses pamphlets), il ne cessa de poursuivre la-dessus de ses
bro- cards son inoflensif adversaire. Tres- content d’avoir leve ce
lievre, il a meme reproduit son assertion plus que hasardee dans le
plus populaire de ses ouvrages ; on la trouve en note de 1’article
Amour socratique , du Dictionnaire philosophi- que. « Un ecrivain
moderne, nomme Larcher, repetiteur de college, dans un libelle
rempli d’erreurs en tout genre et de la critique la plus grossiere, ose
citer je ne sais quel bouquin dans lequel on appelle Socrate
Sanctus pcderastes ; So- crate saint b ! Il n’a pas ete suivi
dans ces horrcurs par 1’abbe Foucher. » Larcher avait trop beau jeu
pour ne pas repliquer. II le fit dans sa Repons e . la Defense de
mon oncle (1767, in-8°), opuscule rare, reimprime a la suite du
Supplement a 1’Histoire universelle : « Vous m’attribuez , dit-il a
Voltaire, votre infame et infidele traduction du titre d’une
dissertation de feu M. Gesnera Je n’ai point traduit le titre de cette
dis- sertation ; il ne pouvait se prendre que dans un sens
tres-honnete, mais il etait reserve a M lle Bazin et a Orbilius de
lui en donner un infame. Cela ne vous suf- fisait-il pas?
Fallait-il encore me 1 ’im- puter? » Pour qui avait suivi
toutes les phases de la discussion, Larcher et Gesner etaient
innocentes; Voltaire restait convaincu d’avoir note dfinfamie un livre
sans le connaitre. Mais ces temps sont loin ; per- sonne
aujourd’hui ne lit Larcher pour son plaisir, et le Dictionnaire philoso-
phique est dans toutes les mains. Voila pourquoi on croit generalement
que Ges~ ner a developpe le
plus scabreux des pa- radoxes et fait une apologie en regie d’un
vice honteux. Nous pourrions citer au moins un de ceux qui, se fiant a
Voltaire, ont propage 1’erreur mise par lui en cir- culation, et
affirme que cette dissertation n’est qu’un tissu d’invectives ; mais
nous ne voulons faire de la peine a personne. Gesner,
ecrivain des plus doctes et plus estime encore pour son caractere que
pour son savoir, professeur de Belles- Lettres a TUniversite de
Goettingue, puis bibliothecaire de cette universite, ne pou- vait
ecrire qu’une defense de Socrate, une refutation des calomnies dont on
a obscurci sa memoire, et que la langue a attachees a son nora
d’une maniere en quelque sorte indelebile par les mots de
socratisme et d 'amour socratique. Inquiet et tourmente, comme il
1’assure, de voir peser sur le pere de la Philosophie de si
indignes soup9ons, il a voulu remonter aux sources, compulser tout le
dossier et reviser le proces sur les pieces memes. II l'a fait
d’une facon non moins inge- nieuse que savante dans cette disserta-
tion lue a 1 ’Academie de Goettingue en fevrier 1752, recueillie dans les
Memoires de cette academie (t. II, p. 1), dans les Opuscula diversi
argumenti de 1 ’auteur et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°).
C’est cette derniere edition que nous avons suivie pour la reimprimer et
la tra- duire, ce qui n’avait jamais ete fait en Francais, ni
probablement dans aucune autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-
culper entierement Socrate? Nous l’es- perons; mais nous etions de son
avis avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per- sonne ne
1’ignore, c’est surtout chez ceux qui pensent comme lui qu’un auteur,
si bon dialecticien qu’il soit, porte la con- viction. Les esprits
mal faits qui incli- nent a 1’opinion contraire, et ceux-la seront
toujours difficiles a persuader, persisteront peut-etre a trouver
singulier que Platon, interprete de Socrate, ait si souvent parle de
1’amour; qu’il ait con- sacre trois de ses plus beaux dialogues, le
Lysis , le Phedre et le Banquet , a cette brulante passion; qu’il l’ait
tant de fois soumise aux analyses les plus delicates, expliquee par
les conceptions les plus sublimes, les mythes les plus poetiques,
et que jamais, sauf un moment, dans l’admirable episode de Diotime du
Ban- quet , il ne soit question de la femme. Alcide
Bonneau. UTRECHT es hommes illustres, ceux qui sont regardes
comme tels non-seulement par la posterite, mais par leurs
contemporains, ceux surtout dont le plus grand eclat consiste precisement
dans leur vertu, sont souvent accuses, sur les plus legers indices,
de quelques travers, sinon de defauts plus graves; et c’est la un
travers iros illustres, et non a posteris solis sed coaevis
tales habitos , eos maxime quorum praecipua laus virtutis est , vitii
alicujus nedum criminis gravioris suspicari levibus ar- gumentis,
vitium id quidem non leve : reos agere et condemnare crimen et piaculum ;
in Christiano homine, in homine , in barbaro. Quanta istorum
ignominia, tanta est gloria piorum virornm qui versantur in probrosis
his l’editeur qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se
faire a la fois 1’accusateur et le juge, c’est une chose criminelle, un
sacrilege, qu’il s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un homme,
meme d’un paien. L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant la
gloire des hommes pieux qui s’appli- quent a repousser ces odieuses
attaques. On peut le dire de Gesner, ce savant illus- tre, du petit
nombre de ceux qui depas- sant par la science tous leurs contempo-
rains, font encore plus estimer en eux les qualites du coeur que celles
de 1’esprit ; c’est un honneur pour lui d’avoir pris en main la
cause de Socrate, et un plus grand peut-etre pour Socrate d’avoir dte le
Client de Gesner. II nous a paru bon de recueillir dans
une edition nouvelle cet ouvrage de faible conatibus coercendis.
Gesnero, illustri nomini , e numero paucorum illorum qui cum
eruditione coaevos possint excellere, animi dotibus quam ingenii
celebrari malunt, incertum an honori sit caussam Socratis egisse, magis
quam Socrati Gesnerum habuisse patronum. Visum fuit , memoriam
brevis operae sed auro contra noti carae nova editione colere.
Docuit vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co- natu virtus
summi hominis sollicitata fuerit ab obscuris obtrectatoribus , qui non
solent deesse virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad dimension,
mais qui ne serait pas trop cher paye au poids de For. Son
excellent auteur nous y montre, la plume a la main, 1’inanite des
efforts diriges contre un sage par ces obscurs detracteurs qui ne
man- quent jamais a lavertu; il nous fait voir aussi, par son
exemple, qu’il appartient a tout honnete homme de defendre la cause
des gens de bien. II nous enseigne surtout avec quel soin et avec quelle
erudition il est besoin d’ecrire dans de telles matieres, ou l’on
ne doit rien avancer qu’apres un examen scrupuleux. Profite
donc, lecteur, de ce travail, plus utile qu’il ne le semblerait au
premier abord; et si, par ignorance ou par trop forte credulite, tu
as rejetd loin de toi les ecrits Socratiques, reprends-les
maintenant et garde-les avec amour. Il nous sera per- bonos
omnes bonorum virorum caussam : tum et illud, in primis, ubi ejus modi
res agitur, accu- rate et docte scribendum esse, nec arripi quid-
piam absque subtili examine, et benevolo illo , debere.
Fruere, Lector , labore utiliori quam decet : et si imprudentius
forte abjeceris Socraticas char- tas nimium credulus, abi continuo et in
sinu eas reconde. Integrum erit culpare qui Socratem citant, tibi
convenisset laudari Davidem et Sa- lomonem : sed patiamur , bonum et
pauperem Socratem . , placide subridentem , sereno vultu ,
xvi l’editeur au lecteur mis a notre tour de mettre en
accusation ceux qui font un crime a Socrate de ce qu'ils
trouveraient admirable s’il s’agissait de David et de Salomon ; mais
laissons le bon et pauvre Philosophe s’interposer dou- cement avec
son placide sourire, son tran- quille visage, et s’ecrier : Moi aussi,
Vertu, je t’ai honoree, Deesse ! Quant a ceux qui blameront
cette apolo- gie, non comme excessive, grands dieux, car que
pourrait-on dire de trop sur So- crate ? mais comme inconvenante et
depla- cee, qirils prennent garde de tomber dans Todieux de cette
populace Portugaise tou- jours prete, sinon a lapider ou a bruler,
du moins a exorciser a force de signes de croix traces d’un doigt
tremblant, le teme- raire qui oserait croire que la Bienheu- reuse
Vierge Marie etait une Juive. leniter interponere, Et ego te,
Virtus ! colui Deam, Quibus fastidium movent elogia, justa Di
boni! quid enim de Socrate dici nimium potest? sed quce magis
opportune forsatn collocari potuis- sent, videant ne in odium id evadat,
quale est plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la- pides,
saltim tremente digito averruncas cruces describentis, si quis auserit
credere, B. Virginem Judaeam fuisse. SOCRATE
ET L’Amour Grec IO. MATTHI. GESNERI V.
C. Socrates SANCTUS T/E D E T{A STA t
nihil tam alte vel natura , vel virtus , vel fortuna constituit, in
quo non vel deprehendatur ali- quid labis et vitii , vel vires suas
experia- tur maledica invidia , cujus vocibus boni etiam viri
abripi se ad suspicandum certe non nunquam patiuntur : ita mirum
non est , neque excelsam Socratis gloriam
Socrate ET L’qAMOU% g%ec 1 n’est rien de
place si haut par la nature, la vertu ou la fortune, qui n’ait ses
taches ou ses inv perfections, ou que 1’envie ne s’efforce
d’atteindre, cette medisante envie dont les clameurs poussent 1’homme de
bien lui-meme a soupconner le mal : c’est pourquoi nous nc devons
point nous obtrectatoribus suis carnis se. Ac de Anyti Melitique
criminibus, quibus op- pressus est vir innocens , et, si forte
vani- tatis aut nugarum et cavillationum pos- tulatus, et Scurrae
nomine traductus est (i), in prcesenti non erimus soliciti. Unum
crimen est, quod, varie jactatum, et plus semel non sine specie in scenam
reduc- tum scepe me solicitum habuit, Fuerit ne impuro ac
detestabili puerorum amori deditus? Hoc enim si verum sit, actum
est profecto de virtute viri, indignus est cujus cum honore nomen
usurpetur. 2. Postulatum esse hujus turpitudinis, negari non
potest. Mittimus , quae de adolescentia viri ad libidinem proclivi
(i) Factum id esse a Zenone Epicureo, prodidit Cic. de Nat. Deor.
i, C. 34, ubi vid. Davis. etonner que lagloire si haute de
Socrate ait eu, elle aussi, ses detracteurs. Tou- tefois nous ne
voulons ni parier ici des accusations d’Anytus et de Melitus sous
lesquelles succomba son innocence, ni nous inquieter de savoir si ce
grand homine a ete incrimine de vanite, de mensonge et de sophisme,
affuble du surnom de Bouffon[i). Une seule accu- sation m’a souvent
tourmente ; c’est celle qui, sans cesse discutee, a toujours ete
remise en avant, non sans apparence de justesse: Socrate etait-il adonne
d l’impur et detestable amour des jeanes gargons ? Si cela est
vrai, c’en est fait des- ormais de la vertu de cet homme ; c’est un
indigne, lui dont on ne prononce le nom qu’avec respect. 2.
Qu’il ait ete accuse de cette turpi- tude, le fait est certain.
Negligeons ce que Porphyre, d’apres Theodoret [De la (i)
Comme le fait PEpicurien Zenon, au dire de Ci- c6ron {De Natura Deorum ,
i) ; consuit, la-dessus J. Davies. i .
Porphyrius apud Theodoretum [Graecar, affect. cur. ser. 4 pr.) memorat :
nam ibidem additur , illum c-ojo^ xat oioayrj xouxou? a^aviaat xou;
xurcous, impressas ve- luti notas libidinum studio ac doctrina
abolevisse (1). Neque valde huc faciunt , quce ex eodem Porphyrio , qui
Aristo- xeno auctore usus sit, idem Theodore- tus (Serm. 12 p. iy5,
8) memorat, par- tim quod ad adolescendam primam viri, de qua nobis
sermo non est, pertinent , partim quod Archelaus Anaxagorae dis-
cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius fuit. Ejusdem generis est,
quod Cyrillus (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem Porphyrio (in
Historia Philosopha , libro olim deperdito) refert , Socratem -po; xr (
v twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv sivac, aoizov os p.rj
-poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat? •/.oivat; y prjaQat fj-ovat?.
Fuisse ad res venereas aliquantum vehementem, sed injuriam
abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel (1) Conf. quae in fra de
mali equi Socratici notis dicentur. § 18. et l’amour grec
7 cure des prejuges des Grecs , Disc. iv), raconte de sa
jeunesse, laquelle aurait ete encline au libertinage ; 1’auteur
ajoute, en effet, au meme endroit qu’il parvint a effacer en lui, par
Venergie de sa volonte \ jusqu’aux traces meme des passions (i). Ne
nous occupons pas non plus de ce que le meme Theodoret (Discours
xn) emprunte encore a Por- phyre, qui lui-meme suivait Aristoxene,
c’est-a-dire de ce qui se rapporte a la premiere jeunesse de Socrate
(elle n’est pas en cause), et a ce disciple d’Anaxa- goras,
Archelaus, qui aurait ete, en tout bien tout honneur, un ami fervent
(!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme cate- gorie appartient ce que S.
Cyrille [Contre Jidien, 6) a extrait de YHistoire philosophi que de
Porphyre, livre aujour- d’hui perdu : a savoir que Socrate et ait
violemment pousse aux choscs de ia- mour, mais qiiil s’abstint de faire
tort a (i) Voyez ce que l’on dit plus bas des marques du «
mauvais cheval Socratique. » (quam diu caelebs esset)
communibus uteretur. Nondum quidquam ex Por- phyrio vel Aristoxeno,
quem ille aucto- rem sequitur, allatum est de horribili scelere,
Pcederastia : quod praetermissu- rus non erat, qui satis hic in
Philosophice parentem iniquus est, Cyrillus. Decla- mat igitur
praeter rem Socrates alter (Hist. Eccles. 3, 23, p. i gj, D), cum ita
de Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio- xaxoa xoiv
<piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu- psv £v ifi
YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai xoiauxa Tuept auxou
ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi
Swxpaxrjv ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a Porphyrio
Socratem, talia de viro scripta, quae neque accusatores ipsius Anytus
et Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci- pimus, quod negat
objectam in judicio turpitudinem talem Socrati, quo nempe argumento
constet, famam viri hac tum macula caruisse. Sed nec a Porphyrio
plura aut turpiora his memorata, quae jam vidimus, satis illud argumento
est , quod iniqui Socratis glorice homines, personne,
en riusant jamais que de ses propres femmes ou , durant son
celibat, des femmes qui apparticnnent a tout le monde. Nulle part,
soit chez Porphyre, soit chez Aristoxene que Porphyre co- piait, il
n'est rien allegue de cet horrible crime : Pederastie ! II ne Paurait
point passe sous silence, ce Cyrille si injuste envers lepore de la
Philosophie. IPautre Socrate ( Histoire ecclesiastique, m, 23 )
avance donc une insigne faussete lors- qu’il dit : « Porphyre a compose
la vie de Socrate, le coryphee des philosophes, d’apres les
histoires ecrites sur lui ; et il nous a transmis, d Vaide de ces
docu- ments, des choses si monstrueuses que les accusateurs de
Socrate, Anytus et Meli - tus, n’ont pas meme ose' les lui reprocher.
» Retenons seulement de ceci Taveu qu’on n’en fit pas un grief a
Socrate, lors du jugement public, ce qui ressort de la phrase
elle-meme, et que cette tache fut alors epargneeT a sa renommee.
Mais Porphyre n’a pas rapporte autre chose ou des choses plus
monstrueuses que ce Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro-
tulere, quibus fuerant haud dubie cau- sam suam , si res facultatem
dedisset, ornaturi. 3. Nempe nec Aristophanes , qui
cor- ruptce ad impietatem et calumniandi ar- tem juventutis accusat
in Nubibus Socra- tem . hujus criminis ullam mentionem facit , non
omissurus profecto , si illud adhaerescere posse putasset. Nec
forte quisquam est ex omni antiquitate remo- tiore illa, et
temporibus Philosophi pro- pinqua . , serius et severus accusator
hujus criminis. Lusit inter posteriores, pro petulanti illo ingenio
suo, Lucianus (de CEco, ita enim potius dicendus erat ille libellus
quam de Domo, c. 4 , T. 3, p. ig 2 , 83) cum accusat Socratem, qui
non erubuerit advocare Musas, virgines, cuvsaojjiva; ia -aiBepaama,
ut audirent illos de puerorum amore sermones. At- qui illi
sermones, uti mox videbimus. que nous venons de dire ; nous en
trou- vons la preuve en ce que S. Cyrille et Theodoret, deux
detracteurs de Socrate, n’en ont souffle mot, et qu’ils n’auraient
pas manque d’en orner leurs diatribes si la chose eut ete possible.
3 . En second lieu, Aristophane qui, dans ses Nuees , represente
Socrate comme un corrupteur de la jeunesse, comme faisant de
1’imposture un enseignement, n’a pas davantage mentionne cette
accu- sation; l’aurait-il omise, si elle eut pu s’appliquer a Thomme
qu’il bafouait? II n’y a enfin personne, si l’on prend des temoins
dans cette antiquite reculee ou dans les temps voisins du
Philosophe, qui se presente comme un accusateur serieux et digne de
foi. Plus tard seule- ment Lucien, entraine par sa verve moqueuse
(dans 1’opuscule que l’on tra- duit ordinairement De Domo et qu’il
vaudrait mieux traduire De CEco , chap. iv), reprocha a Socrate de
n’avoir pas rougi d ; invoquer les Muses, des reprehendant vehementer amorem : re-
spicit enim ad Phcedrum Platonis (p. 340 , G) de quo dedita opera
dicendum erit. Qua ? in Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 , go) in
Socraticum amorem Platonicum- que vel a Luciano, vel quicunque
auctor est, jocose et per calumniam dicuntur, ea ad ipsum illum
locum diluisse me arbitror . 4. Sed veterum criminationes
Maxi- mus Tyrius ( Dissertat . 2S. 26. et 27 al. g. 10. 11)
refutavit, ut non videatur opus esse aliquid addi : cum praesertim
tanto magis et agnoscant innocentiam Socratis, et illud crimen ab illo depel-
lant ut hujus, ita paullo superioris aitatis homines, quo magis virum ex
aequalium ac paullo juniorum de illo scriptis ut cognoscere
possent, cuique contigit. Quin ne consultum quidem judicarem
veterem litem resuscitare , nisi viderem, nuper et l’amour
grec i3 vierges, pour leur faire dcouter ces fa- mcnx
discours sur Vamour des jeunes gargons. Mais ces discours, comme
nous allons le voir, blament fortement cette sorte d’amour; Lucien
fait, en effet, allusion au Phedre de Platon dont nous aurons a
nous occuper. Ce que Fon dit debamourSocratiqueet Platonique dans
les Amonrs , que ces dialogues soient de Lucien ou de tout autre, n’est
qu’une plaisanterie ou une mechancete, comme je\ l’ai demontre en
temps et lieu (i). 4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 , 26
et 27) a d’ailleurs refute toutes les ac- cusations portees a ce sujet
par les an- ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter. Le meilleur
argument, c’est que ceux qui ont le mieux reconnu Tinnocence de
Socrate et repousse loin de lui avec le plus de force 1’accusation
infame, sont les hommes de la generation qui a imme- (1) Dans
ses notes sur Lucien, dont il a fait une edition et une traduction Latine
tres-estimees. fuisse, et esse hodie
homines eruditos, et bonos viros, qui pravam de patre illo
Philosophia ? opinionem conceperint, quo- rum non pono nomina, quia mihi
non cum ullo homine certamen esse volo, sed cum opinione ea, quam
praeterquam quod falsam puto, etiam virtuti noxiam , praeter
consilium quidem bonorum viro- rum, humanitati certe adversam esse,
arbitror. 5. Qui autem fieri potuit, ut homines neque
indocti neque maligni in sinistram falsamque de Socrate opinionem
incide- rint? ut apologia vir sanctus opus habeat? Praeter
naturalem illam -/.axor{0£tav nos- tram, quae imis velut medullis fixa ,
et superbiae illius nostrae nixa radicibus. et l’amour grec
i5 diatement suivi la sienne. Or, ce sont les contemporains
et leurs successeurs immediats qui peuvent le mieux juger un homme,
en pleine connaissance de tout ce qu’on aecrit sur lui. Je n’aurais
donc pas songe a ressusciter cette vieille que- relle si je n’avais
vu naguere, et tout recemment encore, des hommes instruits,
vertueux, concevoir la plus mauvaise opinion de ce pere de la Philosophie
; je ne dirai pas leurs noms, ne voulant me prendre corps a corps
avec personne, mais seulement avec une opinion que je considere
comme sans fondement, nuisible a la vertu, et, contrairemcnt a
1’avis de ces gens de bien, defavorable a 1’humanite tout entiere.
5. Comment donc a-t-il pu se faire que des personnages qui ne
p£chent ni par ignorance ni par mechancete, aient concu de Socrate
une opinion si facheuse et si fausse? Pourquoi cet homme veri-
tablement saint a-t-il besoin d’etre de- fendu? En dehors de cette
maligni te inter ultima vitia eradicatur, ceterasque
ex genere morum rationes, conveniunt hic alia qucedam , quce facilem
errandi occasionem praebent. Magna pars docto- rum etiam hominum
legendi laborem fugit, legendi uno tenore, continuata attentione ,
totos veterum scriptorum libros; sed satis habet decerpere quce-
dam, in quce primum incurrere oculi, aut, quod deterius frequentius que
idem, repetere ab aliis excerpta, et e media nonnunquam sermonum
velut compage evulsa, de quorum sic sententia non facile sit
judicare. Platonis libri , unde pleraque Socratica peti hodie necesse
est, multos arcent ob Atticum illud sermonis genus, breve et acutum,
floridum praeterea, ac semipoeticum, ipsamque disserendi ratio- nem
subtiliorem scepe, quam ut mediocri attentione, non acutissimi homines
illam statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc res est, ad
interpretes confugere ; qui quoties vel nihil dicant, vel alia
omnia dicant, vix sine invidia licet commemo- rare. Et tamen nisi
attente legas, et to- naturelle qui reste fixee jusqu’au fond
de nos moelles, qui se fortifie de notre or- gueil et qui ne
s’arrache qidavec les der- niers defauts, outre encore diverses
rai- sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour cela un concours de
circonstances pro- pres a faciliter 1’erreur. La plupart des gens
instruits eux-memes evitent la fa- tigue de lire dans leur entier, avec
une attention soutenue, tous les livres ecrits par les Anciens ; on
a plus tot fait de choisir quelques passages, les premiers qui
tombent sous les yeux, ou, ce qui est bien pire, de s'en tenir aux
passages choisis par d’autres, a des fragments de- taches de
1’ensemble et dont il est par consequent difficile d’apprecier le
sens veritable. C’est ce qui arrive des livres de Platon, d’ou il
nous faut aujourd’hui tirer toutc la doctrine Socratique ; iis
embarrassent bon nornbre de lecteurs par leur style trop Attique, raffine
et aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique, par ces controverses
si subtiles souvent que, si 1’attention se relache, 1’esprit le
tos legas dialogos, et qua
scripti sunt lingua legas, non est ut de sententia illorum, h. e.
quam tribuat Plato sen- tentiam Socrati, recte judices. Quare mirum
non est, si multi refugiant lectio- nem ita laboriosam ; et illis veluti
spinis a familiari tractatione eorum librorum deterreantur .
6. Denique si quid etiam tribuatur a Platone Socrati, tamen, si
illud Xeno- phontis narrationi repugnet, non dubi- taverim equidem,
fidem potius adhibere Grylli filio, memor illius, quod narrat
Laertius 3, 35, Socratem , cum Lysin Platonis legisset, dixisse , to;
tzoXKx uoj plus
eclaire n’cn suit pas aisemcnt le fil. Et il serait inutile, dans le cas
present, de recourir aux annotateurs ; ou iis ne disent rien, ou
iis disent tout autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne peut
s’empecher de leur en faire un re- proche. Cependant, amoins de lire
avec un soin scrupuleux tous les dialogues de Platon et de les iire
dans la langue meme ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible de
juger saineinent de leur doctrine, c’est-a-dire de la doctrine que
Platon attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur- prenant que
nombre de gens reculent devant une si laborieuse lecture et soient
rebutes, comme par des epines, du commerce familier de ces livres.
6. Enfin il faut dire que si Platon at- tribue a Socrate une
maniere de voir contredite par la narration de Xenophon, il n’y a
pas a hesiter : c’est a Xenophon qu’il faut se fier, si l’on se souvient
du mot rapporte par Diogene de Laerte (ui, 35). Socrate, apres
avoir lu le Lysis
xaxe^uBeO’ 6 veavfoxo; ; Quam multa de me mentitur adolescens!
Tanto magis hoc memorabile est , quod ille Dialogus ita scriptus est,
ut non modo tanquam per- sona colloquens inducatur Socrates, sed
tanquam, qui ipsum illum dialogum scripserit. Ceterum quia hic sumus,
hoc breviter indicamus, amatorium quidem esse hunc libellum , sed
nihil habere pu- dendum ne Platoni quidem. Argumen- tum hoc est :
Queritur Lysidis amator Hippothales, ab illo se non amari ; So-
crates ostendit, si velit amari, non adu- landum esse puero, sic enim
futurum superbiorem ; sed illi potius ostenden- dum, quibus rebus
indigeat, et quam parum in ipso sit boni (i). Deinde dela- bitur in
disputationem, Quis proprie amicus sit vocandus? et, In quo insit
natura amicitia’ ? plenam illam quidem cavillationum , sed praeclararum
etiam de amicitia sententiarum. Ceterum tri- (i) Sic nempe
ipse solebat Socrates in potestatem quasi suam redigere adolescentulos,
de quo que- rentem audiemus Alcibiadem. de Platon, se serait ecrie : «
Comme ce jenne homme invente souvent ce qu’il me fait dire! » Le
mot est d’autant plus remarquable que, dans ce dialogue, So- crate
estpresente non comme un simple interlocuteur, mais comme s’il
avait ecrit lui-meme tout le morceau. Pen- dant quenous y sommes,
disons brieve- ment que cetouvrage roule sur 1’amour, mais qu’il
n’y a rien dont put rougir Platon lui-meme. Voici le sujet : Hip-
pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne pas en etre aime; Socrate lui
demontre que s’il veut 1’etre, il ne faut pas qu’il fiatte ce jeune
homme, ce qui le rendrait plus orgueilleux encore ; il vaut mieux
qu’il lui represente tout ce qui lui man- que et le peu de bonnes
qualites quhl possede (i). On discute ensuite ces ques- tions : Qui
est digne d’etre appele un ve- ritable ami? et, Quelle est la nature
de Tamitie? Controverse pleine, il est vrai, (i) C’est ainsi
que Socrate avait en effet coutumc d’assujettir les jeunes gens & son
autorite, et nous voyons Alcibiade s’en plaindre. bui a Platone colloquentibus, de quibus
ipsi non cogitarint, vetus observatio est , de qua vid. Athenaeus
Deipnos. i, i / ad fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more se excusat,
etiam Varroni in Academico- rum dedicatione Tullius. Neque ausim
Platonis ipsius, junioris praesertim, pa- trocinium suscipere de
mollioribus versi- culis, quos Apulejus servavit (Apol. p. 279 sq.)
et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) : de quibus modo in neutram partem
dis- puto, causamque Platonis a Socratis causa hac in re
sejungo. 7. Quaecunque vero cum aliqua specie testimonia
Platonis contra Socratem pro- feruntur, ea cum ex Phaedro, nescio
quam bona semper fide, corrupte quidem et perverse non nunquam, depromi
vi- deam, propter ea pretium opera* putavi, de futilites, mais
aussi de remarquables definitions dePamitie. C ; est uneobserva-
tion qui a ete faite depuis longtemps, que Platon attribue a ses
interlocuteurs des idees qu’ils n’ont jamais eues : on peut
consulter la-dessus Athenee ( Dei - pnosophistes i, ii). Ciceron, qui
avait le meme defaut, s’en excuse sur le genre meme du dialogue ,
dans son envoi des Academiques a Varron. Je n’ose pas non plus
defendre Platon du reproche d’avoir commis, surtout dans sa jeunesse,
des vers badins tels que ceux que nous ont conserves Apulee (dans
son Apologie) et Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou jeune, jen’ai
pas affaire a lui et je separe completement sa cause de celle de
So- crate. 7. Entrelesdiverstemoignages fournis par
lui, ceux que Ton peut alleguer con- tre Socrate avec quelque apparence
de justesse sont tires du Phedre ; pas tou- jours bien
scrupuleusement et quelque- fois a 1’aide d’alterations ou de
contre- non semel totum illum dialogum attento animo
perlegere , et uno quidem tenore , et lingua sua, ne quid eorum me
falleret, qua • saepe fraudi esse viris doctis, modo dicebam. Ac
spero non ingratum fore aliis, quorum rationes non ferunt tam
longam solicitamque operam, si hic pos- sint brevi studio cognoscere
velut oecono- miam illius libri et argumentum, inde- que de toto
consilio vel Platonis vel Socratis arbitrari. Concedamus enim, ne
abuti videamur illa, quam modo propo- suimus observatione, Socratis hic
veram sententiam bona fide a Platone proponi. 8 . Ac primo
illud meminerimus, So- cratem hic (p. 340, E) introduci senem,
tantum non decrepitum, quem facile ju- venis Phaedrus viribus superet.
Jam fingitur Phaedrus audisse Lysiam dispu- tantem, magis
obsequendum gratifican- dumque esse non amanti, quam amanti :
camque orationem Socrati prcelegere sens. Cest ce qui m’a engage a
lire attentivement ce dialogue, et plutot deux fois qu’une, dans
son entier, et dans le Grec, afin d’echapper a ces chances d’er-
reur dont j’ai parle plus haut et qui font trebucher les plus doctes. II
sera peut-etre interessant, je 1’espere, pour ceux dont 1’esprit
repugnerai-t a une besogne si longue et si difficile, de connaitre
sans grande etude le sujet et pour ainsi dire 1’economie de ce
livre, et de pouvoir apprecier toute la theorie de Platon ou de
Socrate. Nous admettrons, pour ne pas abuser de la reserve faite par
nous plus haut, que la doctrine de Socrate a ete ici exposee de
bonne foi par Platon. 8. Rappelons d’abord que Socrate y est
presente comme un vieillard, non pas tout a fait tombe en
decrepitude, mais qu’un jeune homme, comme Phe- dre, peut maitriser
aisement. Phedre ra- conte qu’il a entendu Lysias discourir sur
cette question : Un jeune homme doit-il avoir plus de facilite et de
com- 2b (a p. 338 , C. ad 33 g, G).
Reprehendit hanc Lysiae orationem , cante quidem et multa cum
ironia Socrates , et meliora se audisse ait , quae dicere illum
amabilis- sime cogit Phcedrus. Incipit hic a Musa- rum invocatione
(p. 340 , G) quam calum- niatur, ut modo dicebamus 3 ), Lu- cianus
: cum sit nihil in ea oratione non virginum auribus dignissimum. Orditur
a definitione Amoris (p. 341, D) quem vocat cupiditatem , quae incitate
feratur ad voluptatem
pulchritudinis, et inde, quam mala res, quam noxia sit,
ostendit (ad p. 342, F) et claudit hexametro : A'j-/.ol aova
oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv 1 r’ 1 ! |Sf/aTra’..
Ut cordi agna lupo est, puerum sic ardet amator. 9. Bene
ista , et Musis faventibus. Sed subito, At Amor tamen Deus est, inquit
, et palinodiam parat , quae incipit (p. 3 43 . plaisance
pour celui qui ne 1’aime pasque pour celui qui Faime ardemment ? II
lit ensuite ce discours a Socrate. Celui-ci, avec beaucoup de
finesse et ddronie, trouve a blamer dans la composition oratoire de
Lysias et pretend qu'il a en- tendu dire la-dessus autrefois de
bien plus belles choses; Phedre le conjure de les lui rapporter.
Socrate debute alors par cette invocation aux Muses que Lu- cien a
calomniee, comme nous le disions plus haut, car il n’y a rien dans tout
le discours qui ne soit parfaitement digne des oreilles chastes. II
commence par la definition de 1’amour, qu’il appelle un desir
violemment entraine vers le plaisir que promet la beaute ; il enumere
en- suite les ecarts auxquels il peut pousser et conclut parcet
hexametre : Comme le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux
[cherit le jeune garcon. 9. Voila qui est bien, grace aux
Muses. Mais aussitot : L’ Amonr est cependant un Dieu, s’ecrie-t-il
; et il entrcprend une
F) ab eo, uti dicat, non ideo amorem damnandum fuisse, quod
sit furor ; esse enim furorem etiam bonum aliquem : ipsam
[jLavTixrjv 5. divinatoriam facultatem esse a verbo [i-aiveaOai dictam ,
velut quan- dam [j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris plura genera
enarrat , in his etiam ponit amorem, cumque (p. 344, C ) magnae
felicitatis causa tum amantis cum amati datum his esse divinitus, conatur
osten- dere. Ad eam demonstrationem sumit primo hanc propositionem.
Omnem ani- mam esse immortalem, quam inde pro- bat (quam bene vel
male , nunc non dis- putamus) quod principium motus sui in se habeat.
1 0 . Deinde similem ait animam no- stram, etiam antequam ea in
corpus ve- niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte- rum hujus biga
3 equum bonum ponit et tractabilem (ibid. E), malum alterum ac
refractarium. Sic coelestia spatia ingre- diuntur ista • cum suo auriga
bigce, et ET l’aMOUR GREC 2(J palinodic en declarant
tout d’abord que 1’amour n'est pas condamnable en soi, qu’il estun
delire, et que dans tout delire il y a quelque chose de bon ; que
fxavnxr], la divination, derive du mot (jiodveaGai, comme qui
dirait [xavtxr), c’est-a-dire folle. II compte diverses especes de
delires parmi lesquelles il place 1’amour, et il s’efforce de montrer que
c’est un present divin fait a bhomme pour le plus grand bonheur de
celu*i qui aime et de celui qui est aime. Sa demonstration s’appuie
sur cette proposition premiere: Tonte dme est immortelle, dont il tire
la preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre affaire) de ce qu’elle a
en soi le principe de son mouvement. io. Il compare ensuite
notre ame, avant qu’elle ne vienne habiter un corps, a un attelage
aile, compose de deux chevaux et d’un cocher. L’un des chevaux est
excellent et docile ; 1’autre, d’un mauvais naturel et retif.
L’attelage parcourt ainsi les espaces celestes, avec Deorum
aliquem secutce (Socratis anima Jovem , p. 846 , D) ea spatia
permeant. In hoc volatu et illa equorum dissimilium dissensione,
alia; quidem anima; retinent alas, et ad sublimia feruntur, contem-
plantur que ea etiam, qua; extra supre- mum coeli orbem sunt (p. 345 ,
B). Alia;, qua; partim in altum elata; viderunt plu- ra, partim ab
equo illo refractario impe- dita; ac retractae, pauciora ;
ruptisque per illam equorum in diversa tendentium luctam pennis
atque amissis, cadunt, et in corpora humana veniunt. 1 1 .
Harum, pro gradu cognitionis illius et inspectionis rerum
coelestium diverso, novem classes constituit (ibid. F). Qua
plurimum veritatis et rerum coeles- tium vidit anima, ea inseritur
semini, e quo nascatur aliquis sapientias, pulchri, doctrinas, et
amoris studiosus, st? yovfjV et l’amour grec 3 I son
cochcr, et s’elance a la suite de l’un des douze dieux ( 1 ’ame de
Socrate sui- vait Jupiter). Dans cette course a travers les espaces
et malgre la lutte des deux chevaux, si dissemblables, quelques
ames parviennent a garder leurs ailes, voya- gent dans les regions
etherees et con- templent meme ce qui est au dela de la voute du
ciel. Les autres, parfois em- portees jusqu'aux plus hautes
regions, parfois retenues et embarrassees par le cheval retif,
n’arrivent qu’a connaitre une partie des mysteres ; dans cette
lutte des chevaux qui tirent en sens inverse, elles brisent et
perdent leurs ailes ; ces ames tombent alors sur terre et sont
emprisonneesdans les corps des hommes. 1 1 . Suivant le degre de
connaissance qu'elles ont atteint dans la contempla- tion des
essences, Socrate divise en neuf classes ces ames dechues. Celle qui
a per9u le plus de verite et de choses sublimes, vient animer le
germe d’ou naitra un homme tont entier consacre au
avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ? oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj fi.ouaixou
Ttvos, x at spamxoy. Secundi fastigii anima animabit regem, legibus,
bello, imperio, potentem : tertiae classis anima civitatis
familiaeque regendae et rei fa- ciendae peritum : quartae, laboris
aman- tem eundemque in exercendis sanan- disve versantem corporibus
: quinti ordinis animae vitam habebunt in vati- cinando, aut in
castimoniis initiisque mysteriorum occupatam : sexti, poetas :
septimi, geometras aut fabros : octavi sophistas aut cum factione
populares : noni denique animabunt tyrannidis cu- pidos. Multa hic
nec injucunda de hoc ordine , de his vitee generibus, disputandi
occasio : sed maneamus in argumento nostro. 12 . Ha’ omnes
anima?, cum morte dis- cesserunt a corporibus, in locum vel pce-
33 ET L’AMOUR GREC culte de la sagesse, de la
beaute , de la Science et de Vamour ; Vdme du second degre vivra
dans le corps d’un roi juste , belliqueux et capable de commandere
celle du troisieme fonnera un homme habile a administrer sa famille, sa
cite ou la chose publique ; celle du quatrieme un athldte laborieux
ou un medecin, tous deux occupes soit d exercer le corps humain ,
soit d le guerir ; les ames de la cinquibme classe passeront leur vie ,
soit d predire 1’avenir, soit d initier aux abstinences et aux
mysteres ; celles de la sixieme former ont des poetes ; celles de
la septieme , des laboureurs ou des ou- vriers,- celles de la huitieme,
des sophistes ou des chefs de factions populaires ; celles de la
neuvidme, enfin, des tyrans. Ce serait peut-etre 1 ’occasion de
dispu- ter, et non sans agrement, des rangs assignes a ces ames et
de leur genre de vie : mais restons dans notre sujet. 1
2.Toutes ces ames,quandle trepas les a separees du corps, parviennent au
sejour narum vel pr cerni orum perveniunt, et mille
exactis annis, accipiunt potesta- tem eligendi sibi nova corpora ,
vitas novas, sive hominum sive bestiarum . Quce anima ter sibi,
exactis millenis illis annis, primam istam sedulo philoso- phantis,
sive pueros cum philosophia amantis, vitam delegerit (p. 3g5, G)
tou <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r] "atospaaxrJcjavTO;
[j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter mille annorum periodo ,
pennas denuo accipit, quibus ut ante tolli, deum aliquem sequi,
contemplari coelestia , queat : cum reli- quarum octo classium animae,
non nisi decies mille annorum periodo absoluta, in primam illam
conditionem restituan- tur. Hoc ipsum quod primam et felicis- simam
classem Paederastarum philoso- phantium constituit, quod tantum
prae- mium illis, compendium septies mille annorum, tribuit Mythi
hujus s. Allego- ria ? auctor, sive Socrates fuit, sive Pla- to ; hoc
ipsum igitur jam satis monere nos poterat, non posse hic sermonem
esse de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus ET LaMOUR
GREC 35 des peines et des recompenses, et au
bout de mille annees, recoivent la permission de choisir de
nouveaux corps, soitd’hom- mes soit de betes, et de vivre de nou-
velles vies. L’ame qui, durant trois revo- lutions de mille annees, trois
fois de suite a choisi Texistence d’un homme quicultive sincerement
la philosophie, ou qui aime les jeunes gens d'un amour
philosophique , a 1’expiration de cette triple periode, recouvre les
ailes qidelle possedait autrefois et peut, comme au- paravant,
suivre l’un des dieux et con- templer les essences celestes. Les
huit autres classes ne retournent a cette con- dition premiere
qu’apres une revolution de dix mille annees. Ainsi la premiere
classe et la plus heureuse est celle des philosophes amis des jeunes
gens, et l’in- venteur de ce mythe ou allegorie, que ce soit
Socrate ou Platon, la favorise d’une exemption de sept mille annees
: cela seul nous avertit assez qu’il ne peut etre question ici de
ce vice infame dont on accuse Socrate et que d’ailleurs les
3postulatur Socrates, ipsis etiam legibus Atticis, paullo post ostendemus
: sed ma- gis hoc apparebit, si quis ea, qu ce sequun- tur, apud
Platonem paullo attentius considerare mecum voluerit. i 3 .
Intelligentia hominum , ex pluribus rebus sensu perceptis collecta, nihil
est aliud, quam recordatio illorum, quae anima in illo volatu suo
coelesti viderat, quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co; ov, p.
346, A). Haec intelligentia maxima est in illa prima philo sophantium
paede- rastarum classe : haec ipsa est, ob quam alas soli
recipiunt, quibus volatum illum coelestem, deorumque comitatum tentant
: prae qua terrena hcec, et sensus externos ferientia, ita
negligunt, ut male sani aliis et furiosi videantur, icocpa
-/.ivouvts?, quos commotos s. commotce mentis vocat Horatius (Serm.
2, 3 , 2og et 278), cum re vera divino quodam spiritu agi- tentur,
svOouaux^oviss, qui illos semper ad coelestem illam pulchritudinem
revocet, quam in priore volatu viderant. lois Athenicnnes
reprimaient, comme je le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-
viendra plus evident encore pour qui voudra bien examiner attentivement
avec moi ce qui suit dans Platon. i3. L’intelligence humaine est
formce de la reunion des idees percues a l’aide des sensations, et
les idees ne sont rien autre chose que les reminiscences de ce que
1’ame a vu anterieurement dans son vol celeste, c’est-a-dire des
essences veritables. Or 1’intelligence la plus com- plete
appartient a la premiere classe, a celle des philosophes amis zeles
des jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis recouvrent les ailes a
1’aide desquelles iis pourront essayer de nouveau de par- courir le
ciel et suivre le cortege des dieux. Detaches des soins terrestres
et de tout ce qui frappe les organes, iis pas- sent pour des
insenses et des hommes en delire, -apa/ivoSvis?, de ceux qu’Horace
appelle des fren^tiqucs, des esprits trou- bles, tandis que vraiment ce
sont des en- Haec pulchritudo , qucc inest in sensu,
<ppov 7 ]<m (p. 846, E), in mentis qua vult et intelligit
prostantia, si ita in oculos, ut alia quce videri his possunt,
incideret , ad mirabiles sui amores exci- tatura esset. Jam pulchritudo
sola corpo- rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut fatum, et
conditionem , uti subeat oculos, ut amo- rem moveat. Hinc ponamus ipsa
verba , ut existimare melius ac certius de tota re possint etiam,
quibus ad manus non est Plato ipse, vel magnum volumen de pluteo
promere non lubet. c O piv oOv pu] vsoxeXt];, ■Jj otscpQappivos, oux
otjiiog evOevOs Exstas ©s'psxat 7ip6; auxo xo xaXXo;, Ostopisvo; a3xou
xrjv xrjoE smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv, aXX’ 7]3ov^ 7:apaoou;,
zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct- y stpsT xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst
x:poao|j.tXaiv, ou os'ootxsv ou 8’ ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 )
(1) Notabile est, Platoni etiam de Ijcgib. r . thousiastes,
agites comme d’un transport divin, qui les attire sans cesse vers cette
beaute celeste precedemment entrevue par eux dans leur vol.
14. Cette beaute, dont Pessence reside dans un sens particulier, la
sagesse, source de la volonte et de 1’intelligence, s’il etait
donne a l’oeil de 1’apercevoir, comme toutes les autres choses visi
- bles, elle nous exciterait a d’admirables amours. Mais c’est
seulement la beaute corporelle, telle est sa necessite fatale et sa
nature, qui frappe les yeux et nous porte a 1’amour. Ici nous placerons
le texte meme afin que ceux qui n’ont point Pla- ton sous la main
ou qui ne se soucient pas de tirer du rayon un gros volume,
puissent se faire une opinion en toute p. 56g, E. hanc
turpitudinem appsvwv np 6? appevag, Ij OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA
•bTSIN To'X[j.7)p.a appellari. Non igitur Plato- nem , vel Socratem adeo,
feriunt divina illa ful- mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ?
in idolatriam vibrantur. f,5ov7]v 0 -W.ojv. '0 8e
apttteXrj?, 6 twv xdxe TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov' t07),
-/.aX- Xo; eu [j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av — oj?
Geov a£'6sxai. Hcec ita verto, Hic ergo, qui non est nuper illis
mysteriis coeles- tibus in illo volatu animarum initiatus, aut,
initiatus cum esset, corruptus est, non celeriter, ut oportebat, hinc, ab
hac corporea, non vera, pulchritudine, illuc fertur ad ipsam veram,
coelestem pul- chritudinem, cujus hic videt nomen, umbram ,
similitudinem : itaque neque inter adspiciendum eam, divinum quid-
dam colit : sed libidini se tradens, qua- drupedis ritu inscendere
formosum co- natur, et genitale semen profundere, et cum contumelia
(vid. ad §. 18) congres- sus formoso corpori , non veretur, nec
erubescit PRXETER NATURAM libidi- nem persequi. At ille nuper initiatus,
qui multa eorum quae tum videbat , contemplatus est, ubi vultum
divino similem conspexit, qui pulchritudinem illam veram bene
imitetur, aut incor- poream quandam illius speciem, verbo ,
certitudc. « L’homme qui n’a pas un « souvenir recent de son
initiation aux « mysteres, ou qui, recemment initie, « s’est laisse
depraver, ne s’eleve pas fa- « cilement, comme il faudrait, de
cette « beaute corporelle, qui n’est pas la « vraie, a cette beaute
celeste, absolue, « dont il ne rencontre ici-bas que le nom, «
1’ombre, la ressemblance ; en 1’aper- « cevant il n’y respecte rien de
divin. « Entraine par la volupte, il se precipite, « comme une
brute, sur 1’objet de ses « desirs, ne cherche qu’a genitale semen
« profundere et, outrageant ce beau « corps qu ? il etreint, il n’a pas
honte, il « ne rougit pas de poursuivre un plaisir « contre nature
( 1 ). Au contraire, l’hom- « me, encore plein des saints mysteres
« qu’il a longtemps contemples autrefois, (1) 11 est remarquable
que Platon, meme dans ses Lois, appelle crime contre nature le commerce
hon- teux marium cum maribus, et feminarum cum fe- minis. Les
foudres de Saint Paul ( Ep . aux Rom. 1. 26) n’atteignent donc ni Platon
ni Socrate, pas plus que celles qu’il lance contre 1’idolatrie.
virtutem speciosam : — Dei instar colit. i5. Deinde
enarrat pheenomena quae- dam hujus sancti et philosophici amoris ,
similia, ex parte Venerei, et quomodo illa ' alce, quas amiserat anima ,
hinc de novo crescant, sub Allegoria perpetua describit, qua nihil
aliud tandem indicat , quam enthusiasmum quendam , et injec- tam
divinitus philosopho cupiditatem versandi cum pulchris, h. e. ingenio
vel forma potentibus, adolescentulis : quos nempe captabat
Socrates, qui sciret , cum facilius sit formare ad sapientiam et
virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a quibus futura civitatis fortuna
pendeat. Hinc est quod se venari pulchros non dis- simulabat (vid.
Protagora > principium , frustra reprehensum Cyrillo contra
Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon- tem baculo etiam transverso
objecto et l’amour grec q'3 « en presence d’un visage
presque divin « ou d’un corps dont les formes lui rap- it pellent
1’essence de la beaute, c’est-a- « dire 1’essence de la vertu, adore
comme « en presence de la divinite. » i5. Platon retrace
ensuite quelques- uns des phenornenes de ce saint et phi-
losophique amour, parfois peu different de l’autre; il montre aussi
comment re- poussent les ailes autrefois perdues par rame. C’est
une allegorie perpetuelle dont la conclusion est que le philosophe
con^oit, par une sorte de grace divine, le plus fervent desir de vivre au
milicu des beaux adolescents distingues par la perfection de leurs
formes ou par leurs dispositions naturelles. C’est ceux-la, en
effet, que Socrate ambitionnait de gagner , sachant qu’il est facile, a
cet age, de les tourner au bien et a la vertu, et que c’est d’eux
que dependent les futurs des- tins de la Republique. II appelait
cela prendre les beaux garcons dans ses filets (voyez la-dcssus le
commencement du. velut exceptum, sibi adjunxit (Diog. Laert.
2, 48). Ipsum illud hinc est , quod gymnasia , conviviaque et
deambulatio- nes, quoscunque denique juvenum coetus, sequebatur,
quod ludos et jocos non refu- giebat, quod se plane communem illis
faciebat , nec irrideri aut peti maledic- tis refugiens. Ipsa illa ironia
perpetua, quod doceri se velle simularet , certe dis- cendi causa
disputare , ut accessum ad Sophistas illi dabat , ita adolescentulo-
rum super bulae de se opinioni et praeci- pitantiae blandiri videbatur.
Sed perga- mus Platonis Mython enarrare. 16. Philosophi illi
amatores pulchro- rum non indiscretim omnes amant , sed (p. Sdy, C)
quem quisque in illo coelesti volatu Deum secutus est , ejus Dei
si- milem sibi quaerit amasium; qui Jovem , ut Socrates, Jovialem
(Auvov x wa), Martia- lem vero qui Martem, et sic Junonios.
ET Protagoras , blame a tort par Saint Cy- rille), et il se fit de la
sorte un disciple de Xenophon qu’il arreta en lui barrant le
passage avec son baton. Voila pour- quoi aussi il frequentait les
gymnases, les banquets, les promenades, tous les lieux de reunion
des jeunes gens, ne fuyait ni les jeux ni les badinages, s’en-
tretenait avec tous et s’inquietait peu de preter a rire aux medisants.
Cette ironie perpetuelle grace a laquelle il feignait toujours de
vouloir apprendre, pour mieux enseigner, lui donnait acces au- pres
des Sophistes et flattait aussi la suf- fisance et la presomption de la
jeunesse. Mais achevons d’exposer le Mythe de Platon.
16. Ces philosophes amoureux des beaux garcons ne s’attachent pas
indis- tinctement a tous ; selon le dieu quhls accompagnaient dans
les espaces etheres, chacun d’eux choisit parmi les anciens
suivants du meme dieu celui qu’il doit aimcr. L’ame qui etait, comme
celle de SOCRATE 46 Bacchicos ,
Apollineos : et talem ubi in- ventum amare coeperint , faciunt omnia
, uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu- jus jam similitudinem
quandam in ipso deprehenderunt, sibique adeo , reddant quam
similimum. Ita Socrates, Jovis in illo volatu satelles, quaerit Joviales,
ama- tores natura sapientiae, et natos ad im- perandum. Hactenus
ergo bene res ha- bet, sancti tales Paederaslce, J elices qui sic
amantur. / 7 . Sed nec dissimulanda sunt quae sequuntur apud
Platonem. Redit Socrates (p. 3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani-
ma Mythum (’§. 10), quam triplicis na- turae ponit scilicet. Sunt vellit
equi duo, est auriga. Equorum alter bonus, sanus, verecundus,
gloria • amator , qui sine pla- gis, sola ratione auriga regitur :
pravus alter, qui multum ac temere una aufera- Socrate, dans le
cortegc de Jupiter, re- cherche un suivant de Jupiter, et ainsi des
autres qui avaient choisi Mars, ou Junon, ou Bacchus ou Apollon.
Des qu’ils Pont trouve, iis s’efforcent de rendre celui qu’ils
aiment semblable a ce dieu dont iis retrouvent en eux-memes le
caractere. Ainsi Socrate, satellite de Jupiter, recherchait pour les
cherir ceux qui avaient aussi suivi ce dieu, c’est-a- dire ceux
qui, par nature, etaient portes a la sagesse et a la domination.
Jusqu’ici tout va bien ; de tels Pederastes sont de vrais saints,
et bien heureux ceux qui sont aimes de la sorte ! 17. Mais il
ne faut pas dissimuler ce qui vient apres dans Platon. Socrate re-
tourne au precedent Mythe de hame qu’il a coniparee aux triples forces
reu- nies de deux chevaux et d’un cocher. L’un des chevaux est bon,
sam, plein de retenue et d’emulation ; le cocher le di- rige, sans
avoir besoin du fouet et par la seule persuasion : 1’autre est
mechant SOCRATE 48 tur , (impetu alieno
potius feratur , smo judicio) dura ac brevi cervice, simus, nigri
coloris, glaucis oculis, suffusus san- guine, petulantia contumeliaque
gau- dens, hirsutus circa aures, surdus, fla- gello ac stimulis vix
tandem concedens. Operet ? pretium videtur mali equi notas etiam
Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu; eixrj a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?,
xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?, aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);,
yAauxop.p.a“0?, oepat- [xo;, u6p ew; xal aXa^oveiac staTpo?, zept
coxa Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv [xdy.; UTEclXOJV
. r<S\ Apposui Graeca , ut facilius judi- cari possit ,
probabilisne sit conjectura, in quam incidi , dum in hac equi mali
de- scriptione versor. Nempe, aut vehemen- ter fallor, aut memorat
hic Socrates non tam equi mali proprie dicti signa, quam sui
corporis formam, quatenus vitiosum inde ingenium colligebat
physiognomon ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci- ceronem (de
Fato c. 5), Stupidum esse Socratem dixit et bardum, — addidit
et s’emporte facilement, sans raison au- cune (c 7 est-a-dire
qu’il semble dirige plu- tot par une force exterieure que par son
propre jugement); il a 1’encolure courte et dure, les naseaux apiatis a
la maniere du singe, le poil noir, les yeux glauques le sang le
tourmente et il est toujours en rut et en querelles ; il a, de plus,
les oreilles velues, il est insensible a tout et n 7 obeit qu’a
peine au fouet et a 1’aiguil- lon. Il est necessaire de transcrire,
dans le texte Grec, ces marques particulieres du mauvais
cheval. 18. J’ai cite le texte afin qu’on puisse decider si
la conjecture que me suggere cette description du cheval retif a
quel- que vraisemblance. Ou je me trompe fort, ou Socrate ici
retrace moins les ca- racteres d 7 un cheval defectueux que son
propre portrait, dans lequel le physio- nomiste Zopyre trouvait les
indices d’un naturel vicieux. Zopyre, au dire de Ciceron (Du Destin
, chap. v) pretendait en effet que Socrate etait lourd et stu~
etiam mulierosum. Illud de stupore con- venire cum Homzne
xpaTepau/7)v et (3payuxpa- mox declarabitur : quod muliero- sum
dicebat, illud cum G6psa Ixatpop con- gruit : novimus enim quos uSp-.sxa;
tum dixerit Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd- aw-ov plane
pertinet ad notationem Socra- tis, in quo cum deridetur a Critobulo
(2), tum ipse suaviter sibi illudit, et in eo patulisque non modo
deorsum sed in hori- qontem naribus, non minus quam in ocu- lis
ultra frontem eminentibus, et labio- (1) Unum ponamus exemplum e
libello, quipree manu est, Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18
1, E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs; papuxovov, OSpiaxa^. Ava- tpspexat £~1
xoj; ovoj;. Physiognomones e simili- tudine vocis asinina: argumentum
ducunt ad libi- dinem asininam. Conf. § 14, it. 32 . (2)
Xenoph. Sympos. c. 4, § /p, Socrates ad Critobulum, formee sua:
jactatorem, x; xoDxo ; w? yap /a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa
v.oxt.xCv.c,, Quid istuc? quasi me quoque pulchrior esses, ita
gloriaris. Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov SsiX7jvwv xmv
sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for- mosior essem, ait, essem
Sileuorum, qui in Satyri- cis fabulis in scenam veniunt,
turpissimus. pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai- sirs
veneriens. Pource qui est dela lour- deur, cela concorde avec
1’encolure courte et dure ; adonne anx plaisirs ve- neriens, repond
a &'6peto; ItaTpo;. Nous savons, en effet, quels etaient ceux que
les Grecs appelaient uSpiatat' (i). Quant a la face simiesque, cette
designation s’ap- plique parfaitement au portrait de So- crate ; il
y a fait lui-meme agreablement allusion en repondant aux moqueries
de Critobule ( 2 ). Il avoue que toute sa beaute consiste en un nez
epate et me- nafant le ciel, en des yeux saillants et (1)
Contentons-nous d’un seul exemple tird du livre que nous avons sous la
main , le De Physiognomia , d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et
grave sont &6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que la
voix £tait bruyante comme celle de l’ane, les phy- sionomistes conci
uaient qu’on devait avoir le tempe- rament lascif de cet animal.
(2) Xenophon (Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il Critobule, qui
vante sa propre beautd : « Quoi donc ? Tu crois etre plus beau que moi ?
» Critobule lui repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je
serais le plus affreux de ces Silenes que Von voit paraitre dans
les drames salyriques. » rum tumore molli , pulchritudinem suam
prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut in Platonis Convivio (vid. §. 35)
Sileni s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit : et in Tlieceteti
Platonici principio Theo- dorus negat pulchrum esse Thecetetum, cum
sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat to s£w twv o[j.[j.aTtov, naso
simo et eminen- tibus oculis, licet minus quam Socrates utraque re
sit notabilis. Nempe hcec si- gna cum haberentur, et naturales
quae- dam notce, hominis libidinosi, iracundi et stupidi, non
negabat illud Socrates, verum eo majoris faciendam esse Philo-
sophiam ostendebat, quee tantum contra vitiosam naturam valeret.
iy. Quoniam hic sumus, non injucun- dum forte fuerit lectoribus
nostris in rem quasi preesentem ire, et ex artis, qualis tum erat,
praeceptis, Zopyri judi- cium defendere. Vix autem opus est
admoneri lectores, non hoc agi, Num veri aliquid sit in ea arte? Num
ipso des levres gonflees comme un abces ; de meme dans le
Banquet de Platon, Alci- biade compare son masque a celui de Silene
ou d’un satyre, et au commence- ment du Theatdte , l’un des
interlocu- teurs, Theodore, refuse toute grace a Theatete en disant
qu’il ressemble a So- crate, qu’il est camard et que les yeux lui
sortent de la tete ; que pour etre chez lui moins apparents que chez le
maitre, ces defauts n’ensontpas moins sensibles. Socrate ne niait
pas d’ailleurs que ces particularites physiques n’indiquassent un
homme lascif, violent et d’un esprit paresseux ; il en concluait
seulement en faveur de la Philosophie qui parvient a dompter un si
vicieux naturel. 19. Pendant que nous y sommes, il ne
deplaira peut-etre pas au lecteur d’aller plus au fond sur ce chapitre et
de de- fendre les idees de Zopyre, idees basees sur des regles alors
acceptees. Il nes’agit pas de savoir si cette Science est sure ;
est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate etiam Socratis exemplo ea
refellatur, et vanitatis convincatur? sed hoc modo , quod dixi,
Utrum Zopyrus ex arte, et ut oportebat, judicium de illo tulerit?
Exstat in operibus Aristotelis libellus, <J>uaioyvoj[juxa
inscriptus, quo superiorum hujus artis consultorum collegisse prae-
cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam Socratis, qua ? ad equi hujus
mythici na- turam pertinent , huc transferamus. 2 0 . Igitur
(c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai- c07j- ou hoc est stupidi , et sensu
communi pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a aap'/.oj07)
7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va, Ea quas adjacent collo
carnosa, com- plexa et colligata, itemque cervix crassa, XGxytjkoq
-ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi? Ta "£p\ ta; xXeTBoc;
aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv, avodaQiyroL. Nonne totidem fere
verbis Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse Socratem, et bardum quod
jugula con- cava non haberet, obstructas eas partes et obturatas.
Alia adhuc mala signifeat ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc
xai ne temoigne pas du contraire ? Mais Zopyre en a-t-il
tire, en ce qui concerne notre Philosophe, un pronostic judi- cieux
? II y a dans les oeuvres d’Aristote un opuscule intitule Physionomiques
ou ce philosophe parait avoir recueilli les regles admises avant
lui par les habiles. Nous transcrirons celles qui se rappor- tent
au portrait de Socrate et au carac- tere de son cheval mythique.
20. D ? apres Aristote (chap. m), les in- dices d’un esprit lourd
et presque prive du sens commun sont le gonflement des chairs qui
avoisinent le cou, leur engor- gement et leur replelion- ce qu’il
con- firme en disant au chapitre vi : « C’cst un signe de betise
que d’ avoir 1 ’cncolure epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex-
prime-t-il pas la meme idee? Socrate, dit-il, etait lourd et stupide,
parce quii navait pas le cou bien degage, que ces parties etaient
cheq lui comme engorgees et obstruees. Cette conformation indi- que
cncore bien d’autrcs dcfauts : la 56 SOCRATE
TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s, Crassa et plena cervix iracundos
signat, exemplo taurorum : Ol? 8s [Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis
nimium quibus est, ii sunt homines insidiosi, lu- porum instar.
Talem modo vidimus illum malum equum, xpaxepauyeva et [Bpa-
yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat Socrates, aut potius talem
significat Plato Socratem, a natura fuisse. 21. Videamus
reliqua. Equus malus Socratis est — sp\ xa wxa ).asto;, hirsutus
circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174,
C) o t xpdxoupot oaa$T?, densa pilis i. e. hirsuta tempora. Deinde
(c. 6. p. 1174, C) oi xa yecXrj “aysa eyovxe; puopoi — avacpdpexai
£7ii xou; ovou;. Physiognomones crassa labia stultitiae
characterem faciunt, ob simili- tudinem asinorum. Quid de se
Socrates (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum pulchro Critobulo
contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv xa ylCkt], oux otst xa\ [xaXaxaSxspdv
oou 'iyv.v xo csfX7]p.a; Propter labia crassa suum putat osculum
mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov et l’amour grec 5 7
nuque epaisse et charnue denote un homme violent, par similitudo
avec le taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont ruses, par
similitude avec le loup. Or, cette indication, 1’encolure epaisse
et courte, figure parmi les marques du mauvais cheval. Si je ne me
trompe Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte, ou plutot c’est
ainsi que le depeint Platon. 21 . Voyons le reste. Le mauvais
che- val Socratique a les oreilles velues : Aris- tote designe
comme libertins ceux qui ont du poil jusques sur les tempes. De
plus, les physionomistes notent les grosses levres comme un indice de
betise, par similitude avec 1’ane. Or que lisons- nons dans la
plaisante discussion (Xeno- phon, 1 ) de Socrate avec Critobule? —
« A cause de ses l&vres charnues il pense que son baiser est plus
sensuel », et plus loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule, une
bouche plus difforme que celle de Vane, avec ces bourrelets qui me
tienncnt lieu de levres. » aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov
to GTOu.a lysiv, turpius os quam habent asini illum mollem labiorum
tumorem habere tibi, o Critobule , videor. 22 . Simus fuit,
ut vidimus, Socrates : at|jio-po'ato7:o; est malus equus. Quid Phy-
siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.)
01 G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor avacpspezai i~\ tou; iXa^ou;, Simi
sunt libidinosi, exemplo cervorum. Patulas quoque versus nares suas,
qu£e possint odores undecunque oblatos excipere, laudat sipojv
Socrates Xenophonteus , pra ? Critobuli naribus humo obversis. Ot
;xev yao ao\ (xuxT7jpE; ei; yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat,
wgte tx; T:av~o0£v oGua; izpoa ov/yOou. At Physio- gnomones ( I .
C.), 0:; o! p.uxT7jp£$ ava"E^"a- pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi
sunt, quorum patula? nares, quod in ira diffundi so- lent.
Iracundum valde a natura fuisse Socratem, non soli credamus Cy r
rillo, quamvis Porphyrium auctorem laudat , qui ab Aristoxeno se
illud dicat acce - Socrate, nous le savons, etait ca- mard ;
son mauvais cheval a les naseaux ecrases du singe. Quel indice en
tirent les physionomistes et Zopyre ? Aristote dit : « Les camards
sont lascifs, par simi - litude avec le cerf ». Socrate declare quii
a les narines lar gement ouvertes , comme pour subodorer de toutes
parts les parfums. Jaime mieux cela, dit-il, que d’avoir, comme
Critobule , un ne^ penche vers le sol. Mais d’apres les phy-
sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera- ment porte a la colere. Que
Socrate ait etedun naturel violent, nous ne nous en rapporterons
pas la-dessus seulement a Saint Cyrille, quoique son temoignage
soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A- ristoxene et qu’il dise en
propres termes : « Socrate etait devenu si irritable qu’il ne
pouvait moderer ni ses paroles ni ses pisse, ’'Ote
<pXe-/0e't7] utzo zou TrdOou; toutou [de ira sermo est) ostvrjv etvat
xr ( v aayr][jLO(Hjvr)v • ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe
-payjj.ato;, Eo importunitatis progressum , ut nullo neque verbo neque
opere absti- neret : sed ipsi de se credamus Socrati, qui tam gravi
ac molesto sibi, quam fuit Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis
gymnasio opus fuisse, fassus sit apud Xenophontem [Sympos. 2, 10 )
BouXo'|ievo;, dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv
x&ttj- ptat, sii eloco;, oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS
TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic auveaouat, Quam ferre si posset,
facilis esset cum aliis omnibus conversatio. 23 . Unum
superest : e^^OaXpto; erat Socrates. Itaque ita jocabundus disputat
cum pulchro Critobulo, ut cum primo convenisset, Pulchras esse res ,
quatenus respondeant consilio, propter quod ha- bentur ; roget eum
, Cujus rei gratia ha- beamus oculos? eoque, ut necesse erat ,
respondente, Ad videndum, inferat , Suos ergo pulchriores esse, qui Sta
zo actions ». Croyons-en Socrate lui-meme; dans le Banquet de
Xenophon , il avoue que le caractere acariatre de Xanthippe fut
pour lui la meilleure ecole de pa- tience et de douceur; que par la suite
il lui fut plus facile de supporter la con- tradici ion.
23 . Il ne reste plus qu’une chose : So- crate avait les yeux
saillants. Il dispute la-dessus agreablement avee le beau Cri-
tobule, et le fait convenir d’abord que toute chose est belle pourvu
qu’elle re- ponde au but en vue duquel elle existe. Il lui demande
alors : Pourquoi faire avons-nous des yeux ? — Pour voir, re- pond
naturellement Critobule. — E/i bien alors , dit Socrate, mes yeux sont
les plus beaux de tous, car iis me sortent de la £7it-oXatot
sivat, quod emineant, non ea modo, quas exadversum sint videant,
sed etiam quae a latere. Et cum diceretur , secundum hmc
pulcherrime oculatum (euo^OaXjj-GTa-ov : ) animal esse cancrum, id
ipsum affirmat. Jam Physiognomon Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D)
"Oaoi i£6z>- OaXjjiot, inquit , aS&vepoi, Fatui sunt,
quibus oculi eminent : rationem petit ab judicio quodam decoris et
convenientia ■ naturali , et ab similitudine asinorum. Male de
horum gente meritus est Stagirita : quce videtur ex hoc prcesertim
libello contraxisse infamiam illam , qua ab eo inde tempore, et
Platonis quibusdam dictis, onerata est : honestum superiori cetate
animal, cujus majestatem, ut Var- roniano verbo utamur, (de R. R. 2, 5,
4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac re adjicietur potius huic
disputationi quoddam corollarium, quam ut longius digrediamur a
Socrate. tete, si bien que je puis voir non-seule- ment
devant moi, mais & droite et d gaiiche. Son interlocuteur lui
repond qu’a ce compte les crabes ont de tres- beaux yeux, et
Socrate affirme que c’est parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote,
les yeux saillants sont 1’indice de la sot- tise; il tire ce pronostic de
certains rap- ports naturels de convenance, de syme- trie, et de la
ressemblance que ces yeux offrent avec ceux des anes. Le philosophe
de Stagyre a par la bien mal merite de cette race inoffensive, et ce doit
etre a partir de ce petit traite qu’il acquit le mauvais renoni
confirme depuis par Platon lui-meme. L’ane, cet honnete animal,
etait mieux apprecie des genera- tions precedentes, et Homere se
plaisait, suivant le mot de Varron, a lui recon- naitre de la
majeste. Nous ferons de cela un corollaire a cette dissertation pour
ne pas trop nous eloigner presentement de Socrate (i).
(i) Gesner a «Jcrit un appendice intitulc De antiqua Nempe tempus est, ut
videamus, quorsum evadat ille de bono et malo equo Myihus. Ad
conspectum pulchri (p. 34 j, F) bonus ille quidem aurigee
obsequitur, contineri se patitur, malo alteri , quantum potest
reluctatur. Simile certamen est in pulchro, qui amatur : repugnat
malo isti equo bonus illius jugalis, hic enim est (p. 348 , G) 6
[xo'£u£, et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous xat Xdyou, cum
pudore et recta ratione. Si ergo ita vincant meliora, et ad vitam
ordinatam, quae eadem philosophia est, ducant illum currum, beatam et
concor- dem hic vitam agunt continentes se, et decus suum tuentes,
syxpatcTs auroiv xat xdajjuot ovtss, in servitutem redacto illo
equo, cui vitiositas animae inerat; in li- bertatem asserto eo, cui
virtus. Tandem vero alati ac leves denuo facti, sic de tri- bus
illis certaminibus (de quibus §. 12) asinorum honestate, imprime i
la suite du Socrates sanctus pcederasta ; il ne nous a pas sembl£
otfrir assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-
teur.) II est temps de voir ou il veut en venir avec son Mythe du
bon et du mau- vais cheval. A Taspect de la beaute, ie coursier
docile obeit au cocher et se laisse contenir; il resiste de toutes ses
forces a son mauvais compagnon. L/objet aime est lui-meme en proie
aunesemblablelutte ; son bon cheval se defend contre les ten-
tatives de son mauvais compagnon d’at- telage, que de plus le cocher
s’efforce de contenir par la pudeur et la raison. Si les meilleurs
instincts remportent la victoire et conduisent le char dans les chemins
de la vie rangee, cest-d-dire de la philoso- phie, les deux amant s
vivent dans le bon- heur et bunion, maitres d’ eux-memes et regles
dans leurs mceurs : iis ont dompte le mauvais cheval, qui repre-
sente le vice, et affranchi 1’autre qui re- presente la vertu. Recouvrant
enfin leurs t ailes et leur legbrete primitives , iis sor- tent
vainqueurs de ces trois luttes vrai- ment Olympiques dont nous avons
parle plus haut. Socrate peut donc dire*sans hesitation que ccux
qui se prescrvcnt. vere Olympicis, unum vicerunt. Absque
hcesitatione igitur beatissimos esse dicit, qui se puros et castos ab
amore Venereo servaverint. 25. At nunc sequitur apud
Platonem, in quo defendere illum , Platonem, in- quam, nam Socratis
causam hic segre- gandum putamus (vid. 6) paullo diffi- cilius est;
tacuisset enim forte sapientius : sed non iniquum (i) excusare.
Nempe his, quee modo prolata sunt, subjungit, quee non scripta
equidem malim : sed pono, ne quid dissimulasse videar, ne parum
bona fide egisse. Quam vero caute, quam suspensa velut manu illud
ulcus tractet, videre opera? pretium est. Eav’ os 8tatT7)
<popzi7Ui)~ipx ~z xat A<I>IAO— cptXoTtjxu) 8s yprfacjvzx'., -i/'
av ~oj ev uiOat; sitivi a)xA7) dasXsta Tci> axoXaTCto ajTOtv
Gno- JXiytco XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j; aovaya- yovTE et;
toeutov, tf ( v u ~6 :wv -oXX oiv [xaxaot- fi) Multum certe
facilior causa Platonis, quam alicujus Beneventani Episcopi : aut
aliorum, quos vrxterco sciens. purs et chastes, de 1’amour
Venerien, jouissent de la plus grande beatitude. 25. Ce qui
suit, chez Platon, est un peu plus difficile a expliquer; chez Pla-
ton, disons-nous, car ici nous croyons devoir separer sa cause de celle
de So- crate; evidemment il aurait mieux fait de se taire , mais il
n’cst pas impossible de l’excuser (i). A ces choses sublimes que
nous venons de transcrire, il en ajoute d’autres que j’aimerais mieux
lui voir passer sous silence; je les exposerai cependant, de peur
de paraitre rien dissi- muler et manquer un peu de bonne foi. Il
faut ici donner le texte pour qu’on ( 1 ) Son cas est en effet
moins grave que celui de certain eveque de Bdnevent et de quelques autres
que je ne veux pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion a
1’archeveque Giovanni .delia Casa et a son fameux Capitolo dei forno ;
mais il ne 1’avait probablement pas lu, et il se meprend, comme bien
d’autres, surle sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc-
te ur.) 68 SOCRATE cTr;v atpeotv £tXcTr
( v ~t /ai Ste^pa^avxo x x X. Si vero vitam vivant LICENTIOREM et A
PHILOSOPHIA ALIENAM, ean- demque ambitiosam, forte aliqua in
ebrietate aut qua alia negligentia depre- hensas INCAUTAS animas equi
illi uiriusque amatoris indomiti, eodem con- ducant, et sic illam
quce beata vulgo vi- detur electionem faciant, et (turpe illud
facimts) peragant : eoque peracto per re- liquum tempus utantur quidem
(illa voluptate ) sed raro, quippe qui non omnino deliberata mente
(sed deprehensi velut incauti ) hoc agant — etiam hi praemium non
parvum amatorii illius furoris (non Venerei, de quo modo dic- tum,
sed philosophi , de quo §. i3) aufe- runt : in tenebras enim illas et
illud sub terram iter non veniunt, etc. voie avec quelle prudence
et sans ap- puyer la main, il decouvre cet ulcere de la
civilisation Grecque. — « S’ils embr as- sent , dit-il, nn genre de vie
moins austdre, etrangbre a la Philosophie et livree aux passions
desordonnees , il arrivera quau milieu de Vivresse ou de quelque
autre etourderie les coursiers indomptes sur- prendront leurs ames
et les meneront l’un et l’ autre au meme but,' iis prendront alors
le parti de faire ce en quoi , selon le vul- gaire , consiste le supreme
bonheur et (c’est la le crime infame) satisferont leurs desirs.
Dans la suite , iis renouvelleront leurs jouissances , mais rarement,
parce qxCelles ne sont pas approuvdes de l’dme entiSre et qu’ils
agissent comme par sur- prise et sans defense. C’est pourquoi ce
qu’il y a encore d’excellent dans leur amour (le pur amour pliilosophique
et non le desir Venerien) recevra plus tard sa recompcnse ; iis
niront pas, aprds leur mort, dans ces tenebres et par ces routcs
souterraines,.., etc. » yo Apertum est his, qui et
sermonem Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt crimina, non
illum prcemium constituere pceder astice turpi, non Philosophice
genus facere flagitiosum puerorum amorem : sed summam c.ulpce esse
hanc , quod di- cat, si qui coelestis illius pulchritudinis, quam
in volatu illo suo viderint, deside- rio icti, etiam pulchros amant, et
dum arctius eos complectantur, liberius cum iis versentur, etiam ad
turpe facinus ab ebrietate, certe ex improviso, incauti, proster
deliberatam voluntatem, abri- piantur, id quod ipsis contingat ob
genus vivendi licentius atque a Philosophia alie- num, iis tamen
prodesse primum illud7'io- biliusque philosophandi propositum, ut
non cum reliquis ad inferos mittantur, et ad poenarum locum (vid. §. 12)
non cogantur post ternas millenorum anno- rum periodos , septem
alias subire ete sed facilius alas ut recipiant, quibus evo- lare
ad coelestia, deum aliquem sequi du- cem possint. Hactenus reprehendat
Pla- tonem, si quis volet, non ut laudatorem et l’amour grec
7 1 26. II est bien clair, pour qui veut comprendre Platon et
ne cherche pas de griefs de son plein gre, qu J il n’assigne pas
cette recompense aux fauteurs du vice honteux, qu’il ne fait pas de
1’igno- minieux amour masculin un attribut special des Philosophes.
On voit, au con- traire, combicn il blame ceux qui, les yeux encore
eblouis de cette beaute ce- leste entrevue par eux dans leur vol
an- terieur, con^oivent des desirs pour la beaute terrestre,
recherchent les jeunes garcons, et a force de les embrasser etroi-
tement, devivre familierement avec eux, se trouvent entraines a 1
’improviste, au milieu de livresse, par surprise et sans que leur
volonte y ait part, a conimettre l’acte immonde; cela leur arrive,
parce qu’ils ont adopte un genre de vie trop libre et qu’ils
negligent la Philosophie. Iis tirent cependant ce profit, de s’etre
d’abord propose pour but cette noble Science, qu’ils ne sont pas relegues
aux enfers avec tous les autres hommes ; apres une revolution de
trois mille annees, iis Pcederastice, sed ut clementem nimis ,
lentumque adeo castigatorem : qui prae- sertim in aliis peccatis severum
satis ac durum se praebuerit (1 ). 27 . Sed , si cequi esse
volumus, si de nostris religionum doctoribus ecquos ex- periri
judices, videamus etiam , quid dici pro ratione illa Platonis possit ,
quid pro Socrate, quatenus et ipse non horribili flagello sectari
vitia id genus solebat. Distinguamus legislatoris personam et Philosophi.
Legibus Atheniensium primo antiquissimis illis a Cecrope ,
sanctitas (1) Bona pars libri De re publica decimi in eo
consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?, implacabiles
sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras. a p. 6 72 extr. et conf. qua:
collegit Davis. ad Gic. de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j
n’ont pas a en su.bir sept mille autres; iis recouvrent plus
vite leurs ailes et peu- vent s’elancer vers les spheres celestes,
a la suite d’un des douze dieux. Que l’on reproche donc a Platon,
si l’on veut, non pas de s’etre fait 1’apologiste de la Pede-
rastie, mais d’avoir ete trop clement, de ne pas chatier assez ferme, lui
surtout qui pour de moindres fautes se montre si dur et si severe
(i), 27. Mais soyons equitables; prenons d’honnetes gens pour
juges de nos Phi- losophes, voyons ce que l’on peut dire en faveur
de Platon ou de Socrate, et jusqu’a quel point ce dernier a
vraiment neglige de flageller le vice en question. II faut
distinguer le legislateur du Phi- losophe. Les plus anciennes lois
Athe- niennes, celles de Cecrops, proclamaient la saintete du
mariage. La loi de Dracon ( 1 ) II emploie la majeure partie du X®
livre de sa Republique a montrer que les dieux sont insatiables de
sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies sur le Tr ciite des
lois , de Cicerrr.i. matrimoniorum constituta : Draconis lex
capite plectebat adulteros : Solon li- beram faciebat marito potestatem
sta- tuendi in adulterum in facto deprehen- sum , quidquid liberet.
Itaque mirum fuerit si masculam libidinem non punis- sent.
28. Sed bene habet : supersunt monu- menta Solonis hac etiam de re
legum, diligenter collecta a Sam. Petito (de Le- gibus Att. 6, 5 et
in Commentario p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in Timarchum (a
p. 186 edit. Aurei. Al- lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra
Androtionem (a p. 421) orationibus : unde hoc constat, qui vi vel
persuasione ingenuum corrupisset, produxissetve, gravissima poena
(quce ad ultimum sup- plicium corruptoris et productoris, in-
terdum etiam corrupti, poterat progre- di) affectum esse. Qui illam
patiendi pro mercede turpitudinem admisisset, si effugisset poenam
aliam, illi neque lice- bat inter novem Archontas esse,
neque punissait de mort les adulteres; Solon laissait la faculte au
mari, dans le cas de flagrant delit, de se faire justice comme il
1’entendrait. II serait bien surprenant que ces deux legislateurs fussent
muets a l’egard de Tamour masculin. 28. Mais nous avons
mieux ; il reste des lois portees par Solon sur la matiere divers
fragments precieusement recueillis par Samuel Petit (voy. ses Lois
attiques et le Commentaire dont il a accompagne cet ouvrage); ii
les a surtout tires du Discours contre Timarque, d’Eschine, et du
Discours contre Androtion, de Demos- thene. Il y est dit : Quiconque,
memesans violence, aura debauche ou prostitue un homme de condition
libre sera passible de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-
timent pouvait etre la mort, dans l’un comme dans Tautre cas, et pour le
liber- tin, comme pour savictime.) — C elui qui se sera prostitue
pour de l’argent, s’il echappe a toute autre peine, ne pourra
ni fungi sacerdotio, neque syndicum creari, neque ullum magistratum
vel intra vel extra urbem, neque sortito neque suf- fragiis,
capere, neque pro Praecone s. oratore mitti usquam, neque
sententiam dicere unquam, neque in templa publica intrare, neque in
pompa coronata et ip- sum coronari, neque intra sacros fori
cancellos (evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]- P’'wv) ingredi. Si quis
vero damnatus im- pudicitiae quidquam horum fecisset, ca- pital
erat. 0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba legis ab As schine recitata.
Plura huc transferri opus non est , cum rarum esse Petiti opus desierit.
Summa capita habet etiam in Themide Attica ( 1 , 6) Meur-
sius. 2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le- ges? annon eas
perruperit interdum au- etre l’un des neu f archontes , ni remplir
aucune fonction sacerdotale , ni etre nomme delegue d’une ville ; il lui
est interdii d’exercer aucune magistrature, soit en dedans , soit
en dehors de la cite , quii ait et e designe par le sort ou par les
suffrages de ses concitoyens ; d’etre en- voyd nulle part comme Herault,
ou comme orateur ; de prononcer aucune sentence ; de penetrer dans
les temples publics; de faire partie des processions et d’y porter
une couronne sur la tetc; de franchir ienceinte sacree de l’Agora.
Qiiiconque, deja condamne pour fait de prostitutiori , fera ou
acceptera de faire une de ces choses sera puni de mort. Puni de
mort, tel est le texte meme de la loi lue par Eschine. II est
inutile d’en transcrire ici davantage, car Touvrage de Samuel Petit
est loin d’etre rare ; Meursius en a meme donne, dans sa Themis Attique,
les cha- pitres importants. 29. Ces prescriptions
eurent-elles tou- jours force de loi? Ne purent-elles etre dacia ,
astus subterfugerit , eluserint rhetores? annon ipsa poenarum
gravitas impunitati occasionem non nunquam de- derit? an non
professce impudicitiae ho- minis utriusque sexus, libidinum
publica- rum victimce, toleratce sint? An denique poetce non multa
saepe impudenter scrip- serint, fecerint? jam non quceritur. Uti-
nam non avxtxatrjyopia quadam repellere possent veteres Attici cujuscunque
vel sec- tae vel cetatis homines, si qui acerbius ex- probrare iis
velint, quce de Comicorum pe- tulantia sublegerunt illi apud
Athenaeum (i3, 8 p. 601 ) Deipnosophistce, et quae colligere ex
illa parentum cura apud Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda- gogos
constituentium suis filiis, qui ne quidem colloqui suis cum
amatoribus (turpibus nimirum et flagitiosis) eos pa- tiantur : e.
i. g. a. 3o. Ceterum severitate legum eo ma- gis opus erat,
quod obtentum fiagitiis et l’amour grec 79 enfreintes
par les audacicux, adroitemcnt tournees par les gens ruses, eludees
par les avocats ? La rigueur du chatiment ne favorisa-t-elle pas
elle-meme Timpunite ? Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues de
profession, victimes de 1’incontinence publique et remplissant le role de
l’un et 1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef- frontement
deerit ces turpitudes, ne les ont-ils pas mises en action sur la scene
? Cela ne fait aucun doute. Plut au ciel que les Atheniens de
nfimporte quelle secte et de quelle epoque ne pussent re- tourner
Taccusation a ceux qui leur re- procheraient trop vertement ces
horreurs etalees par les poetes comiques et recueil- lies par les
Deipnosophistes d’Athenee, ou ce qu’on peut induire de 1’inquietude
des peres de famille confiant leurs fils, d’apres Platon, a des
precepteurs severes, pour les empecher de s’entretenir avec leurs
amis, — des amis infames et detestables. 3o. Les lois devaient etre
d’autant plus severes, que les coutumes de la Grece 8o
SOCRATE non nunquam praeberet (ut nempe res sancta ?
prope omnes , ut ipsce populorum sceculorumque pene omnium religiones
, atque ceremonice) ille puerorum amor , castus , legitimus,
sanctus, quo tanquam potentissimo virtutis cum bellicce tum civilis
incitamento utebantur qucedam Grcecorum respublicce : quarum
legisla- tores, cum viderent, ignava fere esse virtutis prcecepta,
firmis licet nixa de- monstrationibus, nisi ea affectu quodam et
tanquam spiritu animentur, nisi ev0ou- aiaajxou quoddam genus accedat,
quo acti homines et commoda sua , et jacturas, et salutem, et
pericula et tormenta contem- nerent. Hinc excogitata et in usum
civitatis recepta sunt splendida ista et efficacissima remedia, Religio,
Pudor, Amor patrice, Gloria, res quondam po- tentissimce, quod ex
illarum effectibus judicare pronum est: nunc prceclara quo- rundam,
qui sibi Philosophi videntur, opera fere ad inanium vocabulorum
stre- pitus relata, et, dum relata sunt, etiam redacta. comme
toutes les choses saintes, comme les cultes et les ceremonies religieuses
de presque tous les peuples et de tous les temps) donnaient plus de
facilite a la depravation. La fervente amitie entre jeunes gens,
Tamitie chaste, legitime, sa- cree, etait favorisee, dans les
republiques de la Grece, comme le plus energique stimulant du
courage militaire et des ver- tus civiles. Leurs legislateurs
savaient bien que ni la vertu ni le courage ne s'in- culquent a
1’aide de demonstrations, si bonnes qu’elles soient ; que 1’homme
est naturellement faible a moins qu’il ne soit pousse par la
passion et par 1’orgueil ou entraine par cette espece
d’enthousiasme qui lui fait mepriser les aises de la vie, la
fortune, la vie elle-meme, et affronter les perils et les supplices.
C’est pourquoi l’on mettait en jeu, dans Torganisme de la cite, ces
heroiques et sublimes mobiles, la Re- ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la
patrie, la Gloire, mobiles autrefois bien puis- sants, comme nous
pouvonsen juger par ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,In illis
igitur rei publicce bene ge- renda? incitamentis, an instrumentis?
erat Amor ille adolescentulorum tum in- ter se, tum inter ipsos et natu
majores : inde illa sacra Amantium cohors The- bis, et Cretensium.
Quanta illius vis esset, et quam metuendus esset miles amator,
svOouatwv, et ab Amore simul atque a Marte bacchans, occurenti in
prcelio hosti, ita enarrat 2E liantis (H. V. 3 , g) ut IvOo-jatav et
furere ipse prope videatur. Idem (c. io et 12) Laconica qucedam
circa eam disciplina? publica? partem instituta commemorat : V. G.
ab illis multatum esse virum alioquin bonum, ea de causa , quod nullum
ha- bere juniorem, quem amando sui si- milem, et per hunc forte
etiam alios, redderet : itemque peccantis adoles- centuli virum
amatorem punitum , cui grace a de certains Philosophes, ou soi-
disant tels, ces grandes choses ne sont plus que de vains mots, creux et
vides, dont le sens s’affaiblit a mesure qu’on en abuse. 3 1
. Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit entre eux-raemes, soit entre eux
et leurs ames , etait favorise partout en Grece , pour le bien de
la chose publique ; voila ce qui donna naissance a la cohorte sa-
cree des Amants , chez les Thebains et chez les Cretois. Quel etait le
courage de ces sortes de soldats, quelle etait la ter- reur qu’ils
inspiraient, lorsqu’ils rencon- traient Tennemi, ivres a la fois
d’amour et de sang : c’est ce que Elien nous a fait connaitre, en
partageant, pour nous les mieux depeindre, leur impetuosite et leur
fureur. II nous indique aussi qu’il y avait quelque chose de semblable
dans les institutions de Sparte ; un Lacede- monien fut mis a
1’amende , quoique excellent citoyen, pour avoir neglige d’ai- mer
quelque compagnon plus jeune que lui, a qui il aurait inculque ses vertus
et nempe illius imputari vitia posse cen serent. 32 .
Etiam illud Laconicum narrat , so- litos ibi adolescentulos petere ab
ama- toribus , viris nempe bonis ac fortibus , stareveTv auTot ?,
ut se adflarent. Interpreta- tur illud verbum , Laconibus proprium,
sElianus per epav, amare : idem factum ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et
epa, eia7cver. Multa similia ad utrumque Hesychii locum viri docti
, post Meursium (Mis- cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-
pellationis queat intelligi. Nec satisfacit, quod refert, non probat
Eustathius (ad Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478 p. 240, 38 )
EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^? ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid
fornice et pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se- veritati parum
conveniunt, si fides anti- quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo,
de quo agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata- qui eut ete capable, a son
tour, de les transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune homme commettait
une faute, les Spar- tiates punissaientson intime ami, comme
responsable des vices qu’il lui tolerait. / 32.
Elien rapporte encore cette autre coutume de Sparte, que les jeunes
gens exigeaient de ceux dont iis etaient aimes, toujours choisis
parmi les meilleurs et les plus braves, ut se adflarent. II
explique le verbe ekjttvs Tv ( adflare ), propre aux La- coniens,
par cet autre : spav (aimer), et He- sychius de meme aux mots EpjcvEtgou,
ipS et eiu7iveT. Divers savants ont accueilli cette interpretation,
a 1’exemple de Meursius; mais je n’ai rien compris aux raisons
qu’ils en donnent. Je ne suis pas davan- tage satisfait de Tassertion
emise, sans preuve, par Eustathe, dans son commen- taire des chants
IV e et V e de YOdyssee : a Les inspires (i) sont guides dans leur
(i) On appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a- 7UvrjXa'
(inspires) ou spacjiat (amants) ces couples ypov oux otosv x. t. X.
Spartanus amor turpe nihil quidquam novit. Sive enim ausus fuerit
adolescentulus pati turpia (upo-v uzoaeivat) sive amator facere
(£»|Bp6 oat) neutri quidem Spartee manere pro- fuerit : aut enim
patria privarentur, aut vita ipsa. Quare illud ela-vetv s.
s[j.7ivsTv, illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat Eustathius
(Hesych. afcav, s-aTpov) ab in- spirando s. adspirando divino
quodam spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut
7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi- no quodam furore perciti
, ruerent. Hic est ille furor, quem supra i3) tetigi- mus, et de
quo plura sunt in Platonis Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).
Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an- tiqui, non rem illi tantum
cogitantem in- dicabant, sed rem subtilem, magna ean- dem movendi
et agendi vi praeditam, etc. de friires d’armes , si terribles dans
les batailles. 'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement
par meter les souffles ou metaphoriquement par avoir des aspirations
communes. ( Note du Tra- ducteur.) ET l’aMOUR GREC 87
choix par la beaute et 1’elegance corpo- relle. » Cela me parait
peu convenir a cette severite Laconienne dont temoi- gnent tous les
anciens et Elien lui-meme, a Tendroit en question : « On ignorait a
Sparte ce que detait que les impures amours. Si quelque jeune homme eut
ose se prostituer , ou prendre 1’autre role, il lui eut mal reussi
de rester d Sparte; il y allait pour lui de Vexilou de la mort. »
C’est ce qui me fait croire que ces inspires , designes aussi sous les
noms de compa- gnons, freres d’armes, par Eustathe et par
Hesychius, etaient ainsi appeles du souffle ou de Tesprit en quelque
sorte divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient sur l’ennemi
comme transportes d’une fureur plus qu’humaine. Nous avons deja
parle de cette espece de delire, dont il est si souvent question dans le
Phedre de Platon. Il convient en effet de remarquer que les anciens
n’entendaient pas comme nous par esprit une faculte intellectuelle,
mais une essence subtile, douee d’une grande forcc de mouvement et
d’action. Non vagatur hcec extra oleas ora- tio. Cum enim fuerit ,
quod, adhuc proba- tum est, in Grcecia r.aiozptxizv.a. quaedam
honestissima, et sancta adeo , qua ad virtu- tem, bellicam praesertim ,
et quidquid pul- chrum est, incitari homines crederentur, cum
nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou, itemque spwuivoy, -atot/.wv, et
similia tur- pitudinem nondum haberent : cum illud raiSspaaxsTv res
esset adeo honesta, ut quem ad modum capital Romae erat servo, si
militarat, ita Solonis lege multaretur quinquaginta plagis publice, qui
servus eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare liberum pue- rum, auderet :
haec ita se cum haberent omnia, nemo jam debet mirari, adoles-
centulorum esse amorem professum So- cratem, fecisse illum, quae ante (§.
i5) dicta sunt, eaque scripsisse tanquam So- cratis dicta Platonem,
quae ex Phaedro commemoravimus . Quod mitior est vel Plato, vel
ipse adeo Socrates, (si quis ei tribuat, non satis ille quidem aequa
ratio- ne, quidquid apud Platonem ex ipsius persona dictum ponitur)
in hos etiam quos Cette digression ne nous a pas eloigne de notre
sujet. Puisqu’il existait en Grece , comme nous venons de le
prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete , sainte, on peut dire, et
reputee propre a pousser les hommes au bien et a la vertu, surtout
a la vertu guerriere; puisque les mots d’amants, d’amis, de
7tad>epa<jTcu et de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;
puisqu’il etait meme si honorable de se livrer a cette zcaSspaardtix, que
la loi de Solon punissait de cinquante coups de fouet, subis en
pleine place publique, tout esclave qui aurait ose aimer un jeune
homme de condition libre; puisque tout cela est irrefutable, personne ne
doit s’e- tonner que Socrate ait professe 1’amour des j eunes gens,
qu’il ait lui-meme eprouve cet amour et agi en consequence; que
Platon nous ait transmis, comme l’ex- pression des doctrines de Socrate,
ce que nous avons cite du Phedre. Sans doute Platon ou, si l’on
veut, Socrate, quoiqu’il ne soit pas equitable de lui attribuer
tout ce que son disciple lui fait dire, se montre mala libido ad
turpitudinem transversos abripuit 25 . 26) illud primo hanc
rationem , ut innuimus , habuit , quod nec legislatorem hic, neque
publicum accusa- torem ageret ; sed Philosophum , sed amatorem,
amicum certe quidem, qui non metu pcence deterrere a turpitudine
homines, sed virtutis amore revocare a peccato vellet. Deinde erant
forte, quibus parcendum erat, juvenes a vitiis ejus- modi non plane
puri, Alcibiades , Critias , alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem
«popti- /Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid. §. 25 )
quos abscisse nimis ab omni fructu Philosophice, ab omni ad virtutem
reditu excludere velle, et sic plane a se et a virtute segregare,
non erat consilii. Non instituam hic comparationes, quce invi- diam
habere possunt : sed illud addam unum, si forte aliquid veri sit ineo,
quod de liberiori Socratis adolescentia dictum est /'§. 2) : si non
mendax historia , e qua refert Origenes contra Celsum , qui su-
periorem vitee conditionem primis Chris- ti discipulis objecerat (l. 1.
p. 5 o. pr.) beaucoup trop clement envers ceux qu’un infame
desir pousse a Tacte honteux. Son excuse, nous Tavons deja dit, c’est que
ce n’est pas ici un accusateur public ou un legislateur qui parle,
c’est un Philosophe, un ami, un amant, et il essaye non de
detourner les hommes du vice en les ef- frayant par la menaee des
chatiments, rnais de les dissuader d’une faute en leur inculquant
Tamour de la vertu. II y avait d’ailleurs peut-etre autour de lui
des jeunes gens qui n’etaient pas irreprocha- bles et envers
lesquels il ne fallait pas se montrertrop dur, un Alcibiade, un
Cri- tias, d’autres encore, pleins de fougue, adonnes a une
vielicencieuse et etrangere a la sagesse; les priver de
quelques-uns des benefices de la philosophie, c’eut ete leur fermer
toute voie de retour au bien, les eloigner de la personne du maitre
et par consequent de la vertu. Je ne cherche pas a faire des
comparaisons qui pour- raient sembler malseantes; je veux ce-
pendant rapporter un fait, vrai ou faux, qui a traita la jeunesse un tant
soit peu Phcedonem e lupanari traductum ad Philosophiam a Socrate :
quid facere illum oportebat in hac disputatione? 34. Nihil
igitur est in Phcedro , quod urgeat Socratem : si quid incautius
dic- tum sit , illa Platonis culpa fuerit : quam- quam si universam
circumstantiam , ut a nobis ostensa est , quis consideret , etiam
hunc accusare , vel non excusare, ini- quum videtur. De Convivio Platonis
jam non opus est multis disputare. Distin- guat mihi aliquis
personas loquentes : ad universam libelli descriptionem, quam
vocamus CEconomian, ad Allegorian denique ab amore Venereo ductam ,
ac translatam ad animos, quorum lenonem se et obstetricem ferebat
Socrates : ad hcec, inquam , mihi attendat aliquis, et et
l’amour grec q3 dereglee de Socrate. C'est Origene qui le
raconte dans son traite contre Celse. Celse reprochait aux premiers
disciples du Christ d’avoir ete tires de conditions abjectes;
Origene repondit que Socrate avait bien tire Phedon d’un mauvais
lieu pour le convertir a la Philosophie. J e vous demande un peu ce
que ce Phedon venait faire dans la discussion. 34. On ne
rencontre donc rien dans le Phedre qui puisse incriminer Socrate;
s’il y a ca et la quelques paroles imprudentes, c’est la faute de
Platon. Encore, si l’on examine bien toutes les circonstances,
comme nous 1’avons fait, il serait injuste, tout en blamant Platon, de ne
pas lui trouver d’excuse. Nous ne nous etendrons pas longuernent
sur son Banquet. Que l’on distingue bien les uns des autres les
interlocuteurs, que Fon fasse attention a 1’ensemble du dialogue, a ce
que nous appelons 1’economie de 1’ouvrage, que Fon analyse enfin
cette allegorie tirce de 1’amour physique, puis appliquee aux
mirabor, si quid ibi sit , unde Jiagitio ipsi praesidium, vel
crimini in Socratem jactato firmamentum peti possit. Sed est in
illo libro, quod maxime ad defenden- dum a Socrate fagitium pertinet,
quod ut magis pateat, tota ultimee partis, et velut actus postremi
fabulae illius convi- valis, CEconomia proponenda est, e qua ipsa
appareat, velle pro veris haberi Pla- tonem, qua ’ in Alcibiadis personam
con- jecta de Socrate dicuntur. 35. Ebrius nempe Alcibiades
ad eum finem, ut neque pedes officium faciant, comissator
supervenit potantibus apud Agathonem Socrati ceterisque. Hic, ex
lege compotationis , dextrum sibi accum- bentem Socratem laudare jussus,
obse- quitur cum professione ebrietatis, ut tamen (p. 332, G) vera
se dicturum con- firmet et redargui petat , si quid mentia- tur. Ac
primo sub imagine quadam lau- et i/amour grec 9 5
idees, dont Socrate se donnait comme l’entremetteur et Taccoucheur,
et je serai bien surpris si 1’on y decouvre quoi que ce soit en
faveur du vice infame ou a 1’appui de 1’accusation portee contre
So- crate. On pourra y puiser, au contraire, les meilleurs
arguments pour l’en defen- dre ; mais il est necessaire d’exposer
ici toute 1’ordonnance de la derniere partie, ou plutot du dernier
acte de ce dialogue, ou il est clair que Platon veut nous faire
tenir comme vrai ce qu’il a place, tou- chant Socrate, dans la bouche
d’Alci- biade. 35. Alcibiade arrive a la fin du festin
dans un tel etat d’ivresse que ses pieds refusent de le porter; il veut
prendre sa part de plaisir avec Socrate et les autres, en train de
boire chez Agathon. La, par suite d’une convention adoptee entre
les convives, il est force de faire 1’eloge de Socrate, assis a sa
droite, et demande de 1’indulgence, en se fondant sur ce qu’il est
ivre ; il affirme pourtant qu’il ne daturus Socratem , cum Sileno
aliquo (Conf. §. 18 J nominatim cum Satyro Marsya , tibicine ,
illum comparat, cujus figura, ex ligno, edolata ruditer atque
deformi, utebantur artifices pro theca, quce intus haberet pulcherrimum
aliquem Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet in corpore deformi
habitare animam pul- cherrimam demonstrat : et esse tibicini
Marsyce similem Socratem, ob illam vim demulcendi animos, cui resisti
non posset. 36. Deinde narrat, cum eundem pul- chrorum
sectatorem quendam ct capta- torem videret, se, qui fiduciam
fornice haberet, sperasse, si pellicere virum ad amorem sui
(venereum nempe) posset, eique se prceberet obsequiosum, impetra-
turum se ab illo admirabilem illam ar- tem, et ablaturum, quce Socrates
sciret, omnia. Hinc narrat verbis quidem ho- nestis modestisque ,
ct tamen venia ante dira que la verite et exige, s’il se trompe,
qu’on lui donne un dementi. II com- mence, pour louer Socrate, par le
com- parer a ces grossieres figures de bois representant Silene ou
le satyre Mar- t syas, le joueur de flute, sculptees sans travail
et sans art, dont les statuaires se servaient comme de gaines, et qui
rece- laient a 1’interieur quelque joli petit Mer- cure ; ainsi,
dit-il, dans un corps difforme peut habiter une belle ame; de plus,
So- crate ressemble au joueur de flute Mar- syas en ce qu’il a,
pour charmer, une force a laquelle nui n’est en etat de resister.
36. II raconte ensuite que le voyant s’attacher a la poursuite des
beaux ado- lescents et s’efforcer de les prendre dans ses filets,
plein de confiance en sa beaute parfaite, il avait essaye de lui inspirer
de 1’amour, comptant bien qu’avec un peu de complaisance pour ses
desirs il obtien- drait de lui qu’il lui communiquat son admirable
science, et qu'il gagnerait a cela tous les talents de Socrate.
Alcibiade exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 , C) uti servi
aliique profani aures obtu- rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv
£7ri0E<?0s) quam varie, et quibus veluti gradibus, frustra
continentiam Socratis, temperan- tiamquefrecte fortitudinis hic nomen
adji- cit) tentarit. Summam facit hanc, (p. 334 , G) ut Deos
Deasque testes faciat, se cum totam noctem sub eadem veste cum
Socrate jacuisset, non aliter ab illo, quam ut filium a patre, aut a
fratre majori frater deberet, surrexisse. Itaque se frustratum spei
esse in homine, quem hac sola forte parte capi posse putasset.
3y. Enumeratis deinde aliis Socratis virtutibus, bellica
prcesertim , qua sibi etiam vitam servarit, addit, non se tan- tum
contumelia tali ab eo affectum , sed Charmiden etiam , Euthydemum
et et l’amour grec gg place ici , mais en termes
honnetes et mesures, quoiqu’il se soit excuse sur son ivresse et
qu'il ait recommande aux es- claves et aux profanes de se boucher
les oreilles, le recit des gradations savantes et de tous les
stratagemes vainement mis en oeuvre par lui pour induire en tenta-
tion la continence, la temperance ou plu- tot, comme il le dit fort
justement, l’he- roique fermete de Socrate. II conclut en disant :
Je prends les dieux et les deesses d temoin quapres avoir repose toute
une nuit d cote de Socrate, et sous le meme m ante au , je me levai
d'aupres de lui tel que je serais sorti du lit de mon pere ou de
mon frere aine. Ainsi, le seul point par lequel il croyait que cet homme
fut accessible avait tout a fait trompe ses esperances.
37. Apres avoir ensuite enumere les autres vertus de Socrate et
appuye sur sa valeur guerriere, a laquelle il etait lui- meme
redevable de la vie, il ajoute qu’il n’est pas le seul, du reste, a qui
Socrate alios multos, quos ille amoris simulatione deceptos in potestatem
suam redegerit , ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?, Tuatoty.a
piaXXov autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu- labantur vulgo
amatores , certe qui turpe quid spectarent , pueris aetatula sua et
illa ipsa adulatione superbientibus. Alia ratio Socratica , quae etiam
supra (§. 6) in Lysidis argumento declarata est. Sua- vissima sunt
reliqua in Symposio Plato- nis : eo autem referuntur omnia , ut in-
telligamus Socratis hanc fuisse consue- tudinem . , pulchrorum amorem uti
prae se ferret , cum illis suaviter et amice ut versaretur, ut
virtutis illos amore im- pleret , reliqua omnia non tanti esse os-
tenderet , in quibus valde sibi elaboran- dum vir sapiens
existimaret. Sanctus ergo Paederasta Socrates , et foedissimi , si
quod usquam est , crimi- ait fait un tel affront; que pareille
chose est arrivee a Charmis, a Euthydeme et a bien d’autres qu’il
avait feint d’aimer tendrement, pour mieux les asservir et les
diriger. Les amis vulgaires, ceux sur- tout qui esperaient de honteuses
com- plaisances, se faisaient les flatteurs des jeunes garcons, et
ceux-ci n’en etaient que plus fiers de leur beaute. Autre etait la
methode Socratique, comme nous l’a- vons montre plus haut en exposant
le sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban- quet de Platon, est
charmant ; tout aboutit a nous montrer que telle etait la coutume
de Socrate de rechercher les bonnes gra- ces des jeunes gens que
distinguait un exteneur gracieux, et de vivre avec eux dans une
douce et agreable intimite, afin de leur faire aimer la vertu; ce
point obtenu, il jugeait facile de leur donner les autres qualites
qu’un sage doit s'ap- pliquer a acquerir. 38. Ainsi, Socrate
n’avait pour la jeu- nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du nis
expers : a quo etiam alios avocare studuit , quod Critice exemplo
docet Xenophon, ejus, qui post in triginta tyrannis fuit , quem
Euthydemi pudori insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv dixit,
suillo more prurire, eaque re ini- micitias hominis factiosi et potentis
sibi contraxit; quibus carere poterat , nisi potius fuisset
officium. 3g. Sed admonet me Xenophon de crimine alterius
illo quidem generis, et multo, ut in malis, tolerabiliore : quod
tamen ipsum etiam in illo adhaerescere, quantum in me est, non patiar.
Accusa- tur, ut naturalis quidem , sed malce ta- men libidinis
suasor et leno quidam, propter ea quce referuntur in Xenophon- tis
Convivio (c. 7 et g). Sed nec ibi quid- quam est, cujus bonum Socratem,
aut illius amicos pudere debeat. Spectacula exhibentur convivis
mirabilia , partim vice infame entre tous. Bien mieux, il
s’efiforcad’en detourner lesautres, comme Xenophon nous 1’apprend par
1’exemple de Critias. Ce disciple de Socrate, devenu par la suite
l'un des Trente tyrans, avait voulu attenter a la pudeur d’Euthydeme
; lorsque son ancien maitre Bapprit : II a le prurit du porc{ i),
s’ecria-t-il ; paroles qui lui attir£rent 1’animosite d’un homme
puissant et redoutable, ce qu’il lui eut ete facile d’eviter, s’il
n’avait mieux aime faire son devoir. 3g. Mais Xenophon me
fait songer a une autre accusation qui a ete egalement portee
contre Socrate ; quoique moins grave, elle n’en est pas moins
facheuse, et je l’en disculperai de toutes mes forces. On lui
reproche, a 1’occasion d’un inci- dent rapporte par Xenophon, dans
son Banquet , d’avoir excite ses disciples a la debauche, ce qui
serait pernicieux encore, (i) Concupiscit ad Euthydemum se
affricare quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno- phon,
Memorabilia). etiam
periculosa , et horrorem quendam spectantibus moventia , inter
districtos gladios corpora saltu jactantium , aut in figuli rota
circumacta scribentium le- gentiumque. Non placent ea Socrati, qui
aptius convivio spectaculum putat ipyjln- Gat r.poc, tov auXov
T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad
tibiam edi motus et saltationes, eo habitu, quo Gratiae, Horae,
Nymphae a pictoribus exhibentur. Forte suspectum alicui fuit
hoc quod Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus- picioni repugnat
, quod dicitur Ariadne illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,,
sponsce autem profecto apud Grcecos nudce esse bien
qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor- mes au vceu de la nature, et de
s’etre fait, en quelque sorte, entremetteur. II n’y a rien, dans ce
passage, dont doivent rougir 1’honnete Socrate et ses amis. Des
mimes viennent d’executer devant les convives toutes sortes
d’exercices extraordinaires, quelques-uns tres-dangereux et propres
a donner le frisson aux spectateurs; on a vu les uns presenter leurs
poitrines, en sautant, a des pointes d’epees rangees en file ;
d’autres lire ou ecrire enfermes dans une roue de potier mise en
mouvement. Ces exercices deplaisent a Socrate ; il pense qu’il
serait plus convenable, au milieu d’un festin, de voir des
danseuses executer des poses, au son de la Jlute, sous le costume
que les pcintres pretent d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et aux
Nymphes. Cela a pu paraitre suspect parce qu’on a coutume de
representer les Graces toutes nues. Mais ce soupcon ne repose sur
rien, car la danseuse qui parut alors, habillee en nymphe,
representait I Ob non solebant : nymphae in
insectis ab eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra- tias decenter
vestitas contemplari licet in Grcecis monimentis apud Montfauc.
Ant. Expl. To. i Tab. iog ad p. ij6. Movit forte eum, qui primus
crimen hinc excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel- latio, qua? inter
alia ad turpes figu- ras refertur , quales olim Philcenidis et
Elephantidis commendatas libellis fuisse constat (i), ut hic ejusmodi
impudens spectaculum suspicaretur . Sed tum inter- jecta de amore
disputatio ( 2 ) (c. 8) tum ipsa perfectio exsecutioque consilii
(c. g) suspicionem illam eximunt. Aguntur Ariadnes et Bacchi
nuptice,sed illa ut in scenam nihil veniat, pra?ter oscula et
(1) De quibus Spanhem. de usu et Praest. numism. Diss. i 3 . p. 522
. sq. Hic ay 7 jfi a est omnis gestus saltantium blandus, minax,
derisor. Vid. Lucia. de Saltat, c. 18. T. 2 p. 278 in primis c, 36
. extr. (2) Apertior, simpliciorque , et incautior adeo
Xenophontis de his rebus oratio , quam Plato- nica : sed cujus summa
eodem pertineat, uti ab impura libidine ad sanctam animorum
conjunc- tionem homines revocentur. Ariadne, et
les Grecs ne permettaient pas le nu dans les roles de femmes
mariees. D’ailleurs, certains insectes imparfaits sont appeles nymphes
pre- cisement parce qu’ils sont enveloppes. On peut voir aussi,
dans YAntiquite' ex- pliquee de Montfaucon, que les Grecs, meme sur
leurs monuments, figuraient les Graces decemment vetues. Celui qui
le premier a lance contre Socrate cette accusation s’est peut-etre
effarouche du mot pose, qui, entre autres, est applique a des
images obscenes, du genre de celles qu’on rencontrait dans les livres de
Phi- laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne Socrate d’avoir
reclame un spectacle lu- brique. Or, ladiscussion surTarnour qui
intervient alors ( 2 ), 1’execution et l’ache- (1) Spanheim (De
prostantia et usu numisma- tum antiquorum) parle de tout cela. On
appelait poses toute esp6ce de geste lascif, provocant ou railleur,
des mimes. ('Comparez Lucien, De la Danse, ch. XVIII.) (2) Le
dialogue de Xenophon est bien plus franc, bien plus simple et bien moins
circonspCct que celui de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au
meme amplexus , cetera reservantur postsce- niis
(i). but, qui est de detourner les hommes des plaisirs les
plus impurs et de les rapprocher dans une sainte communion des
ames. (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam pars
sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom. c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v
xtva cuvtaxaxat Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; — In his
mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo? yapto; cum Apolline — item
riooaXstpiOU xai pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^ xai
AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion alter xaOsuSwv exsixo sv xw
piato — cptXrjtxaxa xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r.
oXXat iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou sjxpaxxsxo.
Apposui locum , quia hic etiam 7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil
obscenum. ET l’aMOUR GREC IO9 vernent immediat du
divertissement qu’il avait demande, enlevent toute force a cette
conjecture. Les mimes representent les noces d’Ariadne et de Bacchus : mais
on ne voit rien de plus sur la scene que des baisers et des etreintes
amoureuses ; le reste se passe derriere le rideau (i). ( 1 )
Ces sortes de danses et de reprdsentations faisaient partie des Myst6res.
Dans lM lexander seu Pseudomantis, de Lucien, on voit Alexandre,
in- troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves du
dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes religieuses auxquelles
cette initiation donne lieu figurent : les noces d’Apollon et de Coronis,
celles de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin les amours
d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre, comme un autre Endymion, etait
couchd au milieu du theatre; on dchangeait des caresses et des bai-
sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan- tite, peut-etre bien
qu’il se fut laiss6 entrainer a faire qucedam earum quce sub veste Jieri
solent. » Cest un peu ldger ; cependant il n’y a rien la de bien
obscene. — Gesner aurait du citer Lucien plus complete- ment
; ce passage du Pseudomantis offre un tableau de genre exquis : «
Alexandre, comme un autre Endymion, etait couche au milieu du thdatre,
faisant semblant de dormir. II tombait de la voute, comme du ciel,
une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le role de la Lune et qui
dtait la femme d’un intendant de 1'einpereur. Elie aimait vraiment
Alexandre et 10 I IO SOCRATE
40 . Finem et effectum negotii ita indi- cat Xenophon : teXo; 0 i
ol <jup.7ioToci ’.oovte; T:ept6e6Xr]xdT:a; ts aXXrjXou c xai oj; et;
euvrjv aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv £zw[xvuaav, 01
oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS, a-rj- Xauvov Tipo;
xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv xuy otsv . Tandem post blanditias
quasdam , verecundas, maritales, complexi se invi- cem sponsus et
sponsa , i. e. manibus implexis, vel brachiis mutuo cervici im-
positis, vel tergo circumjectis , velut cubitum discedunt : ab hoc
spectaculo incalescentes , et ut paullo ante dicebat,
av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae caelibes dejerant, se
ducturos esse uxo- res ; mariti autem equis conscensis domos
festinant, ut simili voluptate et ipsi fruantur. Utinam vero e
spectaculis et theatris hodie ita discederetur ! utinam Socratis
hac parte disciplinam sequeren- tur publicarum Voluptatum Tribuni.
Talia spectacula edere debebant Romani eu 6tait aimee. Sous les
yeux de son propre mari, iis echangeaient des caresses et des
baisers » 40. Xenophon
indique de la maniere suivante la fin et les resultats de l’his-
toire. Apres toutes sortes de caresses honnetes et maritales, les deux
epoux se tenant embrasses, c’est-a-dire, je pense, les mains
entrelacees ou les bras pas- ses mutuellement soit autour du cou,
soit autour de la taille, s’eloignerent comme pour aller se coucher.
Echauffes par ce spectacle et se sentant de furieu- ses
demangeaisons, comme s’il leur pous- sait des ailes , les convives encore
celiba- taires /irent le serment de ne pas tarder a prendre femme ;
les maris monthrent a cheval et se haterent de regagner le lo- gis,
pour gouter d leur tour de sem- blables voluptes. Plut au ciel qu’aujour-
d’hui on quittat les spectacles et les theatres dans de si bonnes
intentions ! plut au ciel que cette partie de la disci- pline
Socratique fut pratiquee par les ediles preposes aux plaisirs publics !
Ce sont de tels divertissements qu’auraient du decreter les
empereurs Romains, sou- cieux d’exciter toutes les classes au ma-
principes , cum de maritandis ordinibus , et sobole Romana augenda
soliciti erant : talia conveniebant nuper Lutetia ? et Gal- lice
adeo universae, quum Ducis Burgtin- dice natalem nuptiis mille
puellarum celebrarent : talia magnam Britanniam , si quid veri
habent quorundam qucerelce, Swiftiance praesertim , quas eo loco
protu- lit , ubi de abrogando clero disputat : aut eorum , qui
hodie peregrinos invitandos , supplendi populi causa . et civitate
donan- dos , censent. 41. Nempe incidit aetas Socratis in
ea tempora, ubi civium paucitate laborabat exhausta bellis Persicis
et Peloponnesia- cis Attica , cui etiam lege matrimoniali obviam
ire, et afferre remedium , conati esse dicuntur. Debemus notitiam
hujus legis ipsi Socrati, quatenus nulla forte illius mentio
extaret hodie, nisi de dua- bus Philosophi uxoribus jam olim dispu-
tatum esset. Res cum queestioni. de qua riage ct d’accroitre la
posterite de Re- mus : iis auraient convenu naguere a la ville de
Paris et a la France entiere lorsqu’on feta la naissance du duc de
Bourgogne en mariant un millier de jeunes falles; iis auraient bien fait
Faf- faire de la Grande-Bretagne, s'il y a quelque chose de vrai
dans ces plaintes dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui
reclamaient 1’abolition du celibat despre- tres; iis conviendraient
encore a ces pays ou l’on attire les etrangers en leur conferant
les droits civiques pour sup- pleer au petit nombre d'habitants.
41. Socrate vivait a une epoque ou 1 ’Attique, epuisee par les
guerres des Perses et du Peloponese, souffrait de ne plus avoir
qu'une population clair-se- mee ; on dit menae que les Atheniens
s’ef- forcerent de remedier a cet etat de choses par une nouvelle
loi touchant lesmaria- ges. Nousdevons 1’unique renseignement que
l’on ait sur cette loi a Socrate , car il n’en subsisterait aujourd’hui
aucune agimus conjuncta sit , illam , quam brevi- ter
jieri potest , expediemus. Duas So- crati uxores vulgo tribui videmus,
Xan- thippen e qua Lamproclem susceperit, et Myrto , Sophronisci
atque Menexeni matrem. In hoc conveniunt Cyrillus ( contra Julia.
I. 6. p. 186, D) et Theo- doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6
p. ij4, 40) ac Diogenes Laertius (2, 26). Porro de Xanthippe
Cyrillus ex Por- phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in
ipsius amplexus venisse ; quod plane repugnat Platoni et Xenophonti,
qui nullius conjugis prceter Xanthippen , jus- tam uxorem ,
mentionem faciunt : tum Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua
debere ait Porphyrio, sed non tantum pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet
7:po<j-XaxeTcjav Xa6sTv, induxisse priori uxori, ut pereat illa
secreti , et furti amatorii notio : sed etiam addit, solitas esse eas
mulieres in- ter se depugnare, deinde pace facta con- junctim
impetum facere in Socratem ideo , quod is bella illarum non dirime-
ret : hunc vero utrumque genus pugna: mention
sans la controverse autrefois agitee au sujet de ses deux femmes.
Comme cette question tient a notre su- jet, nous la discuterons
bridvement. On donne communcment a Socrate deux femmes : Xantippe,
dont il eut un de ses fils, Lamprocles, et Myrto, la mere de
Sophronisque et de Menexene. S. Cy- rille, Theodoret et Diogene de
Laerte sont tous les trois d’accord la-dessus. Mais S. Cyrille,
empruntant ce detail a Porphyre, dit de Xantippe que son ma- riage
avec Socrate fut clandestin, qu’elle se cachait pour 1’embrasser, ce qui
con- tredit absolument Xenophon et Platon, puisqu’ils ne parient
d’aucune autre femme que de Xantippe, epouse legitime de Socrate.
Theodoret, qui lui aussi dit tenir de Porphyre ses renseignements,
change 7iepi7tXoaEiaav XaOsTv en npovnXxxsT- aav XafleTv et declare ainsi
que Socrate introduisit Xantippe chez sa premi^re femme, ce qui
ruine toute cette histoire de mariage secret, et de furtifs baisers
; bien mieux, il ajoutc que ces deux me- cum risu
speci are consuevisse. Utri fi dem habebimus? 42. Sed nondum
est finis discordia- rum. Theodoretum si audimus , induxit
Xanthippen suce jam Myrto Socrates : sed Laertius negat convenire inter
auc- tores , utram prius duxerit. Idem ait , simul ambas habuisse
Socratem , a qui- busdam esse traditum. In hac sententia etiam fuit
auctor Dialogi Halcyon , qui inter primos Lucianeos editur , in
cujus fine Socrates dicat , se Halcyonis amo- rem in maritum suis
conjugibus Xan- thippee et Myrto prcedicaturum esse. Antiqua porro
esse illa relatio memora- tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa-
tyri Peripatetici , Aristoxeni Musici , geres se battaient
continuellement, puis la paix faite, tombaient a poings fermes sur
le pauvre Philosophe, en lui repro- chant de ne les avoir pas separees:
pour lui, il restait simple spectateur du com- bat et voyait donner
ou recevait lui- meme les coups en souriant. A qui faut- il s’en
rapporter, de S. Cyrille ou de Theodoret? 42. Et nous ne
sommes pas au bout de la querelle. Dapres Theodoret, So- crate
epousa Xantippe, dtant deja marie a Myrto; mais Diogene de Laerte
af- firme que les auteurs ne sont pas d’ac- cord et qu’on ne sait
qui des deux il epousa la premiere. Il dit aussi qu’il les eut toutes
les deux ensemble, et sur quelles autorites repose cette assertion.
Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia- logue intitule Alcyon, imprime
en tete de ceux de Lucien; on y voit Socrate proposer en exemple a
ses deux femmes, Xantippe et Myrto, 1’amour d’Alcyon pour son mari.
Plutarque (Vie d’Aris- i Hieronymi Rhodii, apud
Plutarchum (vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi auctorem
fuisse ait Aristotelem in libro de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui
tamen liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi- tat : narrant
autem ita, Aristidis neptim Myrto, vidua cum esset et paupercula,
domum ductam a Socrate, eique cohabi- tasse, licet aliam uxorem habenti
. 43. At non licebat a Cecrope inde Athenis plure s una
habere uxores. Qui sit igitur, ut neque Comici exprobrarint, neque
Accusatores objecerint digamian Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus
et Laertius legem, latam supplenda 1 multi- tudinis civium causa.
Exstabat Athenceo prodente ipsum decretum a Rhodio Hie- ronymo
conservatum, wax' si-eivat xai ouo ET 1/aMOUR GREC I i q
tide) rapporte que cettc opinion etait ancienne, et qu ; elle fut
partagee par Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa- tyrus le
peripateticien, Aristoxene le musicien et Hieronyme de Rhodes;
Athenee dit de son cote qu’ils Tavaient tous puisee dans le Traite de la
No- blesse d Aristote, livre dont cependant Plutarque doute
qu’Aristote soit l’au- teur. Tous racontent que- Myrto, pe-
tite-fille d Aristide, etant veuve et se trouvant dans une extreme
pauvrete, fut recueillie par Socrate dans sa maison et qu’il cohabita
avec elle, quoiquhl fut deja marie. 4 J - Les vieilles lois
de Cecrops inter- disaient cependant a Athenes les doubles unions.
Pourquoi donc ni les poetes co- miques, ni les accusateurs de Socrate
ne lui ont-ils reproche ou oppose ce cas de bigamie ? Cest a ce
propos qu’A.thenee et Diogene de Laerte nous parient de cette loi
nouvelle_, edictee, disent-ils, dans le but d’accroitre le nombre des
citoyens. 120 SOCRATE 'systv yuvatxa;
tov [3o'jaojj.£vov. Secundum haec male accusaretur Socrates, qui et
legi paruerit de augenda sobole Attica , et Aristidis progeniem
viduitate et pauper- tate extrema liberaverit. V
44. Verum enim vero totum hoc de duabus Socratis uxoribus , quin
de lege maritali etiam falsum esse , prcesertim ex dissensu
commemorato , itemque ex Platonis et Xenophontis silentio arguit
Bentleius (1). Et habet , quantum est de monogamia Socratis, magnum
auctorem Pancetium, quem laudat Plutarchus, qui cum retulisset eam
quce modo proposita est de Myrto narrationem, satis illam refutatam
ait a Panaetio : cujus si opus hodie extaret, facilior forte hodie
esset causa Socratis, quem tamen a turpi pue- (/) In
Dissertat, de Phalaridis et exteror. Epistolis, ET l’aMOUR GREC 12 1
Athenee s’avance jusqida dire qu’il y avait un decret, conserve par
Hieronyme de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est per- mis d’avoir
jusqua deux femmes. » Si cela est vrai, on accuserait mal a propos
Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la loi portee en vue de repeupler
1’Attique, et qui de plus aurait sauve du veuvage et de la
mis&re la petite-fille d’Aristide. 44. Mais vraiment Phistoire
des deux femmes, tout aussi bien que celle de la loi matrimoniale,
paraissent en- tachees de faussete a Bentley (1); il se fonde
surtout sur le desaccord que nous avons signale et tire une grande
preuve du silence de Platon et de Xenophon. Nous avons, pour ce qui
est de la mono- gamie de Socrate, une excellente auto- rite,
Pantetius, dont Plutarque fait le plus bel eloge; apres avoir rapporte
ce que nous avons dit de Myrto, il ajoute que cettefable a ete
suffisamment refutee ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de Phalaris
, Themistocle, Sacrale et Euripide (1697, iu-8").
SOCRATE rorum amore, et a lenocinio turpi , et a libidinosa
digamia, vel sic satis libera- tum esse confido. ET L
AMOUR GREC par Panaetius. Si nous possedions son livre, la
cause de Socrate serait aujour- d’hui plus facile a defendre; je
pense cependant avoir prouve qu’il ne fut ni un corrupteur de la
jeunesse, ni un provocateur a la debauche, ni un bi- game
libertin. Alcibiade; ses avances repouss^es par Socrate, p.
97-99. Ame, comparde par Pla- ton a un attelage ai!6,
p. 29, 47-65 ; — clas- sification des ames suivant le degrd
de connaissances acquises avant la vie, p. Amour
philosophique, — raisons qui dirigent les choix dans cette
sorte d’a- mour, p. 45-47; — les impuretes ou il peut
s’egarer, p. 69. Analyse du Lysis, dialo- gue de Platon, p.
21; — du Phedre, p. 23 - 29; — du Banquet, p. 95 et
suiv. Beaute morale et Beaute physique, p. 39-41.
Bigamie; Socrate eut-il deux femmes? p. 1 1 3 et suiv.; — la
bigamie etait-elle autorisde en Grece ? p. 1 19. Cohorte
sacree des amants, a Thebes et en Crete, p. 83 .
Inspires; couples d’amis, p. 85 - 87 - Minies ; leurs
exercices et poses plastiques, p. io 5 . riaiospaatsta, le
mot et la chose pouvaient etre pris en bonne part,
chez les Grecs, p. 89. Peines portees par les Grecs contre
les infa- mes, p. 75. Pronostics tirds par les
physionomistes de la voix forte et grave, p. 5 1 ; — de
lencolure courte, p. 55 ; — des oreilles velues, p. 57 ;
— des grosses levres, p. 5 q; — du nez ca- mard, p. 59; —
des yeux saillants, Representations mythologiques et divertisse-
ments dans les festius, p. 105-109 ; — dans les mysteres, p. 109
(note); — effets singuliers pro- duits parfois sur les
convives par ces re- pr^sentations, p. m. Socrate; motifs
ordinaires des accusations portees contre lui, p. 1 5 — 1 7 ; —
pourquoi il recherchait les beaux garcons, p. 43 ; — son
portrait physique, p. 49 et suiv. Socrate l’
Ecclesiasti- que ; comment il a ac- cuse, sans preuves, Socrate le
Philosophe, p. 9. Sparte ; coutume rappor- t6e par Elien, p.
85 ; — les amours impures y etaient ignorees, p. 8.7.
Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du Dragon. Gabriele Giannantoni. Giannantoni.
Keywords: la dialettica, dialettica, Epicuro a Roma, Calogero, il principio
dialogo, Lucrezio, Cicerone. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannantoni” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Giannetti – corpuscolarismo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Albiano di
Magra). Filosofo. Grice: “I like Giannetti; for one, he is the only philosopher
I know whose first name is ‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower
– Oddly, while he is from Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named
after him!” – Grice: “His logic was considered heretic, at least by the duke,
who diligently expelled him from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa.
Quando lascio la cattedra, gli successe Grandi.
Di formazione galileiana, fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi,
che lo aveva anche introdotto a Newton, cura Galilei (Firenze). Rimosso da Pisa
da Cosimo III de' Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo. NC. Preti, Dizionario Biografico degli
Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica
e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 54, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PASCASIO GIANNETTI Essendo Pascasio
Giannetti tra'maestri più singolari di filosofia e di medicina dell' Universi
tàdiPisa,quantoonoreaquelloStudio recasse non si può dire. Costui ebbea quelle
scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno > che a
sermonare e discorrere di materie mediche efilosofichepareanatoaposta.Fu
e'diAlbiano di Lunigiana, e divenne lettore in detta Univer sità nel 1682 ; e
così bene in cattedra sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo del
M a r chetti e del Bellini, cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano.
Nulla ignoto eragli di quanto G a lileo e Gassendo aveansi
ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia corpusculare. Per ques
stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li Peripatetici e Scolastici
ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi sistemi, quali adesso ricor
dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che il Giannetti futenuto per
uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli insegnamenti novelli e assai
molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in particolar modo ai Gesuiti i
quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo IIIde'Medici,fece ro in grave
sospetto cadere di errori di religione il Giannetti non solo, ma quasi tutta la
Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti let tere scritte e
minaccevoli ai professori con ordi nare,chenon
volevasifilosofiademocratica,ilGian netti, cui sapea benissimo delle
persecuzioni altrui schermirsi e rintuzzare le dicerie degli imperiti con la
dotta e mordace sua lingua, difese con trion fo la causa per iscrittura,nè mai
digua proposta sentenza cesso. Finalmente costretto nel 1706 di
mutarcattedraedileggeremedicina,non ostan te filosofava su i nuovi sistemi
anche interpretan do gliaforismid'Ippocrate e di Galeno,e men tre con eloquio
squisito e con pompa di erudizio ne le materie mediche spiegavà,senza punto de
nigrare alla gravità della scienza e del loco ; l' al trui cabale e leggerezze
con vaghi scherzi e argu ti motti derideva. Moltissimo ancora si adoperò in
fisiciani sperimenti e nelle savie cure di Michela gnolo Tilli per ogni maniera
di lode famoso : nè mezzanamente sidistinse insieme con lo Zambes cari di
Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le terme del territorio
Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande merito. Intra le altre
fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di Lunigiana, e trovolla più
efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e poteró 183
Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et Medicin, in Pisau.
Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua philosoph. libert. Quam
difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem. retinuit ConcesseratAun.S Thomas
Perelliuspraecept.et Amico DI PIER CARLO VASOLI Io non posso tacere di aver
molte cose rica vato diquesto librodalle fạtiche e dagli scritti di questo Pier
Carlo Vasoli di Fivizzano, il quale sembra avesse in mente d'illustrare sua
patria , e però non deggio scordarmi di retribuirlo di grata inemoria, tanto
più che molto distinto riuscì nel la medicina e buon coltivatore della poesia.
Q u e stouomoerudito,comeraccontaincertosuoEr bariolo Lunense m . s., avendo
studiato prima a Bolognae poiaPisaallascuoladelcelebreMar cello Malpighi, dove
si dottorò verso la fine del 184 si estrarre il sale catartico a guisa di
quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata. Benespesso
Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli uomini più che
i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i vizi ele
inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e vivendosi
fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, nel 1742
morì in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto
nellachiesadiquellaterra,fugliperTommaso Pe relli suo scolare messo questo
marmo sopra il se polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor.
dell'Univ. Pis. tom . 3. dove parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae
aeternae Cum paucisaetatis suae comparandi Obiit Octuagenario major in proxima
Villula In quam post impetratam a docendo vacationem D. S. O. M. P. GIANNETTI,
Pascasio. - Nacque, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in Lunigiana, il 2
ag. 1661. Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli
medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana
e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente
meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di
G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto A.
Marchetti, L. Bellini e D. Zerilli lo introdussero allo studio delle opere,
oltre che di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse
da G. Del Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente
nell'ateneo pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il
galileismo con esigenze di ordine pratico. Laureatosi il 30 maggio 1682
in filosofia e medicina (promotore fu il Del Papa), il G. ottenne nello stesso
anno la lettura di logica, che conservò fino al 1686, per passare poi a quella
di filosofia naturale. Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e
apertamente atomistico, dovette risultare piuttosto efficace. Quando, verso il
1690, si delineò una reazione generale della Chiesa contro quelle
interpretazioni dello sperimentalismo considerate arbitrarie e potenzialmente
eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei possibili esiti
materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Nell'ottobre 1691,
insieme con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M.
Sergrifi di non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a
detta di A. Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello,
oggi perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi
destare tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III
nel 1706, di trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal
permesso di tenere lezioni domiciliari di filosofia. Come lettore di
questa disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un
discorso "moderno". Lesse gli Aforismid'Ippocrate, proclamandosi così
seguace dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di
teoria medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori. In
particolare, a quanto sembra, già in questa fase i motivi
galileiano-gassendiani si erano venuti in lui incrociando con motivi della
dottrina newtoniana. Da questa aveva recepito la tesi della struttura porosa
della materia, che, attraverso l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei
corpuscoli, è assunta come matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È
probabile che una delle fonti attraverso le quali il G. venne a conoscenza
della teoria newtoniana sia stata il padre camaldolese G. Grandi, suo buon
amico (Ortes ci riferisce che il Grandi "solea frequentemente
conversare" nella casa del G.), ma, a differenza del Grandi, il G. non
dovette essere pienamente in grado di coglierne l'impalcatura matematica, tanto
da ritenerla conciliabile con la distinzione gassendiana tra punto matematico e
punto fisico. G., insieme con B. Bresciani, G. Averani e altri, fu
coinvolto dal Grandi nella preparazione della seconda edizione delle Opere di
Galilei (Firenze 1718). Più tardi, alla metà degli anni Venti, il suo nome
venne fatto in alternativa a quello del Grandi quale autore di un libretto
pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem Philosophiae
novo-antiquae r.p. Thomae Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii, Augustoduni
1724), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e i
gesuiti del collegio di Firenze. Il libretto, nato come replica alla
prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua
(Florentiae), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale
delle forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore,
circolavano nel collegio fiorentino. Non è chiaro se sia da collegarsi a
questa polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo.
La relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi
governanti nel maggio 1738, ci informa che "già da alcuni anni" il
G., pur retribuito, aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limitava a dare
privatamente lezioni di filosofia. Il Cerati attribuiva ciò a non meglio
precisate "indisposizioni del corpo", ma l'Ortes attesta che il G.
godette per tutta la vita di ottima salute. Priva di riscontri è la notizia di
una sua adesione alla loggia massonica fondata a Firenze nel 1733, loggia che
però sicuramente accolse un buon numero di suoi allievi. Il G. morì a
Capannoli, presso Pisa, Quelle che sembrano essere le sue uniche opere a noi
giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3098 (Tractatus phisici
iuxta recentiorum opinionem conscripti a Paschasio Giannetto) e a Pisa, Bibl.
universitaria, ms. 177 (Philosophiae tractatus, datato 1714). Fonti e
Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione fiorentina del 1718 delle
Opere del Galilei vedi le lettere di T. Buonaventuri a G. Grandi, Pisa, Bibl.
universitaria, Carteggio Grandi, 85, passim; sei lettere del G. al Grandi e
alcune note di argomento fisico ibid., 92, cc. 19r-28v; Acta graduum Academiae
Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 549; G. Ortes, Vita del padre
Guido Grandi, Venezia G.A. De Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno, Fabroni,
Historiae Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 410-413; F. Sbigoli, Tommaso
Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, p. 71; N. Carranza,
Monsignor Gaspare Cerati provveditore dell'Università di Pisa nel Settecento
delle riforme, Pisa, Storia dell'Università di Pisa, Pisa 1993, Morelli, Per
una storia di Andrea Bonducci, Roma, Livorno nel Settecento, Livorno 1997, pp.
23, 62, 79.Pascasio Giannetti. Gianetti. Keywords: corpuscolarismo, implicature
corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei, Grandi, Giannetti -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura corpuscolare – The Swimming-Pool
Library.
Giannetta search – another time?
Grice e
Giannone – la terza Roma – e l’implicatura ligure – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Ischitella). Filosofo italiano. Grice: “Giannone is an
interesting philosopher. He philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a
back-fromation from ‘celestial city,’ and by which he meant Rome! – Then he
compared men – in their collectivity, to apes, even if ingenious ones!” “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche
le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e
strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente
da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il
paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben
presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento,
che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu
essenziale per la sua formazione. I suoi interessi non si limitarono
soltanto al diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici
e dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria
civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la
Chiesa per il suo contenuto. Costretto a riparare a Vienna, ottenne
protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire
indisturbato i suoi studi filosofici. Il suo tentativo di rientrare in
patria fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo
di Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a
trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città,
rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso
la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo
sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue
idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato
Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico. Dopo aver vagato per
l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un
altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il
regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione
delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio
della Savoia, ove fu attirato con un tranello. Rimasto nelle prigioni
sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la
libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei
suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della
Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme
fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri
proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a
riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi
riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado
civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante
della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle
nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi». Nel
Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta
la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno
papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche
a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del
male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso
un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale
raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno
Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante
un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una
forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come
fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti
scolastici, tra cui lo storico Liceo classico Pietro Giannone di Caserta,
quello di Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis. Nel Capitolo settimo della Storia della
colonna infame, Manzoni dedica al Giannone ampio spazio elencandone i
numerosissimi plagi e gli errori che anche Voltaire gli rimprovera. Inizia
paragonandolo a Muratori e indicandolo come "scrittore più rinomato di
lui", poi aggiunge un lungo elenco (e raffronto) delle opere plagiate e
degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo e Summonte:
"...e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire
chi ne facesse ricerca". E conclude che se non si sa se fosse
"pigrizia o sterilità di mente", fu certo "raro il
coraggio". Altre opera: Autobiografia: i suoi tempi, la sua
prigionia, appendici, note e documenti inediti, Augusto Pierantoni, Roma, E.
Perino, I discorsi storici sopra gli Annali di Tito Livio, Apologia dei teologi
scolastici Istoria del pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria
civile del Regno di Napoli. 1, Napoli, Giovanni Gravier); Pietro Giannone,
Istoria civile del Regno di Napoli. 2, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro
Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 3, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro
Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 4, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro
Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 5, Napoli, Giovanni Gravier, aprile. Note
Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago,
Tipografia Elvetica, l Ibidem, note da 80 a 89 Fausto Nicolini, La fortuna di Pietro
Giannone: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il giannonismo (Bari,
Laterza). Vigezzi, PGiannone riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, 1Giannoniana:
autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Giannone, Sergio Bertelli,
Milano-Napoli, Ricciardi, Giuseppe Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Giannone., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole degli
antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Giannone,
Firenze, Le Lettere, Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone:
un itinerario tra crisi della coscienza europea e illuminismo radicale,
Firenze, Olschki, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, testo in versione digitale
della Biblioteca Italiana, 2003.//filosofico.net/giannone.htm. De'Liguri
duri e forti:loro estensioneinItalia;e come sopra tutti gli altri popoli
tenesseró esercitati i Romani nella disciplinamilitare,sicchèfosserogliultimiad
essersog. giogati. Livio in più occasioni parlando de'liguri,confessa che niuna
provincia esercitò cotanto i romani nella virtù e disciplina m i litare, quanto
la Liguria, poichè dura nelle armi, bellicosa amica di fatiche e di travagli, e
di riposo impazienle , nelle sueguerrenon tostoerada’romani vintachesorgevapiùani
mosae forte d iprima:ishostis,velutnatus ad continendam inter magnorum
intervalla bellorum romanis militarem discipli nam , erat : nec alia provincia
militem magis ad virtutem acue bat(1).Nonabitavanoiliguri(eciòanche
contribuivaalla loro bellicosa indole) in luoghi piani ed ameni e sotto
temperato e molle clima, il quale avesse potuto rendere simili a sè gli
abitatori ; m a all'incontro occupando essi quella occidental parte d'Italiache
ha per confine laGalliaNarbonense,vivendo in regioni montuose aspre ed
inaccessibili, e per le angustie delle vie acconce a tendere aguali ed insidie;
non temevano di numerosi eserciti, nè d'istromenti bellici , nè di macchine o
d'altri apparati militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti.E
perciò essi militavano senza molto apparecchio mi cidiale:nihil,dice
Livio,præter arma etviros,omnem spem inarmis habentes,erat, Gli antichi liguri
erano divisi di qua e di là delle alpi e dell'appennin o in molti popoli o s i
e n o comunità, non altrimenti di ciòche si èdeltodegli antichi etruschi, ed
occupavano va stissime regioni. Le alpimarittime e gran parte delle medi
terraneeeranodaessipopolate.Dilà dellealpiipiù celebri furono i liguri salii, i
deceali e gli oxibi; di qua furono i vedianzi, ivagienni, glistatielli,imagelli,gli
eburiati, (1)Dec. IV,lib.9, inprinc. i veliati , i tigulii, gl'ingauni ,
i salassi , i libici, i lau riniedaltri.Livio,oltrequestipopolida
Pliniorapportati fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chia
mati Apuani, i quali vinsero i romani e debellarono un eser cito consolare
sotto Q. Marzin console , e nota che il luogo della sconfitta fino a'suoi tempi
chiamavasi perciò il campo Marziano: fa memoria ancora
dialtriliguridilàdell'appen nino ch'egli chiama ligurifrisinati. Questi popoli
aveano più città o vichi, dove dimoravano ciascuno nel proprio distretto ; e
fra le città son da considerarsi alcune antiche ed illustri le quali, secondo
la divisione dell'Italia fatta poi da Augusto in undici regioni, formavan parte
della XI. Nella Liguria rivoltaal mare inferiorediquà delfiume Varo, che divide
l'Italia dalla Gallia Narbonense , la prima città marit
timaches'incontravaerade'ligurivedianzi chiamata Cime lion. Prossima a questa i
massiliesi edificarono Nicea , oggi detta Nizza, alle radici delle alpi
marittime, non lontana dalle foci del fiume Varo, che poi crebbe dalle ruine di
Cimelio , cittàantichissima,la quale ebbe vescovi prima che da Costan tino
Magno fosse stata la religione cristiana fatta ricevere nel l'imperio. Rimangono
ancora le vestigia de'suoi ruderi ed il nome di Cimelio: l'anticasua cattedra
fu unita a quella di Nicea, la quale non si appartiene già al la Gallia
Narbonense , siccomealcunicredeltero,ma secondoPlinio,Tolomeoedaltri geografi
antichi, alla nostra Italia, c o m e quella che è costrutta di qua del fiume
Varo.Antipoli fondata pure da'massiliesi si appartienealla
GalliaNarbonense,perchèerettadilàdelfiume: essa lungo tempo fu sotto i
massiliesi loro fondatori, ed ora sotto ire di Francia è chiamata Antibo.
Appresso Nicea nel mar li gustico siegue Monaco detta dagli antichi Porto di
Ercole, indi AlbioInlemelio,Albingauno,Savona,Genua,Porto Delfino Tigulia, e
più in dentro Segesta città de'liguri tigulii. Chiude questo confine il fiume
Macra che da questa parte divide la Liguria dall'Etruria. Dall'altra
parte mediterranea ove si erge l'appennino ,ampio monte il quale con gioghi
perpetui e continuali fino allo stretto Siciliano divide l'Italia per mezzo ,
avevano i liguri di qua e di là d e l monte medesim o 'nobilissime città;
especialmente da un lalo del Po Libarna, Dertona , Iria , Barderate , Industria
, Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de'liguri vagienni. Quest'ultima
città posta alle radici delle Alpi Cozie , non molto lontana dal monte Vesulo
d'onde ilPo ha sua origine, fu dappoi resa colonia de'romani. Non ci rimane ora
di essa alcun ve stigio, ma insua vece surse al luogo stesso ne'secoli da noi
men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di principi e capo del famoso
'marchesato di Saluzzo, la quale in fine da Giulio Imeritò esser decorate delladignità
episcopale. Ma sopra queste s'innalzarono nella Liguria tre città non meno
antiche che illustri,Alba Pompeia,Asta,ed Aqui cittàde'liguristatielli. Alba
posta nella Liguria montuosa presso l'Appennino nellarivadelfiume
Tanarofudagliantichigeografichiamata Pompeia, e per distinguerla da Alba degli
Elvii posta nella Gallia Narbonense, e per aver quella G. Pompeo rifatta e la
sciati ivi vestigi di sua memoria e beneficenza. Ebbe vescovi antichissimi, poichè
rapportasi ilprimo tra questi essere stato nell'anno 350 S. Dionigi discepolo
di S. Eusebio, poi innal zato alla cattedra di Milano. E ne'secoli men remoti
vi se dettero due uomini insigni che la illustrarono, uno per la pru denza
civile,e fu Lazarino Fieschi de'Conti di Lavagna , al quale la regina di Napoli
Giovanna contessa di Provenza nel 1350 commise il governodelPiemonte,daluiquindiammi
nistratoconsomma lode commendazione; l'altropersapienza é somma dottrina ed
erudizione, qual fu il famoso Girolamo
Vida,quelchiarissimopoetalatinochecilasciò l'incompara bilesua Cristeideedisuoidotti
dialoghi De Republica. Acqui posta alla riva della Bormida in quella parte del
Piemonte di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi si ap pella, fa
edificatada’liguri statielli popoli potentissimi della Asla posta nella
Liguria mediterranea non lontana dal Tanaro furesacoloniade'romani,edun
tempofuseded’unodeglian tichi duchi longobardi. Ebbe anch'essa antichissimi
vescovi,i quali quando l'imperio di Occidente passò a'germani , furono dagli
imperatori molto favoriti ed a sommi onori innalzati; e non poco splendore recò
a quella città aver seduto nella sua cat tedra vescovileilfamoso
Panigarola,chiaroalmondo eloquenza e per tanti monumenti che lasciò di sua
dottrina. > per lasua montuosa Liguria. Fu detta Acqui dalle
acque calde che quivi scaturiscono assai salutifere , siccome oltre la
testimonianza diPlinio, l'istessaesperienza dimostra:efuchiamataAcqui de'liguri
statielli, per distinguerla dalla Acqui sestia de' Salii posta nella provincia
Narbonense . Fu anche sede di uno de'Duchi longobardi; ma la sua cattedra non è
cotanto an tica quanto le due precedenti come quella che prende sua ori gine
da'longobardi che furonoi primi ad erigerla. I liguri si stendevano anche di là
del Po , é molte città le qualisecondoladivisioned'ItaliafattadaAugusto sono
col locate nella XI regione alle radici delle Alpi , anche da'liguri traggon
l'origine. Le prime che s'incontrano sono Vibiforo e Secusia, oggi detta Susa ,
le quali furon poi mutate in due colonie romane.Anche Torino Plinio fa derivare
dall'antica stirpede’liguri;antiquaLigurum stirpe,egliscrisse(1)edisse il vero,
poichè coloro che la fan derivare da'massiliesi , sica come Nicea ed Antipoli,
vengono a togliere a questa città molto della sua antichità. Non è dubbio che i
liguri sieno popoli d'Italiatantoantichi,chediessinon sisal'origine,onde
sicredono indigeni del paese, nè mischiati con altrefore stiere nazioni , non
altrimenti che Tacito credette de' ger mani : all'incontro de'massiliesi si sa
l'origine ed il tempo nel quale profughi dalla Focide navigando nel mare
inferiore e cercando nuove sedi,si fermarorro ne'lidi della Gallia Nar bonense
innanzi detta Bracata. Ciò avvenne , secondo la te stimonianza di Livio (2), mentre
in Roma regnava Tarquinio Prisco,quando laprima voltaigallipassaronole Alpi,iquali
dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano loro lo sbarco,
se ne calaron pe' monti Taurini dalle Alpi Giulie nell'Insubria ,
discacciandone gli etruschi. Livio stesso ri ferisce che a'medesimi tempi i
salluvii avendo passate le Alpi , si posarono intorno al fiume Ticino vicino a
’ liguri levi , anticagenteed indigenadique'luoghi.Salluvii, e'dice,qui, præter
antiquam gentem Levos ligures, incolentes citra Ticinum amnem , expulere. Se
dunque i liguri, chiamati da Livio gente antiea, quando i massiliesi poser
piede nella Gallia Narbonense tenevano questi luoghi ; più antica sarà
l'origine di T o rino derivandola da’liguriche da'massiliesi, iqualisiccome molti
e molti anni dappoi che furono stabiliti in Massiglia fon darono Antipoli e
Nicea , molto maggior tempo appresso avreb ber dovuto fondare Torino più lungi
che quelle.Si aggiunge che quando Anoibale calò per le Alpi in Italia , secondo
rapporta Livio (1),Torino eragià metropoli degli antichi popoli Taurini,i quali
reggendosi per se slessi aveano allora mossa guerra agl’in subri, ericusarono l'amicizia
di Annibale contrastandogli coraggiosamente il passo, che egli sforzò a gran
fatica.Inoltre Livio stesso rende testimonianza che la prima volta in cui i
romani ? mosser guerra a’liguri fu per occasione che questi depredavano i campi
di Nicea e di Antipoli , ciltà de'massiliesi soci de’ro mani ,e non già i campi
di Torino, la qual città perciò non era de'massiliesi, ma abitata da’ liguri
taurini. Furono questi popoli chiamati Tauriniche dieder nome alla città,
siccome i monti a piè de'quali essa è posta furono anche detti Taurini, a
cagione che dagli antichi i gioghi de monti erano chiamati Tauri per la figura che
sogliono avere simili a'dorsi o alle schiene di tori, ond'è che quel celebre
monte che divide la Siria dal rimanente dell'Asia fu chiamato Tauro sic come
alcuni altri popoli presso Plinio ed altri antichi geografi son chiamati
anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per chè abitano presso i monti
anticamente appellati Tauri. Ri dottipoiquesti popoliliguri
sottolasoggezionede'romani, Augusto ingrandi la città, che perciò venne poi
detta Augusta Taurinorum , non altrimenti che Lutetia Parisiorum da'parisii
popoli della Gallia Lugdunense che l'abitavano. Ebbero i liguri salassi anche
in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone , Plinio, Tolomeo ed
Antonino Augusta Prætoria (ora detta Aosta) per distinguerla dall'altra Augusla
de'liguri vagienni già menzionata : è posta frà le due facce delle Alpi Graie e
Pennine . Furon le prime dette da' greci Graie per lo passaggio di Ercole (nisi
de Hercule fabulis credere libet,comesaviamentedicePlinio),eleseconde (siccome
volgarmente si crede) dal passaggio di Annibale co’ suoi cartaginesi furon
chiamate Poenine, secondoavvisòanchePlinio, benchèLivione
dubiti.Checchèsiadiciò,èda osservarsi che da questa Augusta Prætoria , essendo
per la sua situazione laprima cittàd'Italia,gliantichigeometriprendevanlamisura
della lunghezza di questo nostro paese , tirando una linea per Capua fino a
Reggio, ultima città sullo stretto siciliano (1). Fu dessa ancora città famosa
ed illustre a'tempi de're longo bardi, quando questi tennero il regno
d'Italia.Ad Eporedia , città posta nella stessa regione all'imbocco della Valle
Augustana edalleradicidelleAlpi,oggi dellaIvrea, Pliniodà,senon così
anticaorigine,nulladimenounaassaipiù illustre,scrivendo che fu da”romani
fondata per impulso degli dei, secondo che
da'librisibillinierastatolormostrato:Oppidum Eporediam,
e'dice,SybillinislibrisaPopuloRomano condijussum(2).Fu antica colonia romana ,e
perciò cotanto memorata da Cicerone, Strabone, Tacilo e da altri romani
scrittori. Vercelli anche secondo Plinio dee riconoscere la sua origine
da'liguri sallii poichè egli scrive: Vercelle Libicorum ex Salliis ortæ. E se
dobbiamo prestar fede al vecchio Catone, Novara anche da’li guri ebbe origine,
quantunque in ciò Plinio discordi, facendola derivare da' vocontii popoli della
Gallia Narbonense. Questa era l'aptica Liguria che occupava tutta quella gran
parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal tempo che cangia emuta
inomi,ilinguaggi,icostumi,iconfinietutto,sorti altre divisioni e nuovi domini .
Furon poi queste regioni chia mateLanga,Monferrato,l'Astegiana,Piemontesuperiore,Mar
chesato di Saluzzo, Piemonte inferiore ovvero tratto Torinese, Canavese,Valle Augustana,Vercellese
e Biellese. Molti tra vagli i romani sopportarono per sottoporre tanti popoli
liguri, poichè questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si
mantenner liberi, nè prima degli ultimi tempi della romana repubblica furono ad
essa soltomessi. I romani cominciarono a sperimenlarli nelle armi dopo che si
erangiàresiformidabili inItaliaedaltrove,dopocheebbervinto Pirro re di Epiro e
lui costretto a ritirarsi nel suo regno , e dopo che nella prima guerra punica
il console C. Lutazio diede > ! (1) Plin., Hist. nat.lib. II , cap. 5.
(2)Plin.lib.I,cap.17. 270 a'cartaginesi quella terribile rotta
nelle isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a'romani.
Allora , finita questaguerra, i vincitoricominciaronoamuovere learmicontro i
liguri intorno alla metà del sesto secolo di Roma. Livio, nella seconda sua
deca, seguendo il suo costume, ne avrebbe certamente fatto conoscere le minute
circostanze,ma questa deca interamente ci manca .L. Floro nell’Epitome ne
rammenta ilprincipio dicendo: Adversus ligurestuncprimum exercitus promotus
est. Ma da altri scrittori romani e da ciò che Livio stesso scrisse nella III e
IV deca,lequali per buona sorte ciri mangono, è facile il conoscere che fin qui
i romani non profittarono niente sopra i liguri, poichè è anche fuor di dubbio
che nel principio della seconda guerra punica quando Annibale passò le Alpi,iliguri
gli prestaronoaiutocontroiromani; e Livio nel primo libro della III deca parra,
che col loro fa. vore prese Annibale per insidie due questori romani con due
tribuni de'soldati e cinque figliuoli de'sanniti dell'ordine eque stre. Nè dopo
scacciatoAnnibale d'Italiasi perderonodianimo, sicchè non tenessero
continuamente esercitati i romani nelle armi. Declinando il sesto secolo di
Roma, ambi duei consoli C. Flaminio contro i liguri frisinati ed apuani (i
quali scorre fino ne’ campi Pisani e Bolognesi), e M . Emilio contro
glialtriliguridiqua dell'Appennino, furono destinati con due eserciti consolari
a soggiogarli: e sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non
mancaron quelli di risorger poi più animosi e forti che prima , sicchè fu
d'uopo nel s e guenteannoa'successoriconsoliQ. MarzioePostumio,dopoche questi
sispacciarono dalle inquisizioni de'baccanali, riprender la guerra, la quale a
Q. Marzio riusci pur troppo infelice , poichè colto ilsuo esercito da'liguri
apuanifraluoghistreltie dificili,fudissipatoinguisache,siccomescriveLivio(1),qua
tuormillia militum amissa, et legiunis secundæ signatria, undecim vexilla
sociorum ac Latini nominis in potestatem hostium venerunt, et arma multa,quæ
quia impedimento fugientibusper silvestres semitas erant, passim jactabantur:
prius sequendi Ligures finem quam fugæ Romani fecerunt. Marzio fuggi dunque col
residuo (1)Dec.IV,lib.9. - 271
delsuoesercito:nonlamen,soggiunge Livio,obliterarefa mam
reimalegestepotuit;nam saltus,undeeumLiguresfu gaverant,Martiusestappellatus.Nè
minori furonogli sforzi ne'seguenti anni de'consoli successori, Sempronio che
pugnò contro iliguri apuani ed Ap.Claudio controiliguriingauni.
Inbreve,diceLivio(1),eragiàridottoincostume"non de
cretarsia'consolialtraprovinciasenon quellade'ligurionde erano quelli spesso
intenti a formare nuove legioni per poter abbattere sì valorosi inimici;laqual
cosa non ebbe effetto se non sotto L. Emilio Paolo il quale (essendogli stata
proro gata la consolare potestà) con potente esercito spedito contro i liguri
ingauni ottenne su questi piena viltoria, siccome più tardi M. Bebio l'ottenne
su’liguri apuani .E finalmente soltanto verso la fine del secolo, insieme con
gl'istri, co' galli cisalpini e con le genti alpine, furono i liguri sottomessi
a'romani (2): de’liguri in fatti primieramente trionfo C. Claudio console
l'apno 578 , e ne'posteriori anni furono quelli poscia del tutto
debellati(3).Di questa costanzae dabito de'ligurialle fatiche della milizia ed
a soffrire patimenti e disagi, ben si accorse Annibale, il quale passate le Alpi,
nelle sue prime pugne contro i romani, più che in altro popolo e più che
ne'cartaginesi stessi,poseogni fiduciane'liguride'quali sivalse.E quando
profugo da Cartagine ricovrossisotto Antioco re della Siria, il quale allora
avea guerra co’ romani, il più sano consiglio che a quel principe pole dare,
siccome Livio scrisse (4), fu che dovesse attaccare in due parti i romani
dividendo in due classi lanumerosasuaarmata,eduna,dellaqualefossestato An tioco
stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per discacciarne i
romani , l'altra, dellả quale egli stesso A n nibale sarebbe stato il capitano
supremo , dopo avere stretta lega co'cartaginesi, con le navi di questi inviare
nel mar li gustico; poichè pensava che sbarcata la sua gente nella Li guria,
egli fidando mollo nel coraggio e valore de'liguri osti nati difensori della
loro libertà contro i romani , bene avrebbe . 272 (1)Dec.
IV,lib.10,inprinc. (2)Dec. IV,lib.10,et Dec. V, lib.2. (3)Florus Epit.,lib.7,Dec.
V. (4)Dec. IV. > 273 . potuto unendo le armi liguri alle sue
portar nuova formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio fino alle mura
di Roma istessa ; m a quello stolto e vano re non appigliandosi a questo sano
consiglio e volendo piuttosto seguire leadulazionide'suoi
propricapitani,die'cagionealletantesue perditeesconfitte ed alla sua totale
rovina. Ma riguardandosia'secolipiùanoivicini,non dovrà ta cersi un pregio che
rese la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di
essere state avventurose madri di eroi e di semidei. Si celebrano cotanto
presso i greci e le nazioni tutte del mondo Alcide , Bacco ed Ulisse per le
lunghe loro peregrinazioni, per aver debellato i mostri ,
verteignoteterreescorsiincognitimari.Ma Ercolestesso Chi fu colui che rese
isegni diErcolefavolavile a'naviganti industri? Chi fu colui che rese
navigabili quelli che prima erano inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi
ai noi regni non meno sconosciuli che vasti ? Chi fu colui che spiegando le
fortunate sue antenne ad un nuovo polo , oscurò la fama di Alcide e di Bacco ,
se non il ligure Colombo ? Quanto ben gli si adattano, e con quanta maggiore
proprietà e ragione con vengono à lui quelle lodi che Lucrezio diede al suo
Epicuro , e che dal nostro incomparabile Torquato assai più acconcia mente
furono attribuite al coraggio ed alla grandezza d'animo del Colombo, quando di
lui canto : Unuom dellaLiguriaavràardimento All'incognito corso esporsi in
prima: Nè ilminaccevol fremito del vento, Nè l'inospitomar,nèildubbioclima, Nè
s'altro di periglio o di spavento Più grave e formidabile or si stima, Faran
che il generoso entro a'divieti D'Abila angusti l'alta mente accheti (1).
(1)Ger.lib.c.XV. GIANNONE, Pietro. - Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella
(Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e
Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680),
Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691). Dopo aver
compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra,
dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu
inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e
ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto
del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il
procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico
Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli
studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo
Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse
alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.
Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G.
iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in
cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il
giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo
Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò
la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto
improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato,
conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della
sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo
aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione
culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa
di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo
l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati
a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu
in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il
G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di
Napoli. Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato
tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e
l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la
popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e
Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715,
quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa
intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione
delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del
vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo
di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo
intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il
Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la
marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per
gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una
forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti
lavori. Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote
dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere
avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo
assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato
l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo
pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta
da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle
due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve
lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri
che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che
il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le
opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato
nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi
giuridici e storici. Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo
tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu
proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e
restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse
appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni
successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi
continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario
Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché
completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella
villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte,
e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione
ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano)
che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela
di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo
1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in
un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta
reale). Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le
prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva
tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto
offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla
disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco. Il G. non
raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti,
ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del
Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della
città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della
Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de'
governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il
procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni
nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la
storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C.
Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non
stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione
del principio dell'autonomia dello Stato. In effetti, se dagli storici
napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano
però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e,
soprattutto, il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva
attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la
realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma
di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza
normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti
degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia
francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello
baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come
feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione
avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le
dinastie regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli
stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il
G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi,
visti come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era
avverso agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur
fra incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno
l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso
tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid,
sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria
civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il
ceto civile riponeva le proprie speranze. L'Istoria era dunque un'opera
collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i
nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le
esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile
il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa
nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca
longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per
dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva
l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine
divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave
esclusivamente politica, rendeva l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama
storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il
Giannone. Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti)
concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della
città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano
le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva
ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva
chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse
argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a
tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò
atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine
del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione
dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale,
biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano
congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per
valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione
delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria. La situazione
volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a
sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse
adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G.
si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono
oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la
curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la
stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a
Vienna per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune
esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve
assenza e che, invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in
incognito Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni
giorni in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli
il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il
25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a
Vienna. In questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti
della numerosa comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia
e il medico e bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia
dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della
scomunica lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa
all'Indice dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere.
Dapprima ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero
dopo la conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due
nuovi trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in
Roma e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De'
rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a'
modi di farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria
civile). Negli ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il
22 ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in
dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse
una pensione annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia".
Egli non riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva
sperato, gli permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise
quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa
Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale,
Ernestine, aveva stretto una forte amicizia. Nel frattempo, in Italia
apparivano diverse confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a
Roma l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi
de' beni ecclesiastici della sua diocesidell'arcivescovo Filippo Anastasio. In
risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa
della real giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata
appellata di S. Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur
volendo difendere il G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora
costretto a reagire con un proprio testo, diffuso a Napoli in forma
manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra
l'Istoria civile del Regno di Napolidel gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto
all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più articolato e
problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva deciso di non replicare,
ma durante la villeggiatura a Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse
la Professione di fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da
un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa
cattolica. Un'altra Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle
Annotazioni critiche sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli(Napoli
1732) del padre Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario
Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo
napoletano, non disposta a seguire la lezione del Giannone. Fallite le
speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense;
oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse
il Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti
di quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la
morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De'
veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano
nel Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale
della Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve
relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal
reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che
l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli
altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di
Napoli. Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese
dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London
1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G.
aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund
Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto,
iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse
la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis
nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni
creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra
nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de
Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito
nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti
della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel
periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso,
un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di
Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti
testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili
frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua
opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una
villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due
anni più tardi, nel 1733. Il Triregno si articola in tre parti: nella
prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in
essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva
esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi
ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque,
esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del
G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari,
mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un
mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati
sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende
il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato:
dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i
pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino,
costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati
mondani. Nella composizione del Triregnoconcorrevano diverse tradizioni:
la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato
in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza
dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti
temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi
mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati
dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca
(particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle
Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle
Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo
postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli
scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e
Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano
nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con
la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae
antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).
Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La
matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno
papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere
ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia
protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di
tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse
contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare
anche in possesso dell'autografo del Triregno. Si impedì così la
pubblicazione dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la
diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli
archivi romani in cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento
diversi codici del Triregnocircolarono in Italia e in Europa, e negli anni
Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta,
ad Amsterdam. La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di
Borbone determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna.
Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su
rendite siciliane, anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28
ag. 1734, e giunse a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di
passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il
passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il
riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si
rivelò, comunque, ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il
senatore Angelo Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio,
con l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio
Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova
edizione dell'Istoria civile, per la quale approntò, come quinto tomo,
quell'Apologia dell'Istoria civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i
tre trattati composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava
certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto
la cattedra di diritto civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era
riuscita a fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia,
Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse
cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne
diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune
pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale
accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo
1735 il G. si stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu
raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici
anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi
amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che,
nel luglio 1735, il G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta,
tuttavia, la tranquillità doveva rivelarsi effimera. Dopo oltre un anno
di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la
notte del 13 sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la
casa dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato
a forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio
pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò
nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto,
fra gli altri, anche da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del
Ragguaglio dell'improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione
de' gesuiti e della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò
a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della
famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese
Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo
Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia,
per offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che
l'Ormea s'era già accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli
l'arresto del G. come contropartita per la concessione di un concordato
favorevole allo Stato sabaudo al fine di chiudere lo scontro - aperto un
ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì
quindi l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva già lasciato Milano
per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio
sicuro dopo l'esperienza veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra,
dove era in contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva
annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria
civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva
immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov.
1735. Giunse a Ginevra il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al
calvinismo, strinse amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini
e Jacob Vernet. A causa delle sue precarie condizioni economiche,
decise di pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale
s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto
proprio allora la sua società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era
trasferito in Olanda. Fu solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare
un nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del
marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu
attirato fraudolentemente in territorio sabaudo e arrestato. Sin dal 10
dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al
governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del
rapimento è stata raccontata dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine
esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso
il sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe
Gastaldi, il cui fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima
Gastaldi si guadagnò la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo
spesso a Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la
dogana) insieme con Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei
movimenti del G. a Ginevra, informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti
del Gastaldi per tutto l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della
domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì
con il figlio a casa di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe
di notte nella stanza del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo,
Gastaldi si mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del
doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente una copia
dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava di paese in paese
urlando di aver catturato "un grand'uomo". Giunto a Chambéry la
sera del 26 marzo 1736, Gastaldi consegnò i prigionieri al conte Piccon, il
quale, il 7 aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans,
tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni
dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia
dell'arresto, l'Ormea ne informò il cardinale Albani, al quale riferì anche
l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di
impegnarsi a tenerlo in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte
di Roma avrebbe preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente
XII ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea
e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio
piemontese e costretto ad abiurare. Durante la sua prigionia a Miolans
(aprile 1736 - settembre 1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro
Giannone scritta da lui medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima
versione dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva
offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di Piemonte, il
futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al
conte Piccon e ad altri agenti sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti
delle opere del G. (compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati
esaminati da Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico
di corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni
(che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po,
prima, e nella cittadella, poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre
filippino Giovan Battista Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei
suoi errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano. Il
testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si attendeva, tanto che -
contrariamente alla prima intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A
convincere il G. ad abiurare era stata la speranza di poter tornare presto in
libertà, ma il 15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe
rimasto sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De
Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione possibile
nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la speranza":
due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno e chiuse da una porta
di pietra). Gli era permessa qualche ora d'aria al giorno (purché non parlasse
con nessuno, tranne il governatore e il confessore del forte) e poteva leggere
e scrivere (purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per Torino).
Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di
Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse altre tre opere: l'Apologia de'
teologi scolastici (1739-41), l'Istoria del pontificato di s. Gregorio
Magno(1741-42) e L'ape ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi
del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove
l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e propria
demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno.
Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, era una
vera e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte
doveva essere dedicata a tale pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in
particolare del Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historiadi
Plinio il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e
complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni sopra
le opere di natura e dell'arte", denso di spunti autobiografici.
Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel 1738 ad
Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla "politia
ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant la police et la
discipline de l'Église chrétienne depuis son établissement jusqu'au XIe
siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da
C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la falsa
indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane
preoccupava le autorità ecclesiastiche, a Ceva il G. entrava in contatto con
esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura di alcune
allegazioni forensi. Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle
truppe franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di
successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il 3
settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella cittadella si
rivelarono assai più dure: il governatore Ercole Tomaso Roero di Cortanze non
aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini particolari per il
prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente dissimile a quello
riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il
Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio
1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un lungo e disperato
memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo sottoponeva il maggiore
della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli. Da allora le condizioni
della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non
era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con personaggi
della corte e della cultura, come i bibliotecari dell'Università Paolo Ricolvi
e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il residente inglese, Arthur
Villettes, il quale gli fece avere diversi libri della propria biblioteca,
grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di
Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi
scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il
nuovo interesse destato dal G. suscitò la reazione delle autorità
ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il
sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del prigioniero sarebbero
divenute più severe. In realtà il G. continuò a scrivere e a
ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte,
sopraggiunta il 17 marzo 1748. Il desiderio del G., formulato in una
lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione
da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto nella
fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara, all'interno della
cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860. Opere: Opere di
Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971 (con
un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la Vitascritta da se
medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno, del Ragguaglio del
ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere; Istoria civile, a cura
di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940; Dopo la
"Giannoniana": problemi di edizione, nuovi reperimenti di fonti e
l'introduzione perduta del "Triregno", a cura di G. Ricuperati, in
L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in onore di Furio Diaz, a cura
di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è
stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a cura di A. Denis, in Archivio
storico italiano, Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in
edizione critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra
le opere di natura e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con
bibliografia Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino,
Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi
i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in
Bollettino storico-bibliogr. subalpino, Arch. di Stato di Torino, Biblioteca
antica, Manoscritti di Giannone(inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte
torinesi di P. G., in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di
scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è
stato arricchito da documenti autografi del G., in gran parte relativi ai
periodi austriaco e veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P.
Giannone. Ricerche bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo
a Napoli nel Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico,
Milano 1961; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della
fortuna di P. G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di P. G., Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli
1980; A. Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe
Ferrari lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi,Id., Negli archivi
del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo (1748-1848),
in Riv. stor. italiana,G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European
free-thinking, in Transactions of the Ninth International Congress on the
Enlightenment, Oxford 1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great
Britain, in The Historical Journal, A. Hook, La "Storia civile del Regno
di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in Ricerche
storiche, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea
nel pensiero religioso di P. G., Firenze 1999.Grice: “One good thing about the
Roman Church (you know, there’s a Jewish Church, too) is Giannone – he was
rendered an ‘impious’ by the Church and imprisoned to death. This allowed him
to philosophise on the Liguri – and he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords:
la terza Roma, autobiografia, ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria –
commento su Livio – regno terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di
roma antica -- giannonismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gioberti – del bello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo italiano. Grice: “I like Gioberti; he published ‘Del bene, del bello,’
suggesting they are etymologically connected, and they are: BONUS alternates
with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives ‘bellus’ – So the
Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ – or gracious,
comfortable, and proportionate, rather than having to do with ‘bene’ itself. –
“like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” – Laureato, e parzialmente
influenzato da Mazzini, lo scopo principale della sua vita divenne
l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua emancipazione, non
solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e
sprezzanti del primato morale e civile degli italiani. Questo primato era
associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un modo più letterario
che politico. Carlo Alberto di Savoia lo nomina suo cappellano. La sua
popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti
per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e
non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico ma fu arrestato
con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Andò a
Parigi e Bruxelles per insegnare filosofia. Nonostante ciò, trovò il tempo per
filosofare con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.
Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto, divenne libero di tornare in patria. Al suo
ritorno a Torino, fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità
di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la
sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu presto eletto presidente.
Cadde il governo. Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo
governo terminò. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II lla sua vita
politica giunse alla fine. Ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se
senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a maturare. Fu
allontanato da Torino con l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi,
da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e
ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi
giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi agli studi filosofici. I primi
due licei istituiti a Torino celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il
Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il
Liceo classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti sono più importanti della
sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui
scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche
il sistema di Gioberti, conosciuto come “ontologismo”, più nello specifico
nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole
di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinse Victor Cousin a sostenere
che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti
non e un filosofo. Il metodo per lui è uno strumento sintetico,
soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia
con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico
ente Ens. Tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la
conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio
stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve
riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza
dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni
reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia. Gioberti è, da
un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e
nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla
conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si
fonda. In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata
dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e
sull'opinione pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In
“Rinnovamento e Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo
sull'influenza degli eventi. La sua prima opera aveva una ragione
personale per la sua esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la
realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica
del sovrannaturale”. Dopo questa, sono
passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita
dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una
nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta
espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella
storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla
quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine
del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli
esistenti. I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito
l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla
stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno,
pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato
il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la
popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici
occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere
acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere
sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l'attenzione
del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi,
nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più
fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti
furono messi all'indice. I resti delle sue opere, specialmente “La filosofia
della rivelazione” e la Prolologia espongono i suoi punti di vista maturi in
molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei
manoscritti, sono stati pubblicati daMassari (Torino). Il Ministero dei beni
culturali ha affidato la redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di
Studi Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di
Roma. Altre opera: Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani,
Enrico Castelli; Primato morale e civile degli italiani, Ugo Redanò; Introduzione
allo studio della filosofia, Alessandro Cortese; Teorica del sovrannaturale,
Alessandro Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; Vincenzo Gioberti, Del
rinnovamento civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori
d'Italia Bari, Laterza. Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi
dalle carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. Gioberti visse in Rue
des marais S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3. In lingua latina: "dal nulla", vedi
anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. Antonio, su Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Istituto Castelli-Roma
in. Anteprima disponibile su Anteprima della II edizione disponibile su
books.google. Giuseppe Massari, Vita di
Gioberti, Firenze, Antonio Rosmini Serbati, Gioberti e il panteismo, Milano, Spaventa,
La Filosofia di Gioberti, Napoli, Achille Mauri, Della vita e delle opere di
Gioberti, Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli, Pietro
Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Domenico Berti,
Di Gioberti, Firenze, Giorgio Rumi, Gioberti,
Bologna, Il mulino, Mario Sancipriano, Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento,
Roma, Studium, Francesco Traniello, Da
Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, Gianluca
Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di Gioberti, Milano,
Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Gioberti, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio
Leggiero, Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Gioberti attuale – Il Popolo d’Italia -- Non
bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al
fascismo, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il fascismo ha
molti precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola «
precursore » si dà un significato strettissimo o letterale, ne ha molti se la
stessa parola viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima categorià
può esser posto Vincenzo Gioberti. Ecco un autore che appare oggi « attuale »
più di quanto non fosse fra il 1840 e il 1850 o anche semplicemente venti anni
fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni, istruzioni, moniti,
previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal fascismo, una
gioventù studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or ecco come il
Gioberti, a proposito della necessità dell'educazione fisica giovanile, si
esprimeva nel suo Primato: « I giovani indurino il corpo avvezzandolo al sole,
allenandolo alla corsa e ai ginnici esercizì, rompendolo alle operose veglie e
alle utili fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura
coltrice e assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col
domare i sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai
vasti e magnifici pensieri ». Il fascismo ha battuto sempre in breccia certi
persistenti snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli
gruppi. Vedete come Gioberti flagellava gli esotismi del tempo che facevano
preferire le lingue straniere all'italiana, l'abietto « forestierume », come,
con parola di scherno supremo, diceva il Gioberti: « Riscuotano dunque se
stessi da ogni ombra di forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle
leggere, perché queste concorrono a informare il costume, che in opera di
mutazioni morali è la somma del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e
importantissima è la lingua nazionale così per la stretta ed intima congiuntura
dei pensieri con le voci, onde gli uni tanto valgono quanto l'espressione che
li veste (dal che segue che le parole non sono pur parole, ma eziandio cose)
come perché essendo ·la favella lo specchio più compito e più vivo delle
specialità morali e intellettive di un popolo, chi la trascura e disprezza non
può essere veramente libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della
patria. Perciò indizio grave di servilità e di declinazione civile e prova non
dubbia di poco amore verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e
il vezzo di parlare o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale
indegno costume è altresì basso e vile! ». Pochi scrittori hanno, più del
grande pensatore torinese, posto in rilievo la somma importanza della lingua
nella vita di un popolo e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla.
L'ostracismo che il regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di
creare su basi regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta
giustificazione in questo superbo brano ,di prosa giobertiana. E da ricordare
che il Gioberti definisce la italiana come « la più bella delle lingue vive ».
« Lo stile, dice Giorgio Buffon, è l'uomo; lo stile e la lingua, dico io, sono
il cittadino. La lingua e la nazionalità procedono di pari passo, perché quella
è uno dei principi fattivi e dei caratteri principali di questa, anzi il più
intimo e fondamentale di tutti, come il più spirituale, quando la
consanguineità e la coabitanza poco servirebbero ad unire i popoli unigeneri e
compaesani, senza il vincolo morale della comune favella. E però il Giordani
insegna che "la vita interiore e la pubblica di un popolo si sentono nella
sua lingua", la quale "è l'effige vera e viva, il ritratto di tutte
le mutazioni successive, la più chiara e indubitata storia dei costumi di
qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui mira ciascuno
l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno". E il Leopardi non
dubitò di affermare che "la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono
la stessa cosa" ». Parole queste che non saranno mai abbastanza meditate.
Quanto alla missione di Roma nella storia italiana e in quella europea e
universale, ecco alcune citazioni di Gioberti che hanno un sapore attualissimo.
« Il genio orientale affine a quello dell'Italia, se non altro perché Roma fu
una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso così esprimermi, l'oriente
dell'Oriente ». « Roma in effetto, nel bene come nel male, nei tempi antichi
come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti italiche ». La figura
di Gioberti, quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco deformata dalle
polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per far vedere che la
portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita con le vicende del
tempo. Gioberti è « attuale », anche e soprattutto oggi, nell'Italia del
Littorio. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista. Ancora
Gioberti (Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 11 febbraio 1934) di Scrittore fascista La prosa giobectiana è ricca di parole
asprigne, saporose e di neologismi indovinati. Si incontrano parole come
queste: schifiltà, infemminire nell'ozio, forestierume, perennare, sfasciume,
smanceroso, attillature, disviticchiare, mollizie, delicature, uomini faticanti,
laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più importanti sono sempre i pensieri del
filosofo torinese. In tutte le questioni egli ha un punto di vista, che
rappresentando le verità fondamentali, vale, oggi, come nel 1850. Ecco con
quali termini il Gioberti stabilisce i compiti e i doveri di un'aristocrazia
degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire ai figli degli
aristocratici. « Imprimano in essi la semplicità dei modi, la grandezza
dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la fermezza
nelle risoluzioni, J'intrepidità nei pericoli, la generosità nei travagli; li
assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le pompe, a tenersi
per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come di un tesoro da
dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità pubblica ». Nel
Gioberti si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere di ripristino
archeologico, alle quali il regime si è particolarmente consacrato, non
soltanto a Roma, ma in ogni parte d'Italia. Se Vincenzo Gioberti potesse vedere
lo spettacolo meraviglioso della Roma di oggi, dovrebbe fare constatazioni
diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la restaurazione
degli antichi monumenti, non giovano soltanto a documentare al mondo la nostra
gloriosa storia trimillenaria, ma sono anche fonti di ricchezza, per il
richiamo che essi esercitano su tutte le ·genti del mondo civile. Le poche
decine di milioni spese per creare quei capolavori che sono la via dell'Impero,
la via dei Trionfi, la via del Mare, sono già stati recuperati almeno cento
volte, attraverso l'affluire ìnces.sante degli stranieri. Ma Gioberti insisteva
sul lato educativo e morale delle ricerche archeologiche così esprimendosi: «
Egli è doloroso a pensare che così pochi siano al dl d'oggi gli italiani
solleciti di conoscere e studiare le patrie rovine e che tale inchiesta si
abbandoni, come inutile, all'ozio erudito di qualche antiquario. L'archeologia
non meno della filologia, ben !ungi dall'essere una scienza sterile e morta, è
viva e fecondissima, perché oltre a rinnovare il passato, giova a preparare
l'avvenire delle nazioni. Imperocché la risurre2ione erudita dei monumenti
nazionali porta seco il ristauro delle idee patrie, congiunge le età trascorse
colle future, serve di tessera esterna e di taglia ricordatrice ai popoli
risorgituri, destandone ed alimentandone le speranze colla voglia e con l'esca
delle memorie ». Tutta la storia d'Italia passa in rapide sintesi potenti nelle
meditazioni di Gioberti. I periodi di grandezza e di miseria, gli alti e bassi
del nostro popolo, trovano nel Gioberti un indagatore e un illustratore
vigoroso e penetrante. Egli « sente » la storia e come s'inorgoglisce parlando
dei periodi di splendore, è amaro e violento quando trae a descrivere le epoche
di decadenza. Nella citazione che segue sono condensati tre secoli della nostra
storia, i quali dal punto di vista politico sono stati oscuri, perché furono
secoli di divisione e di servitù. « Le ultime faville di virtù e di carità
patria perirono in Italia colla repubblica di Firenze; spenta la quale dalla
truce e schifosa progenie dei secondi Medici, l'ingegno secolaresco, costretto
a menar vita privata ed umbratile, non ebbe più altro campo dove esercitarsi
che quello degli studi: in cui rifulsero ancora tre sommi laici, il Tasso, il
Galilei, il Vico, che nel culto della sapienza poetica, naturale, filosofica,
andarono innanzi a tutti, e risposero in un certo modo alla triade clericale e
monachile del Bruno, del Campanella e del Sarpi. Ma il rinnovamento del ceto
civile nella penisola e la creazione dell'Italia laicale è dovuta a Vittorio
Alfieri, che, nuovo Dante, fu il vero secolarizzatore del genio italico
nell'età più vicina e diede agli spiriti quel forte impulso che ancora dura e
porterà quando che sia i suoi frutti ». Questa profezia del Primato si è
avverata. L'impulso dato da Alfieri diede i suoi frutti col Risorgimento. Dopo
una eclissi, tale impulso è lo stesso che scatenò il maggio radioso del '15 e
la marcia di ottobre del '22. È l'impulso che fece vincere la guerra e
trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è passato e già queste parole
del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori delle generazioni littorie. «
Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le vostre miserie, ricordatevi che
siete nati principi e destinati a regnare moralmente sul mondo! ». GIOBERTI,
Vincenzo. - Nacque a Torino il 5 apr. 1801 da Giuseppe, impiegato, e da
Marianna Capra. Un dissesto finanziario del padre, morto prematuramente, rese
molto precarie le condizioni economiche della famiglia. Formatosi nelle scuole
dei padri oratoriani, rivelò precoci interessi per la letteratura e per gli
studi filosofici e teologici, e annoverò tra i suoi maestri e guide spirituali
G.G. Sineo, poi ricordato come "il solo vero prete moderno" che
avesse incontrato. Tuttavia il G. fu essenzialmente un autodidatta, che,
nonostante la malferma salute, si dedicò con inaudita intensità alle più
disparate letture, toccando anche il settore linguistico, storico,
naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per N.
Machiavelli), e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di
pensieri: in uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico
dalla lettura dell'Alfieri, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista
dagli altri filosofi" (Meditazionifilosofiche inedite, p. 45). Tali
frammenti provano come il giovanissimo G. accumulasse una rilevante cultura
filosofica, in parte di tipo manualistico, ma in parte notevole ricavata da
letture di prima mano (sebbene non sempre nella lingua originale) concernenti
in special modo le opere di Platone, s. Agostino, F. Bacon, J.-B. Bossuet, G.
Vico, G.W. von Leibniz, N. de Malebranche, G.S. Gerdil, J.-J. Rousseau e I.
Kant. Quest'ultimo, unitamente alla "scuola scozzese" di Th. Reid,
appariva al G. il filosofo che aveva riportato "nel campo
dell'osservazione quel principio pensante, che molti aveano a tal segno obliato
da confonderlo coi sensi e colla materia" (ibid., p. 167). Alla linea di
pensiero che il G. definiva allora idealistica si affiancò il confronto
ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico di J.
de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, F.-A.-R. de Chateaubriand, P.-S. Ballanche e
delle prime opere di F.-R. de La Mennais. È da osservare che il G. conosceva
bene il francese, appreso dalla madre, e, ovviamente, il latino, ma non il
greco, mentre nel 1821 aveva iniziato, senza però approfondirlo, lo studio
dell'ebraico e del tedesco. In linea generale, prevalse nel giovane
G. un orientamento eclettico, considerato peculiare dei "cristiani
filosofi" e apertamente professato in opposizione allo "spirito
esclusivo" dei sistemi, pur in un quadro teorico segnato dalla polemica
antisensistica e dalla ricerca, non priva di momenti laceranti, di un punto di
equilibrio tra una persistente venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato
peraltro da corrosivi spunti anticlericali, alla religione cattolica, assunta
come deposito di verità oggettive, attingibili per via razionale solo in
maniera parziale e frammentaria. Oltre che sul piano teoretico, la necessità
della rivelazione cristiana s'imponeva per il giovane G. sul piano pratico e
politico, essendo "una religione rivelata e positiva l'organo indispensabile
della morale nella società", ovvero anche "un'obbligazione
sociale", chiamata a integrare "il mantenimento e l'accrescimento dei
diritti", indicati come fine della politica. La ragionevolezza
dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica, tenute distinte da
quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di transeunte, sostituiva,
nel giovane G., l'idea di religione naturale d'impronta deistica, facendo
salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale depositata
nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo progressivo
dispiegamento nella storia umana. Membro dell'accademia ecclesiastica
fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, il G. risentì dell'impronta
- probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista in campo
ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse alimento il suo
vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823, fu aggregato
alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre tesi: De Deo et
naturali religione, notevole per la padronanza della relativa letteratura
sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et theologicis
virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni l'unica opera
del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato ordinato
sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo C.
Chiaverotti erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel
gennaio 1826 fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480
lire. Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua
biografia. La stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso
materiale accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e l'attività
svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa sia di una
persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un sempre più
chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad attribuire, sul
fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della "frateria" - da
lui personalmente contrastati in occasione della vicenda che aveva coinvolto il
teologo G.M. Dettori, allontanato dalla cattedra universitaria nel 1829 con
l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico, all'involuzione autoritaria
del governo sabaudo. Tra il 1826 e il 1833 la riflessione del G. sui
rapporti tra religione e filosofia e tra religione e vita sociale seguì un
percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le lettere indirizzate a G.
Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze, durante un viaggio per
l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A. Manzoni), le lettere al
giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura accademica sull'accordo della
religione cattolica coi progressi della società civile (Ricordi biografici e
carteggio, a cura di G. Massari, I, pp. 116-126). Scrivendo al Leopardi
da Torino il 2 apr. 1830, il G. confessava di aver professato nel passato
"un puro teismo", e di aver mutato idea in seguito a nuove indagini
sulla "verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo che è la sola
forma invariabile di quello) come sistema dottrinale e come fatto
storico", e di essere approdato a una "adesione intima, schietta, profonda
alla religione cattolica", che gli aveva consentito di vincere "i
fastidi, le amaritudini, i terrori, la malinconia" che fin allora lo
avevano tormentato (Epistolario, I, pp. 41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver
"letto a furia" Le mie prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una
lettera in cui, opposto "il cristianesimo di Silvio" a quello dei
gesuiti, dei "nemici della filosofia e della civiltà", rivelava di
essere divenuto assertore di una religione filosofica: cioè di una religione
"immedesimata" e non solo conciliata con la filosofia, fondamento di
una morale austera, "ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio
di se medesimo per intendere unicamente al bene della patria" (ibid., pp.
131-133). Nei primi anni Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo
saggio sull'origine delle idee di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più
stringente e sistematico l'idea di una diretta connessione tra risorgimento
filosofico e risorgimento nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica
autoctona, dispiegata genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la
scuola eleatica, la patristica latina, l'umanesimo e G. Vico (lettera a C.
Verga, 23 dic. 1831, ibid., pp. 69-73). Dichiarandosi continuatore di questa
linea ideale, il G. manifestò una speciale consonanza con il pensiero di
Giordano Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con l'evoluzione delle
proprie idee politiche, professione di panteismo. Tale collegamento è
attestato da una lunga lettera, scritta probabilmente nella primavera-estate
del 1833 ai compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata sotto lo
pseudonimo di Demofilo nel 1834. Il G. vi esaltava il panteismo come la sola
filosofia "destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni
ingegni", affermando di avvertire nelle dottrine politiche professate dai
mazziniani "un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25;
cfr. anche lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La
lettera, ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da G. Mazzini,
come a lungo si credette, ma probabilmente da C. Cattaneo, col titolo Della
repubblica e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle
convinzioni del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il
corso della sua esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione
civile finalizzata alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente,
l'impossibilità di dar vita a "una religione veramente nuova […], tanto
che i filosofi, e gli uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori
del Cristianesimo non v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura
escatologica, ma non solo ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di
redenzione, implicante una sua dilatazione dalla sfera individuale a quella
sociale, prefigurata nella promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in
questo mondo". Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo
politico-sociale in vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle
dottrine sansimoniane, il motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava
così il presupposto di una "cristianità novella", l'annunzio di
un'epoca imminente in cui "Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo,
ma nel popolo", e destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a
una pace perpetua, all'immortalità e alla gloria". L'abito di
prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee
destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo
indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al
relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta
dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione,
forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia,
sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P.
Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta
in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con
pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al
settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo
esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici. Per poco
più di un anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in
una situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni
di uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret
per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le
relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o
temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, A.
Peyron, T. Mamiani, C. Botta, e con esponenti di primo piano del mondo
accademico francese, come V. Cousin e J.-J. Champollion, visse in relativo
isolamento, in una città che considerava il "microcosmo d'Europa" ma
non amava, ascoltando le lezioni accademiche di C. Fauriel e di Th.-S.
Jouffroy, impartendo per vivere lezioni private d'italiano e progettando, senza
realizzarli, lavori di argomento filosofico o di polemica politica sulla
sanguinosa repressione seguita alla congiura del 1833 e al tentativo mazziniano
del 1834. Nella febbrile atmosfera intellettuale della monarchia di luglio il
G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma senza condividerne appieno i
contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale espressi dalla tarda scuola
sansimoniana, da Ph.-J.-B. Buchez, dalle Paroles d'un croyant di F.-R. de La
Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla totale
estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento alla
venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come prossima
la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il nuovo", nel
quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero diventati "gli
ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato sino a produrre
"una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la legge universale,
una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la concordia del cielo
colla terra" (lettera all'abate P. Unia, 14 maggio 1834, ibid., I, pp.
134-139). Per altro verso, si approfondiva sino a divenire inconciliabile il
dissenso del G. nei riguardi della linea mazziniana e verso i movimenti
insurrezionali, cui attribuiva la responsabilità di aver "impedita o
spenta una metà almeno di quel civile progresso che altrimenti or sarebbe in
Italia". Ne discendeva un caldo invito, rivolto ai suoi numerosi
corrispondenti piemontesi, all'accorta prudenza e a un lavoro di lunga lena
finalizzato a un apostolato politico basato sull'aperta propaganda delle idee
patriottiche. Dall'insieme delle posizioni giobertiane dell'esilio parigino
trasparivano una sostanziale sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla
coscienza nazionale del popolo italiano, "languido, diviso e inerte",
un'attenuazione delle antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono
delle convinzioni panteistiche. Sul piano politico, il G. inquadrava ora la
questione nazionale nella riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario
in Francia e nella susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni
determinanti della liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata
definitiva dei "nostri tiranni". Nel dicembre 1834 accettò,
anche per ragioni economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e
filosofia nel collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote
italiano convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani
cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera
politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema
costituzionale sortito dalla rivoluzione del 1830, il G. proseguì nella
revisione ideologica già profilatasi nel periodo parigino, prospettando più
lucidamente che nel passato un'esigenza di conciliazione, che non implicasse
identificazione, tra dogmatica religiosa e idee filosofiche e tra ordine
soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in proposito che, mentre in
precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle idee, ora li disgiungeva,
evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica filosofia, ma
considerandolo invece "il compimento della filosofia medesima" (a
P.D. Pinelli, 15 apr. 1835, ibid., II, pp. 239-243). Ne conseguì la decisione
di produrre finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la
luce a Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica
del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata
colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di
un mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in
rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles
1839-40), che ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente
limitatissima, della Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta
l'introduzione nel Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et
politiques de m. de Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de
France dell'8 genn. 1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a Parigi-Lovanio,
1841); il saggio Del bello, composto come voce dell'Enciclopedia italiana e
dizionario della conversazione (Venezia) diretta da A.F. Falconetti, e
pubblicato anche come volume a sé nell'autunno del 1841, prima opera del G.
edita in Italia, che doveva essere seguita da un altro testo destinato alla
stessa sede, Del buono, uscito invece in forma autonoma a Bruxelles nel 1843; e
le dieci lettere Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (Bruxelles 1841; la
seconda edizione, del 1843-44, portava a 12 il numero delle lettere e
comprendeva altri scritti giobertiani). Nella Teorica il G. faceva i
conti con il proprio antecedente itinerario intellettuale e con le tendenze
filosofico-religiose del suo tempo. L'opera, imperniata sull'analisi delle
relazioni tra ordine religioso e ordine civile osservate sotto un'angolatura
gnoseologica, etica e storica, aveva come principale obiettivo polemico la
riduzione monistica della sfera religiosa a quella civile o viceversa, operata,
secondo il G., dalle teorie razionalistiche e panteistiche, dal
"cristianesimo politico" dei sansimoniani alla Buchez, dal
tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La Mennais. Dalle
dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva, rielaborandola, l'idea
di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire sia l'attivazione
(mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della facoltà di conoscere e
di volere e quindi l'origine della civiltà, sia l'infusione nella mente umana
di verità sovraintellegibili, percepite come misteri, analizzabili
razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine religioso. Ne
discendeva una storia parallela, basata sul principio di distinzione e di
interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa, anch'essa rappresentata
come progressiva, fino al suo compimento nella rivelazione cristiana, custodita
integralmente e infallibilmente dalla Chiesa cattolica. Il tracciato di questo
duplice cammino era per il G. contrassegnato dal progressivo incremento del
ruolo della religione come "causa e stromento" di civiltà, e dal
graduale accostamento degli ordini politici al modello di società organizzata
costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro nell'applicazione alla sfera
politica del sistema elettivo proprio degli ordini ecclesiastici). Emergevano
pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di una rilettura cattolica
della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla tesi delle sue origini
protestanti, e una riaffermazione del primato della religione sulla civiltà e
della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella confutazione dei sistemi
politici, assoluti o democratici che fossero, i quali implicassero una
subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si trattava, in
definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che nello scorcio
conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta nazionale. Tale
impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo studio della filosofia.
L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse all'Italia, dopo un lungo
periodo di oscuramento della sua tradizione filosofica determinato dalla
perdita dell'"indipendenza civile", promuovere la restaurazione della
"vera filosofia", scomparsa dall'orizzonte europeo in seguito
all'espulsione dell'"idea di Dio dallo scibile umano", e porre
rimedio agli effetti devastanti prodotti sul piano politico dalla diffusione di
falsi principî filosofici, generatori delle due contrapposte tirannidi
prevalenti nel mondo moderno, quella dei despoti e quella del popoli, dipendenti
"dallo stesso principio, e aventi uno scopo unico, cioè il predominio
della forza sul diritto". L'Introduzione intendeva porre le basi di un
organico sistema filosofico (inteso in senso molto estensivo), in grado di
contrapporsi alle deviazioni psicologistiche, soggettivistiche o panteistiche
della filosofia moderna generate principalmente, sul piano speculativo, dal
pensiero e dal metodo analitico di Cartesio e, su quello religioso, dalla
Riforma: un sistema imperniato sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione
totalmente diversa da quella utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai
panteisti moderni (tra cui G.W.F. Hegel), e analoga invece a quella platonica e
malebranchiana. Il riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto
reale e in atto che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o
principio ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio
sintetico a priori o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che
pone nell'atto creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione
dell'identica matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera
enciclopedia filosofica sul piano speculativo. Il principio contenuto nella
formula ideale si esplica infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a
differenza del primo, dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come
causa seconda, l'azione dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero
arbitrio, che lo rende "in un certo modo creatore" e simile a Dio.
Mentre il primo ciclo è il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei
principî, il secondo ciclo, nel quale si esplica la "vita attiva", è
l'oggetto dell'etica, scienza dei fini. Tra le molteplici applicazioni
della formula ideale abbozzate nell'Introduzione assumevano un rilievo
particolare quella concernente il rapporto tra religione e civiltà secondo lo
schema relazionale già profilato nella Teorica, e quella riguardante la sfera
della sovranità. In argomento il G., ponendo nell'Idea l'origine della
sovranità, ne confutava sia il fondamento contrattualistico (visto come
prodotto delle deviazioni soggettivistiche e sensistiche della filosofia
moderna), sia l'identificazione con il potere assoluto di un principe.
Definendo la sovranità come un processo discendente dall'Idea, ma nello stesso
tempo partecipativo, il G. perveniva alla enunciazione di una formula politica
(modellata sulla formula ideale), per la quale "il sovrano fa il
popolo" ma "il popolo diventa sovrano", mediante "la
trasformazione lenta, graduata e sicura del Demo in patriziato". Ciò si
traduceva in un'apologia della monarchia civile o rappresentativa generata dal
cristianesimo e già prefigurata negli ordinamenti medievali, vista come sintesi
tra un potere tradizionale e un'"aristocrazia elettiva" chiamata a
estendersi col progredire dell'incivilimento. Inoltre, distinguendo il diritto
sovrano dal diritto del principe, il G. finiva per recuperare come "unico
giure assoluto, essenziale, irrepugnabile" l'idea di sovranità nazionale,
trasferendo alla nazione (una volta istituita come corpo politico) il carattere
di primazia che i fautori dell'assolutismo attribuivano al principe: sino a
proclamare non solo il diritto di resistenza nei confronti del principe
assoluto, ma financo, in casi estremi, la legittimità della rivoluzione.
Il progetto di cui la Teorica e l'Introduzionecostituivano una prima
cornice speculativa era sintetizzato in una lettera a T. Mamiani del 15 ott.
1840 (Epistolario, III, pp. 66-69), dove il G. esprimeva la convinzione che il
solo modo di giovare all'Italia fosse quello di "creare una scuola di
libertà temperata, morale, religiosa, italiana, una scuola di civiltà tanto
aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello dei despoti"; indicava
l'obiettivo di far della religione "una insegna nazionale"
immedesimandola "col genio dell'Italia, come nazione", facendone
"una di quelle idee madri che seggono in cima al pensiero degli uomini e
signoreggiano ogni parte del vivere civile". Con l'aggiunta che,
distinguendo "nella religione cattolica la credenza dall'istituzione"
e insistendo sulla seconda, non sarebbe stato difficile convincere gli
increduli che "il cattolicesimo, anche umanamente considerato, sia il
migliore degli istituti religiosi possibili". Un programma di così
ambiziosa portata prefigurava un disegno in qualche misura egemonico sul piano
culturale e induceva il G. non solo a entrare in diretta polemica con le opere
di autorevoli esponenti del coevo pensiero europeo, come Cousin (in uno scritto
concepito come appendice dell'Introduzione, ma pubblicato inizialmente a parte,
a Bruxelles nel 1840, le Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio
Cousin), e come Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso le sue ultime
opere filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con l'altro
pensatore italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con intenti
non meno ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia cristiana
capace di misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi confronti si
era già manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana
dell'Essere ideale era mossa la critica di perdurante e invalicabile
psicologismo e perciò di soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale
iniziale dissenso si tradusse in acre e prolungata polemica, specialmente in
ragione dei successivi interventi dei seguaci del Rosmini, come M. Tarditi,
l'abate L. Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i
quali le tesi giobertiane menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo,
incominciando dalla già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A.
Rosmini, importante soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il
processo teorico attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella
polemica il G. fu affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De
Rossi di Santarosa, mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N.
Tommaseo. Nella primavera del 1843, sempre a Bruxelles, il G. diede alle
stampe l'opera che doveva dargli la celebrità, Del primato morale e civile
degli Italiani, tirato nella prima edizione in 1500 esemplari. Concepito
inizialmente come "un'operetta di non molte pagine", "un
discorsetto non solo sul Papa ma sull'Italia", il Primato divenne strada
facendo un ponderoso lavoro in due grossi volumi, la cui scrittura, iniziata
nel 1842, procedette in parallelo con la stampa fino al maggio dell'anno
successivo. L'opera, dalla struttura sovrabbondante e magmatica, colma di
formule apodittiche e di scarti lessicali, aveva tuttavia un suo asse portante
nel tentativo di definire i caratteri originali e permanenti della nazionalità
italiana sintetizzati in quello che il G. chiamava "genio nazionale".
Plasmato da fattori naturali, come il sito geografico e la feconda mescolanza
di stirpi pelasgiche ed etrusche, connotato dalla preminenza di elementi
sacerdotali e aristocratici, dotato di un suo particolare "genio
federativo" espresso dalla "società di popoli" realizzata dalla
repubblica romana (poi tralignata in signoria imperiale), riflesso culturalmente
da un'ininterrotta tradizione filosofica autoctona, il genio italico aveva
trovato, secondo il G., una sua configurazione effettivamente nazionale per
opera del Papato, che lungo il Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando
la traduzione in "ordini civili" dei dettati religiosi e morali del
cristianesimo. Il tratto costitutivo della nazione italiana veniva così
reperito in un principio ideale, convalidato tuttavia da fattori naturali di
tipo etnico e confermato dalla storia: nell'essere l'Italia "nazione
religiosa per eccellenza", dotata di un primato religioso determinato dal
trapianto in Roma dell'Evangelo e dall'elezione provvidenziale della sede
romana a sede apostolica, che si riverberava in un primato dell'Italia
nell'ordine morale e civile, da cui traeva il carattere di "creatrice,
conservatrice e redentrice" della civiltà europea. Il ruolo o la missione
religioso-civile, che faceva degli Italiani "il nuovo Israele" e
dell'Italia una "nazione sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal
G. come indivisibile da quello del Papato: il quale, mediante l'esercizio della
potestà civile connaturata alla sua primazia religiosa, non solo aveva
costituito la nazionalità italiana, ma le aveva altresì impresso i tratti suoi
propri di nazione guelfa. Per converso, il declino della potestà civile dei
pontefici, iniziato nel tardo Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era
tradotto nella decadenza, nell'asservimento politico, nella subordinazione
culturale dell'Italia e nella frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il
risorgimento italiano, concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione
religiosa europea, veniva dunque a raccordarsi strettamente con la
restaurazione della "scaduta potestà civile del Papa in modo conforme e
proporzionato all'indole e ai bisogni del secolo". Tale formula conteneva
il nocciolo della tesi centrale del Primato: posto che, secondo il G.,
l'esercizio della potestà civile pontificia, perno della più ampia potestà
civile della Chiesa, era per sua natura suscettibile di assumere modalità
variabili in relazione al cammino della civiltà in senso secolare, essa era
chiamata a evolversi in maniera vieppiù adeguata alla propria originaria
legittimazione religiosa e alla progressiva acquisizione di "indipendenza
civile" e di "capacità nazionale" da parte dei popoli, assumendo
le forme preminenti della forza morale, della persuasione, dell'influenza
pacifica e pacificatrice. L'itinerario della potestà civile pontificia
tracciato dal G. procedeva dunque dalla "dittatura", consona alle età
barbariche, verso un "potere arbitrale", delimitato dal fatto di non
"avere alcun effetto civile che non sia consentito alla libera [cioè
liberamente] dalle parti gareggianti e deliberanti". Si realizzava così la
saldatura tra la restaurazione-riforma del potere civile del Papato e il
Risorgimento italiano: nel senso che la ridefinizione del primo avrebbe reso
possibile l'esercizio effettivo da parte del pontefice del ruolo, mai assunto
nel passato, di capo civile della nazione sotto forma presidenziale (o dogale)
- un ruolo, dunque, istituzionale, analogo ma più forte di quello arbitrale -,
e la contemporanea trasformazione in unità "nazionale e politica"
della preesistente, ma virtuale, unità italiana senza che ne venissero toccati
i legittimi poteri dei sovrani. Quest'ultimo aspetto costituiva un altro
snodo del Primato, che consentiva al G. di tracciare una via consensuale,
pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie per la costruzione dello Stato
nazionale. Scartate come estranee alla natura e alla storia del genio italico
le forme del dispotismo e della democrazia "demagogica" fondata
sull'idea della sovranità popolare, e assumendo come punto di riferimento il
riformismo settecentesco, in specie di Pietro Leopoldo e di Benedetto XIV, il
G. raffigurava l'erigenda entità politica nazionale come una confederazione dei
maggiori Stati italiani, retti a monarchia "consultiva" sotto la
presidenza moderatrice del pontefice elettivo. La formula della monarchia
consultativa veniva preferita a quella della monarchia rappresentativa per il
fatto di non frammentare la sovranità, e di permettere ugualmente ai sovrani di
governare secondo il voto della nazione, raccolto e filtrato da un corpo
vitalizio di "veri ottimati" tratto da un'aristocrazia selezionata
dal merito e dall'ingegno più che dal sangue nobiliare, agente come canale di
collegamento con l'opinione pubblica. Un'attenzione particolare era dedicata
dal Primato al potere dell'opinione negli Stati moderni, alle condizioni
necessarie del suo sviluppo, al ruolo che il clero era chiamato a esercitarvi
nel rispetto del "principio sacrosanto della libertà delle
coscienze", alla funzione modernizzatrice delle élitesintellettuali.
L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva lo stesso G.) si
traduceva in una forma politica composita, che richiamava in certa misura
l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza conciliatrice del
pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e consultative, ciascuna
sotto un capo ereditario investito del supremo comando", e finalizzata
all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione della libertà civile, tenuta
distinta da quella politica, cioè costituzionale. Scritto come libro
"moderatissimo" per non "irritare gli animi" e consentirgli
di circolare per tutta la penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti
dell'Austria e il divieto di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita
intenzione di raccogliere i più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente
da parte argomenti di più immediata rilevanza politica, che pure il G.
affermava di aver originariamente previsto, quali il predominio dell'Austria o
la laicizzazione del governo dello Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre
un ripiegamento rispetto ad alcune delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo
studio della filosofia e conteneva positivi apprezzamenti nei riguardi della
Compagnia di Gesù. Accolto con favore in ambienti laici ed ecclesiastici,
compresi quelli gesuitici, ma stroncato da G. Ferrari nel quadro della polemica
antigiobertiana che percorreva il suo saggio La philosophie catholique en
Italie (uscito in due puntate sulla Revue des deux mondes nel marzo-maggio
1844, cui il G. rispose con una lettera pubblicata in appendice alla seconda
edizione di Degli errori filosofici di A. Rosmini), il libro contribuì in modo
rilevante alla formazione dell'opinione nazionale, pur a prezzo o forse in
ragione delle sue reticenze e dissimulazioni, trovando una naturale
collocazione nel contesto del riformismo moderato degli anni Quaranta,
specialmente in Piemonte, grazie anche all'apologia, presente in certe sue
pagine, della missione nazionale riservata allo Stato sabaudo sotto il profilo
militare, e all'esaltazione del riformismo carloalbertino: temi subito ripresi
e sviluppati, in senso più marcatamente sabaudista ma anche meno proclive
all'idea del primato italiano, nelle Speranze degli Italiani di C. Balbo (che
sul finire del 1844 ebbe parte principale nella nomina del G. a socio nazionale
non residente dell'Accademia delle scienze di Torino). Di segno opposto furono
le accoglienze riservate al Primato da G. Mazzini e dai neoghibellini. La prima
edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza
di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il
1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso
tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a
parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni del Primato. Qui il G.
abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore
della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti
settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico
o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale
contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna
e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad
aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia,
segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci, non senza il
sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan. I
Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche del
Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò un
successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna nel
1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G. da
Bruxelles a Parigi (1845), reso possibile dall'autonomia finanziaria
assicuratagli dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da
P.D. Pinelli per una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove
rinsaldò l'amicizia con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e
ammiratore), il G. si trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle
congregazioni e nel cuore delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate
dai corsi tenuti al Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet.
Soprattutto, suscitò grande eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più
riprese corrosivi spunti antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei
coevi conflitti politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra
del Sonderbund. Impostato come una replica alle critiche dei padri
Pellico e Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un
farraginoso lavoro in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto
dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare
di una sistematica opera di spionaggio messo in atto da emissari della
Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti
antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già
abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito
gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a
un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare
il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G.
prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi
enunciate dal p. L. Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità (1846),
dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario
della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno
Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. Il G. vi
contrapponeva un'idea di nazionalità come "creatrice di diritti",
fattore sostanziale e incoercibile di identità di un popolo, in tal modo
proclamando non solo l'incomponibile divaricazione tra due idee di nazionalità,
ma anche prendendo definitivo congedo dalle sfumature legittimistiche del
Primato. Gli eccessi polemici del Gesuita moderno, singolarmente
contrastanti con la moderazione del Primato, gli valsero un'accoglienza
controversa e suscitarono non poche critiche anche da parte di cattolici
liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono ulteriore udienza e
popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a quella del Primato,
all'opera, che non era stata interdetta dalla censura ecclesiastica ed era
venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico spirava forte negli
Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in 12.000 copie).
I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione italiana con l'elezione
di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore, gli atteggiamenti assai
cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore del Primato, nei
confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle critiche al Gesuita
modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per mano dell'archeologo
Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a porre mano a un nuovo
lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno", con
alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno
1848). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa ora al partito
francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da Ch. de Montalembert,
veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti nel frattempo
dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale convalida delle
proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della stampa, progredita
assai lentamente, e la conclusione del lavoro, compiuto nell'aprile 1848, erano
intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione
parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la
concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la
rivoluzione di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione
milanese, l'avvio della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era
stata espulsa da molti Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al
G. che i gesuiti, dei quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione,
fossero "morti politicamente", pur continuando a sopravvivere "i
loro spiriti". Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale
dell'opera, più legato all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato
Parigi 8 apr. 1848, in cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione
siciliana del gennaio, entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il
libro ancor più eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più
inadeguato, ma accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente
la luce, in quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai
ritornato a Torino. Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono
di un manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal
G. su alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il
Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in
primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione
riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale
del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale
interpretato come "un evento religioso, europeo, universale",
promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del
cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e
monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in
secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno
costituzionale dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata
dalla confutazione dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso,
l'Apologia portò allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature
del pensiero giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli
approdi più recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia,
non tanto intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica
"rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la
durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale
avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose
umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J.
Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta conclusiva
del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la costituzione di
uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione in senso
repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia pontificia in
una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che consentisse al papa,
in quanto principe temporale, di regnare senza governare e di realizzare la
"separazione assoluta del governo spirituale dal temporale".
Quando rientrò a Torino, il 29 apr. 1848, dopo oltre quattordici anni di esilio
e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era reduce da una prima
cocente delusione politica, determinata dall'annuncio confidenziale,
pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua nomina a
ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di Carlo
Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio
torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera
subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla
fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi
di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga
peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro
col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu
ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova,
a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse
udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze,
donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia,
avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto
un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX il 29 aprile - il cui significato il
G. tentò invano di minimizzare - e dalla reazione borbonica di maggio, fu tanto
indicativo dei vertici raggiunti dalla popolarità del G., ovunque fatto oggetto
di accoglienze trionfali e talora deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più
vari circoli politici, quanto povero di durevoli risultati. Nel corso di tale
viaggio, affrontato con lena missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune
idee-guida: in nome della concordia nazionale combatté a spada tratta le
ipotesi repubblicane di ogni genere, i movimenti da lui tacciati di
municipalismo, i progetti per un'assemblea costituente, che finì tuttavia per
ritenere inevitabile e non pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto
accoglimento dei voti di unione al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la
proclamazione di un forte regno dell'Italia settentrionale; tentò con la
medesima energia di rilanciare la soluzione federale, contro i riaffioranti
particolarismi statali e dinastici, non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò
per un consolidamento del sistema costituzionale a Roma, utilizzando anche i
propri rapporti di amicizia con il ministro T. Mamiani. Analoghi
programmi il G. sostenne durante la breve vita del gabinetto Casati, al quale
fu aggregato dal 29 luglio, giusto all'indomani del disastro di Custoza, in
qualità di ministro senza portafoglio e poi dell'Istruzione, facendosi
personalmente promotore della missione del Rosmini presso Pio IX, finalizzata
alla stipulazione di un trattato confederale e di un nuovo concordato. Ma la
firma dell'armistizio Salasco (9 ag. 1848) e l'interruzione della guerra con
l'Austria lo colsero di sorpresa. Di fronte alla svolta che portò alle
dimissioni del governo Casati, il G. abbracciò posizioni assai impopolari
presso i moderati, dapprima avversando e poi perorando una richiesta di aiuto
militare alla Repubblica francese, combattendo a spada tratta la richiesta di
una mediazione diplomatica franco-inglese, schierandosi per una ripresa della
guerra in una cornice federativa quanto mai inattuale. Le ombrosità e le
ambizioni del G., che aspirava alla presidenza del Consiglio, ebbero modo di
tradursi in aperto dissenso politico in occasione della formazione del governo
presieduto da C. Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone di San Martino), che
pure includeva tre amici del G. come il Pinelli, in posizione preminente, F.
Merlo e Santarosa. Al nuovo ministero il G. dichiarò guerra aperta con un
opuscolo dai toni aggressivi, I due programmi del ministero Sostegno (Torino
1848). Accusato il nuovo governo di spirito municipalista, cioè di disinteresse
per le sorti degli altri Stati italiani, il G., che aveva lasciato il seggio
parlamentare in occasione della sua nomina ministeriale, tentò, facendo appello
all'opinione pubblica nazionale, di promuovere una politica alternativa basata
sull'idea di una Costituente federativa con mandato limitato, da contrapporre
sia all'inerzia del governo piemontese in carica, sia ai programmi di
Costituente agitati dai gruppi democratici radicali. Fu quindi coinvolto nella
fondazione della Società nazionale per la confederazione italiana, che tenne in
ottobre a Torino il suo primo e unico congresso. Preceduto da un suo infiammato
indirizzo "ai popoli italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli
irreparabili guasti religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e
di Roma") e aperto da un discorso introduttivo in cui il G. denunciò le
colpe dei "repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei
democratici schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la
faticosa elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la
proclamazione del carattere irrevocabile della fusione delle regioni
settentrionali nel Regno dell'Alta Italia. Rieletto alla Camera nella
tornata suppletiva del 30 settembre e nuovamente asceso alla presidenza
dell'Assemblea, dopo le dimissioni del governo da lui accanitamente avversato
il G. ebbe a metà dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui
assunse anche il dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio
non più come simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior
spicco dell'opposizione, nel discorso programmatico del 16 dicembre definì il
proprio ministero con l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a
innalzare la plebe "a dignità di popolo", a serbare rigidamente
l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli
interessi delle province, con implicito riferimento alla difficile situazione
genovese, a "corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando
con gli spiriti di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre
l'intenzione di riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente
federativa italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il
diritto dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica
- di intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti
rivoluzionari o interventi militari stranieri. Il G. s'inoltrò pertanto in una
politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio,
carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in
documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto
della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo
nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe
sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore
tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi insistiti
tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la commissione
provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice nel suo Stato
con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento degli ordini
costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del Mazzini in Roma
e la convocazione della Costituente italiana. Sul finire dell'anno il G.
chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e l'indizione per il
22 genn. 1849 di nuove elezioni, che videro il suo personale successo in dieci
collegi del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente sbilanciata sulla
Sinistra democratica. Poco attento agli equilibri parlamentari, che considerava
con un certo disdegno, abbandonate le velleità di convincere Ferdinando di
Borbone e gli indipendentisti siciliani ad affidare alla Costituente federativa
la composizione del loro prolungato conflitto, s'addentrò in un'avventura
militare che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente tentato, grazie
anche ai suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il governo
democratico toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti di
Assemblea costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in
legge operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran
segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il
granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del
disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e
degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento
sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del
presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano,
pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della
propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni
orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il
Saggiatore, sul quale intervenne il 17 marzo per invocare l'unità degli spiriti
in occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora
altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara
l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il
G., su invito del Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio
nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo
che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di
assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi.
L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti
dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a
destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di
togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di
pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari
personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui A. de Tocqueville,
reagì con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno
sardo dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario,
manifestò a chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana,
espresse il suo distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le
somme pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo,
volontario esilio. Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul
piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui
era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di
riferimenti alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di
reagire, con sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio
1849 dalla congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando
pubblicamente la linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul
piano politico espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane,
colorate di socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in
una lettera del 1851, di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso
"perché ordina tutto al trionfo vicino o lontano di questo colore".
Si dichiarava altresì fautore di un ordinamento scolastico saldamente nelle
mani dello Stato, in quanto promotore e responsabile dell'"educazione
nazionale", della gratuità dell'istruzione primaria, dell'assistenza
pubblica ai vecchi, agli ammalati e "alla povertà che non trova da
lavorare". Mentre nella primavera del 1851 usciva a Capolago, per
iniziativa e con un'introduzione del Massari, una raccolta di lettere,
interventi e discorsi dalla fine del 1847 all'inizio del 1849, con il titolo di
Operette politiche, il G. riprese in mano i propri lavori di argomento
filosofico e religioso, editi e inediti, ma soprattutto si dedicò alacremente
alla stesura di una nuova opera di ampio respiro che volle si stampasse a
Parigi sotto la sua sorveglianza, pur affidandone la pubblicazione all'editore
torinese Bocca: era Del rinnovamento civile d'Italia, che vide la luce nel
novembre del 1851, in due volumi, il secondo dei quali contenente anche una
nutrita parte documentaria. Il Rinnovamento si presentava come una
riflessione politica che, prendendo spunto dalla ricostruzione critica e
storica degli eventi del '48, affrontava il tema generale delle mutate
condizioni interne e internazionali in cui l'unificazione nazionale avrebbe
ripreso il suo cammino. Il libro proclamava la fine della fase del Risorgimento
e l'inizio della fase del rinnovamento, concepito come parte integrante
"di un moto comune a quasi tutta l'Europa": il primo si era mosso
nella logica di una trasformazione graduale delle cose, il secondo avrebbe
assunto "aspetto e qualità di rivoluzione"; il primo era stato
movimento autonomo, governato dalle condizioni dell'Italia, il secondo sarebbe
dipeso "in gran parte dai fatti esterni"; il primo aveva dovuto
limitarsi all'obiettivo di un sistema federale "perché non ve n'era altro
possibile", il secondo non poteva escludere una possibile, e benefica,
accelerazione storica verso l'unificazione politica. Su questa falsariga il G.
affrontava dettagliatamente, traendo lezione dagli errori che a suo giudizio
erano stati commessi da tutte le forze nazionali, una serie di argomenti di
grande impegno: l'insostenibilità del potere temporale dei papi, "la
maggiore anticaglia superstite dell'età nostra", dannoso all'Italia,
all'Europa e soprattutto al cattolicesimo come causa di subordinazione del
Papato alle forze della reazione interne ed esterne; il posto e la natura del
partito conservatore e del partito democratico nella "politica
nazionale"; le condizioni alle quali il Piemonte, "il paese più
scarso di spiriti italici", dominato da una classe politica di patrizi e
di avvocati "inclinati al municipalismo", guidato da una dinastia
"stata finora impropizia all'ingegno, aristocratica e municipale", e
nondimeno l'unico ad aver preservato gli ordinamenti costituzionali, poteva
svolgere quel ruolo egemonico su scala nazionale che solo avrebbe salvato la
monarchia sabauda da un fatale declino. Un argomento che l'autore adduceva a
convalida delle proprie tesi, e che, diversamente dal Primato, implicava
l'attribuzione al Regno sardo di un ruolo anche morale (pur rimanendo una
futura "Roma laicale e civile […] il principio ideale della risurrezione
italica"), era la politica ecclesiastica inaugurata dalle leggi Siccardi:
un passo verso la "separazione assoluta tra le due giurisdizioni", la
temporale e la spirituale, costituente "la prima base della libertà religiosa,
che tanto è cara ai popoli civili", cornice necessaria alla formazione di
un clero "liberale e sapiente", capace di purgare la religione
"dagli errori e dagli abusi che la guastano". Ma il
Rinnovamento era pure un discorso di "scienza civile", secondo la
definizione giobertiana, intessuto di riferimenti a Machiavelli, ma condotto
sulla base dei "bisogni principali dell'età nostra, il predominio del
pensiero, l'autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe": a
soddisfare i quali il G. poneva come condizioni l'esistenza di governi liberi,
la costituzione di Stati a misura nazionale, il funzionamento di ordini civili
atti a promuovere l'innalzamento della plebe a popolo. Per tale aspetto una
funzione determinante veniva attribuita, da un lato, all'"ingegno",
cioè alle élites intellettuali, chiamate a imprimere unità e coesione alla
"sciolta moltitudine", e a impedire che sotto il simulacro della
democrazia trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle masse; dall'altro
lato, alle riforme economiche, "unico riparo al comunismo politico",
se volte a ripartire e a regolare le ricchezze (anche con l'imposta
progressiva) e non a inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento, percorso tra
l'altro da fremiti antiborghesi, rifletteva una visione del movimento nazionale
quale luogo d'incontro e d'interazione tra le "aristocrazie
dell'ingegno", tratte dal popolo e da questo riconosciute, e le plebi
anelanti al proprio riscatto sociale, garantite da una monarchia non solo
costituzionale, ma anche schiettamente popolare. Nel pubblicare il
Rinnovamento il G. era convinto che l'opera sarebbe incorsa nell'interdetto
della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio, con decreto del 14 genn. 1852,
aveva condannato tutte le sue opere, in qualunque lingua pubblicate, si consolò
col rilevare che, "involgendo nella proscrizione anche quegli scritti che
furono conosciuti da tutti per irreprensibili", si erano meglio
manifestati il puntiglio di Pio IX e la vendetta dei gesuiti. I pesanti
giudizi su figure eminenti della classe politica subalpina di cui il
Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta di polemiche, cui il G.
rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali conteneva una risposta
(che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di quei giudizi) alle risentite
reazioni di U. Rattazzi, di F.A. Gualterio e del generale G. Dabormida; il
secondo intitolato Ultima replica ai municipali, aveva soprattutto di mira il
Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa del vecchio amico del G. e
ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il quale si era ammalato
gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del Pinelli, sopravvenuta
quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo al G., che stese a
tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul piano personale alla
figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari tentennamenti, di far
distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima replica - di cui restò
un solo esemplare - e di mettere in circolazione esclusivamente il Preambolo
(Parigi e Torino 1852). Fu l'ultima opera edita lui vivente: in assoluta
solitudine il G. morì infatti improvvisamente, nel suo modesto appartamento di
Parigi, il 26 ott. 1852. Tra le sue carte rimase una mole imponente di
frammenti manoscritti e di opere incompiute e inedite, costituenti nel loro
insieme una specie di continente sommerso, non meno rilevante, per la
conoscenza del suo pensiero, degli scritti da lui dati alle stampe. Questo
materiale manoscritto fu in parte pubblicato postumo, con scarso rigore, dal Massari
che, nel quadro di un'edizione delle opere inedite giobertiane, di cui uscirono
a Torino 10 volumi, diede alle stampe nel 1856 i frammenti Della riforma
cattolica della Chiesa e la Filosofia della Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla
Protologia, forse la maggior opera filosofica del G. maturo, che ne aveva
incominciato la stesura negli anni Quaranta. Nel 1910, a cura di E. Solmi,
furono editi, con criteri non meno discutibili, i frammenti della Libertà
cattolica e della Teorica della mente umana, insieme con il dialogo Rosmini e i
rosminiani. In seguito La riforma cattolica e La libertà cattolica furono
ripubblicate, in modo più corretto, da G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G.
Bonafede, insieme con la Filosofia della Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno,
nell'edizione nazionale delle opere, da C. Vasale. Appartenenti per la maggior
parte alla produzione che il G. aveva definito "acroamatica", le
opere postume, pur nel loro stato di incompiutezza, rivelano un G. che si
confrontava in maniera più diretta con la critica della religione sviluppata
dalla cultura primo-ottocentesca, anche nelle sue espressioni radicali.
L'obiettivo di questi lavori era la dimostrazione dell'adeguatezza del
cattolicesimo, liberato dalle sue deformazioni temporalistiche, autoritarie e
"iper-mistiche", nel rispondere ai bisogni intellettuali e morali
dell'uomo moderno. A questo fine il G. assumeva come fondamento del suo
rinnovato discorso religioso-filosofico la nozione cattolica di tradizione,
facendone il criterio ermeneutico dell'evoluzione storica delle forme religiose
e dello sviluppo del cristianesimo in senso secolare. Ne derivava
un'interpretazione molto audace per la sua epoca del rapporto tra libertà e
autorità in materia religiosa e, in generale, della dogmatica cattolica. Tali
opere dimostrano che il pensiero giobertiano in materia religiosa si era
vieppiù spostato dall'asse della riforma ecclesiastica o politica a quella
della riforma religiosa. Ciò spiega anche la riscoperta del G. in epoca
modernistica; senza trascurare tuttavia che una parte molto consistente della
cultura dell'Ottocento e del Novecento si è misurata con l'eredità giobertiana,
dall'idealismo al federalismo (specialmente meridionale), dal gentilianesimo al
nazionalismo e quindi al fascismo, dal popolarismo di L. Sturzo alla cultura
democratico-cristiana. Fonti e Bibl.: La principale raccolta di
manoscritti giobertiani è quella giunta dopo varie vicende in possesso della
Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55 voll., 54 dei quali rilegati nel
1912 in maniera alquanto arbitraria e classificati in un indice sommario: si
tratta di carte che il G. aveva con sé al momento della morte, riguardanti i
frammenti miscellanei giovanili, appunti ed estratti di lavoro, e gli autografi
delle opere più tardive, pubblicate postume. Alla stessa biblioteca sono anche
pervenute una parte della biblioteca personale del G. (il cui principale nucleo
fu peraltro venduto all'incanto dopo la sua morte), poche decine di sue lettere
autografe e circa 2500 lettere di corrispondenti, il cui indice è stato
pubblicato nel 1928 col titolo Le carte giobertiane della Bibl. civica di
Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale risale anche La fortuna postuma delle
carte e dei manoscritti di V. G. ora depositati nella Bibl. civica di Torino,
in Il Risorgimento italiano, IX (1916), pp. 665-694; cfr. anche P.A. Menzio,
Cenni sulle carte e sui manoscritti giobertiani, in Atti della R. Accad. delle
scienze di Torino, LI (1915-16), pp. 659-675. Manoscritti autografi riguardanti
Il Rinnovamento sono conservati nella Bibl. nazionale di Napoli e presso
l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente
pubblicati a cura di L. Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento,
ed. nazionale, Roma 1969. L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G.
Balsamo Crivelli, I-XI, Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le
lettere sono riprese, salvo rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V.
Gioberti, Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino
1860-63; Il Piemonte nel 1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a
cura di B.E. Maineri, Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e
ministro con sue lettere inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881;
Lettere inedite di V. Gioberti e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a
cura di G. Gentile, Palermo 1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura
di V. Cian, Torino 1913; G. - Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G.
Balsamo Crivelli, Torino 1920; Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A.
Gambaro, in Levana, III (1924), pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al
G. fu pubblicato col titolo di Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in
un'edizione che comprende lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I.
Petitti di Roreto (a cura di A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro),
di G. Bertinatti (a cura di A. Colombo), di "illustri italiani" e di
"illustri stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle
opere edite e inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del
Primato, a cura di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è
giunta al vol. XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G.
Bonafede, Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G.,
pubblicate con criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a
venire alla luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La
storia della filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981. Le
principali bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924,
che comprende circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia
dell'età del Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp.
168-172. Tra le voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana,
XVII; di L. Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc.
Filosofica, III; di F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr.
ecclésiastiques, XX. Per una sintesi delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e
la critica, Palermo 1950. Tra le opere più recenti: E. Passerin d'Entrèves,
Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Garzanti),
VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia
giobertiana, in Giornale critico della filosofia italiana, IL (1969), pp.
222-285; G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e
il suo significato storico e speculativo, Milano 1970; F. Traniello,
Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana
lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni,
G. e il pensiero moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), Id., Le postume
giobertiane nel giudizio della critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G.
Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale,
L'ultimo G. fra politica e filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche
dell'ideologia in Italia, in Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R.
Romeo, Cavour e il suo tempo, II, Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368
e passim; A. Galimberti, G., Gentile, Rosmini, in Giornale critico della
filosofia italiana, LVIII (1978), pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione
nel G. postumo, in Storia e politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A.
Rigobello, V. G., in Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und
20. Jahrhunderts, a cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S.
La Salvia, Il moderatismo in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in
Germania tra le rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp.
169-310; F. Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul
rapporto tra religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura
politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in
Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp.
1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma
1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia
d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del
Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L.
Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, TrevisoG. Rumi,
G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione del
pensiero filosofico di V. G. alla luce delle opere postume, Milano 1999.
La sovrintelligenza Sezione seconda.ConceTTO,METODO E DIVISIONE DELLA FILOSOFIA
(Dommatismo) Sezione prima .COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA FORMOLA (l'Ente
).Definizione del Primo.Distinzione del Primo psicologicoe del Primo ontologico
. Il Primo filosofico. Caratteristica del Primo filosofico Giobertiano. Polemica
contro Rosmini . Il P r i moèl'Entereale.Cosasialarealtà.Giob.nonar riva a
dirlo chiaramente. Difello e pregio del suo concello della reallà (del
concreto:unità del positivo e del negativo).pag.158-164. CAP. 3. Deduzione
della realià dell'Ente dal concetto dell'Ente. 164-185 D. I. Dal giudizio
l'Ente è non si deduce la realtà del. L'intuito . pag . 1-99 . O ľ Ente.
Sicontradiceall'ontologismo.- Sicon 100-119 Sezionc prima.LA CONOSCENZALa
riflessione psicologica CAP. 3. La riflessione ontologica Cap.4.Laparola.
.COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE fonde la realtà col puro essere
Personificazione dell'Ente Abbozzo della vera via di dedurre la realtà
dell'Ente. Realtàosussistenza= intelligibilitàoidealità.Giob. non
adempiequestaesigenza. RelazionetraEnte edEsistente.Processoaprioriea
posteriori.(Causa ed Effetto) . II.Prova dell'intuito (Identità dei due ordini
,onlo logico e psicologico.Verità dell'atto creativo).pag. 206-246. - S.III.
L'intuito come prova dell'atto creativo.Dommatismo.Gioberti,Platone,Schelling
ed Hegel.Prove indirelte dell'intuito 248-253.- $. I. Lo spirito è produzione
di sè stesso.pag. 253-260. – S. III.Intuito dell'intuito.
$.II.Falsoconcellodellalibertàenecessilàdel pen 242-247 CAP. 4.
Conseguenze della dottrina dell'intuito. OntologismoePsicologismo.pag.200-206.-
S. S.I.Epilogo:mancanza didialettica.pag.272-274- o 272-282 CAP. 2. L'intuito
come conoscenza dell'atto creativo .L'intuito immediato è la conoscenza
empirica. Confusione del(primo)pensabile edel(pri mo )conoscibile. . 266-272
Cap. 2. Falso concello del pensiero speculative. Duplice ordine psicologico:
intuitivo e riflessivo. chiusione di tutta questa Sezione pag.184-185. Sezione
seconda.COSTRUZIONE DEL SECONDO E TERMINE DELLA FORMOLA . Gioberti e
Rosmini.Insussistenza delle ragioni re c a t e d a Gioberti per difendere il p
r i m o ordine come condizione del secondo : il concetto dell'infinito
condizione del concelto del finito (concello dell'Ente condizione del concetto
dell'esistente).La relazione ei suoi termini. L'ordine intuitivo come
cognizione nonèchelascienza.pag.220-234.- S.I.Nuova instanza di Gioberti:
concello del Necessario e del contingente. pag.235-241.- $.III,L'intuito del
l'atto creativo è lo stesso processo a posteriori pag. pag.260-264. Sezione (
il Noo ) . terza,L'INTUITOSPECULATIVO O IL PENSIERO PURO $.I.Prima
prova delloSpinozismogiobertiano.pag. Cap. 5. Epilogo sulla identità e
differenza tra Spinoza e Gio berti. Sezione terza,L'INTELLIGIBILITA'. Identilà
di crcazione e illustrazione.La vera i m m a 372-381 381-390 397-415 324
349 . LA FORMOLA Seconda prova. Si considera di nuovo
l'intuilo.Caralleristica. (Contenutodell'altocreativo)(Dio-Quantilà). Caralleri
dello Spinozismo:loro contradizione.Concello
generaledelladifferenzatraSpinozaeGioberti. 350-356 Cap.2.
Anticipazionedelconcello diDiocomerelazioneasso lula.Confradizione. Doppio
concello dell'esislenic (ediDio) CAP . 3. Dio Quantità. Lo spirito :
contradizione. La vera dili 356-364 collà . Cap. 4. Soluzione: Dio come
Sviluppo. (Prima di Kant e dopo 364-372 Kant) nenza.Difetto
delloSpinozismo.Doppia intelligibi. lità delle cose.pag.398-402.-
S.II.Difficoltà con tro la immanenza nel sensibile.Paragone della co "
gnizione colla visione.Meccanismo nello spirito.Con cello dello spirito (del
conoscere ).Kant; l'empirismo. prova. siero.Confusionedell'lilea CAP.1.
FalsoSpinozismo(Diosemplicesostanza,noncausa).317-323 CAP. 2. Vero Spinozismo
(Diosostanza causa). 317-349 e della rappresentazione.Relazione del pensiero
puro coll'esperienza . 2.Il Noo passive èilsenso 301-306 CAP, 5. L'Innatismo .
IDELAE (Spinozismo). Sezioneprima.SPINOZISMO(forma dell'alto creali
vo:meccanismo) DIFFERENZA TRA GIOBERTI E SPINOZA. Intelligibile assoluto
Intelligibile relativo.Fondamento della soluzione del problema Gioberti riunisce
idue difetti. Rispostaalla difficoltàprecedente, everoconcetto
dell'intelligibilerelativo.COGNIZIONE DELLA REALTÀ DE CORPI, E ORIGINE DELLE
IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA FORMOLA .PASSAGGIO AL MISTICISMO. COGNIZIONE DELLA
REALTA' DE' CORPI. .Gioberti non ammette la prova,ma l'inluito della realtà dei
corpi . . 426-429.S.II.Ragioni del realismopag.429.- S. III.Necessità di un
principio superiore: cos'è. Galluppi:criticatodaGioberti.pag.Certezza e
verità.Fede e Scienza.Certezza e ve denza metafisica,efisica.Critica.
pag.456-467. Sezione seconda.Origine delle idee.pag.
precedenti,especialmentediRosmini.La generazio La dipendenza logica.a
)Distinzione delSovrintelligibile edell'Intelligibile.Significato e conseguenza
di questa distinzione.Ragionee So Idealismo e Realismo ( i m p e r f e t
t i ): i d e a l i s m o assoluto; certezza ed evidenza .. Ragioni
dell'idealismo;e suo difello.Rosmini.pag. . . . Significato generale della
quistione.Critica de'filosofi . .479-526 S. I. Distinzione de'concelli in
assoluti e relativi.pag. . ritàdelmondo Dottrina propria di Gioberti sulla
cognizione de'corpi; 542 e certezza ed evidenza di questa cognizione. Significato
e difficoltà del problema . 2. solu zione:l'Individuazione
(creazione:creareèindivi d u a r e ) . G i o b . p o n e be n e il problema , m
a n o n l o r i solve.Anzifaimpossibileogni soluzione;incono scibilità
dell'alto creativo nella sua essenza.Perples silàdiGioberti3.Critica.Certezza
dellacognizione de'corpi.1. Distinzione della certezza in fisica e metafisica.
2. L'evidenza come fondamento della certezza in generale.3. Evi ne ideale
(analisi e sintesi )La produzione ideale giobertiana : attività sintetica ori
ginaria. Critica di questa dottrina vraragione ( Ente cd Essenza );
dipendenza logica e generazione.Contradizioni.Doppio sovrintelligibile: Unità
delle delerminazioni razionali , e Trinilà divi na.c)L'ldea come pura ragione o
unilà delle deter minazioni razionali. Moltiplicilà astralla e unilà a stratla
( pura sintesi o dipendenza logica,e pura a nalisi ).Vera unità: unità della
sintesi e dell'analisi; lamoltiplicitàcome momento dell'unità;unità- pro
cessoassoluto.pag.489-509. -S.Ill.Larelazione del concello relativo coll'Ente (
creazione ). a ) D u e ipotesi:generazione,e creazione.Risultato ;assur dilà
dell'allo creativo come punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente.La
creazione è l'aulogenesi dello spirito. b).La creazione è in sè generazione.
Conse guenze di questa dolirina pag.509-526. C A P . 3. Risultato
generale deila doitrina di Gioberti sulla p r o duzioneideale.—
PassaggioalMisticismo Elenco di Opere di Vincenzo Gioberti possedute dalla
Biblioteca Nazionale di Torino (*) De Deo et naturali religione, de antiquo
foedere, etc. Taurini, Bianco, 1825, in-8°. Teoricadelsovrannaturale.Brusselle,Hayez,1838,in-8°.
La stessa. Torino, Ferrerò e Franco, 1849, in-8°. La stessa. Accresciuta d’un
discorso preliminare e inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico.
Capolago, Tip. Elvetica, 1850, 2 tomi in 1 voi., in-8°. Degli errori filosofici
di Antonio Rosmini. Brusselle, Hayez, 1841, in-8°. La stessa. Brusselle,
Meline, 1843, 3 voi. in-8°. La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 3 voi.
in-8°. Del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1843, 2
voi. in-8°. (i) Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal
Prefetto della Biblioteca Nazionale Cav. Avv. Francesco Carta. 284
La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, Prolegomeni del primato morale e civile
degli Italiani. Brusselle, Meline, 1846, in-12°. Introduzioneallostudiodellafilosofia.Brusselle,Hayez,
1840, 2 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Secondaediz.,Brusselle,Meline,1844,4vo¬
lumi in-8° Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin.
Brusselle, Meline, 1844, in-8°. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, 1846, 5
vo¬ lumi in-8°. Lastessa. Torino, Fontana, 1848, 5 tomi in 3 voi., in-8°.
Lastessa.Capolago,Tip.Elvetica,1847,7voi.in-16\ Apologia del libro intitolato «
Il Gesuita moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento
italiano. Parteprima.Parigi,Renouard,1848,in-8\ DelBuono.Brusselle,
Meline,1843,in-8°: La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1845, in-16°. Essai sur
le Beau, ou éléments de philosophie esthétique, traduìtde l’italien par Joseph
Bertinatti. Brusselle, Meline, 1843, in-8°. Del Bello. Firenze, Bucci, 1845,
in-8°. Allocuzione di un filosofo cattolico a Pio IX. Torino, 1847,
in-12°. 285 Discorso pronunziato nell’adunanza generale per l’aper¬
tura del Congresso nazionale federativo la sera del 15 ot¬ tobre1848nelTeatroNazionale.Torino,
G.PombaeC., 1848, in-8°. IdueprogrammidelMinisteroSostegno.Torino,Fontana,
1848, in-8°. Antiprimato papale e l’automatismo romano distrutto dal
VangeloedaiSantiPadri.Torino,1850,in-16°. Lettre sur les doctrines
philosophiques et Politiques de Lamennais.Capolago,Tip.Elvetica,1850,in-8°.
Delrinnovamentociviled’Italia.Parigi, Crapelet,1851, 2 voi. in-8°. Operette
politiche. In « Documenti della guerra santa d’Italia », voi. VII. Capolago,
Tip. Elvetica, 1851. Preambolo dell’ultima replica ai Municipali. Parigi, Mar-
tinet, 1852, in-8°. Risposta a Urbano Rattazzi. Sopra alcune avvertenze di
Filippo Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco, 1852,
in-8°. Della filosofia e della rivelazione, pubblicata per cura di
GiuseppeMassari.Torino,ErediBotta,1856,in-8°. Pensieri e giudizi sulla
letteratura italiana e straniera, raccolti ed ordinati da Filippo Ugolini.
Firenze, Barbèra, 1856, in-12°. Della protologia, pubblicata per cura di G.
Massari. Torino, Eredi Botta, 1857, 2 voi. in~8°. 286 Profezie
politiche intorno agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino, 1859, in~l2°.
Pensieri, Miscellanee. Torino, Eredi Botta, 1859, 2 voi. in-8°. Ricordi
biografici e carteggio, raccolti per cura di Giu¬ seppe Massari. Torino, Eredi
Botta, 1860-62, 2 vo- lumi, in-8°. Studi filologici desunti da manoscritti di
lui autografi ed mediti fatti di pubblica ragione per cura dell’avvo¬
catoDomenicoFissore.Torino,Tip.Torinese,1867, in-8u gr. Una lettera a Terenzio
Mamiani in data del 28 maggio 1834, pubblicatadaVincenzoDiGiovanni.Roma,Tip.delle
Terme, di a. Balbi, 1894, in-8°. Lettera sugli errori politico-religiosi di
Lamennais. Vincenzo Gioberti e Giordano Bruno. Due lettere inedite,
pubblicatedaG.0.Molineri.Torino, L.Kourt:eC. 1889, in-8°. Vincenzo Gioberti e
Giorgio Paìlavicino. Lettere per cura di B. K. Maineri. (Piemonte (II) negli
anni 1850-51-52). Milano,FratelliRechiedei,1875,in-l&'. METAFISICA
ONTOLOGIA Dell'Enle, come concreto e reale. PARAGRAFO 2. Dell'Ente, come
astratto ed ideale, CATEGORIA I. 86 CATEGORIA 4 . I. Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE
velazione e della Civiltà colla Reli . 161 'ART. 3. D. Primo Storico CATEGORIA
2CATEGORIA 6 Del tempo e dello spazio. Delle convenienze della ragione colla R
i COSMOLOGIA , 3& 120 ivi LOGICA fato,della fortuna e del
destino,dell'ac cidente e della necessità. PARTE SPECIALE Della
sovrintelligenza e del desiderio Della
diffinizione e della divisione. 269 271 ART. 5. Del metodo. 284 , 253 pag. 193 • 204 221 227 234
gressisti , Della volontà umana . 212 2Dellefacoltàdellospiritoumano. ART. 4.
Det raziocinio e delle sue forme esteriori. 273 A r t . 6 . Dell'arte
critica.Ciclo generativo e Cosmogonico ART. 3, della forzacosmica.. 216 • 26
278 266 ART . i. Della proprietà delle parole. .Delle proprietà dell'uomo . Dei
giudiziie delleproposizioni. Prima di
esporre la filosofia acroamatica si compie il ritratto della vita dell'autore-
Giobertisiritiranellavitaprivata- come eiparla disè stesso
cercadirompereognilegamenonpurecolGoverno, macogliuomini-comesostienelavita–
lapovertàdiluidàoccasione adunattogenerosodelRosmini—
pertenersiprontoastampareal cuna opera utile all'Italia non vuole dettare un
Discorso sull'Alfie ri- qualieranoicasiimprovisichepoteanoindurloastampare—
perchè opinava più probabile che la repubblica francese non ca desse — concetto
che egli avea di Luigi Napoleone - i n che fu fal laceilsuo
giudiziosullaFrancia— nellametà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento di
questo libro : sua convenienza e diffe renzacolPrimato–
censuratuttietuttocoll'intendimentochefae cia pro nell'avvenire - - -rottura
col Pinelli e coi municipali - pole micaconesi—
mortedelPinelli--sibrucianolecopiedel'opu scoloUltimareplicaaimunicipali—
l'autorelascialapoliticaeri volge il suo animo tutto al le opere nuove da
pubblicare — forse la troppatensionedimenteglinocque- morteimprovisaedoloreuni
versale— quantodannofuallascienzaeallareligione– vocazione
diGiobertinonmancataperlamorteintempestiva— leoperepostu me– quando furono
scritteprimaodopoil48?- ilconcettoeil titolo di esse furon suggerito dalle
circostanze o ne sono indipen denti?–
Tuttociòcheoraèstampatoappartenevaadessesecondo l'intendimento dell'autore ? -
- c quale fu quest intendimento ? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio
e imateriali delle opere che volevadarealaluce-
ildisegnoperòv'apparisce:qual'èdesso?- CAPITOLO PRIMO ragioni
che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della dottrina
contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina -come ho
proceduto io per afferrarne l'unità e la germanaintenzione
inqualformamisonrisolutodiesporla-fu
benecheilMassaricurasselapubblicazionediessiscritti– pote
vanoperòesseremeglioordinatidariuscirepiùintelligibili– ladot trina del
Gioberti è più difficile di quella dell'Hegel. CAPITOLO SECONDO PRELIMINARI La
filosofia acroamatica non è contraddittoria all'essoterica , ma solo tanto
diversa - nesso tra l'una e l'altra — differenze della cognizione
direttaospontaneadelRosmini,edelCousindalpensiero imma nentedel Gioberti
Doppiostatodelpensieroumano caratteri dellostatoriflessivoedellostatoimmanente–
l'intuitodell'ente differisce da quello dell'esistente — in che consiste la
strellezza spe cialedell'enteintelligibilecolpensieroimmanente -comel'attività
dello spirito coesiste coll'Ente senza che questo sia subbiettivato condizioni
proprie dello stato immanente - si rimuove una obbiezio nc-dell'attivitàumana
-suodoppiostatoedifferenzedell'unostato dal l'altro- - della personalità — l a
penetrazione del pensiero nello slalo immanente è diversa dalla compenetrazione
dello stato successivo triplice proprietà del pensiero immanente analoga a tre
momenti dell'ente- lospiritosebbeneunapersonanelpensieroimmanente non
subbicttivizza la cognizione - l'ordine psicologico è proprio della
riflessione: suofondamentoontologico– anchepropriodellarifles sione è l'ordine
cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il ripie gamento della intuizione
sovra se stessa— falso modo d'intendere la visioneideale
cheèlavitaanterioredescrittadaPlatonenelFe d r o - d i f f i c o l t à d i c o
g l i e r e il p e n s i e r o i m m a n e n t e - - - l a d i s t i n z i o n
e b e n nelladellaintuizionedallariflessionecorreggeladottrinaplatonica-
obiezione del Grote - come vi si risponde - - dei giudizii – doppio giul. dizioobiettivo-
lospiritoescedallostatoimmanente coll'affermare
eglil'Ente-comesiafferrailpensicroimmanente- delmodocome 502 3.42
possediamo le idee - le quali nascono per via didisgregazione, non di
generazione— deigiudiziianaliticiesintetici- sichiarisceundub bio-delraziocinio
dellafilosofia:suadefinizione--filosofiaprima qual'è;sua
distinzionedall'ontologia-obiezione contro laProtologia: risposta
-dellacircuminsessionedeiveri:suaradice -criteriodelve ro - onde nasce
l'evidenza e la certezza scientifica— che è un siste m a scientifico - in che
senso i principii dipendono e sono illustrati dalle conseguenze — le une non
sono affatto eguali in valore agli al
tri--dell'ipotesi,deipostulati,edegliassiomi- seiprincipiisono astratti , onde
si trae la concretezza , senza di che la scienza non avrebbevalore?-
IlPrimodellascienzaèlaFormola ideale-c0 me siprova che è ilPrimo -mutua
collegazione e dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della
formola -- l'unità scienti fica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale
trasparente all'in tuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa
risulta dalla in tima
unionedellacognizioneriflessivacollaintuitiva--dell'Ultimo della scienza – la
parola è il passaggio dal pensiero inimanente al s u c cessivo - onde si cava
la necessità della parola per l'uso del pensiero riflesso - origine del
linguaggio : tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re-
comepuòdirsicheilsegnodellinguaggioèunitoal'Idea unità della dottrina di
Gioberti su questa materia . DOTTRINA DELL'ENTE C o m e l'unità e semplicità di
Dio si accorda colla moltiplicità degli a l tributi - dell'unione dei
contraddittorii in Dio - - trasformazione dia letticadeidiviniattributi—
Hegelcontuttiipanteisticonfondeil processopsicologicocol'ontologico-l'antropomorfismoéopera
del l'imaginazionenondellaragione dellafuturizionedivina-Iddioè insieme
sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come co
nosciamol'Assoluto?— Dioèpersonale:obiezioni,risposte— Dio produttività
infinita-lapotenzialitàel'attualitàsonodiverseinDio enellecreature-
Dioèliberoenecessario- èbuono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel
pensiero immanente , dimostrativa pel DOTTRINA DELLA CREAZIONE
L'ideadicreazioneportasecoperduerispettil'ideadinulla—delcan 95-124
successivo- laprovadimostrativamiglioretraggesidallanozione dell'infinito-
processoprotologicoedesplicativodelleattribuzioni dell'Ente - attribuzioni
esterne ed interne- doppia eptate - dell'in finito;onden'abbiamol'idea-
èdeterminato;mas'intendenonsi comprendedella presunzione divina dell'infinito
potenziale nel suo atto — antinomie rislessive:ipanteisti frantendono l'idea
dell'infi nito - assurdità dell'infinito nunerico - distinzione dell'infinito
pos sibile o potenziale dall'attuale - due infiniti: ilrelativo e l'assoluto
dell'infinito aritmeticomonadico. giamento-l'atlocreativoèunoinsè
anchenell'estrinsecoéper fetto-puossiconsiderarepertrerispetticomeinfinito–
l'infinità potenziale del finitosuppone ilpossesso attuale,benchè finito, del
l'infinitàattuale-incheconsistesiffattopossesso— l'attocreativo
intervieneintutto— ècausachel'unitàdell'Ideasisparpagliain molteidee-
igenerisonovari-lavarietàspecificadellecosede riva dalla maggiore o minore
intensità dell'atto creativo
zioneèdivisioneemoltiplicazione- rispettoall'esistentel'attocrea tiyo è
sintetico e analitico - differenza della causalità finita dall'in
finita-cheèilcronotopo--suaunità- comedall'unitàdell'istante
edelpuntosibiforcailtempoelospazio— l'intervalloèuno-5e nesidelcronotopo-
doppiovaloredelpuntoedell'istante- dell'in ternitàedell'esternità-
l'unitàdelcontinuosirappresentainordine lospazioeiltempohannouncentro al
discreto sotto tre aspetti— del passato , sintesi del continuo e del discreto
nei modi del tempo -- del presente e del futuro- l'eternità non cresce — doppio
continuo , attualeepotenziale -infinitazionedelcronotopo-inchesensoilmon do è
cterno - ogni epoca e stato mondiale è una palingenesia verso il p a s s a t o
, e u n a c r e a z i o n e v e r s o l ' a v v e n i r e - il c r o n o t o p
o e l ' u n i v e r soinfinitisonorealicomeintelligibili–
l'indivisibilitàdelcronotopo dal pensiero colto dal Kant- del pensiero divino e
umano-- interio la crea DOTTRINA DELL'ESISTENTE
debbonsidiresull'esistente- questosomigliaall'entepereffettodella creazione-
incheconsistel'improntadell'entecheportainsèl'esi stente
diversosensodatodall'autoreallevocimetessiemimesi quale è il senso che in
quest'opera si dà alla prima -- distinzione dellapotenzaedell'atto-
metessipotenziale,intermedia,eattuale l a m i m e s i - e s s e n z i a l e a l
l e f o r z e c r e a t e è il c o n c r e a r e e il g e n e r a r e : prove-
carattere del primo momento dello sviluppo dinamico -- due 64 125-166 505
Difficoltà di esporre la materia-nesso delle cose dette con quelle che ritàeesterioritàdelpensieroumano
irrazionalitàdelvero nella s u a c o n c r e t e z z a - c o m e il p e n s i e
r o u m a n o c o n o s c e il c o n t i n u o - l ' i m
manenzadell'eternodatocidalpensiero— l'estensioneeladurata esprimono
ilimitidell'esistente — Dialettica;ildiverso,ladualità,
lamoltiplicitàappartengonoall'essenzadellacreazione- incheversa
ladialetticaeondetraeilnome duedialettiche:realeeideale che forma il moto o
vita dialettica- la dialettica consta di due m o menti,sebbene sembra che
constidi tre- glieterogenei,cioè idi versi ed opposti,non sono
contraddittorii---differenza della eteroge neità dalla contraddizione –secondo
un certo rispetto l'eterogeneità
èinDio-l'opposizioneriguardailnegativodellecose- ilcontrap
postoèdiversodall'opposizione- glieterogeneiimportanogliomoge
neieviceversa-cheèilterzoarmonicoodialettico come mai il conflitto dialettico
pruduce l'armonia — uell'unione dell'omogeneo ed eterogeneo quale prevale— ciò
che è l'opposto in natura è l'antino mianellascienza– dellaantinomiarealeedell'apparente–
della guerra- lapolemicaèlaguerranell'ordinedelpensiero- delloscet ticismo - lo
scetticismo obbiettivo non è sofistico -che sono l'errore e la colpa - due
periodi distinti della storia della filosofia - - -divisione
eriunioneèilprocessouniversaleedialettico- diversitàdiprocesso
delladialetticadell'Enteediquelladell'esistente dellaschemato logia - - -della
sofistica - - - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia
mediante la mediazione dell'infinito. ciclidellavirtùconcreativadelleesistenze
realtàd'unaintelli gibilitàrelativa-
ilsensibileèlafugadell'intelligibilerelativoda
sèstesso,lasuamoltiplicazione,diversificazioneerottura-prove causa
percuil'intelligibilecreatosimanifestacomesolosensibile negliordinideltempo differenzadellanostradottrinadaquelladei
sensisti — nozioni che racchiude l'idea del sensibile- la successiva
distruzioneerinnovazione delle forme sensibilièilnisusdiessoa
diventareintelligibili- ilsensibileconsisteessenzialmentenelare lazione tra
l'uomo intelligente e la natura intelligibile - del sensibile interno ed
esterno - se il sensibile può o no conoscersi- si chiarisce
ilsignificatodellaparolasensibile- ilsensibileschiettononsipuò pensare- prova
che la sensazione non è lacognizione- qual'èl'og getto della cognizione del
sensibile - - come si risolve l’antinomia ap
parenteditrovareinescogitabileilsensibileepurepoterlopensare la dottrina nostra
è la sintesi delle diverse dottrine precedenti Galluppi,Rosmini,Platone-
nelladottrinadiGiobertinonbisogna confondere l'intelligibile
assoluto,l'intelligibilerelativoeilsensi bile- la teorica dell'intelligibile
relativo non annienta ilsovrintelli gibile—
siviendivisandopiùparticolarmentelamimesi—mimesi
prevalente-esteriorità,apparenza,fenomeno,conflitto,passaggio, metamorfosi-la
gerarchiamimeticadeglienticonsistenellavarietà
deigradiconativi-sinotanoiprincipali dellaluce-lamaggiore intelligibilità nella
natura corporea si manifesta mediante la finalità ,
dell'uomo;ilcorpo,chiloforma —delsonnoedeisogni—l'istinto l'anima e il corpo in
parte diversi , in parte uni - doppio stato del la
vita;latenteeinanilesta—duevitedell'uomo- dellepassioni:la
gloria,lamalinconia,lanoia- facoltàdell'animo:ilsenso,l'imagi
nazione,lamemoria,laragione— lescoperteeitrovatiapparten gono allo sviluppo
metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è l'anima del
mondo , lo spirito uniano è l'anima della lerra-
gl'intelligibiliintelligentirelativinonsonogiàdellosteso generedue
speciedimentalità -cheèilpensiero- inchesifonda l'identitàdelmondo-
metessiprevalente:suadefinizione-doppia u n i t à , la d i v i n a d e l l ' a
t t o c r e a t i v o , e l ' u n i t à m e t e s s i c a e c o n c r e a t i v
a dellarelazione;essasovrastaaiterminichelacostituiscono- due relazioni--natura
speciale della relazione che corre tra l'Ente e l'esi Del progresso : che
n'è il tipo e il principio – il progresso considerato 167-250 507 stente—
l'azione finita è reciproca , quindi inseparabile dalla passio
no:l'unitàloroèlarelazione,larelazioneinfinitaè unamla rela
zioneèilveraceassoluto cherappresentalarelazione essaè l'appicco del finito
coll'infinito - riscontro del vero col mondo - le relazioni sono nelle
cose,enon solo nello spiritonostro,enella mente divina -- falsità della
dottrina dell'Hegel che pone l'assoluto e il concreto nelle sole relazioni - la
specie non è un'astrattezza la specie non è l'idea specifica-metessicamente non
si distingue il tutto dalle parti- come raffigurarci la concretezza della
potenza - dellecontagionimoraliemateriali- l'armoniadellamimesierumpe
sempreerisiedesostanzialmentenellametessiiniziale diversità della metessi
mimetica dalla finale -dell'implicazione e dell'inter nitàdellecose-
qual'èilprogressometessico- v'èunapermanenza metessica di ciò che passa
mimeticamente- Idea,metessie mimesi -
ilpassaggiodellamimesiècreazioneeannientamente- accordodi dueopinioniopposte-
trecondizionimondiali— vanitàdellecose umane inquantopassanoesiannullano-
delladottrinadiProtago ra- scienzamimeticaemetessica--Comemaiilrealepuòrassomi
gliarsiall'ideale?- Comemaiilfinito,ilrelativoecontingentepuò
rassomigliareilnecessario,l'assolutol'infinito? Comemailecose materiali possono
rassomigliare il pensiero ? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi ,e
alla metessi linale lamimesièprogressivaneiparticolari,soloregressivanel genera
le- ilregressoèleggedelprogresso– l'andamentocosmicosial terna di progressi e
di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e del
regressoma conferma di ciò si trova nell'esame dell'uomo,dellareligione,dell'arteedellascienza-
ilprogressoquan do è passato diventa regresso - accordo dei progressisti e dei
regres sisti-delaperiodicità– ècircolareeregressivadisuanatura— ha luogo nelle
parti dell'universo, non nel tutto - la forza rallenta 508
tricenecessariaallasocietàcomeallanatura seilprogressosia reale o apparente ---
la periodicità perfetta è sola apparente - corso migliorativodituttol'universo-
ilprogresso nascedall'intreccio deltempocollospazio-
Individuoegenere--processoestrinseco dell'atto creativo- l'evoluzione è nelle
idee , nella metessi , non già nell'Idea—checosaèlagenerazione-
essenzialeallagenerazione è l'idea di specie, la quale non è astratta soltanto-
la generazione è l'estrinsecazione più viva della metessi specifica delle
cose,eap partieneallamimesi -dellasessualità—dov'èilprincipiogenerativo se
nello sperma o nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità
riscontratacolladialettica dellafemminilitàedellavirilità–del conjugio —
dell'individuo compiuto e in che consiste la sua essenza e valore --
l'individuo e l'Idea sono nell'ordine attuale idue estre midellarealtà—
influenzadelpensieroneglieffettidellagenera zione la generazione e la
nutrizione sono le principali azioni tantodelcorpoquantodellospirito—
altreconsonanzetrailcorpo e l'anima - del psicologismo e dell'ontologismo -
come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del genere
coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito dinanzi alle
masse - che cosaèlaplebe- relazionedell'ingegnocollamoltitudine -comepuò
affermarsi che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amo r e , d o v
' è il s u o t i p o , e q u a l e n ' è l ' e s s e n z a - l ' a m o r e a s
s o l u t o e i n finito è l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente
nello stato m i mctico dell'amoreattivoedelpassivo- delpuroe corrollo Ca gione
dello scisma tra l'amor del cuore e quello dei sensi — che è
l'idealedell'amore--delmaritaggio- deldivorzio– l'amorecorro
traidissimiliarmonici-universalitàdell'amore--parenteladell'amo recolBelloecolBuono--delBelo--originedelmalc-
duemorale, p a r t i c o l a r e e u n i v e r s a l e – o t t i m i s m o r e
l a t i v o n o n a s s o l u t o - il m a l morale è impossibile nell'etica
divina e universale - l'antinomia a p parente della natura seco stessa si
risolve mediante la necessità de gli ordini --contraddizione della natura nello
stato presente --dell'in felicità umana--scopodellavitaterrestre--della
virtùedellalibertà umana— l'uomoèpotenzialmenteonnispecie,puòsalireescendere
nella gerarchia cosmica - la giustizia cosmica procede per ragione geometrica -
dell'abito- è verso l'anima ciò che l'accrescimento e >
509 la nutrizione verso il corpo - la virtù è sforzo , è la
trasformazione dellamimesiinmetessi-ed ilsagrifiziodell'individuoalaspecie- La
Società ha un fondamento metessico e idealee logico-lapolizia è una metessi
iniziale - la polizia dell'uomo comincia coi primi prin cipii della sua vita—
individualità e polizia principiano e crescono di
conserva--unitàdinamichedellanostraspecie– divisionedelgenere
umanoingenericheespecifiche– dellanazionalitànaturaleearti ficiale-
lamisuradell'ampliazionedell'unitàèiltermometrodella
civiltà-doppiaunificazionedeipopoli--autorità morale— ilpotere sovrano è
fontalmente l'Idea— formazione primordiale della socie tà-
unitàprogressivadeivaricetidellasocietà— dellaplebeedel l'ingegno - intento
della riforma politica moderna - nel mondo tutto
èordinatoallosvolgimentodelpensiero— ciòcheaccadeorainEu ropa è in certa guisa
una ripetizione di ciò che accadde in Grecia dellademagogia:dominiodellaRussia
—unitàsovrannazionale- unità intermediatralasovrannazionaleelanazionale-
l'egemoniamo dernadoverisiede-delPrimato,assolutoerelativo- alcunititoli del
primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana - della causa e
dell'effetto negli ordini finiti- attinenza della terra col c i e l o - i v a r
i m o n d i f a n n o u n s o l o u n i v e r s o - il m o n d o n o n è s o l
o u n aggregato, ma un aggregante - da che è prodotto l'individualità nei
corpi- gerarchiadegliesseri--dellaNuidità -ilprincipioeilfine si somigliano e
differiscono - della materia in astratto e in concreto --
lapotenzagenerativaessenzialeaogniforzacreata- dellapreesi
stenzadeigermi--dellaleggecentripetainorganogenia- ilcentri fugismo non è la
stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei ger mi
—laforzaprimitivaquandoerumpenell'attocominciacolladualità
ocollamoltiplicità?-gradidellaforzacreatauniversalmente- dei cinque gran regni
della natura - della mutazione delle specie- sunto delladottrinadell'autore-
dueleggidell'esistente:leggedietero geneità,eleggediomogeneità— dellapolarità–
infinitonumerico solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso
- infinito aritmeticomonadico - l'infinitoèilsovrannaturale-due errorisul mondodell'ottimismo—
infinitàpotenzialedellacreatura -delfu infinito e del sarà infinito.
CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo ; ritorno del'esistente
al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe prima, perchè
fu un Pri ilsecondociclocreativoèumanoedivino- comeilprincipio e il fine sono
finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palia genesia--come
siamcerticheesiste– lapalingenesiaèobietiva esubiettiva,cosmicaeindividuale—
delprogressorelativoedel progressoassolutodellecose
comesideeintenderechelostato palingenesiacosiamentalitàpura— dellamorte–
dell'immortali tà--l'esistenzaeinamissibile- lamorteèunsaltoegradosecondo
chesiguardaildiscretooilcontinuo— futuritàparticolaredel l'anima— la
palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che nonsiha-
èilcolmodellacoscienza– duepresunzionidel'infi nitopotenziale–
delliberoarbitrio- ilprocessopalingenesiacoè unprocessogenerativo- due
metamorfosi:mondaneeoltramonda ne–
obiezionecontrolarealtàdellapalingenesia:risposta– igno riamol'avvenire–
haancheunabasenell'esperienza--nelapa lingenesial'internitàsaràesternata-
divarioerassomiglianzatrala cosmogoniaelapalingenesia-
inchesensolanegazionedell'im mortalità umana è vera - unità dello stato
palingenesiaco - comuni cazionedell'intelligenzaedell'amorecoll'infinito
dellafelicitàe beatitudineassoluta-l'uomonellapalingenesiaopera- ideadelpro
gressopalingenesiaco– larivelazionepalingenesiacanonescluderà ogni elemento
misterioso. RELAZIONE DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE Il Gioberti prima
cercò verificare psicologicamente l'idea di mistero
poisiproposedimostrarlaontologicamente infineporgerneuna 511 prova
universaleeprotologica- lametessièilsovrannaturale- unione dialettica del
naturale e sovrannaturale nell'atto creatico - ilsovrannaturale
èuniversale;ènelprincipionelmezzo enel fiue- la natura senza la sovrannatura è
in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore toglie
l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismoesagerati-
ilsovrannaturaledell'ordineattuale è la metessi anticipata nel seno della
mimesi -nel sovrannaturale e
nelsovrintelligibilev'haunelementonaturaleeintelligibile~-due spe
ciedisovrannaturale— differenzatrailsovrannaturaleel'oltrena
turale--ideadellareligione- religioneperfettaèlarivelata— ari velazione è
l'apice della cognizione- necessaria ad accordare la ri flessionecoll'intuito
duerivelazioni- larivelazioneimmanenteè virtuale— la potenza primitiva delle
due rivelazioni è l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le potenze
dell'intuito rimase in fecondepermancodiparolaacconcia-
larivelazioneesterioredi vieneinteriore- treconseguenzcimportanti-
intentodelGioberti- nel suo sistema la ragione e la fede entrano l'una
nell'altra – l'idea d e l l'infinitoèilvincolotrailsovrintelligibileel'intelligibile-
essenzadel mistero:misteriteologici,antropologici,e teoantropologici- imi
steririvelatinonsonoeffetto,ma principiodiragione-esempidella
feconditàrazionaledeimisteririvelati- ilmisteropertieneallara gione e la supera
ad un tempo — tre membri della formola, tre es
senze,tremisteri-veradottrinadelGioberti- nellavitaterrenail sovrintelligibile
non diventa mai intelligibile- il vero sovrintelligi bilenoniscema-
delmiracolo:sesipensa,èpossibile-checosa èilmiracolo-
ogniprodigioimportaunfattoobbiettivoeunfatto
subbiettivo--ilmiracoloeladisposizioneeattitudineacrederlo si
corrispondononell'unitàmetessica- ilfattomiracolosononènelco smo,ma
nellapalingenesia- imiracolidecrescono— lanatura(mi mesi ) e mito e simbolo del
sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo atto
creativo, ciò come avviene ? - perchè si tralasciano di esporre partitamente i
dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza,e della religione
colla filo sofia Perchè mi son risoluto
a tessere questa conclusione-- il lettore non ri - 512 cordando più le
cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudi care quest'ultimo - m'è
piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto ciòdamepensatoescritto—
occasionedell'opera- caratteredela maggiorpartedegliegeliani—come
èdeltatoillibrodelprof.Spa ventasullafilosofiadiGioberti- lemieConsiderazioni—
suiaspra menteripreso- soliloquio- neiprimivolumimostraiunpo'diri sentimento -
l'esposizione della seconda parte si fa con modi dice voliallascienza- checosamihafattoperseverarelungamentein
questa opera , perchè l'idea di essa non si era prima incarnata l'Italia al la
stregua della filosofia dominante oltrealpi - perchè era nomala terra dei
morti— lotta interiore del pensiero di Gioberti ragione del suo tardi stampare—
la lotta cessa nel 1835 : creazione
d'unanuovadottrina--lacuipellegrinitàstanelnessodellareligione collafilosofia
-perquattroannisecostessoesaminalabontàeve rità del nuovo sistema - tre stadi
del suo processo intellettuale- le nazionicoesistonoinsiemecsigiovanoscambievolmente-
lanuova vitad'Italianecessariaalprogressoumano- ciòchehannocompiuto nel mondo i
Francesi e i Tedeschi — difetto della civiltà da essi pro dotta—
scopodellarinascenzaitalica— caratteredellavitaitaliana dall'AlfieriaGioberti nelqualeciòcheeravirtualeeastratto
divieneconcretoeeffettivo— chiudeunepocaenecominciaun'al tra - medesimezza
dell'idea individuale che costituisce l'eccellenza di Gioberti coll'idea
sostanziale che costituisce ilgenio nuovo na zionale - rifà in sè tutto il processo
anteriore dello spirito u m a n o quando acquistò il suo spirito intera
coscienza di se medesimo - sti mò che iconcetti natigli in mente erano stati
indirizzali ad un alto linedallaProvvidenza–
siapparecchiaadeseguireildisegnodivi no- moto dall'individuo alla nazione e
alla specie- come nel divul gare la sua dottrina e farla fruttare si mostrasse
tradizionale e n o vatore ad un tempo --procedette per l'antagonismo degli
estremi per 1 l 513 meglio far spiccare l'armonia del mezzo—dissimulò
una parte del suo pensiero -- la filosofia la religione e la nazionalità
italica sono unite e connesse subbiettivamente e obbiettivamente mosse
dal l'idea al fatto, dai principi al metodo di esposizione -carattere delle
opereessotericheedelleacroamatiche- Giobertipossedevauna dottrina ben divisata
e armonica , di cui avea piena consapevolezza – ciòsinegadaicritici-
sidiscutelalorosentenza -sigiungeaduna conclusionc lutta opposto alla loro con
solo l'esame dei fat ti -- si cerca allrcsi la dottrina intrinsecamente e
logicamente e si ha lo stessorisultamento, perchéquasituttiicriticihanfranteso
trinadiGioberti- ilmedesimo ladot è accaduto al Prof. Spaventa - qua
l'èilconcellonuovoch'ioneporgo- essoèstatoignotofin'ora; nelle scuole d'Italia
s'è insegnato solo la parte essoterica- di questa ècontrappostol'Hegelianismo-
venutoiltempochesistudiaecol liva la parte acroamatica che contenendo la
sintesi ed armonia di questoediquella,delpresenteedelpassato apre la via alla
spe culazioneavvenire- nellacontroversiaintornoaGiobertibisogna
separarelatesistorica,dallafilosofica— caratterichedistinguono, la dottrina di
Gioberti da quella di Hegel , e il moto civile d'Italia daquellodiGermania-
solol'Italiahaoggiunaveramissionestori ca,ilcuidelineamento
trovasidegliscrittideltorinese—riscontri tra le parti in cui fu divisa la
dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale–
comel'egemoniapiemontesehaprodottoisuoi frutti, così li produrrà il Primato –
il primato è tutt'uno colla riu novazione del pensiero italiano- ogni nazione
ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia- oggello
della scienza sulural'idealitàinfinita– riformareligiosacnuovavitadelcattoli
cismo - senza una filosofia e leologia infinitesimale ogni ristorazione
religiosaèindarno-provailrecentemotodiGermania- ilDöllin ger non ha ragione di
biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono oppostosofisticodeiGesuiti–
quindicontinuanolasofisticareli giosa che travaglia la nostra età-diseltano
d'una teologia veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro
ciechi colpi con tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la
necessità— senza di quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio
nella religione, nè accordare ildivino coll'umano-carattere della 63 nuovateologia-
modocomedeeprocederelariformacattolica- l'entratura di essa appartiene al
laicato,e in ispezieltà all'italiano così lagerarchia non sarà annientata,nè
scossa,ma condotta a ri formarsidasè—
ilmoloitalicoristabiliràperfezionatal'unitàmora le e civile d'Europa – esso
perciò è indirizzato ad una meta più alta diquellaacuiègiuntalaGermania—
iforestierimalintendonoe mal giudicano l'Italia ; in parte ne han colpa i
fautori della coltura tedesca
-ragionedell'imitazionetedescatranoi--devecessareedar luogo alla produzione
paesana nell'ordine dei pensieri ,dei senti menti e delle azioni.La teorica
della conoscenza nel Gioberti . Esposizione e critica.
In uno degli ultimi scritti, — certo V ultimo scritto filosofico, —
pubblicato pochi mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa operosità,
Antonio Rosmini, discorrendo della necessità speculativa di tener
distinta nell' essere la forma ideale dalla reale, usciva in queste
solenni parole: ' L'esperienza tuttavia e la storia della fi- losofìa
dimostrano, che e' è una somma diMcoltà a distinguere e mantenere
costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed obbiettiva
dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non ha guati la prova
quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce
d'aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col
titolo de' miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si
pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto
realista: incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati
tali abbastanza, ec- cetto alcuni pochi. Ma pace a quell'anima ardente: e
torniamo alla storia *) ,. Si sa che gli avvenimenti politici
del quarant' otto avevano rav- vicinato i due grandi avversar], smorzato
perfin le ire implacate e sospettose del torinese, che faceva pubblica
ammenda della vivacità frequente delle sue polemiche, dichiarando che,
appena conosciuto di persona il Rosmini, aveva cominciato anche lui
" a venerare ') RoiKiNi, Ariat. esposto ed esaminato,
Torino, 1857, pre&z. p. 36. La prefazione di quest'opera postuma era
Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao nella Riviìta contemporanea di
Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18', decembre 1854 egenoaio 1855;
riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di Hilauo, an. IV, 1855.
Digitizcdby Google Rosmini e CHoberH 247
con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù , ^). — Quanto al Rosmini,
benché l' animo suo non si fosse mai inasprito, i fatti del ' 48 lo
conciliarono di più col Gioberti, e non è questo il luogo dì ricordare le
belle prove da lui date de' suoi sentimenti verso il filosofo esule per
la seconda volta '), e poi quando fa morto, e quando prima, nel ' 49,
ebbe a G-aeta a difenderne calorosamente la fama a l' ing^no contro le
insinuazioni e le malignazioni d' un gran gesuita ^). Ebbene,
tutto ciò e il tempo corso in mezzo e il cammino in- tanto fatto nella
scienza, non lo rimossero fino al termine, come s' è visto dall' ultimo
suo scritto dianzi citato, dalla posizione già tenuta di contro al
Gioberti. E questi, dal canto suo, ìn quel di- scorso che premise alla
seconda edizione della sua Teorica del sovrannaturale, e che si può
considerare come Y ultima sua scrit- tura di genere puramente filosofico,
rimaneva anche lui al suo posto, nonostante l' om^gio quivi reso alle
virtù e alla sapienza dell' av-_ versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed
io siamo d'accordo nel recare alla riflessione la possibilità
dell'errore, e il suo rimedio all'intuito che la precede. Ma dissentiamo
intorno al contenuto di tale intuito ; il quale al parere dell' illustre
Roveretano, non ci poi^e che un ente astratto, iniziale, destituito di
sussistenza ; laddove, al ')■ Discorso preliminare tìiU 2' Bàìz.ifiìla
Teorica del sovran7iaturide(i850] I, ^ n. Vedi pure ciò ohe, quasi nel
tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel Rinnovamento àvUs, lib. I, cap.
XIII; ediz. Napoli, Morano, 1864, 1, 285 e aegg. !) Vedi quel che
HCTisae Q. Uassuii, nella bua Bitiista pdiHca del 15 luglio 1855 nel
Cimento di Torino (voi. VL B. 3", p. 86) commemoiando il Ro- smini.
Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta importansa per le
opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T. pure Tommaseo, A.
Ro- smini, (in Rimala Contemporanea dal 1855, voi. IV) §. 28,
') H Liberatore. — Chi fu presente al colloquio e ne scriveva poi a
Baff. De Ceaare.attesta che le parole «eloquenti dette dalBosmini in
quella occasione lìaHciiono il più autorevole e più meraviglioso elogio
del Gtiobeiti >. Tedi Db CssAaB, Dopo la wndanna del S. Uffi,ziOt in
N. Antologìa, 16 luglio 1888, p. 205. .dbyGoosle
348 G. Gentile mio, ci dà un concreto effettivo, che
nel primo de' suoi termini è assoluto e apodittico. Or qual'è il miglior
fondamento del vero? ^ l'astratto o il concreto? T insusaistente o
il reale? l'incoato o l'as- l soluto?, '). I due
filosofi, adunque, compiono la loro carriera filosofica con opposta
sentenza intomo al principio della loro dottrina, nonostante la polemica
vigorosa per dottrina e dialettica che s' era in propo- sito dibattuta;
talché si direbbe che essa non abbia avuta nessuna efficacia sulle
dottrine de' due filosofi. Questo però è appunto quello che ci rimane
ancor da vedere. f~^ Come il Rosmini abbia introdotto V. Gioberti
nel campo della ' moderna filosofia, cioè della filosofia kantiana,
l'abhiam veduto e dimostrato nel terzo capitolo della prima parte del
presente studio; coachiudendo, che già nella Teorica del sovrannaturale
egli ci ap- parisce sì un rosminiano, ma un rosminiano il quale vuole
andare avanti al Rosmini. Neil' opera che seguì immediatamente
dopo, V Introduzione aUo studio della Filosofia, si delinea ben
nettamente la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si vede quali
essen- ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le dottrine del
filo- sofo roveretano. Ma prima di studiare cotali
modificazioni, vediamo come si muove in questa nuova opera il pensiero
dell'autore. / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae
di quella donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è
mo- dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha
sistemi che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di
apriori nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi
idea- *) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A.
Bosmini, II, 126-134. — L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato
civile, dove al lib. n, oap. 7*, (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa
volta « Cosi, per cagion d'esempio, il divorzio introdotto da un chiaro
nostro psicologo tra il reale e l'ideale, non si puA comporre stando nei
termini della psicologia sola; e se si muove da questo dato pei salir più
alto, si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e de' suoi seguaci
>. DigitizcdbyGOOgle Jtosmitii e
Gioberti 249 iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma
nell'idealismo, oltre l'errore di ammettere più elementi a priori che non
ne siano richiesti a quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz)
può esservi un più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene
in Kant, Va priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol
essere vera e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì
sistemi sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo
sog- gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il
pla- tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova
grazia appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e
il soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo
soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa- coltà
soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo ei si
proponeva di scendere in campo col Numo Saggio. Contro questo
soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del Gioberti; il quale
raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche riconosciute pure in
fondo al contenuto filosofico delle dottrine cristiane, tutti gli opposti
sistemi involge in una comune condanna con quel sensismo, che ormai,
quando usciva il suo libro, era già morto e sepolto cosi in Italia come
in Francia; talché dimostrare sensistica una teorica, era lo stesso che
averla giudicata senza appello. E sensistica, a parere del
Gioberti, è tutta la filosofia moderna in Europa; a cominciare da Renato
Cartesio; il quale, del resto, non fece se non applicare alla filosofia
il metodo che aveva già fatto ben trista prova con Lutero, nella
Protesta, proclamando la j intimità autonoma della fede religiosa. .
-J Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a
dire che il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il
Locke, il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice
pro- genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi
pre- tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e
volle stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi
umani. Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo
dubbio .dbyGoosle 250 Q. OmHk
metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso
in- timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente
alla negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro
è il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani,
e ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,
riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni
realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente
scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che
_, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere .
*). 1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta
la serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia
moderna ; egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo
psi- cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto,
che come tale non può essere se non un sensibile ^). Insomma
il Locke e il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che i
successori di Locke facciano caso della sensazione sola, e non del
sentimento interiore, imperocché questo e quello convengono nell'essere
forme sensitive, destituite di obbiettività assoluta , *). \ Il
Gioberti, insomma, intendeva parlare di soggettivismo, e di- COTa
sensismo, che è pure una direzione speculativa molto diversa. La colpa
bensì non è propriamente sua, perchè risale al Galluppi ; il quale nella
sua teoria della sensazione (che qui il Gioberti ripete) aveva con essa confusa
la percezione o rappresentazione e la coscienza, introducendo nel seno
stesso di quella le distinzioni che sorgono ') Introdwi.,
lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana, 1846)
I, m. ») Ibid., p. m-12. 3) «... E certameiite la
seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa: io sento di oaeere
pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . . . n pensiero
conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della coscienia,
cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che muove da
quella, colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base della
scienza >. Tntrod., lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).
*) Op. àt., n, 78. n 2&1
invece per cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, il
Gio- berti risente presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un
sensista delio stesso Cartesio, pel quale il fatto della coscienza,
invece che un sensibile (donde, secondo il Gioberti, stesso non può
derivarsi mai l'essere) era una cosa stessa con l'essere, e quindi noD
un semplice principio psicologico '), ma una inscindibile unità del
prin- cipio psicologico e dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata
fecondata, avrebbe già fatto procedere di molto la filosofia moderna. Infatti,
quando ai accinge a classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal
sensismo cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se- guaci del
lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo * il
ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e al
metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal francese
filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis- sione e lo
sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , '). E già da questa
medesima classificazione de' sistemi resulta cbiaro che il nemico preso
di mira è precisamente quello stesso del Rosmini: cioè il soggettivismo,
il falso so^ettìvismo, che ri- pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed
ecco l'intreccio significan- tissimo della filosofia eterodossa con la
falsa filosofia!) da Lutero. Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi,
secondo il Gioberti, par- tire tutta la storia della filosofia moderna,
così vengono distribuiti i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la
sua scuola: nella 2' Locke; nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in
parte Giorgio Berheley^; ') Eppure il Gioberti stesao aveva
combattuta questa teorica galluppiaaa, nella n. 3* della Teorica (II, 319
e segg.) imputando al filosofo di Tropea < di Bveie considerato come
semplice e indivisibile ciù che è ancora composto, Bocomunando per tal
modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >. *) < Il
paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-
plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- —
Introd., I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha <
Cartesio è sen- sista nei principii e nel metodo * p. 83. 3)
Op. cit., voi. Sf p. 85. .dbyGoosle 252
a. Gentile nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi
*) ; ' infine nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici
assoluti, che giunsero al dubbio universale, mediante i principii del
sensismo, aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe
è Davide Hume , *). CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti
d' uno; e come va che il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley
con l'idealismo assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e
l'idealismo trascenden- tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco:
secondo lui, " l'asso- luto dei filosofi tedeschi non è l'idea
schietta, ma bensì l'idea mista di elementi sensitivi, e per dir meglio
un concetto, un astratto, un fantasma, frammescolato di elementi ideali ,
(p. 85); insomma è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il
Kant con- verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà
del senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando
il vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della
con- fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per
Gioberti, r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè
contraddit- torio: è posto come a priori, perchè necessario ed
universale; e intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare
all'individuo che conosce, e come esso contingente. Questa
falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che cominciava con la
teoria della sintesi a priori dal negare definiti- vamente quello
scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre stato come
equivalente, — è un'eredità che il Gioberti raccoglie dal Rosmini, e
rivolge subito, come or ora vedremo, contro di lui. E già si può
dire, che l'avesse raccolta nella Teorica del so- vrannaturale, quando, a
proposito dell'eclettismo francese, aveva ') E petcbè
esclndecne ì materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come ricorda
opportunamente il Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con-
dillao? ') Op. dt, p. 86. parlato dì un * razionalismo imperfetto
, che consente col sensismo ' nel so^ettivare interamente e parzialmente
la conoscenza „ ^), e meglio altrove, discorrendo dell' egoismo
psicologicor cui avreb- bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e del
quale * l'egoismo ontologico metafisico di un celebre filosofo tedesco,
che im sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la
nect conseguenza , *). I! Gioberti, invero, come il Rosmini,
non conosce altn gettìvismo che il falso antropometrismo
individualistico goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in
Em. Pel soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti
donde, secondo il principio di Lutero, tanti cristianesimi cristàani, e '
tante filosofìe quanti sono i filosofanti, se et Descartes, rinnovatore
della verità subbiettiva, immaginata di già e da Protagora , ^. Di guisa
che è un errore, dice Ìl I^ paragonare la riforma cartesiana a quella
socratica ; avendo 8 presentito la teorica delle idee assolute, che venne
poscia es] da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i
• quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina. In
breve: la salvezza della scienza è nel platonismo, nella razione
dell'idea dal soggetto, nella oggettività della conos E si deve anche far
forza alla storia e in Socrate trovare PI se in Socrate si vuol trovare
un principio di sana filosofia, menti del maestro di Platone non si fa
che una ripetizione d tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso
" sofista i nisberga , ! Questa falsa interpetrazione
della storia, in gran parte fondamentalmente rosminiana, non pone del
resto, il Oioberti bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano,
come non ne escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il
gran ') NotaXH; n, 329. *) Nota XVn i n. 338. »)
Introd., I, 3»; H, 76. Q. Gentik glìere invano
che tutti i filosofi italiani della prima metà del secolo fanno tra loro,
accusandosi TicendeTolmente di kantismo e di so^ettivismo, intanto che
ognun d'essi, senza accoi^erseae, vi rimane impigliato. Galluppì accusa
Rosmini; Testa, Galluppi e Rosmini; De Grazia, Galluppi e Rosmini
egualmente; Gioberti e Mamiani, Rosmini; e questi, il Gioberti. — Così,
il Rosmini era persuaso che tutta la sua attività filosofica fosse una
guerra con- tinua contro il sensismo e il soggettivismo. Ebbene, vien
fuori Ìl Gioberti a proclamare che ancora il sensismo è la dottrina
filo- sofica predominante in Europa; dacché non tutti i razionalisti
si potesser dire immuni dal comun vizio, avendosi a distinguere uu
razionalismo ontologico e un razionalismo psicologico; ìl secondo de'
quali separa bensì, come non fa il sensismo, l' intelligenza dal senso,
ma a quella non dà altro fondamento che il soggetto, lo stesso
fondamento, in fine, del senso, senza perciò poter conferire alla
cognizione veruna certezza oggettiva. E in questo razionalismo
psicologico o psicologismo, che vogliasi dire, con Kant e Reid e Stewart,
va, secondo il Gioberti, annoverato anche il Rosmini, non correndo alcun
mezzo possibile Ira Io psicologismo e l'ontologi- smo, che anche lui, il
roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo italiano né i due Scozzesi
possano propriamente rientrare nel quadro della quÌntnplÌG«
classificazione del sensismo cartesiano, ossia della moderna
filosofia. '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini aveva
delineato una storia della filosofia, passato al Gioberti, era agevole
rivolgerlo contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa rilevare
è l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a quel
cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo. Il
Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione un elemento
necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì cui ammette un
intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che, secondo una critica
n^ionevole, devesì interpetrare come una sem- plice aflfermazìone della
universalità e necessità (trascendenza, e quindi — pare — opposizione
all'individuo contingente) AeWa^Hori della cognìzioDe. E il
Gioberti prende la stessa posizione di contro all'empirismo, pur senza
ripetere una critica che era stata fatta, ma accettandone benal il
resultato. ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell'
Introduzione, che il Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla
sensazione e dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci,
dalla sen- sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che,
sì come il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto'
dal soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e soggetto:
oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili od este-
riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti la
questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea, in-
volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato ed eterno,
come necessario ed universale della cognizione, non ha nn principio né
una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al- l' autore, che appunto la
definizione stessa che egli dà della idea, inchìnde il teorema, che gli avversarj
volevan dimostrato. Comunque ciò sìa, egli ammette bensì un' altra
questione, che è la vera questione della ideologia rosminiana ; la quale
è volta a indiare " se derivando la cognizione dell'Idea da una
facoltà spe- ciale, che dicesi mente o intelletto o ragione, ella è
acquisita od in- genita; cioè, se l'uomo può su^atere, eziandio pure un
piccolissimo spazio di tempo, come spirito pensante, ed esercitare la
facoltà cogi- tativa, senz'avere l'Idea presente; e quindi ne va in cerca
e se la procaccia; ovvero, se ella gli apparisce simultaneamente col
primo esercizio della mente, tantoché il menomo atto pensatìvo e
l'Idea siano inseparabili , *). E tal quistione, che brevemente si può
espri- mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso kantiano di forma
si- multanea alla esperienza) ei la risolve affermativamente, come
il Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per rispetto nostro ,
) non si può assegnare altra origine all'Idea, che l'origine medesima
dell' esercizio intellettivo. «)Iiib. I, oap. 3»j n, 6. *)
le .dbyGoosle m 266 O.
Gentile Questa apparizione dell'Idea simultanea al primo esercizio
della mente corrisponde per l'appunto a quello che il Rosmini
avrebbe detto propriamente nozione) dell'idea dell'essere. Anche pel
Gio- berti cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza
stessa; anche per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè
risulta dalla struttura dello spirito umano, secondo i canoni della
filosofia cri- tica , *) ; anche per lui è " l' ometto della
cognizione razionale in se stesso, aggiuntovi però una relazione al
nostro conoscimento , *). L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti
stabilito con breve di- samina del procedimento del conoscere, e benché
egli non se ne rimetta al Rosmini, è chiaro che psicologicamente la
lacuna, che egli stesso poi riconobbe in questa parte della sua teorica,
devesi alla grande efficacia esercitata sulla sua mente dallo studio di
Ro- smini ; talché, scrivendo quasi di getto, come fece, l'
Introduzione, non avrà pensato che ci volesse molta discussione a
solidare già muorevasi la mente iegazione del
conoscere. nella esposizione, del Ione fece il Massari
nel un'ipotesi, la quale, per l' indirizzo per cui ^ sua,
era assolutamente necessaria alla spie Si accorse di poi del mancamento ;
e lo v resto tanto piaciutali, che AeW Introdtizio Progresso di
I^apoli, quando già l' intrapresa polemica col Rosmini cominciava a
fargli guardare più attentamente ogni parte della costruzione filosofica,
cui aveva posto mano. B al Massari, ai 17 giugno del 42, scriveva:
"Ho riletto quel poco che ho detto del- l'intuito iLviW Introduzione
e l'ho trovato ancor più scarso che non credevo; tanto che la critica che
vi ho fatta di non esservi steso davvantaggio e con nu^giore precisione
su questo punto manca affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava
a scrivergli : * Non ') < Nozione io chiamo un'idea
considerata sotto questa relazione, in quanto doè ella mi serve, a
rendermi note le cose >; Bosuini, Prindpj di acietua mo- rale, in
Optre, ed. Bstelli, TX, 2 n. ») Inirod., I. 3"; II, 8.
') Ibid., p. 5. *) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una
analisi dell' Introduzione ( la 1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie
puntate del Frogreeso del i841. Bosmmi e Gioberti 257
è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio testo del-
l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà mi-
steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no la cognizioae
umana e ordinaria, spogliata però del repli riflessivo. L'ho definito,
credo, nel libro degli i/rrori , '). - questa definizione dell'intuito
corrisponde evidentemente i trina già esposta del Rosmini, che l'intuito
dell'idea si rit un lavorio riflessivo sulla cognizione ordinaria,
mediante cesso d' astrazione. Nel Gioberti non s' incontra
una teoria compiuta del f noscitivo, come si trova nel Bosmini. Ma
qualche accennc qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore sia
de che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb
fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli trattare
specialmente, tuttavia l' ideologia rosminiana giace alla sua dottrina.
Egli ammette un' ' attività intima e s< sima, che rampolla dall'unità
sostanziale deWanimo, e con primo raggia intorno a sé le molteplici
potenze, donde na varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione,
anzi de d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii
L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini, presso il
Gioberti una " energia contemplativa „ che venir meno, ossia non può
cessar d' intuire il suo termine, se durre,in grazia di quell'unità
sostanziale dello spirito, la ce simultanea dell'esercizio deliamente^);
come nel Rosmii •) Cart, n, 381 e aegg.
^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz
tuna di lingua, lovece di anima, spirito. ') < Tutte le potenze
dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme dosi a vicenda, è
inverosimile il aupporre che l'energia contemplat eoir meno, «enza che le
altre facoltà a proporzione se ne riaentan cap. 5° (1, 138). Altrove dice
che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I prende la manifestazione
naturale del verbo ; 1, 2° (1, 196). Ma egli no a questo propoailo, una
terminologia costante. .dbyGoosle 258 G.
Gentile dell'intelletto vedemmo esser necessario non solo alla
costituzione dell'intelletto, ma anche, per l'unità del soggetto, a tutta
la fun- zione del conoscere. Né pel Gioberti l' intuito ha un
valore diverso da quello indi- cato nella teoria del filosofo roveretano;
come sarà agevole accor- gersene esaminando con la brevità necessaria la
teoria giobertìana della riflessione. L'iatuito rosminiano
vedemmo essere non vera e propria cogni- rjone, ma condizione di ogni
conoscenza, e però un vero a priori kantiano, una pura forma dell'
intelletto, che come tale distruggeva l'antica concezione di oggetto
opposto e separato dal soggetto, — avendo dimostrato che il nuovo oggetto
non esisteva per sé, fuor della sintesi, essenzialmente soggettiva, co'
dati offerti dal senso ed elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive:
'Egli è vero che l'in- tuito diretto della mente non basta a fare la scienza,
ma ci vuol di pili quella ridessione che ho denominata ontologica
dall'obbietto in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo oggetto
quella di- stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza
alterarne r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua
altezza inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se
l'intuito fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe
conoscerla, perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del
proprio intuito, e la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la coscienza
dell'intuito e la coscienza del soggetto, che in fondo sono una me-
desima coscienza; dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è costitutivo del
soggetto, e non v'ha soggetto senza l'intuizione immanente dell'Idea.
Sicché l' intuito giobertiano neanch'esso fornisce una ef- fettiva
conoscenza, ne è bensì anch'esso la pura condizione, la pura forma a
priori, la quale ha bisogno, come qui dice l' autore, della riflessione
*). Orbene, che è questa riflessione, e qual'è l'ufficio suo?
Essa *) «La riflesBione pertanto dee accompagnue l'intuito
primitivo >; I, 30, (H 107).
'l, è come un
intuito secODdario, cioè un replicamento cosciente del- l'atto
coatemplativo della Idea; ma, appuoto perchè cosciente, non è più puro
intuito, non è più condizione, ma atto di coscienza: essa è già
coscienza. — La riflessione importa quindi una determinazione soggettiva
e però una modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito è vago e
indeterminato, mentre ogni atto di conoscenza è essen- zialmente determinazione
ed unità; elementi che all'intuito non possono essere aggiunti
dall'oggetto suo, che non ha in sé né de- terminazione, . né principio
veruno di determinazione. ' Nel primo intuito la cognizione è vaga,
indeterminata, confusa, si disperge, si sparpaglia in varie parti, senza
che lo spirito possa fermarla, appropriarsela veramente, e averne
distinta coscienza... L'intuito secondario, cioè la rimessione,
chiarifica l'Idea, determinandola; e la determina, unificandola, cioè
comunicandole quella unità finita, che è propria, non già di essa Idea,
ma dello spirito creato , *). La riflessione, adunque, si deve
considerare come una funzione determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire
dell'» priori; funzione fondata sull' unità del soggetto, di
quell'attività intima e sempli- cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in
che modo avviene la de- terminazione? " Ciò succede, mediante
l'uniOne mirabile dell'Idea colla parola. La parola ferma e circoscrive
l'Idea , ^); unione mira- bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la
conoscenza, come lo era quella percezione intellettiva, per la quale
Rosmini faceva sviluppare l'atto del conoscere; ma unione necessaria,
unione, come s'è visto, senza la quale non v'ha umana conoscenza^).
E alla percezione intellettiva l'atto prodotto per la riflessione
si riconnette anche per la natura della parola, che si sostituisce in
esso alla sensazione rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la
») Introd., I, 3°, (II, 11). «) Op. cit, l. e. 3)
iLa parola, easendo il priocipio determinativo dell'Idea à altreai una
condizione neoeBjacia della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°;
n, 12.
2d0 0. Gentile parola, come ogni segno, per un sensibile,
osserva: * Se adunque ella BÌ richiede per ripensare l'Idea, ne segue che
il sensibile è neces- sario per poter riflettere e conoscere
distintamente l'intelligibile •). II cbe consuona con la doppia natura
dell'uomo composto di corpo e d'animo, e annulla quel falso
spiritualismo, che vorrebbe con- siderar gli organi e i sensi, come un
accessorio e un accidente della nostra natura „ . Sulle quali parole è
bene cbe meditino quanti sono che l'intuito giobertiano sogliono appaiare
con quello del Malebranche. Anche il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso
al sen- sibile e Io ritiene necessario alla formazione dell'Idea; e il
senso anche lui fa costitutivo dell' oi^anismo unico dello spirito.
Sennonché, sulla natura di questo nuovo sensibile proposto dal Gioberti
solvono varie difficoltà, sulle quali non è pcasibile sor- volare,
volendo fornire una idea non troppo manchevole della sua teorica della
cognizione. Vedemmo altrove (part. I, cap. 3") come già fin
nelle Miscel- lanee, che sono sì prezioso documento della formazione
della mente del Gioberti, si accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana
del lin- ' S^^SS^°- ^^^ 1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi
scrittori mo- derni assai noti, fra' quali il Bonald merita un luogo
particolare, hanno avvertita la necessità del linguaggio per l'esercizio
del pen- siero , *}. Ed è senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la
sua dottrina, che ha, pel modo come sorse, una grave ragione
storica. È noto che l' empirismo inglese e il sensismo francese sì
pro- ponevano di spiegare il linguaggio umano, come una invenzione
dell'uomo, Tommaso Reid per primo, (poiché le profonde intui- zioni del
Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche stdl' in- tendimento
(1763), dimostrò che il linguaggio nel suo più ampio ') Cfr.
Teor. Sovr-, II, 35 < Senaa la contezia di qualche aenaibile, le idee
non aorebbeia acceBsibili alla mente nostra*. Teoria che bÌ conferma e ai
de- fiaiace meglio nella Protoloffia, per la qaale cfr. i Inoghi dUti
dallo Spàtbhti., nella FUoa. di Oiob., p. 53 n. *j Introd.,
nota S' del voi. II, p. 213. Digitizcdby Google
Bosmini e Qioberti 261 significato è naturale prima che
artificiale. Definiva egli Ìl lin- guaggio, — definizione, ai badi,
espressamente citata e accolta dal nostro Gioberti, '■) — ' tutti i segni
onde gli uomini fanno uso per comunicarsi reciprocamente i loro pensieri,
le loro conoscenze, le loro intenzioni, i loro disegni e i loro desiderj
, *}. Pel Reid v' ba due specie di lingu^gio : un linguaggio naturale,
formato da quei vocaboli, che non hanno un significato convenzionale, ma
ne hanno uno che tutti intendono naturalmente e per istinto; e un
linguaggio artificiale, costituito dei vocaboli non aventi altra
significazione se non quella attribuita loro convenzionalmente dagli
uomini. Che vi sia un lii^uaggio naturale è innegabile: e l'attestala
sopravvi- venza stessa di esso al linguaggio artificiale: le modulazioni
della voce, ì gesti, i tratti del viso o la fisonomia, — mezzi tutti
onde l'uomo esprime naturalmente i pensieri, — sono per l'appunto le
tre classi alle quali riduce il Reid tutti gli elementi di cotesto
lin- guaggio. Ora è ovvio dedurre, siccome fa appunto il
filosofo scozzese, che il linguaggio artificiale presuppone ÌI naturale,
senza di cui gli uomini non avrebbero potuto intendersi per convenire nei
signi- ficati di quei vocaboli onde resulta Ìl loro linguaggio
artificiale. Di modo che se, come vuole l'empirismo, il linguaggio fosse
dovuto solver per un'invenzione umana, come la scrittura o la
stampa, tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora mute, come i
bruti. Né meno stringente è la critica dal Bonald opposta alla
teo- rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche. Secondo il
Bonald il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima conoscenza;
a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua espras-
*) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli Bagni, come sa
oiaaouuo; tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose, secondo la bella
e profonda dottrina di Tommaso Eeid >; Introd., nota l' al voi. II, p.
211. *) Rech. sur V entendemenf humain, trad. Jouffro;, oliap. IV,
sect. 2 in OtMvres (Paria 1828), H, 88. ') Combatte la teoria
com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene por conto delld
OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i Bensisti.
Digitizcdby Google aione (espressione, si noti, anche
semplicemente * mentale « )■ S contro i sostenitori dell'opposta
sentenza, osserva che essi comin- ciano dal supporre, contro ogni
autorità ed ogni ragione, l'uomo in uno stato primitivo bruto e
insociale, e a tal grado di barbarie, da essere perfino privato della
facoltà di conoscere e comunicare i proprj pensieri, per attribuirgli
nello stesso stato i pensieri, i sen- timenti, le affezioni, le intenzioni,
i bisogni, Io spirito d' invenzione e d'industria dell'uomo sociale e
civilizzato , '). Lo critica del Bonald è in fondo identica a
quella del Reid. Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del
linguaggio, cbe gli tocca inventare, qualità o attitudini necessarie
all'invenzione; le quali non possono non equivalere al possesso del
linguaggio che vien negato, comecché in una forma primordiale e
naturalmente rozza. E questa ingenua teoria del vecchio empirismo che
fon- dava la società io un contratto, la religione su un arbitrio
dì legislatori, e Ìl linguaggio in una invenzione convenzionale, è
stata anche in quest' ultimo campo, sconfitta dalla moderna scienza
della linguistica comparata; la quale se tra Max MuUer e il Witney
discorda intorno alia necessità delle relazioni che intercedono fra il
pensiero e la parola, ha però definitivamente e concordemente stabilito
che il linguaggio è un fatto speciale, primitivo e naturale dell'uomo,
non essendovi alcuna società, per quanto barbara e selvaggia, che non ne
sia fornita; del pari che la sociologia e la scienza delle religioni
comparate hanno provato l' originarietà, cioè l'apriorismo, del fatto
sociale e del religioso. Ed è appunto merito della scuola teologica
francese, come osserva giustamente il Janet ^), di aver dimostrato contro
i filo- sofi francesi del sec. XVTII la vanità delle teorie intorno
all'o- rigine fattizia e riflessa di tutti i fatti i più importanti
dell'uomo sociale. Al Bonald poi spetta particolarmente la lode per quel
che è del linguaf^io; e a lui specialmente volgeremo l'attenzione,
giacché ') lUeherches phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres (
Paria 1858 ) p. 107. *) La ph&os. de LamtnnaU, p. 18.
Digitizcdby Google Bosmini e Oioberii 263
egli connette questa teorìa con quella della rivelazione neceasaria
per l'umana conoscenza, siccome fece tra noi il Oiobeiii. II
Bonald, con l' Histoire comparée del Degerando alla mano, rileva che la
filosofia non è riuscita peranco a fissare un punto fermo, un criterio
sicuro di certezza e di verità, anzi per tutti i sistemi è finita nello
scetticismo e nel soggettivismo; e si chiede quindi se non fosse
possibile " trovare nei fatti sociali un fonda- mento alle dottrine
filosofiche piìl solido di quello che s' è cercato fin qui nelle opinioni
personali , ') ; e questo fondamento gli pare appunto di trovarlo nel
linguaggio, che, dimostrato non potersi in- ventare dagli uomini, deve
(non essendovi, secondo lui, altra via) essere stato comunicato da Dio
alla società umana, e in questa appresa via via dagli individui.
Si direbbe che il criterio del Bonald riesce sottosopra a quello
altrove rilevato dal Lamennais; che questa parola, che possiamo accettare
come saldo fondamento di certezza, data da Dio all'umano consorzio, è
precisamente la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori- ginale nel Bonald,
e prova che il Gioberti ne dipende io modo spe- ciale, è la teoria della
parola coma atto o strumento necessario del pensiero; vale a dire che,
dato che il linguaggio, tutto il linguaggio aia rivelazione divina, il
pensiero dì cui il Bonald dice che la parola è il corpo, è esso stesso
tutto una rivelazione, cioè ha tutto per se stesso un fondamento di
certezza obbiettiva o sovrumana, nel senso di universale. La quale è
appunto la teoria del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma
anche una alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione,
coni' è contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche
al- teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di
guisa che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è
ac- cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi
costitutivo di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto
elemento sen- sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso.
*) BecA., p. 42.- .dbyGoosle 264 O.
Gentile Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale,
in quanto è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò
che il ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere
dal di fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il
Ijameanais del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se
medesimo e incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi per
chiederle conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la
rivelazione va cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo alla
parola, che è tale a sua volta, che senza di essa, come aveva osservato
il Bonald, il pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la rivelazione, viene
a rigettare secondo il Gioberti, la parola, ossia lo strumento necessario
alla cognizione riflessiva dell'Idea; epperò non può attinger questa,
senza la quale — lo vedemmo già eoi Kosmini — il pensiero cessa di essere
'■). La necessità dì questo è pertanto la stessa necessità della
rivelazione, considerata unica- mente per rispetto a quell' ufììcio che
dee compiere nel fatto della conoscenza. Sennonché, cosi
considerata, a che si riduce la rivelazione? Essa ci deve offrire la
parola, ossia i segni delle cose, Ìl dato sensibile che circoscrive
l'idea dell'essere e le dà attuale esistenza di cono- scere; e, come dice
l'autore, ' una successione di sensibili, per cui essa Idea rivela se
medesima all' intuito riflessivo dello spirito umano, e compie l'intuito
diretto, che li porge da sé *). Non è del nostro tema trattare
ampiamente di questo punto della filosofia del Gioberti, che
richiederebbe una troppo lunga di- samina. E bisognerebbe sovrattutto
discuterla, — come in parte ha fatto, da quel gran maestro che era, lo
Spaventa — nelle opere postume, una delle quali è appunto dedicata alla
filosofia della ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto
della tradizione religiosa e Bcientifica si trae dietro neceasariacoente
quello della parola. Ora, siccome l'aiuto della parola è neceaaarìo per
conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta dee eziandio dismetteie
e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea, che rimane?
Nulla ».-- /«(roA, I. 3»; II, 51. ») Op. «(., I, 3"; n,
107. .dbyGoosle Sosmini e Gioberti
265 rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col
Elo- amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto
di partenza, volendo discorrer di quella. Gì basta notare,
che nella stessa Introduzione la teoria della parola va messa in
relazione con le dottrine del Reid e del Bonald, dalle quali deriva, e
co' principj rosminiani già adottati nella Teo- rica del soEiannaturale ;
che deve intendersi {secondo la distinzione di parola naturale e
artificiale, ripetuta dallo stesso Gioberti) '), come parola naturale,
cioè come segno della cosa, o sua rappre- senlanions, il che corrisponde
appuntino alla teoria rosminiana della sensazione, per la quale si
determina e circoscrive l'ente indeter- minato. Infatti, secondo il
Gioberti, la parola artificiale non può esprimere se non le idee già
espresse, e presuppone quindi la pa- rola naturale, la rappresentazione
*). Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una
de- terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato
del- l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della
riflessione; la quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la
percezione intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la
parola, ha mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua
fìlo- 'J 4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della
parola, cioè del sensibile! La parola è di due specie: naturale e
artificiale. Questo è il lin- guaggio elle non può eaprimere che le idee
già espresse. Il linguaggio del- l'arte è sempre una traduzione del
linguaggio della natura; è verso di esso db che la scrittura verso In
parola artificiale >. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta, i8o6, p.
89. ') Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo
le difficoltà che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta
uell' Introduzùtne, o prima facie par che quivi debba intendersi,
esaminando la critica fattane dal Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l'
InlrodtiziorK aUo st. ddla JHo*. di V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845,
part. n, p. 32 e segg. Ma non ist htc locus. Con la critica del Testa
consuona in alcuni punti quella di V. Db Gbaziì, ne' suoi Discorsi au la
logica di Hegel e su la Filos. speculativa { Napoli, Tip. de' Gemelli,
1350) 2' rass.; e mutuata dal Testa pare l'obbiezione che il critico
calabrese muove all'ipotesi dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Gioberti.
aee O. Gentile sofìa, che per la spi^azìone
della conosceoza ha bisogno del fatto della rivelazione egli coutrappone
la filosofla eterodossa, la quale, rifìutaodo lo strumento della
rivelazione, non può ammettere una riflessione che rifaccia T intuito e
conduca perciò al possesso del- l'Idea; e deve quindi rinunciare alla
Idea, appigliandosi alla per- cezione del sensibile, il quale può essere
l'oggetto del senso esterno, come dell'interno, ossìa materiale ed
estrinseco, o spirituale ed intrinsepo. Donde, doppia eterodossia,
sensismo da una parte e psi- cologismo dall'altra; e in ambo i casi ' la
sostituzione del sensi- bile all'intelligibile, come principio, onde
muove la filosofia , '); ossia un metodo il quale, come vedemmo, conduce
direttamente al soggettivismo, allo scetticismo, al nullismo, dacché è
vano lo sforzo dei sensisti e de' psicologisti, di trarre dal sensibile
l'in- telligibile. La filosolia eterodossa, dunque, ammette
bensì anch' essa la riflessione; ma la sua rifiessione si differenzia
essenzialmente dalla riflessione della filosofìa ortodossa, in quanto,
non servendosi di quel mezzo che solo mette in grado di tornare, dopo il
primo in- tuito, fìno al termine di questo, si deve necessariamente
fermare al fatto della mente (per parlare dello psicologismo che
c'inte- ressa) e rimaner quindi semplice riflessione psicologica, in
luogo di pervenire all'Ente intuito immediatamente e farsi, come
dovrebbe, ontologica. ' Lo strumento, onde lo spirito umano
si vale in psicologia, è la riflessione psicologica, per cui il pensiero
si ripiega sovra se stessO; e afferma, non già la propria sostanza, ma le
proprie ope- razioni solamente. All'incontro nell'ontologia lo strumento
è la contemplazione, la quale si divide in due parti, cioè in uu intuito
primitivo, diretto, immediato, e in un intuito riflesso, che chiamar si
può riflessione contemplativa e ontologica , >). Cosicché la ri-
flessione psicologica è una operazione semplice ; l' ontologica una
') Introd., I, 3"; II, Bi e segg. *) Introd., I, 3»;
II, 104 e aegg. Boamini e Gioberti 267
operaziooe duplice; quella si esercita sopra il prodotto soggettivo
di una precedente operazione (l'intuito)-; questa sopra l'oggetto stesso
della operazione precedente, che rifa maturandola. Si potrebbe dire
perciò, che la riflessione ontologica sia la stessa riflessione
psicologica aggiuntavi la ripetizione dell'intuito. Infatti *
nell'ontologia lo spirito, ripensando, si rifa sull'oggetto imme- diato
dell'intuito stesso.. . Ma, egli è vero che nella riflessione
contemplativa •}, la mente rivolgendosi all'oggetto ideale, si ripiega
pure di necessità sull' intuito proprio, che lo apprende direttamente ;
onde il tenor psicologico del rìpensare accompagna sempre l'altro modo di
riflettere; tuttavia queste due operazioni, benché simul- tanee, sono
distinte, perchè hanno il loro termine in uu oggetto di- verso ,
*). Una critica non molto difficile qui può sorgere conti'o
questa dottrina della riflessione ontologica. Se l'intuito lascia uno
stato speciale nella mente, un fatto, tal che sia possibile coglierlo
con la riflessione psicologica, due casi si posson dare: o in esso
v'ha uno specchio fedele dell'oggetto proprio dell'intuito, e allora
la riflessione psicologica è fondamento di una conoscenza oggettiva
per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il Gioberti; o non si
riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si riflette fedelmente) il
termine dell' intuito, e in tal caso questo primo intuito è per-
fettamente inutile. Il dilemma ci pare senza uscita. La riflessione
ontologica del Gioberti sarebbe davvero un secondo intuito, se potesse
traspor- tare la determinazione sopravvenuta con la parola (dato
sensìbile) dall'interno del soggetto, dove interviene, nello stesso
oggetto; il che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la parola è
un sen- sibile. E perchè dovrebbe potervela trasportare,
cotesta determina- *) Cobi è par detta dal Oìobei-ti la
riflesBione ontologica; mentre la psico- logica è pur detta osservaHva
(p. 105). «) latroduz.. l, 3", II, 104. G. Qmiile zionep Perchè,
avvenendo la determinazione nella riflessione, es- sendo questa
ontologica, il sensibile, principio della determinazione, dovrebbe
ripensarsi coli' intelligibile, e come questo (poiché si tratta di un
secondo intuito), fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im-
possibile. Di certo la riflessione ontologica è l' espressione,
benché non esatta, d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora
vedremo; ma contrapposta, com'è dal Gioberti, a una riflessione
psicologica, fallisce al suo scopo, non potendo sfuggire alle conseguenze
dello accennato dilemma. Sennonché, il Gioberti ci dice: ' La
rifles- sione psicologica non ha per termine diretto il pensiero, come
pen- siero, ma il pensiero come sensibile intemo, cioè come atto
dello spirito, e quindi non riguarda direttamente l'Intelligibile, che
si congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero che la
riflessione del psicologo si connette per indiretto coli' Intelligibile ;
ma cì6 non prova nulla in favore dei psicologisti; imperocché non
ne partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che, al parer
mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•
L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie il
pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma lo coglie,
secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la riflessione
ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come pensiero.
Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,
e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce
specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella esposizione
della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é ») Introi.,
I, 3» i U, 109. ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive :
< Una meate aeiiEa idee, e in igtato di tavola rasa perfetta è una
contraddizione. La facoltà con cui la meate creata afferra questa
rivelaiione [la riveUsioae imuaQente, virtuale, che diventerà attuala pei
opera della riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua assensa, è
l'intuito»; p. 88 Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva detto il
Rosmini. Rosmini e QvAerii 369 la sua propria essenza, — come può
fare a ritornare sovra un pensiero ehe non siasi già appropriato
l'Intelligibile, e Io abbia ancora fiiori di sé, e sia ancora in atto
d'intuirlo? Insomma sì può concepire un intuito immediato
dell'Intelligibile come essenza del pensiero, che pur lasci il pensiero
sempre al puro stato di tcAida rasa, sempre in atto di guardare
l'Intelligibile, senza mai vederìo? Il pensiero pel Rosmini intanto è
pensiero, in quanto ha un intelletto costituito dall'intuito
dell'intelligibile; non può quindi riflettersi su se stesso, senza trovare
in sé non già Ìl semplice atto astratto dell'intuito, ma sì l'atto
concreto, ossia l'atto terminante nell'Intelligibile: la forma, in una
parola, dell'intelletto. E l'equi- voco propriamente consiste in ciò :
nel concepire l' intuito imme- diato come una pura dualità; dove, al pari
della visione corporea, da cui immaginosamente è desunta, non può essere
se non un'unità sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond' è
fornito l' intel- letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto,
come nel pro- dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la
nozione è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo
spi- rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto
l'Intel- ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore
soggiunge che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico)
gli ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse
le dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori
in essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori
come oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi- tivo,
in che si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad aspettare di
esser da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento più acconcio alla
bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub- blicato il celebre Manuale
di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa da tutti che non v'ha nulla di
più falso. Quello che not sentiamo e diciamo luce e colori, non è se non
per la nostra sensazione e nella nostra sensazione. Ma il Oioberti
ignorava questo concetto della soggettività della sensazione, comecché
avesse già appreso dagli scozzesi quella teoria della percezione
esteriore, per la quale ve- 0. Oentile nivano
per sempre seppellite le vecchie idee imniagiiii, che solo la leggerezza
filosofica di Ippolito Taine doveva più tardi esumare nella sua
haldanzosa quanto vana guerriglia contro la filosofia classica francese
in genere, e per questo punto contro il Royer- Collard >).
Or, come è uno shaglio credere che il colore che diciamo di vedere
con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché se si avesse modo di
riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul semplice atto del ve-
derlo, ma non propriamente sul colore; così soltanto un equivoco può far pensare
che nella nozione rosminiana fornita dall' intuito dell'Intelligibile,
non siavi altroché l'atto dell'intuire; di guisa che la riflessione sovra
di essa pervenga soltanto indirettamente all'oggetto, sul quale cotesto
atto si esercita. L'oggetto qui è una cosa stessa con l' atto, siccome
vedemmo altrove discorrendo dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa
sola nell'intuito in- tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso,
secondo la teoria del Rosmini. E questa è la vera ragione che
il Tarditi avrebbe dovuto op- porre al Gioberti, per dimostrargli
infondata, come tentò di fare nella prima e nella seconda delle sue
famose lettere, la distinzione fra le due riflessioni psicologica ed
ontologica *). Le quali si po- ') Convengo pienamente nella
controcritica oppostagli dal Janet nel primo de' suoi scrìtti en La crke
phUoaopMques, Paris, 1865, p. 26 e segg. Li teoria scczzcBe toRlienda
l'inutile intermediario dell'immagine tra l'oggetto sensibile e il
soggetto sensitivo, fece di certo un primo passo verso quell'unità del
tatto della sensazione, che non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi
prin- cipj del kantismo, di cui giustamente la psicologia genetica
tedesca si con- sidera come un fedele compimento. — Vedi in proposito gli
scritti del TabÌktino in Giom Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e
del Cm*p- PELLi, ivi. QnelH del primo bqu pure raccolti nei Saggi
fUoeofici, Napoli, Morano, 1885, pp. 37-128. — Dopo la pubblicazione di
quwto votame il Chiappelli tornò sull'argomento nella Filosofiti delle
Scude Italiane, voi. XXSI (1885), in un art. sulle Attinenze fra il
criticiamo kantiano e la pri- coloffia inglese e tedesca. ')
« Siccome, osservava il Tarditi, noi non possiamo riflettere su ne»aa
Rosmini e Gioberti 271 trebberò ira loro distinguere
solamente pel dÌTerso oggetto (e a questo soltanto s'è appellato come a
ragion distintiva in un passo deìV Introduzione già citato il Gioberti);
talché se l'una noa ha, né può avere un oggetto diverao dall' altra, è
chiaro che la distin- zione non possa più farsi. n Gioberti,
veramente, negava più tardi che la distinzione si desuma soltanto dall'
oggetto ; e voleva che si fondi anche sul metodo {Errori, I, 151 e
segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che ciò non aveva saputo vedere •).
Ma come sosteneva la sua sen- tenza ? ' La diversità dei
metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . . in quella del veicolo,
che si dee scegliere per conseguire l'oggetto ricercato; e la natura del
veicolo è determinata da quella dell'og- getto medesimo, considerata non
in sé semplicemente, ma nelle sue attinenze con le facoltà e le
condizioni del cercatore , *). E più in là: ' Il punto, a cui si vuol
giungere, determina l'indirizzo che si dee tenere; l'intervallo che s'ha
da correre, insegna le ope- razioni da farsi, per superare gli ostacoli e
toccare la mèta , '). Ora^ senza dire dei caratteri differenziali
che il Gioberti poi indica nei due processi che vuol distinti, basta notare
che la sua deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei avesse
dimo- strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di
riflessione, poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del
metodo oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o
percepito se reftle; pad la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto
atl' intuito, e dn questo a quello; anzi ta rìfleasioue sull'intuito non
puA essero completa, imparziale, quale s'ad- dice al filosofa, se non
coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel- V oggetto in
cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano, Z\ p. 38 ; e
si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.
p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da
oggetto, il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto
distinti. ') Leti, eit, I, 19-20. •) Errori. I,
153. 3) Op. eit., I, .158. G. Omtile è
determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi che ammetteva
un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto intuito, egli aveva
ragione; perchè se vi sono due termini di di- versa natura, noi non
possiamo giungere a ciascuno di essi con un medesimo processo. Ma
conviene prima provare quella distin- zione di atto e di oggetto
nell'intuito; la quale è, pift che altro, presupposta dal nostro
autore. E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion
di principio, né potendosi altrimenti che per astrazione
distinguere r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la
re- plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per
l'oggetto e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo
allof che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi
caratteri specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile,
come si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione
onto- logica? Il pensiero non si può riflettere se non sopra
di sé, come pensiero; e siccome è costituito tale dall'intuito dell'essere,
che gli dà l'idea dì questo, la riflessione non può non comprendere
direttamente questa idea dell' essere, che è oggetto dell' intuito.
Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo signi-
ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto esprime
l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la im-
maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato l'intuito), e però
la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si abbia di volere una
riflessione che, a differenza della riflessione suU' intuito, faccia
riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito. — E a questo
punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti distingue una riflessione
ontologica dalla riflessione dei psicologisti ? Qnesta, egli dice, si
ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce fino allo stesso
oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole evitare il
soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin nell'afferma- zione
di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata Fatta dal Kosmini delle
forme kantiane, ecco che egli la rivolge una seconda
Jìosmini 6 QwberH 27 Tolta contro il Rosmini medesimo.
Gioberti, infatti, si accorge ( l'intuito rosminiano è una pura e
semplice forma dell'intellet ne più né meno delle forme di Kant; se ne
accorge e gli pare, dìei l'insegnamento del Itosmini, di vedersi
risorgere innanzi il fosco fs tasma del soggettivismo. Quindi non gli
basta un intuito, coi bastava al Iio3mÌDÌ, onde salvare l'oggettività,
cioèl'universal e la necessità della scienza, e gliene vogliono due, un
doppio ìntu intuito riflesso o secondario, o veramente una riflessione
oni logica. Bisogna davvero che questa Idea stia fuori del soggel
umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre fino a lei, ti per un
semplice intuito (potenza o virtualità di conoscere), vi per un intuito
riflesso, reale ed effettivo conoscere. Ma il guajo è che se
l'intuito, l'intuito scempio, sul quale esercita la " riflessione
eunuca , ^) del Rosmini, è un semplice s< sibilo interno, o meglio, un
semplice dato soggettivo (che pel G: berti quel termine ha questo
significato) — opperò individuali contingente, — non c'è modo di provare
che non sia un sempl dato soggettivo anche lo stesso intuito doppio, che
gli si vuol ( stituire. À rigor di logica, infatti, la critica stessa che
il Qiobe muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si può
continuare l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè
l'universalitì necessità delle forme di cognizione, come opposizione al
sogge conoscitore. Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed
i plica sempre la medesima relazione tra soggetto ed oggetto, che
si eserciti una sola volta, sia che si eserciti due volte, riflessione
ontologica rifa l'intuito circoscrìvendone l'oggetto dato sensibile,
offerto dalla parola. Ora, se il prìmo^intuito i era bastato a cogliere
l'intelligibile, perchè e come deve potè cogliere il secondo ? — L'aveva
evolto, dirà il Gioberti; ma appui perciò bisogna ripeterlo, quando si
vuol predicare del dato sensil quella intelligibilità, e formare il
concetto. — Ma anche a v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è
visto un precedei *) Errori, I, 144. G. Gentile
cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che il Gioberti
dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del differenzia- mento
della primitiva identità. E se non precede cronologicamente, come non
deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza la diffe- renza, né
l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori del vario, é falso i!
concetto d'un replìcamento dell'intuito nella percezione intellettiva o
nella riflessione; perchè il replicaraento presuppor- rebbe l'intuito
come un precedente anche cronologico, oltre che logico ; con che si
tornerebbe al vecchio concetto dell' a priori. La riflessione
ontologica, adunque, non può intendersi come in- tuito riflesso, cioè
come doppio intuito, nonostante l' esigenza che r Intelligibile aia
intuito nell' occasione stessa della percezione sen- sitiva, oltre che
solo; per la semplice ragione che da solo non è mai intuito, se non come
presupposto logico, come un quid trascendente il fatto della conoscenza.
D'altronde, il secondo intuito che si com- prende in cotesta riflessione
ontologica, non è né più né meno che una ripetizione del primo ; talché,
insuMciente il primo, non pub non essere, e il Gioberti non dice perchè
né come non debba es- sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato
il primo, egli non aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo,
come aveva avuto torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme
kan- tiane, a contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come
l'errore del Rosmini risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma
non, ci pare, la sua teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte
notato, delia buona esigenza da lui avvertita di una perfetta
universalità e necessità nel conoscere; così, con la sua teoria della
riflessione ontologica, il Gioberti, se crede a torto di correggere il
"Rosmini e con esso anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto
il giusto concetto dei bisogni essenziali della scienza. E v'
ha di più nel Gioberti. Questi sente più forte una esigenza, che non si
può dire sia stata trascurata dal Rosmini, comecché in lui non sembrasse
pienamente soddisfatta ; vale a dire l' esigenza dell' unità non pure
come compimento della dualità della sintesi, ma altresì come sua base,
fondamento ed inìzio. Rosmmi
e Oioberti 275 Infatti, con la riflessione ontologica 8Ì ritrae la
differenza nel seno stesso delU identità; perchè la parola, principio
determina- tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è strumento di
quella riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa d'un quadro,
in cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per lasciarsi
vedere dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una medesima
cosa; tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è
propria- mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui
scatu- risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione
dello spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è
pre- cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro
stesso dell' identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione
psicologica non si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di
cotesto iden- tico, cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il
quale, d'al- tronde, se pure era un identico relativamente all' ordine
dei cono- scibili, non conteneva però in sé il principio della differenza.
Il Gioberti, adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza
della riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi
sostituire una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido
fondamento la oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu-
ramente quella vera sintesi a priori che per questa via accettava,
attraverso il Rosmini, da Em. Kant; fondandola su quell'unità indis-
solubile di identico e di diverso, di uno e di moltepUce, di uni- versale
e di particolare, di necessario e di contingente, nella quale è la vita e
la spiegazione del pensiero e del mondo ; unità, del resto, di cui sentì
pure il bisogno Rosmini, come in parte s'è visto e meglio si vedrà nel
capitolo ohe s^ue. E per conchiudere intanto su questo punto,
diremo che la ri- flessione ontologica non è una operazione differente
dalla riflessione psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini;
non potendone differire pel metodo, poiché non ne differisce per
l'oggetto, e non potendo per questo differirne, poiché non esiste quella
duplicità di c^getto, che è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe
condi- zione necessaria e sufficiente. L'immediatezza dell'intuito,
come .dbyGoosle 378 0. OmHle
forma del conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto
d'intuire e oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che pur
presuppone col suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della
proprietà delle parole. La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola
parlata fu inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun
trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La
parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a
l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e
quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito
contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee
yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ;
quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e
perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe
l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle
frasi,che esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per
via delle frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del
discorso. I m perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e
quindi lo stile che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti
la parola è semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi
all'occhio della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e
oscura.L a parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime
; ed è sempre tale , ogniqualvolta 266 linguaggio ; della precisione dei
concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le
divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle
verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente
secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in
tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore,ogni qual volta non
si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra
innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali ,
mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes.
seleggi.Diche noidividiamoluttalamateriadiquesto capitolo in tanti distinti
articoli . conserva la suasemplicità. Quando la parola è propria mantiene a
capello la corrispondenza perfetta tra l'Idea e il suo segno sensibile, se ella
siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime l'idea creata,cioè
l'esistente è anche propria , oġniqualvolta conserva la corrispon. denza tra
lamimesi e lametessi.Quindi è,che la lingua primitiva, la quale ebbe due parti,
l'una divina,e l'altra umana, fu eminentemente propria ; imperocchè la parte
divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei verbi originali
manteóne,perchè divina,la corrispondenza tra l'Idea e il segno,e la parte
umana,consistente nel l'invenzione dei nomi primilivi,mantenne ancora la cor
rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè A d a m o pernominare
isensibilicoiloroproprii nomi, lidedusse dagl' intelligibili, cioè dalla loro
radice melessica. Quindi è,ancora , che nelladivisione delle lingue avvenuta
pel fatto diBabelen,on re,che non abbia più o meno perdule e guaste molte pri.
milive sue forme ; che non costi di n o m i e verbi anomali, eteroclili,
difettivi, e di molte altre irregolarità di linguag gio , sicchè ogni lingua
compare una rovinadel primitivo idioma. Quindi è finalmente,che gli scrillori
autichiper che erano studiosissimi della proprietà delle voci c dello stile
(onde le loro distinzioni dei varii generi di stile,te nué, mezzano, sublime )
perciò sono appellati classici, e sono isoli che abbianobuona scuola,cioè
ispirano e pro ducono altri scrittorigrandi. 267 2. Abbiamo detto che
dalla proprietà nasce la purità l'cleganza e la bellezza della lingua e dello
stile;e quindi del discorso.E infattilavoce proprio nella lingua italiana
importa il concelto di identità, cioè della medesimezza di una cosa con seco
stessa:importa pureilpossessoche una cosa ha di sè medesima,perchè la
cosaposseduta èquasi parte è in certo modo faltura eziandio del possidente.
Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo di m e desimezia ;cosìl' amor
proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo di possessione ; così gli attributi
specifici di una cosa,iqualine sono leproprietà,sono la cosa stessa, perchè le
qualià e i modi degli esseri sono la sostanza m o
dificata,valquantodirelamimesidella metessi.Adunque
laproprietàdelparlarealtronon èchelacorrispondenza della mimesi colla melessi
del discorso; la quale corrispoc 3. M a se la proprietà del
linguaggio è la fonte di tulti i pregi del parlare e dello scrivere, la
improprielà del parlare poi è una delle cause principali degli errori
ontologici e logici, che producono la declinazionedellafilosofia,como
avvertimino nella prima parte di questo corso. L'errore in generale altro non è
che lo sviamento dell'intelletto nella cognizione della verità ; e come tale si
distingue dall'igno, ranza , la quale non importa la cognizione alterata del
vero,ma bensìla privazione assolutadella cognizione,E poichè al vero si oppone
il falso; perciò siccome il vero si gnisica, in quanto è desso l'essere, così
il falso n o n si goifica, secondo la bella espressione del Tasso, perchè €
desso ilnon essere 268 denza costituisce la dialettica del linguaggio, e
quindi la improprietà ne è la sofistica. Ora la purità delparlare i m porta la
sua pulitezza, la quale è una speciedi proprietà; imperocchè la
pulitezza,mostrando la cosa nella sua forma nativa, fa che la cosa sia identica
a se stessa, yalquantodire che l'apparenza risponda allasostanza"; ilche
importa in altri termini che la cosa abbia possesso di sè medesima. E poichè la
politezza importa la scelta di ciò che costiluisce l'orpamento degli oggelti maleriali;
cosi nella lingua l'ele ganza è inseparabile dalla purità delle voei.E siccome
alla pulitezza si oppone l'immondezza, che illaidisce edeforma gli oggetti,
così all'eleganza si oppone la vanità che li al. teraedeformacome
sefosseunamaschera straniera:al. treltanto succede nella lingua e nello
stile.Dalla stessa fonte della proprietà e semplicità del linguaggio scaturisce
la bellezza dello stile e del discorso.Imperocchè quando il lin guaggio vela
appena e non appanna l'idea o il concetto, se ne rende allora ilritratto
fedele, come abbiamo detto di sopra ; nel quale caso l'idea increata o creata
manifesta n a turalmente e senza ostacolo la sua luce diretta o riflessa nella
parola . Ora il bello essendo lo splendore dell'intelligibile, sia assoluto,sia
relativo, che sirivela a trayerso il sensibile, cosi quando la parola è
semplice e propria, è a n cora bella necessariamente ; e quindi la bellezza del
di scorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello stile, cioè la
semplicila e la propriela , la purità e l'ele ganza. > cio è il nulla c h e
n o n h a , n è può a . vere virtù di significare. Ora le cause degli errori
sirie ducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally
limitazione dell'uomo , e quindi delle su e facoltà , e a l l' a l
terazione della parola,come espressione dell'Idea;ben'in leso però, che anche
questa seconda dipende dalla prima , siccome dicemmo nella prima parte di
questa Istituzione. Dalla limitazione dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo sviamento
del libero arbitrio in ordine alla legge, e quindi l'esistenza del male morale
; il quale fu cagione del male intelletsuale, inquanto fucagione del predominio
del sen sibilesuil'intelligibilee dellepassioni sullaragione,onde deriva
l'alterazione dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l e r rore.Ma
qualunquesia,diceilGioberti,lacausadellacor ruzione egli è indubitalo, che in
origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a
quellodellaparola;laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale,ildisordine
tra passa nei pensieri dai segni ; sicchè l'improprietà della parola è la
causa, e l'errore èl'effetto. Imperocchè,quando Ja parola è impropria , siccome
ella non mantiene più la perfettacorrispondenzatra l'Ideaeilsegnochelaesprime,
cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili in. chiusi nella
parola, e l'Idea viene adulterala dalla metafora o dalla etimologia . Nel quale
caso i concelti ideali si c o r rompono proporzionatamente,se giả , come
avvertimmo altrove,una nuovarivelazione, o un magisterioesteriore, organato
dall'Idea istessa , ñón impedisce tali corruzioni della parola, serbando
incorrolta quellagenuina e originale corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno
esteriore.Idea gtnerale dell'opera, e tua diritieue in due libri. — La tloria
delle religioni appar- tiene a snella della Blotofia. — Si ritolrono alcune
obbieiioni in contrario. — Perpe- tuità della Blotofia. — Del metodo critico
aegailo dall’ autore nelle rirerebe aloriebe. — Si liepolide ai nemici delle
eonpilatìoni. — Del metodo dottrinale, oaaerralo dall' auto- re; perebd egli
anteponga la. linloti all’ analisi. — Cenni sopra nn’ opera precedente.—
Prorotsione cattolica dell’ autore. — RUpoala a ehi te aoeuta di eiaer troppo
ratlolico. •— La moderazione' nelle dottrine non è oggi di moda. — Via {utile e
compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso l’ antere sìa sago del
progresso. —Sua pro- trata, intorno alle persone generalmente; agli scritlori
risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Giorgio Byron. — Dei sentimenti , che mosiero
l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP Italogalli. — Funesti influssi
della Francia. — Della eterodosna moderna in generale, e della filosofia
germanica in particolare. — Gl’Italiani debbono filosofare da sé. — Dello stile
filosofico. — Importanza della lingua in ordine alle cose. — {.odi ifi An-
tonio Cesari. — Contro i cattisi amatori d’idee. — Dei parolai. — Contro la
barbarie dello scrirere, che domina in Italia. — Della cbiaretxa, bresild,
semplicità, precisione, c purezza del dettalo. — Esempi italiani di elocuzione
filosofica perfette. — Del modo, con cui si può inoorar nella lingua. — Scusa
dell' autore , intorno alla lingua e allo alile da lui adoperato. — Eaorlazioue
ai giorani italiani. — L’Iililà della sera filosofia. — Elsa non dee sparenlare
i buoni goreroi, né i buoni principi. — Sua opportunità, Gioberti Inlrud. Voi.
I. 21 Digitized by Google r lG-2 per ristorare la religione. — La
Gloa^fia dee cucre collìfaU specialmente dai cbicrici. — Lodi del chiericato
italiano. - Del sacerdoiio frnncese ; sua antica dottrina, e suo virtù io ogni
tempo. — Del modo, eoo <ui li coltivano le lettere da oleum chierìci
franoesi. ~Della parlecipasìonc dei chierici olla vita sociulo» —Della liberti
cattolica nel culto delle dottrine. » Che il clero catiolico dee essere
emìnenle anche nelle scìen* se profun<’, per sortire picnamt nte rt-netlo
del suo o>ini^te/io. — Di certe sette politi* che, che nocciono alla
religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la Francia: loro tracotanza. ^
Al'eanza della filosofia colla religione. La dottrina cattolica é la sola
dottrina religiosa, che abbia un valore acientifico. — Come la novità si
accordi coli*anti« chità nello cose filosoticlic. — Si concbiude, esortando gl*
lioliaui a I. barare le sc cuse ipecuialve dai nuovi barbari. DELLE DOTTBLNE
C.4P1T0L0 PU1.M0 Della dcelinaztone delle scienze spcculalive in generale.
Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche e fi*ichr, e lo
s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni gencr-chc. —
Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia nelle varie
parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o U’de.-che, nato
dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo Descartes. ^ 1
semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del Malebranche, e di
altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo dalle tr iduioni
religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. ^ Di Emanuele Kant.
Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall' eaipielà,
che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo, presso i
Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle origÌr>i
di queste due nazirni. — Delia tilosofia inglese : sue difie* n’nte dalla
francese, e dalli germanica. — Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo quiiidcciao, c
del seguente. — Di Glambaitisla Vico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I quadro. Della
dedinazione degli eludi specidatici, in ordine al soggetto. lufeiiurilà
speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli antichi. — La no-a speciale
dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. — La cagione di questo vizio è la debolezza
della faiol.à volihva. — Inlluruza dtl voli re nella cogoiziouv, e oelf ingegno
delP uomo. — La modioiriià letteraria dui moderni nasce dalle hggcrizza dei
loto animi. — Esempi S 2»S * Digitized by Googic es»e bi chiude il
capitolo. . - Note. Aula prima. Siti diltflanti tpleoJ Jì c Itiili, elle h
fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii dal Ufi
Clw il inftoilo El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e
non I metodo. Il ig. Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU
Bloiplia. Del cullo reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea
Enciclopedia. Sopr. OD* «poitigi. recefllo di Giorgio Djroa. 117 l'i. 1 lit 125
125 129 i6. 13t) 131 132 ii, i6. IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo
lingua e luU' eluguenia francese. Sul primato della Fraocia. L'.terodomia
modarna non i fono ancora al «uo fine. Della periiia di Paolo Luigi Cuarier
nella lingua a negli icrillori italiani, Paw dal Letiinj; mila lobrielA «
ammauralega degli antichi tceitlofi. Sull'uli-iU dei buoni giiirnali
«ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla libertà cattolica dcKii «eritteri, Querela
del tig. Cousin eoutro il clero ffauceee. P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori
delle antiche dotUine. Sull' apoilaiia lU alconi prelati ruwù Delle cagioni
della H>rorma. Che la tinceritA di Renato Denartei nel proretiani cattolico
è per lo meno dubbia.- Il Malebranche non è earleeiano intorno al primo
principio dellalua filoaoCa. 143 Clia il «ig. Coutin ha ao concetto mollo
ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del Courier tuH'iitiulo aotTilo dei
moderni. 1^ ^ ; iò 5, 163 rcceoli e ìuliani di una Tolontà forte :
Napoleooet e Vittorio Alfieri. — Lodi deli’ Al> fieli. — La fursa della volontà
dipende in gran parte dall* educasioae. ^ Cbe co a sia r educatione. — Saa
oeceuilA. — Delle varie forme, che prese 1’ educazione, tecoodo il ccM’to dei
tempi e la varieii di'! popoli. — Po pubblica presso gli antichi ; qoasi pub-
bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici nell' iostitusione dei giovani.
—> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i moderni. —Cagioni di ciò: false
teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e francesi. — Di G angiacomo
Rousseau. — Errori del suo Emito. — Delle doUrìne poi tieba snlla liberti dell'
ednratione. — Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca quasi alTatto nello stato
presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti dell* insegnare.
L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e dipendente dal* lo stalo.
— Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale si usa oggidì nei paesi più
civili. » Dei giornali. — Diretti, e danni dei giornali, come per lo piò si
scrìvono in Francia. *— Nuocono al'e lettere e al e sciente dalia parte di chi
scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’ iniìtiiuzione pubblica, e di un
supremo poto<e educativo. — Quella non lìpugna ai costumi, oè questa alla
libertà politica dei moderni. —> Che M»sa sia r iagfgiiu spccuUtivu. —
D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì artefici di parole. ^ Quàlìià
loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti diU’ ingegno sfeeulativo, e
con Pano d«l Leibnii tull’abbierion»
morale JcrU onioi moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila
balta«lia di Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll'
AlCeii. Sugli errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali.
Soll’aliBio Jei generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del
Malebraoche augi’ iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta
imprimere la ma forma nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli
ulUnii UUmli del Goèlhc. Diuu. Pag- SCDU bill'
iCTOKI. Le lodi d'ililia nim sana oggi pericolose per la sua
modcslio. — Sano opportune, e perchè. — Scopo del preienle dilcorsa.
— L'aifluiui di CMO non t per ilcaa Ter» iiigiiiriUD agli tlnnieri.
— L* doUriiu del primalo itili IBO è necetMtfai per rÙHltun- ziuie delle
sci une flloMBclie neita pcniioli. PASTE nanu. Dell'
Hlonooiia uwlnUi e rdtlin In genere. — Di qidia cbe con. peti (He uDoni
in paiticoUrc — Lt isdice dell' tiatononùi è neDi virtù creatrice, —
L'Italia è anlmMina peraccdiema; rau- lonomia i la boM della mi*
nMggionma. — DeOnitionE del pri- mato italiano in noiTerale,— La petùxria
per It ina poitora è il centro monte del nondo civile. — Convenienu
geogniGehe dell' lUUa coir India e colla HeMpoUmia. -^-La religione b
flprtndpal / S)ndimeiito.del primato italiano. — II principio
calttdieo è Ime- panbile dal genio narionile d'Italia. — Opinione dei
ghibellini e del flloioll nominali a questo propoaiUi, e aun falsiln. —
Del Hachiavelli , del Sarpi e <li Amalitii ih ìlmcm. — Ln xt»
iIiiL- Irina naiionnle d'Italia i quella dei rufIIì e dei realisti. —
ì!,s\iii- cattolicismo e dall' Italia. — L'Italia è la nniiuuc
creatrice: Suo ing^DO inventivo, c sul) liuiilà delle sue opere. - Essa c
pure la naiione redentrice degli altri popoli, e non puA essere
redenta per open loro. —I papi non (nrono ! caoM della
divisione iT ita- lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU
iu- liana ed enropea. — ObUeiionl e liipoile. — .Dei don nemici
perpetui dellt penisela. — Fati perpelui e glorie di Roma in ósni tempo.
— L'Italia non dee invidiare alle altre Milani la gran- dena e la potenia
disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a qual segno i coiHiuisU e II dominio
temporale dell' antieo imperio romano ' sinno stati legitUini.— Gmdeiie
supcnliti della modema BÓma. — Della PMpapnda c ddle mitiioni. — Puagone
del SiTerlo e dd Boonaparte.— L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca
delle nanoni. — li auo principato si Tonda Mrratlutto nella
religione, j la quale di sua natura suvrasla a ogui cosa umnoa. — L'
Italia tal ' in si lultc le cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai
limale c politica risorgimento, \ sema ricorrere «Ilo somniossc
iiilcsthie, alle imitaiioai e inva- j sioni Farcsilere. — Dell' umane
ÌUliaoa. — Essa non può uUenersi colio rivoluiioiii, — [l principio dcU'
unità il.iliani è il Pajia; il quale jiiiii unilìenrc h penisola,
mediante una confeclemiinne ilc'suui principi, — Vanlnggi di una lega
ilaliana. — Il governo folemlivo è connalurale all' llalia, e il pili
imturale ili lutti i goterni. — Danni della centralità cccessita. — La
sicoreiia e la prosperità d'iLalia non sì possono conseguire altrimenti
che con un' alleaniB italica. — 1 lUrcslieri non possono impedire
i]uett' alleanza, e non che opporvisì , debbono deiideratlo. — Semi
dell' autore se entra a iliscorrcrc ili caie dì stato. — L'opinione
nasce Ida pìccoli principii , ma dee essere edncato dai senno della
ni- liane, — Dna province (oprattutlo debbom cooperare a ^TOfjr
l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii « ti Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj
\f Itoma pei popoli, e sua imparzialità fra i pedali ed i prindpi.
— I L'onilA italica sareblie di grande utilità iWti religione cattolica ,
. loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia e luili. — .l[lincnzc c
cor- risponderne delle famiglie regnatrid tugl' incrementi civili
dei popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n delle sorti c he
le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia fra T'popoli 0 i
principi italiani. — D difetto di osa ta la cauta principale del c)iM:atlinicnla
d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe tal decadi nHMi lo nib qualità
della stirpe o alla religione. — ti'in- forlunia ilcgl' llaliaiii aiiehe
pur quvsta parte iiarque dai fores- tieri. — Frincipii di risurgiiiienlo
nel secalo passala , e rili^nu cìtIIì (alte dai ptiaeipi ooslrali. —
Inlerratte dgfla rivolaiioiKi rranceM , ora è il tempo opporUum di
ripigiUrte. — Necessitai di ordinare la pubblici opìaione. — Dne modi con
cni quesla ai ap- I>alc9a ; lit parola dei tmi e la alampa. — Della
monarehia con- ullatiia, e del Consiglio civile. — La Btarapa non dee
essere MTva , iiv liceniiusa. — La sala via per evitare amenduc gli
ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio censorio". —
nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU della signoria
indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I prineipi ilaliani a
toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle rìibnne nriii lane a
leniate in Italia , dorante il secolo scorso. — Decli- ii.ii e
siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. — Iliscre-
iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. — Critica del
galli- canìsmo. — Di Benigna Bassuel : censura riverente dell'
ing^u e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia
primflivo eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola
so- ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio
è il Primo politico. — Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio
primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria- liiino. —
( Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della Chiesa non
toglie la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il lacerdoiio. —
Dea toma, par mi pam il poleniàTile dal Mce^ doxio, cioè la dillaliaa e
failiitralo, canispondenli ai due cfcU civili delle nazioni. —
Legittimiti della dittatura ejerdiala dai Poniclici del medio evo. — Il
ciclo dittatorio Gniscc quando c |jerioilo della dtilti'i lefulare
il'lulia < crKiirops, — Dell'arbì- tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn.
— Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell' guerra. — La dittatura
pontiScale non lurna inulìle in alcun Icinpo ; MU
applicaiiane presenle e foUin. — 11 I^pa è U prin- cipio dell' anioDe d'
lUlia. — Il polcn civile del Mnrdouo non è contrario ali* ipirìlualiU e
HnUU dclb rai indole e del suo nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict
de'snoi prÌDcipii in- tono tU* cotUluiiom della Cb'ma e al dogma
caUolico. — Dei doveri delle varie ciani dei dUadini, in ordine
all'aoioDe d'IU' lia, -/Danni cbe nascono dalle dottrine esagerate di
libertii. — Esortaiioneagli esuli ilalìaiii. —- Del dcbilo che linririu
gl'llnliani gli adalatoridei pririi'ipi. — l>i^i wihili, -- M
ji.il ri/Min i' i!i[licil- menle srilabilc nelle soeiclà civili. — Due
specie iJi palriilalo; fendala t civile. — U primo è im^nevole, Oioesto e
vitupe- ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e ntik, quando venga
ac- compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili tono la
rovina delle nontrcbie. — Dei chierici secolari. — In che modo essi
pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala Italiano. —
Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia stalo Ulvolla per
l'addielro men ragguardevole degli altri ordini derieali. —(Del frati. —
Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi benefiri rÌq)«llo alla drilU etirqiei. —
Quando traligna ai miri rìfonnare, non abolire. — Dd moMchlinwwientalee
delPocci- dcntale. — Como ijueila si poiH rendere fmtluoio al nodro
inri- vilimento. — Danni che nascono dai diìoiirì degeneri. — In
cbs modo irrati possano influire salutarmeate nella politica ecotqM
rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere ndl' opinione il
precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle iciauie e dèlie
lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia po- litica e
dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La scienia ideale i
inoiiaslìca [ter ecccllcnia. — Esurlaiionc ai venerandi alunni dei
chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli ec- ctcsiaslici
debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o avvi- lire le co» della
rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli moderni sono men grandi degli
antichi. — Risposta. — Ddla lollerann cristiana. — Perche nei tempi
addietro violala In alcuni paeii- — Tali viotaiioDÌ non si possono
imputare alla Cbieta cattolica. —
Delk àoleeiia, |)ru(1enia e risi:rva clericali: nel dtspularr a
nei conversare. — Si rancluitc moslrando che il risorgimento
d'ilalia I non pai iver luogo , sa non ri rimetlono in onora gl'ingegni
pri- I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo delle cose ri TOlgo
degli j nomini oiediocrì. nn HL TONO PIIMO.
S&SlOSS La riflessione ontologica ferma, circoscrive,
determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola si rannicchia,
s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi rannicchiata ed
incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui covano , pare ,
molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma l'Idea; qual
bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola? qual bisogno che
la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione, chiarezza,
delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la riflessione altresì,
una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è metter luna in
contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti, senza l'altra, a
ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra
perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito
l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra
parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in
se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo
spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In
cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento
che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la
riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito
assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e
indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e
della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. li. p. 136-137. b) lìti
pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p. 201. Digitized by Google ) 55
Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ? a) la visione -di I)io crean- te; cioè
della natura divina, dell’atto creativo, de’ termini di code- sto atto. Cos'è
la parola? un segno creato b). L’intuito dunque do- vrebbe pure vedere la
parola: la parola sarebbe parte della formu- la, intuita per natura da tutti
gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere veduto senza gli effetti del suo
operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è la parola, è la riflessione
altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col creare illustra c), e quindi
deter- mina; illustra la parola altresì e la riflessione. Ecco nuova contrad-
dizione e circolo nel dire che la riflessione e la parola servono a delincare
all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo dalla natu- ra: illustrare ciò
onde vengono esse illustrate. La quale contraddizione o circolo risulta da
molte altre sen- tenze del Giebcrli applicabili al proposito presente. Sentenza
sua è. di frequente, che i sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per
l’intelligibile, cioè per l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si
sitiva non è un elemento intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere
pensalo altrimenti, che nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara
appunto i sensibili, perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono
illustrali dall' Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca
detto prima « l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i
sensibili ». Le creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in
virtù dcU’intcl- g Errori i. p. 56. h) Errori li. p. 141. v) Ivi p. 163. l) Ivi
p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un vero sensibile >.
Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è inconosci- f). « ligibililà
assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se stesso inconoscibile e sub- ii
bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è rispetto alla nostra co- se
gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile (l’Idea, l’Ente) ii inonda lo
spirito di un continuo chiarore, e gli rende conosci- li bili tutte le cose »
l). Ora « La parola come ogni segno, è un , <i sensibile » m). Dunque per sé
inconoscibile-, inintelligibile. Solo l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la
illustra, la Ja intelligibile all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi
l'Idea razionale, che anzi que- ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). «
Questa (la parola) e la a) Dico sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge
in mille maniere, come vedemmo, e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it
sensibile appartiene alla categoria delle esistenze, e queste pro- cedono
dall'atto creativo, la parola b di tua natura un effetto della c reazione.
L’idea -« crea «I segno che l’esprime . Primato, il. p. 15. e) Errori li. p.
352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p. 166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci
corso errore di stampa, o nella sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o
nella punteggiatura. Perche l'Eulc non deriva dall'Intelligi- bile come
esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap-
« punto i sensibili, perché li produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. »
Digitized by Google 56 « riflessione stessa ripugnano, se non sono
antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla parola che
per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza provengono »
a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per ripensare « l’Idea
»; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e « conoscere
distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé, non
conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc
l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la
parola; la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che
se amiamo trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. Il Gioberti scrive
talora, che « l’idea, incarnandosi in una for- * ma sensata, scade sempre dalla
propria altezza » c). L’idea dun- que, se s'incarnasse nella parola, veramente
scadrebbe secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare
pertanto che la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la
perfezioni? come può stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni
in un sensibile, che la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in
un luogo dal Gioberti « un sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »;
diventa in un altro « una copia mon- « diale, contingente e linita del modello
divino, necessario e infi- « nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d).
Siccome questo modello c idea eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la
parola è una copia, un individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate,
che « tante sorti di parole create si trovano, quante sono « le specie della
esistenza »; una parola matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri ,
le figure, i movimenti; una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una
parola estetica c sono i ti- pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti
transitori o perma- nenti degli uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola
sovran- naturale, e sono gli avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola
liturgica « ordita di emblemi e simboli; c infine una parola grani- li
malicale, parlata c scritta, ma per se stessa arbitraria , c però « diversa
dalle specie anteriori, che sono tutte naturali e) la (piale « serve ad
esprimere i concetti dell’animo e quindi a tradurre ogni « altro genere di favella
» /). Di tutte pertanto le cose create dee dirsi ciò che della parola
grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna Iddio; sono altrettanti
individuamenti di lui; che lo compio- no, lo determinano, lo fermano, lo
circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta incarnazione lo umilii
veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u. ii. li. e) Ges. Moti,
tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola sovrtwnnfurtile ? fi Ivi.
lo abbassi , lo r Digitized by Google 57 Nasce però curiosità di
sapere, perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in
quanto rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè
ridette) sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio
coll’uomo ? La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva ,
compiva l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la
parola contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri-
flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla
parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di
nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e
illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida per
mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti contro
i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa
principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non
che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non
in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei
psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri
ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in
mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li
l’Ontologo, che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e
immagina dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie
a determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed
illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti
perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno
colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere
la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel-
l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione,
('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il
Gioberti non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire
che « il punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto
che lega Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento
riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile
per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico
mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione «
mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama
perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in
commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo * p. 215. «
Semplice segno insidine male » p. 2t9. » stimolo per mi rumineia «I al- «
luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette lo feconda »; Primato, II. p. 15:
« occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del lero ». Necessità della parola.
Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e) Rosmini, S. Saggio, sezione V. p. 2. e.
4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d) Incorporazione spirituale. c) Errori
i. p. 201. Digitized by Google 58 punto, rhY' puro relaziono
intelligibile, ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può
esser termine del ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma
sensibile, se non renden- ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »?
Il Gioberti noi dice. Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem-
meno può dirlo nel suo sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di
provare la necessità della parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può
meglio nel suo stalo attuale riflettere senza parola, « che favellar senza
lingua, vedere senz’occhi, c pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio
l'uomo ha ragione; ma non uso di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza,
non in atto » a). Il che dice essere « applicazione speciale ili una legge
generale dello spirito. La qual legge si è, che la riflessione universalmente
non si può cser- « citare, se non mediante il concorso del sensibile
coirintelligibile » l). Ora di quale dell»* due riflessioni, già distinte da
lui, parla il no- stro autore? Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che
« il sen- sibile è l’oggetto medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non
en- ti Ira necessariamente nel suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti
flessione si connette colla riflessione ontologica; imperocché il sen- "
sibilo per essere pensato non ha d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e
lo rappresenti » c). lo nè ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette il
Gioberti certamente. Dunque a sola la ri- flessione ontologica è la parola
necessaria. Perché? perchè « in os- ti sa il sensibile non è somministrato
daH'oggello dell’operazione « il quale è il stdo intelligibile i d). Sla
codesto e falso: è falso che oggetto dell’ ontologica riflessione sia il solo
intelligibile, se- condo il Gioberti. Non ci ha egli appreso che « la
riflessione on- « tologica, tramezzando fra le due altre operazioni (intuito e rides-
ti sione psicologica), abbraccia congiuntamente il soggetto e l 'oggetto « c li
contempla con un allo unico? » c); che nella riflessione Oli- ti tologica lo
spirito si ripiega sovra di sé in quel punto indivisi- « bile, in cui il
soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia quindi l’og- « getto medesimo , come
intuito dal soggetto? » f). Dunque non è l'intelligibile solo, l’oggetto della
riflessione ontologica; ma è il soggetto eziandio, cioè il sensibile, oggetto
della psicologica. Ma se questo non ha ili bisogno di sensibile, di parola, per
essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’ intelligibile, Dio, intelligibile
per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto in che si congiungono si legano
si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione di due termini, l’uno
intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione di' è relazione
intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad esser og- getto
di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p. ini. di Iti. e
Krrori t. p. 136, [) Iti p. 201. ,. Digitized by Google 59
Che se « prima di credere alla parola, bisogna intenderla » a); la parola a
nulla servirà se non in quanto sia già in quel punto, unione, unità, eh e la
cognizione. £ se altronde la cognizione dovrà esser vestila della parola , per
diventar riflessione ; la veste dovrà insieme essere il vestito, perché
riflessione si ottenga, cioè cogni- zione vera , come la chiama il Gioberti.
Questa è una di quelle « soluzioni ed avvertenze » di cui non v’ ha « il menomo
vesti- li gio » in altri sistemi prima del Giobcrliano li). Il che niuno vorrà
negareDella unicertalilà ecientifica dellafarmolu ideale. Aimcoio punto.
Prtamiolo. — L* formolo roiionale dee contenere I* organismo degli eie- menti
ideali.—Per conoscere questa organizzazione, bisogna riscontrare essa forinola
1 coll albero enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre parti ,
filosofia, fisica e matematica, cko corrispondono alle tre membra della
iormola.—Della filosofia in ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell*
ontologia, psicologia , logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi
rari termini di quella. — Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico,
conforme alC organismo ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello
scienza ideale. —Della teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato
universale della prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. —
Primato dell'ontologia fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò
queste siano in fio- re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by
Google Articolo secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un
lnogo mezzano tra la fi- losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia
moderna, per dare una teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. —
Dichiarazione di queste due idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola
ideale. 14 Articolo terzo. Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze
hanno ciò di comu- ne, che appartengono al termine medio della formolo. —Della
logica in particolare, c delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei
due cicli creativi, e dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro.
— Della legge morale. — Dell* impe- rativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei
tre momenti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal fisico, che ne
conseguita. —Della pena eterna. 17 Articolo quarto. Della cosmologia. — Versa
nel terzo membro della formolo. — Dei duo cicli generativi. —- Varie sintesi,
di Cui si compongono. — Dell' ordine dell* universo. — Del concetto
teleologico. — L* idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 26
Articolo quinto. DelCestetica. —Del sublime e del bello, t-Delle varie loro
specie, e del modo in cui si connettono colla formolo. —Del inaraviglioso. 29
Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo
cartesia- no. — Quindi i suoi tizi. — Gli stateti odierni, non hanno veri
principii, perché man- cano della cognizione ideale. — 1 difetti della teorica
hanno luogo del pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella
dei bassi tempi. —Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si
debbono filirare veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici
influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della
tirannide imperiale. — Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del
Descartes. — Della idealità delle nazioni. — L* Idea é fonte del diritto.
—Attinenze del dovere col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità.
— La sovranità assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. —
Non si trova in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’
instituzione umana, ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti
essenziali di questo potere , intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua
di generazione in generazione. — For- inola della politica. —Assurdità del
suffragio universale. —La capacità dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non
basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi.
—La perfezione della sovranità consisto nell* unioqe del potere tradizionale
colla sufficienza elettiva. — Il sovrano non può mai farsi da sé in nessun ca-
so. — Ogni potere sovrano è divino. — Inviolabilità del potere sovrano. — Delle
rivolu- zioni, e dello con’rarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto
questi nomi. —Laverà rivoluzione, essendo 1* attentato contro una sovranità
legittima, è sempre, illecita. — Lo stato politico di un popolo dee
corrispondere a’ suoi ordini primitivi c anticati. —La mo- narchia é necessaria
al di d* oggi alla libortà europea. — L' investitura della sovranità in una
famiglia é inviolabile, corno il dominio privato. — Il potere ereditario, c la
capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità
della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del
potere sovrano. —1 fautori del- la licenza invertono la formula politica. 31
Asticolo settimo. Epilogo. —L* idea divina ó la suprema forinola
enciclopedica'. — Universalità dell’ idea divina. — L* ontologismo non é un
metodo ipotetico, corno quello dei psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é
1* alfa e 1* omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea
divina nelle varie parti della filosofìa. Si
Dtll'a conservazione dellaforinola ideale. La conservazione della
forinola è opera della rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi
periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo
ab- la scienza ideale. —Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del
razionali- amo teologico fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. —
Suoi fondatori. La cri- tica storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di
canonica. —Il razionalismo confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. —
Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del
sovrannaturale : sua definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’
Idea. — Possibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’
ordino sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della
ragione. — Nullità sintetica o filosofica dei moderni razionalisti. — Il
Cristianesi- mo é la religione universale. — Non si può mettere in ischicra
cogli altri culti. — Sua singolarità. —Le false religioni non distruggono l’
universalità del Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di
ogni tempo. -—Si confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni
sono lo sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo
sovrasta, e non Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che
lo combatte, è una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. —
Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’
Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è
rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile
semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. —
Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo
le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione,
natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’
ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai
Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa
distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre
la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra-
dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl'
Israeliti. — L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola
variazione, che si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non
abbia insegnata espressamente i’ immortalità degli animi umani. — Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care
1’ origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
esso- terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl'
Israeliti c i Gentili. — Del fìguralismo ebraico. — Non è un trovato recente
degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle
iustituzioni mosaichc. — La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso
della scienza acroamatica ed essoterica presso gl* Israeliti.Dell' alterazione
dellaformolo ideale. La barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La
storia delle religioni tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni
diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende
civili delle nazioni. —Del patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. —
Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società
costituite sotto 1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della
civiltà risorgente. —Effetti salutari della loro influenza nelle colonie
antiche e moderne. —Il sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina
acroamatica ; fondò 1* essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica
potessero esser- opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’
acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa
gentilesca.—Riscontri . dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per
cui passò l' alterazione della forinola ideale', oscurità, confusione,
dimezzamento e disorga- nazione.— Cagioni dell’ alteramente : predominio del
senso e della fantasia; influenza del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo
sull’ acroamatismo ; dispersione dei popoli, perdita dell’unità universale. —
Del culto dei fetissi. Di un doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo,
delle instituzioni religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale:
intuitiva, immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo
alterarsi della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle
trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo-
gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva;
corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del
secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato
intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca
immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di
questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w
Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli
cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. —
Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I
fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del
Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *—
Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il
pessimismo. —Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili.
— come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli
em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e
successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato
fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue
varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della
unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma
ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo
sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono
sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e
poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del
panteismo. —Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi
sistemi vi si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie
forme del panteismo* —Della condizione del sacerdozio i —— 201 Digitized
by Google dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui
uscì la filosofia laicale.— Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere
anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l!
opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in
parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle
tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi
antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si conchiude,
accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota prima. Sulle
denominazioni moderne dell* Io e del Me. Di alcune dottrine erronee sulla bontà
e pravità degli atti umani. 166 Errori di un giornalista francese sull’ amor di
Dio. Del tempo e dello spazio, secondo il processo ontologico. Passi del
Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la
religione dà alla vita temporale. Degli attributi divini ontologicamente
considerati. L Influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e
dell'aziono umana. 172. Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. IL
Sull*infinità del mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di causalità. 174 Se
l'abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristia-
nesimo? Sull’origine della sovranità in alcuni casi particolari. Dell'orgoglio
civile. Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. L'idea
di Dio non è solamente negativa. bit. Sulla voce rivelazione. Di varie spezie
del razionalismo teologico. Dei miracoli posteriori allo stabilimento del
Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità del Cristianesimo. Passo del
Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella
risurrezione dei morti. Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher
c dello Strausse sull’ esi- stenza degli angeli. I razionalisti confondono la
dottrina acroamatica colla essoterica. Sul fatto di Babele. . Del sincretismo
dei falsi culli, doma, mito e simbolo zendico, ISci culti barbari l’ Idea è
esclusa dalla religione, c non dalla scienza umana. . 32. 33. 1/antropomorfismo
e il psicologismo essoterico. 194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. 195 Passi
dello Spinoza conformi alle dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo
degli eretici. Ib. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col
psicologismo e col fa- talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I*
OHUISE ALL' UGGETTO. Della Idea. — È primitiva, indimostrabile, evidente, e
certa per sé stessa. — Necessità della parola . per determinare c ripensare
l'Idea. — 1 progressi della cognizione ideale rispondono alla per- fezione
dello strumento, con cui si lavora, cioè della parola. — Il linguaggio fu
inventato dall' Idea, clic parlò sè stessa. — 1/ evi- denza c la certezza
riflessiva abbisognano della parola. — Il sen- sibile è necessario per poter
ripensare l’intelligibile. — L'Idea è l’unità organica, la forza motrice, e la
legge governatriec del genere umano. — L'Idea è l’anima delle anime, l'anima della
società universale. — Ella può oscurarsi, ma non ispegnersi affatto. — Del suo
primo oscuramento, e degli effetti, clic ne seguirono. — Perdita dell’ unità
ideale , c morte morale del genere umano. — Diversità delle stirpi. — Dell’
instaurazione sovrannaturale dell’ unità primitiva. — Del genere umano secondo
l'elezione, sostituito al genere umano, secondo la natura. — La Chiesa è la
riordinazionc elettiva c successiva del genere umano. — Vicende storiche della
Chiesa. — Colla perdita dell’ unità ideale venne meno al genere umano la sua
infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo
privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. —
Composizione organica della Chiesa. — Chiesa c conservatrice e propagalrice dell’
Idea : unisce il prin- cipio della quiete a quello del molo. — Delle forinole
definitive della Chiesa. — Della scienza ideale, razionale e rivelata. —
Attinenze reciproche di queste due parti. — La scienza razio- nale, o sia la
filosofia, si distingue in due grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde
a una rivelazione. — Il nesso fra la rivelazione e la filosofia è la
tradizione. — I.’ alteramente della tradizione, e quindi della verità, fu nella
sua origine una confusione delle lingue. — L* effetto di questa confusione fu
il gentilesimo. — L’organizzazione ecclesiastica è la sola via, con cui si
possa conservare intatta la tradizione. — Della Chiesa giudaica, c della sua
diversità dalla cristiana. — La filosofia gentilesca avea colla rivelazione
primitiva una relazione diversa da quella, che corre tra la filosofia cristiana
c la rivelazione evan- gelica. — Due tradizioni, religiosa c scientifica. — Due
classi di sistemi filosofici; gli uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli-
tradizionali ed eterodossi. — I primi suddividonsi in progressivi,
cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii sistemieterodossisi distinguono dagli
ortodossi. — La filosofia ortodossa è perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi
eterodossi possono rompere il filo della tradizione. —Tre.età della filosofia
cristiana. —Dell’età moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto-
logismo, che gli è contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle
scienze filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico ,
meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione
intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car-
tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in
cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi
e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre
riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e
l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. —
Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del
metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la
filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse
WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il
Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la
teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. —
Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio
del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso
agli studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia
nata dal ('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo
psico- logico diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di
alcuni eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e
inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei
psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme
all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette
in questo capitolo. DELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa s’intende per forinola
ideale. — Metodo, che l’autore si propone di tenere in questa ricerca. — Del
Primo psicologico ontologico c filosofico. Il Primo filosofico abbraccia i due
altri. — Varie dottrine sul Primo psicologico e ontologico. — Teorica di
Antonio Rosmini intorno al concetto dell’ente consideralo, come Primo
psicologico : si riduce a quattro capi. — Critica del sistema rosminiano : il
Primo filosofico è l’Ente reale. — L'Ente reale è astratto e concreto, generale
e particolare, individuale e universale nello stesso tempo. — La filosofia
moderna erra spesso, mutando il concreto in astratto. — Vari generi di
astrazione c di compo- — sizione. — Il Primo filosofico contiene un giudizio. —
Doti spe- ciali di questo giudizio : 1° consta di un solo concetto, che si
replica su se stesso ; 2° è obbiettivo, autonomo e divino, vale a dire, che il
giudicante è identico al giudicalo. — Il giudizio divino essendo il primo
anello della filosofia, questa è una scienza divina e non umana nel suo
principio. — Il giudizio divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a
costituire la forinola ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la
formola. — Della nozione di esistenza : analisi del concetto e della parola. —
Egli è impossibile il salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a
quello dell' Ente. — Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a
quello di esistenza.— Necessità di un concetto in- termedio per effettuar
questo transito nel processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra
le due altre. — Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’
^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato
della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino,
che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’
umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola
ideale. —- Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c
inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e
del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’
organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se
non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del
contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. —
Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. — 1° Dell’
individuazione. — !i° Dell’ evidenza c della certezza. — Possibilità del
miracolo provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale :
risposta. — 6° Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo
punto. — Critica della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da
quella dell’Ente, per via di generazione. Esposizione sommaria della nostra
dottrina sull’origine delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della
nostra dottrina con un pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c
sinte- tici. — Esposizione della nostra dottrina sulle varie classi di giu-
dizi sintetici. — 8° Della natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni,
che si attengono alla nostra formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea
di creazione è la causa principale degli orrori filosofici. — Vane promesse
ilei moderni eclettici, c flebo- — lezza della filosofia presente. — Per
ristorarla, bisogna abolire il psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la
forinola ideale. — Ili santo Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. —
Della scienza ideale cattolica : sue prerogative. — Degli Scolastici : loro
difetti. — Del nominalismo e sua influenza sinistra nel rea- lismo. — In che
consista il perfetto realismo. — Si critica il principio fondamentale di
Cartesio colla scorta della formola ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre
epoche della filosofia te- desca. — L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo
apparente. — Critica del loro sistema. — Vizi del panteismo in generale. —
Convenienze del panteismo coll' eterodossia religiosa, e in ispecie colle
opinioni ilei protestanti, c con quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione
del loro culto. 1 44» prima.. Le
sensazioni sono segni delle cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero
colla parola. 279 Sulla base ontologica della veracità. 281 Indivisibilità
morale ilei Papa c della Chiesa. 282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti.
283 Sulla universalità logica dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’
ontologismo. 283 Passo del sig. Cousin sul psicologismo del Descartes. 28(1
Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua dottrina. 287 Del valore del
Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di Cartesio sulla speculativa dei
matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio. Ih. Dei furti letterari del
Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano. 293 Passo dell' Aucillon
sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e dell’ arroganza del
Descartes. Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito i capi della
Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che gl’italiani hanno
l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni razionalisti. Ib.
Esamedell’opinionediCartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo di Lutero. 328 Sul
circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione cartesiana, che Iddio
possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della filosofia socratica c
platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra una sentenza del
Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il secolo attuale
continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle sciocchezze dei filosofi.
348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib. Sulla religione di Napoleone.
349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy. 331 Il sig. Cousin non conosce
il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la filosofia moderna , secondo il
sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano. 367 Vari passi del Malebranche
sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina del Rosmini sulla visione
ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini è insussis- tente, benché
non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale del Rosmini è obbiet- tivo
c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di san Bonaventura c di Gersonc
sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c dell’astratto,
dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132 Passi del
Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale.Sulla confusione dell’ essere
coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre fra le voci 4
I I essere ed esistere, e sull’ uso improprio, che ne fa il Descartes. tb.
Passi del Descartes, in cui questo filosofo sinonimo l ’ essere coll’ esistere.
437 Sulla voce esistenze adoperata nella formula. 439 Sulle nozioni del
necessario, del possibile, del con- tingente, e sui principii, che ne derivano.
Ib. Della dualità ideale. 462 Passo del Malebranche sulla impossibilità di di-
mostrare l’esistenza dei corpi. 463 Sulle convenienze del sistema cartesiano
collo Spi- nozisrno. 464 Passo del Leibniz sullo stesso proposito. 468 Sopra
due obbiezioni del Paulus contro il sistema dello Spinoza. Ib. Cenno sulle
tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471 Di una opinione dell' Hegel tolta dal
Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo.
Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi
ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa
forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti,
filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della
forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. —
Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano
coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero
enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della
tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. —
Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre
scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc;
necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I
Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra
la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare
una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste
due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo.
Della logica c della morale. — Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica
in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due
cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. —
Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre
mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne
conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel
terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di
cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. —
L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto.
Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del
modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo
sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo
cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri
principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica
hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato
dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda c perpetua di generazione in
generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee
essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini
pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni-
versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a
costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a
perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla
sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano
non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità
fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni:
checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo
l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera
contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato
politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. —
La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves-
titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È
inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità
elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. —
Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’
inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo
invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56
Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica.
— Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico,
come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega
della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie
parti della filo- sofia. de.i.la
ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera
della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La
confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza
ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo
teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La
critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il
razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua
vecchiezza. — Dei Doceti. — Il
razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità
di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del
miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è
universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei
moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si
può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false
religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di
questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello
Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi
civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più
squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. —
Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. —
La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta
dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in
alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici
dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne
della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri
sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni
dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. —
Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei
popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli
giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ;
conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo.
— Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e
universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa
degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza
secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa
distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la
scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e
dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea
rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità
degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e
il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. —
Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. —
Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano,
per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico.
— Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal
sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma,
erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’
Israeliti. DELL’ALTERAZIONE (IELLA
EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La
storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse,
o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili
delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. —
Anomalie storiche nell’ effet- luazione
di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del
predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società
costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della
civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie
antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina
acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po-
tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo
produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. —
Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò
l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e
disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della
fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa-
matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto
dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle
instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale:
intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo
alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle
trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati
psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca
intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella
negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare
Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. —
Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo
propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua
formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina
dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità
successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’
ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla
cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina:
l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce
il pessimismo. — Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli
Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema
degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e
successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato
fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue
varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE.
Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del
tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e
del Malebranche sul tempo e sullo spazio Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191
Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli
assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali
Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire
al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del
panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine
del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della
dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4DELIA
LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee contenere
l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione,
bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia
si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle
tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta
la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ;
coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’
albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica
della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della
filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda
sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline
fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia
universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un
luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia
moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. —
Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola
ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica in particolare, e
delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e
dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge
morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti
dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. —
Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si
compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell'
estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in
cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano.
—Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè
mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia-
nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda c perpetua di generazione in
generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee
essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i
cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio
uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a
costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a
perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla
sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano
non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità
fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii
cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle
con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera
rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre
illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c
tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini
primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà
europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla
salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere
ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli.
— Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica
intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del
dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli
ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola
enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un
metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è
l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea
divina nelle varie parti della filo- sofia. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a
rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. —
Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della
filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia
dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente
al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei
razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde
insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. —
Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. —
Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza
morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea
cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c
filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione
universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua
singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane-
simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta
una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano
temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla
coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie
attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’
Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della
Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità
della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai
lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove
esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi-
razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono
alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. —
Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei
popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli
giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ;
conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo.
— Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e
universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa
degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta,
acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione
presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza
acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell'
essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea
rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità
degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e
il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. —
Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. —
Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano,
per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico.
— Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal
sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il
letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’
Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE.
lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle
religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si
spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle
nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. —
Anomalie storiche nell’ effet- luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello
stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità.
— Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I
sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della
loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le
reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la
mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La
riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi
della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo.
— Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità ,
confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente :
predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c
dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita
dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario,
regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro
dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle
dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di
molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme
nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie
permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si
trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua
indole, e sue varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. Sulle
denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello
spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del
Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191
Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli
assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali
Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire
al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori
Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non L’antropomorfismo è il
psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello
Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo
degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col
psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A
FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi
ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa
forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti,
filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della
forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’
ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi
vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico,
confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della
scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato
universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri-
mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò
queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della
malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la
fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica
soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c
dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della
logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal
terminemediodella forinola. — Della
logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei
due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra
loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. —
Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne
conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa
nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi,
di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te-
leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo
qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c
del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32
Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo
cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri
principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica
hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato
dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli-
tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla
partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano
partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a
capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il
potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della
sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza
elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai
farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i
cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle
nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni:
checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo
l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera
contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico
di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo-
narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della
sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile,
come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva
importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della
nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere
sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole
politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. —
L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea
divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti.
— Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina,
riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. .
de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è
opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. —
La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza
ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo
teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La
critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il
razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua
vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale:
sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos-
sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine
sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. —
Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è
la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. —
Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del
Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. —
Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che
debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non
sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è
una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua
medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. —
La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è
rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile
semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. —
Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo
le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione,
natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’
ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai
Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa
distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la
dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e
tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’
Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola
variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non
abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare
l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti
e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’
Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu-
zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della
scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 lai barbarie
non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non
comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso
molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque
forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’
effet- luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua
origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso
delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori
principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza
nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie
dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia
e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica
dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa
gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per
cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione ,
dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del
senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’
essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’
unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario,
regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro
dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle
dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Pelle varie età cosmiche,
secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si
accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie
o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin -
telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato
dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà
speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. —
Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere
Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la
rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. —
Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo
della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico
antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c
perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo
ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per
rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando
brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni
moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il
processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e
sullo spazio. Della importanza, che la
religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente
considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti
umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza
della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405
Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406
Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli
Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba
attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi
particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può
dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih.
Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424
miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del
Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla
rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri-
surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello
Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1
razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto
di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico.
445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non L’antropomorfismo è il psicologismo
essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza
conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli
eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e
col fatalismo. DELLE CONVENIENZE DELLA FORIOLA IDEALE COLLA RELIGIONE RIVELATA.
Scusa dell’ autore. — Il sovrintelligibile e il sovrannaturale sono i due perni
della religione. Analisi del primo. Si escludono le false origini, che si
possono assegnare al concetto, che Io rap- presenta. — Della sovrintelligenza.
— In che consista la natura speciale di questa facolti. — Sua analogia
coll’istinto. — Del sen- timento, che l’uomo ha delle sue potenze non
esplicate. — Defi- nizione delia sovrintelligenza. — Come il concetto negativo
del sovrintelligibile nasca da questa facoltà. — Obbiettività del so-
vrintelligibile ; adombrata dalla filosofia orientale. — Analogia del
sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant : sbaglio del criticismo. — Dei
sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so- vrintelligibile cogl’ intelligibili.
— Come il sovrintelligibile debba essere riconosciuto e rispettato dalla
filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati. — Loro importanza, e armonia coi
dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della rivelazione hanno un margine
indeterminato. — Del sovrannaturale. — In che consista, e sue attinenze colla
formula. — Connessione del suo concetto colla magia dei popoli pagani. — Varie
spezie di sovrannaturale. — Necessità dell’ idea di sovrannaturale per la
filosofia della storia : sua importanza per la filosofia in genere. — Il
sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo : sue relazioni con esso. —
Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine sovrannaturale. L’ alterazione
di quest' ordine costituisce il regresso. — Della forinola
sovrannaturale : sua corrispondenza colla razionale. — Del ciclo cristiano :
sua risoluzione. — Della Chiesa ; com' ella sia il perno dell’ incivilimento. —
Del sincretismo delle sette cris- tiane eterodosse, e della idolatria rinnovala
per opera loro. — Confutazione di un passo del sig. Guizot sull’ unità
religiosa. — Della superstizione : in che consista. — Del processo a priori
della fede cattolica. — Due cicli rivelativi corrispondenti ai due cicli
creativi. — Necessità della fede per ben filosofare. — La fede sola colloca
l’uomo nel suo stato naturale. —Ragionevolezza della disciplina cattolica. L’
educazione ideale è impossibile fuori di essa. — Lo scetticismo esclude la vera
grandezza, anche umana, dell’ ingegno. — La fede è libera, e in ciò consiste il
suo merito.—Tredotidellafedecattolica, utilissimeall'uomoeal filosofo. —
Efficacia di questa virtù, per avvalorare l' ingegno on- tologico. — Quanto
all’ abito ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. — Tutte le
virtù teologali influiscono profit- tevolmente nell’ uomo pensante e operatore.
— Della vera misti- cità, e sue differenze dalla falsa. — Empietà dell’
autonomia razionale. — Necessità della fede per la conservazione dei princi-
pii ideali. — L’ incredulità moderna è la cagione precipua della debolezza
degli animi c degl’ingegni. — Utilità dei misteri in genere per l’abito
filosofico. — Si considerano, per questo ris- petto, alcuni misteri in
particolare. — Della predestinazione, e della eternità delle pene. Della
inviolabilità scientifica della teologia. — Di certi novellini teologi, e della
temerità loro. — L’invenzione nelle cose ideali è impossibile. — Della
giovinezza perpetua del Cristianesimo cattolico. — Di una certa classe di
gementi, che credono morta o moriente la religione : si combat- tono i loro
timori. — Della larghezza dell’ Idea cattolica : sua utilità per le scienze in
generale. — Necessità della filosofia per far fiorire la teologia, come scienza.
La teologia e la filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. — Delle cagioni, per
cui la teo- logia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. — Il clero cat-
tolico dee essere un concilio di sapienti. — Dee coltivare special- mente le
scienze filosofiche. Dell’ acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. — I
laici, che coltivano la filosofia, debbono incominciare una nuova era
razionale, sotto la sovranità intellet- tiva della Chiesa. La filosofia
eterodossa, che regnò finora, è morta per sempre. Si concbiude il capitolo e il
primo libro, esortando gl' Italiani a intraprendere l’ instaurazione delle
scienze speculative. Sulla voce essenza.
Del sovrintelligibile presso i filosofi eterodossi. Attinenze del
sovrannaturale col sovrintelligibile. 16£ Del sovrannaturale iniziale c finale
del Cristianesimo. Del sovrannaturale transitorio o continuo. Su alcuni passi
del sig. Guizot. Sopra un cenno teologico del sig. Nisard. Sul fatto morale
della giustificazione. Sulle varie epoche filosofiche della storia. Delle idee
pure.Sul valore teologico dei razionalisti tedeschi. Il decadimento della
filosofia prova la verità del cat- tolicismo.Grice: “Italians find it harder
than the Germans to conceal their nationalism. Hegel is studied everywhere, but
Gioberti is felt to be TOO Italian, and he is. There are not two sentences in
Gioberti that do not mention Italy! Hegel could philosophise on being (the
absolute being is the King of Prussia) – but philosophers elsewhere took his
remarks in a generalized way, not a German way. Unlike with Gioberti, who
cannot hide his ‘italianita’. The fact that Mussolini wrote on him did not
help. And that, along with Gentile, and the Italian mainstream intelligentsia,
the Italian risorgimento is only a stone’s throw away from Fascism!” Grice:
“Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a bio of Gioberti which I thought the best,
it’s in Vita e Pensiero, and in the series, “UOMINI DEL RISORGIMENTO” Gives him
sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti. Keywords: del bello, estetico, il
bello, metessi, implicatura metessica – mimesi – Plato on mimesis and metexis,
protologia, ontologismo, statua all’aperto, Milano – nella serie uomini del
risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Gioberti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
Grice e
Gioia – filosofia ad uso de’ giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza).
Filosofo italiano. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s
difficult to make that universalisable into the conversational categoric
imperative (‘be helpful conversationally) – but apparently Italians are less
Kantian than I thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist
when it comes to pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I
studied thoroughly his fascinating account about the origin of language, before
I ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio
Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero
tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo
di JBentham, dell'empirismo di Locke e
del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero
di Giansenio. Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni
politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di
Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità
d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in
cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni
democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e
culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità
italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo
occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in
carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo
di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee
politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie,
forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di
Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in
cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però
ben presto a diventare oppositore della Francia. Dopo aver rinunciato al
sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale
filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le
posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle
colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta
al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere.
Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi
Ligure e Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere
scarcerato in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato
storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul
commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti
per il rincaro del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla
carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo
trattato "Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause,
nuova maniera d'organizzarla" L'apprezzamento per i suoi solidi e
realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente
rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla
direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una
febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici,
raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione
dall'incarico. Tale attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i
concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio
per le tasse, gabelle, e così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche
ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno
il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del
danno alla persona con una concezione che supera la questione patrimoniale.
Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il
concetto di riduzione della capacità lavorativa specifica: "...un
calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete
indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete
dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il
numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi..".
E ancora, seppur meno noti, concetti come: "Ne' casi d'indebolimento
o distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come
uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la
rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore
reale, giacché una forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza
Mezzo di godimento Mezzo di bellezza Mezzo di difesa Filosofia
della Statistica (libro originale) “Rendendo paralitico, per es., l'altrui
braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il
vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla
noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge
con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali
difendendosi". Si tratta di principi rivoluzionari per l’epoca,
forse frutto di quel particolare mix di cultura che deriva dalla sua formazione
che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che
riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce
reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la propria
personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ’80 del
novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del
risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti
relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico.
Sul filone di queste tematiche gli veniva intestata a Pisa un'ssociazione
scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e
assicuratori. Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale nella
storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu scritto per
contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo
conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in particolar modo sulla
definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice, ‘be polite’ -- intesa
come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i
sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro
stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato",
"Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di
mondo". Nella seconda edizione, Gioja ridimensiona il concetto di
"pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i
sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La
vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza Generale",
"Pulitezza Particolare", "Pulitezza Speciale". Nella
terza edizione risale, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza
l'importanza del concetto di "ragione sociale", considerato
dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace
sociale mediante le buone maniere. Fu membro della Loggia massonica "Reale
Amalia Agusta" di Brescia, che prese il nome dalla moglie del principe
Eugenio di Beauharnais, primo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. A lui è
intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente
d’Italia. Crollato il dominio napoleonica, Gioja produce le sue opere maggiori:
il "Nuovo prospetto delle scienze economiche”; il trattato "Del
Merito e delle Ricompense"; "Sulle manifatture nazionali";
"L'ideologia". Gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo
fecondo lavoro è interrotto da un nuovo arresto per aver cospirato contro
l'Austria partecipando alla setta carbonara dei "Federati".
Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i sospetti da parte del governo
austriaco, ha finalmente davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua
ultima opera, "La filosofia della statistica.” Nel cimitero della Mojazza
fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre
Gioia. Prende il suo nome il Liceo Classico di Piacenza. Rosmini, suo
avversario in politica come in religione, lo accusò di pretendere di proporre
un codice morale, fondato su principi palesemente opportunistici, mentre con
disinvoltura richiedeva sussidi e regali dai titolari del potere politico per
elogiarne le benemerenze nelle proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara
pubblicamente un "ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle
ricompense, 2, Filadelfia, s.n.,
Riflessioni sulla rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo
prospetto delle scienze economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano,
presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Produzione delle
ricchezze, 2, Milano, presso Gio.
Pirotta in santa Radegonda, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio.
Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla
produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze, 2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, Sulle manifatture nazionali,
Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima
avanti i tribunali civili. L’Ideologia. Filosofia della statistica. Note:
Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli Italiani. Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana, Cfr.
Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in Rassegna storica del
Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia, Dizionario Biografico degli Italiani,
rTreccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in. Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi
Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico,
di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, Antonio Saltini,
Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi, Via Emilia. Percorsi inusuali fra i
comuni dell'antica strada consolare, Il Sole, Barucci, Il pensiero economico di
Gioia, Milano, Giuffre, Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il
progetto politico-costituzionale di Gioia, Milano, Ares,Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti,
Melchiorre Gioia: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana,
Piacenza, EdizioniLir,. Luisa Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese
nell'Italia dell'Ottocento, Firenze, Le Lettere, Gioia (metropolitana di
Milano). Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. MEnciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Melchiorre Gioia, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. fare alcun
cangiamento senza indebolirla. Egli previene così i suoi lettori contro ogni
idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor macchinale contro ogni
innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore, i paragoni, le parziali
analogie,le somiglianze superficiali non possono far breccia che nell'animo del
volgo. Agl’occhi del filosofo i paragoni non sono ragioni. Essi possono
schiarire una proposizione, provarla mai. Parlare. Abbiamo veduto che le
macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopi all'astronomo, i
disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente
utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero. Tre oggetti simili mi
si presentano facilmente allo spirito, dice Condillac. Se passo al quarto, sono
obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte, due
dall'altra. Se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a due, o
tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non posso più
numerarli. Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gl’unisco un altro, e
a questa unione appongo il nome “due.” Se a questi aggiungo un terzo, ed
allanuova unione appongo il nome “tre,” e cosi di seguito, caratterizzando con
parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arrivo ad annoverare
moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera, se ogoi volta che voglio
pensare ad una persona, sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue
qualità, onde non confonderla con un'altra. Le note tracciate sulle carte di
musica rappresentano i suoni che si eseguiscono dagl’istrumenti. Le parole
pronunciate o scritte rappresentano le idee che si piagono nel l'animo. 1
mi troverò nel massimo imbarazzo. Siano,a cagione d'esem pio, come segue,
le qualità d'una persona: Fisiche: Sesso maschile, anni: 20, capelli biondi,
fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto
prominente, marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia, piede
destro zoppo, linguaggio balbettante, accento francese. Morali = Melanconia, dissolutezza,
mancanza alle promesse, viltà, abitudine alla menzogoa, jocostanza. Civili =
Patria, Rodez in Francia, condizione, awmo gliato, professione, possidente. Se
la mia attenzione deve afferrare tutte queste idee alla volta, si troverà
insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la difficoltà, se per pensare
nel tempo stesso ad altra persona, sono costretto a schierarmi avanti alla
mente con egual melodo tutte le qualità che la caratterizzano. Se al contrario
chiamo la prima “Pietro”, la seconda “Paolo”, potrò facilmente richiamarmi
l'una e l'altra, distinguerle tra di loro, paragonar!e insieme. Queste parole
sono poi ancora più necessarie, allorchè si vogliono esprimere le qualità
comuni a molti oggetti, a cagione d'esempio, le qualità che si trovano in tutti
gli u o miniod in tutti gli animali, il che costituisce le idee astratte, come
si disse di sopra, ovvero allorchè si vogliono esprimere gli oggetti creati
dalla nostra mente, come le idee di gloria, d'infamia, di virtù, di vizio. Sebbene
quando pronuncio le parole “uomo” , animale. non mi si schiarino alla mente
tutte le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo
il 140 TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo
le somiglianze, alla stessa maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e
10,000 non vegga le unità che li compongono, so però che l'uoo sta all'altro
come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi
dumeri sono stati formali, posso, ogni volta che voglio, separarne le maggiori
masse , scendere alle minori, per arrivare alle minime e fipalmente agli
elementi. Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo
di100, dica che 100 ė decuplo di 1000. Ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo
acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse, agisce
sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata
proposizione. Il linguaggio si è per rap 141 noi come quelle traccie che
il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le quali lo
guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Una parola che nella sua
origine e un nome proprio, divenne insensibimente un nome appellativo. Può in
conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen tali che uo
nome generaleri chiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che ciò
sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che tende ad
illuderci.Si può paragonare uno spirito che ragiona ad un giudice che deve
decidere tra contendenti. Se il giudice non conosce se non le loro relazioni al
processo, s' egli ignora i loro pomi, s'egli li designa per lettere
dell'alfabeto o pe’no mi fittizi di Tizio, Cajo, Sempronio, egli è quasi necessaria
mente imparziale. Cosi in una serie di ragionanenti noi corriamo medo rischio
diviolare le regole della logica, allorchè la nostra attenzione si fissa sui
semplici segni,e quando l'immaginazione, presentandoci oggetti individuali, non
esercita sulnostro giudizio la sua influenza e non viene a sedurci con
accidentali associazioni. Le parole facilitano vie maggiormente l'esercizio del
pen iero quando il loro suono imita il suono della cosa espressa, come sono le
parole belato, cigolio, scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso,
baldanzoso. Colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti, e colla
moltiplicità delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga
all'indole dell'oggelto che esprimono. Anche quando accennano l'uso o la
proprietà della cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel
linguaggio tedesco, che accenna l'uso e laproprielà di questo vegetabile, é
preferibile alla parola Quinquina. Per la stessa ragione le parole cui il nuovo
stile indica i mesi nell’anno, hanno più pregi che quelle dell'antico: fiorile
ossia il mese de ' fiori, vendemmi a t o r e ossia il mese della vendemmia, sono
nomi ben più espressivi che maggio e ottobre. ATTENZIONE ERAZIOCINIO. Al
contrario, allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'albero prezioso che tutte
le nazioni maritti meriguardano come migliore per le alberature , si fa
supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali,
mentre trovansi nella Lituania, in altre provincie più meridionali, in quelle
stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero. La parola Gallo d'India
rammentando che questo ani male è natio d'America, e ignoto ai Romani , venne
uel l'Europa del 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insignificante
parola “pollo”. Coquetterie in francese (civetteria) rappresenta al vivo il carattere
d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti, a guisa d’no gallo che
vezzeggia cento galline ad un tempo. Al contrario allorchè gl’antichi chimici
ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d’antimonio dei fiori di zinco. Spingevano
il pensiero sopra immagini non applicabili agli oggetti che volevano iudicare.
Anche quando le parole serbano tra di esse un cerlo rapporto costante, come
leparole quaranta, cinquanta, sessan ta, sellanta, Ollanta, novanta, ciascuna
delle quali avendo la stessa desinenza , è formata dalla moltiplicazione del
fat. comune dieci, ne'numeri naturali quattro, cinque, sei. Dello stesso ordine
progressivo de numeri nalurali. Siano i nomi delle nuove misure Myriametro
uoilà di Kilometro unità di Ectometro unità di (2) L'influenza del linguaggio
sulle operazioni del pensiero si scorge sulla nazione Chinese. La quale, a
fronte delle altre incivilite, TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro
Centimetro unità di 0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura
v'è una progressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo
data una di esse, si possoo ritrovare le prece deotie lesus seguenti. Al contrario
leantichemisuredipo sla, lega, lesa, pertica, passo geometrico, passo
ordinario, braccio, auna, piede, pollice, linea, punto....non es sendo crescenti
o decrescenti nella stessa proporzione, D00 aveodo tra di esse rapportocomune,
confondono la memoria (V. p. 80 , 81 ), e colla notizia d'una di esse non si
può giungere alla cognizione d'alcun'altra. Dicasi lo stesso delle altre misure
e de'pesi puovi ed antichi, calcolati I primi in ragione decupla e costante, i
secondi senza nessuna ra gione graduata e regolare. Cesarolti. tore Decimetro
unità di 0.1 di metro Metro upità di 10 metri 10,000 metri 1,000 metri
Decametro 100 metri unità di diritla,ne avrò ildoppio in questa. Dimando
qual è il u nunero de'gettoni che avevo da principio in ciascuoa 6 mano? Qui si
banno due condizioni note, o , per parlare « come i malematici, due dati;
l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla diritta alla sinistra , ne avrò
egual o u u mero in ambe le mani; l'altro che se lo fo passare dalla « sinistra
alla diritta, ne avrò il doppio in questa. Ora roi
«vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non può
farsi, se non osservando le relazioni che haono i dati fra loro; e comprendete
che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i dali « saranno
espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie un gellone , è
eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne aggiunge uno ,
esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più
ubrevemente:ilnumero dellavostra destra, scemalod'una unità, è uguale a quello
della sinistra più un'unilà; ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è
uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta
zionaria da più secoli, altesa l'imperfezione della sua lingua. Mentre le
nostre liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole
con un solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese,
quasi ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura
esige quindi un tempo infinito. L'incertezza e l'indeterminazione del senso
delle parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla
scrittura al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii
possono appena schermirsi colla più grande fatica. Egli è evidente che
siffattalingua non è buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo ,
desaligando seoza 'frutto le forze degli spiriti più distinti, ed offuscando
nella loro sorgente ipriini Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. Se
voi diceste : il numero che avete nella destra 4. Acciò il discorso
faciliti l'esempio del pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle
parole,invariabile l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la
quantità · trarrò l'esempio da Condillac: is Avendo de' gelloni nelle mie mani,
se nefo passar uno dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una
quanti nell'altra; e se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta d’indovinare
codesto qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo ragionando e
passando « dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi. 11
quello della sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre
«vemevle:ladestraweno unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il
numero della mia sinistra sce malo d'una unità è la metà di quello della destra
accre « sciuto d'una unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato
dicendo : il numero della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è
uguale a due volte quello della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. «
Tradurrete questa espressione in un'altra più sem “ plice , se direte : la
destra accresciuta d'un'unità è uguale a due sinistre scemate ciascuna
d'uu’unità ; e giungerele “ a questa espressione la più semplice di tutte : la
dirilla « più uno uguale a due sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni,
alle quali abbiamo ridotti i dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi
equazioni in m a «tematica.Sono compostediduemembriuguali.Ladirilla u m e n o u
no è il primo membro della prima equazione. La sinistra più uno, il secondo. «
Le quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi
membri. Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la
diritla e la sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. «
Finchè le cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle
equazioni,non è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande
sforzo du « riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare
lequantità d'un membro all'altro, senza alterare l'eguaglianza che passa tra
loro, possiano, bon lasciando in un membro che una sola delle due incogaite;
sepa “ l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula
da sè stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno,
duoque TEORIA DELLA SENSAZIONE Per tal guisa di traduzione in traduzione
arriviamo alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto « più
abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e
quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro
relazioni. Ci resla a traltare il secondo dato come il primo , e bisogna
tradurlo u nella più semplice espressione. Per la seconda condizione del
problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il
dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno
uguale a due sioislre meno due. ATTENZIONE E 'RAZIOCINIO. 145 « La
diritta uguale alla sinistra più due. « La diritta uguale a due sinistre meno
tre. « li primo membro di queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta;
e vedete che conoscerete questa quan lità, quando conoscerete il valore del secondo
membro e dell'altra equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è uguale al
secondo della seconda , poiché « sono uguali l'uno é o altro alla stessa
quantità espressa “ dalla dritta; duoque potete formare questa terza equa u
ziove: « La sinistra più due uguale a due sinistre meno tre. « Due più tre
uguale a due sinistre meno una sinistra. « Due più treuguale ad una sinistra. “
Cinque ugualead una sinistra. « Il problema è sciolto. Avete scoperto che il
numero de'geltooi che ho nella mano sinistraè cioque.Nelle equa u zioni , la
diritta uguale alla sinistra più due , la diritla uguale a due sinistre meno
tre, troverete che sette è il nu 6 Inero chc ho vella diritta. Ora questi due
numeri cioque 6 e sette,soddisfanno alle coodizioni del problema. quando un
problema è così facile,come quello scioltopur 6 ora, essa ne abbisogna
maggiormeote, quando iproblemi 66 65 56 dell'una « la diritla jolera sarà
uguale alla sinistra più due: e se la “dirittapiùunoèugualeadue sinistremeno
due,dun « que la diritta sola sarà uguale a due sinistre meno tre: «
Sostituirete dunque alle due prime le due seguenti equa zioni. 6.Allora non vi
resta che una incognita, la sinistra, e a ne conoscerele il valore , quando
l'avrete separata, vale a » dire,falte passare tutte lecogoite dalla stessa
parte. Di - rete dunque Voi vedete sensibilmente in queslo esempio come la
asemplicitàdelle espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se
l'analisi ha bisogno di tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio
dell'analisi nelle male 6 mati che nasce unicamente dal parlare s s e il
linguaggio più semplice. Una leggiera idea dell'algebra basterà per farlo 6
ipleadere. In questa lingua non si ha bisogno di parole. Il più si sprime col seguoto,
il meno cou--; iuguaglianza con « siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý
, per es., sarà ilnu 6 mero de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della
sinistra. e Non sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla
sola semplicità del linguaggio, come pretende Condillac, sono debitrici dellaloro
perfezione l ematematiche, ma anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale
consiste nel ritenersi nei limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva
riabilità de’rapporti tra gli oggetti da essi chiamati ad esa m e ; 3.o alla
possibilità di sottomettere le loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e
degli strumenti. Cominciamo dal 1.°:esistono degli oggetti estesi; ecco la
sensazione: gli oggetti estesi possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco
l'osservazione che produce la geometria. L'es.senza dell'estensione, gli
elementi che la compongono, sono indagini che i matematici abbandonano agli
oziosi metafisici, e quindi non si espongono ai loro errori. Dite lo stesso
delle altre quantità esaminate dai matematici. a Cosi X – 1 = Y to 1, significa
che il numero de'gettoni che ho nella destra, scemato d'un'unità è uguale a
quelloche ho nella asinistra, accresciuto d'un'unità ,e X41 =2Y -2, significa che
il numero della mia destra accresciuto d'un'unità è uguale due volte a quello
della mia sinistra diminuito di due vuità. Ï due dati del nostro problema sono
dunque rinchiusi in queste equazioni: 5Y. Finalmente da X = Y+ 2, caviamoX = 5
to 2= X = 2 Y - capiamo egnalıneote X = 10 TEORIA DELLA SENSAZIONE 2. « X
fo 1 = 2 Y - 2 che diventano, separando l'incogoita del primo membro “Y +2= 2Y
- 3 a che diventano successivamente 9 6X uX 2.Y -3. De'due ultimi menibri di
queste equazioni facciamo 2Y "2*3=2Y-Y “2of3= Y la matematica non visono circoli
più o meno ro tondi, linee più o meno perpendicolari, superficie più o meno
quadrate, la misura di tutti i triangoli è uguale alla base moltiplicata per la
metà dell'altezza. E quando un rapporto come quello del diametro alla
circonferenza, cagion d'esempio, non può essere espresso con esattezza i
matematici continuano ad essere esatii, additando la quantità relativa all'uso
che se ne debbe fare, e che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7;cda 3
ATTENZIONE E RAZIOCINIO. fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I
m a tematici non dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore
dirà, l'uomo si rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione
per fissare la specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, Alla sorpresa deve
succedere in ciascuno la persuasione divedere un essere interamente simile a lui,
essendo simili le forme e i moti esteriori. Infatti meolre it selvaggio A, a cagione
d'esempio, stacca un fratto dal vicino albero, il selvaggio B, che si ricorda
d'avere fatto più vollelo stesso, spinto dalla fame, conchiude che A èmosso (1)
I tre antecedenti riflessi dimostrano falsa l'asserzione di Condillac, cioè che
le matematiche non bando sulle altre scienze altro vantaggio che di possedere
una migliore lingua, e che si procure rebbe a queste uguale simplicità e
certezza , se si sapesse dar loro de’ segni simili». Languedu Calcul, pag
7,8,218. Continuazione dello stesso argomento. Anche, le idee matematiche
possono essere rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una
parola sono susceltibili d'essere giudicate dai sensie dagl’istrumenti. Coll'ajuto
delle cifre e delle figure tracciale sulla tavolta,o rappresentate da corpi
solidi, I concetti matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi
ha gli occhi, tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di
quantità è sol tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata;
nissuno ha finora osat o r i gettare il giudizio d'una bilancia, o sospettare
l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro. Colla scorta de'principii
esposti nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire i filosofi
nelle congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si suppongano due
selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo sentimento che si
svolgerà oel loro animo, sarà lasorpresa sempre figlia della novilà. Queste
conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni che ciascuno
eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti uguali. B
intende dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e consultando la
propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi; si può dire
che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le azioni di A, conchiude
che A comprende le sue. B compresii sentimenti di A,vedeodogli eseguire certe
azioni; egli cercherà di far comprendere isuoi, ripetendo le azionistesse: ecco
il linguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o riguardano oggetti
esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni sensi del l'animo. Allorchè
l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di esso, il dito che lo accenna, la
bacchetta che lo locca, il corpo che si slancia verso di esso o se ne
allontana, formano tutto il dizionario della lingua. Questi segni possono
essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta d'oggetti lontani , per esempio,
d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un altro da cui si fu morsi, il selvaggio
ne ripete l'accento, l'urlo, il grido, e ne esprime cogli atteggiamenti delle
mani, delle braccia, della testa le forme più rimar che voli. Questi segni
possono essere chiamati imitatori. Il rumore prodotto da un torrente che
precipita, da un monte che scoscende, dal vento che fischia, TEORIA DELLA
SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca il frutto e lo mastica; B
rammentando il piacere che provò mangiandolo, con chiude che A lo prova
ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione del mangiare, alza il
capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il romore ed in attodi chi
tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagl’atti di A, sente
sorpresa e timore, e conchiude che A è sorpreso e intimorito. Cessato il
rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare. La calma che
succede nell'animo di B gli dice che A si è calmato. Dopo questa scoperta, il
bisogno reciproco di comunicarsi a vicenda i propri sentimenti sembra naturale,
perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due selvaggi
intendendosi reciprocamente, possono sperare un ajuto ne'loro bisogni, un
sollievo de loro dolori, una difesa contro gl’assalti delle beslie feroci. ATTENZIONE
E RAZIOCINIO. I segni indicatori, imitatori, figurati, divengono triplice
canale di comunicazione pe'sentimenti e leidee in forza delle leggi
d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio secondo la
natura de materiali che servono a formarlo, se ne distingueranno tre specie, i
gesti, le parole, la scrittura simbolica.La storia antica ricorda spesso l'uso
de' simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie e sopratutto
pressole nazioni orientali. Dario essendosi inoltrato nel territorio della
Scizia colla sua armata, ricevette dal re degliSciti un messo che, senza
parlare, gli dal tuono che scoppia. Il canto degli uccelli, gli accenti
delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farne iolendere
l'oggetto ad ogni momento di bisogno, accompagnandoli per lopiù coi gesti. Se1
Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i propri timori, in somma le
affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle
attitudini del corpo che le accompagnano. Per esempio, B vede o d o il luogo
ove rimase spaventato, ripeterà i gridi e i moti dello spavento, accid A non siespoogaaldaono
cui fu esposto egli stesso. Un sordo e muto volendo indicarci, che fu
calpestato da un cavallo, esprime dapprima con ambe le mani ,il moto preci
pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna ilproprio corpo che cade sul suolo;
posc i a ripete il moto del cavallo, escorre colle mani le varie parti del
corpo nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli
affetti, il selvaggio, aguisade'sordie muti, cogliela somiglianzache scorge tra
i sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per
indicare quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro
contrasto allatempesta,la loro calma a cielo sereno, l'animo dubbioso a due
mani che pesano due corpi. Ecco i gesti simbolici e figurati. La prima specie
comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e
i moti degli oggetti esteriori. La seconda, gli accenti della voce con cui si
ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli
esseri inanimate. La terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia, sulla
corteccia degli alberi, od altro, sia degli oggetti che si vuole indicare, sia
delle azioni che vi si riferiscono. I suoni della voce altrondee le
articolazioni che gli accompagnano, possono, sia per sè stessi, sia per la loro
combinazione, presentare colleidee molteanalogie che non col piscono a prima
vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente accolte dalle società che
si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e colla minima fatica possi
bile. Il linguaggio articolato dovette dunque arricchirsi di giorno in giorno.
L'invenzione delle parole indicatrici de generi e delle specie,impossibile
aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra facilissima, giacchè se un albero
particolare A in dato luogoe tempo fu iodicato colla parola albero, è cosa
natu. rale che la stessa parola venisse applicata ad un albero sia mile ,
quindi ad un terzo, ad un quarto. Cosicch è si per mancanza d'altra parola che
io forza della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette
divenire no me appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto
arbitrari e vi si giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione
successiva del linguaggio primitivo e imitatore, poscia per convenzioni
espresse. dodicipezziilcadavere,e glispedi alle dodici tribù di Israele,
intendendo cosi di rendere comune ad esse il suo dolore, e chiamarle alla
vendetta. Il suo linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù
di Beniamino fu sterminata. TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si può
fare grande uso nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura
simbolica,benchè più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in
convenienti, oltre di essere più difficile: al contrario gli accentidella
voce,pronti,facili,variabiliintuttelemaniere, pon tolgono dall'occupazione chi
ne fa uso, e lasciano il potere di parlare e diagire; queste ragioni fecero
prevalere i suoni articolati. De'dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua
pri mitiva alterata dal tempo, dallamischianza del popolo, e da diverse altre
cause, si trasformò nelle nostre lingue moderne ; presenta un uccello, un
sorcio, una rana e cinque freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i
Persiani non fuggivano come gli uccelli, non si nascondevanointerracomei sorci,
nonsisommer. gevano nell'acqua come le rane, cadrebberovittimedellefrecciedegli
Scili Il Levila d'Efraim volendo vendicare la morte della sua sposa, ne
fece 151 e come questa alterazione seguendo un corso differente nei
differenti paesi, rese le lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle convenzioni
che furono fatte,non è neces sario molto schiarimento. Si osserva che le parole
non erano segni d'idee e di sentimenti, se non perchè gli uomini ac
consentivano a prestar loro lo stesso senso. Allorchè dunque conveone esprimere
delle idee nuove, pulla si trovò di più semplice che d'intendersi per scerre
loro una parola. Questa convenzione, formata dapprima tra di quelli che avevano
più pressante bisogno di designare questa idea, divenne in seguito comune agli
altri. Ciascuna arte, ciascuna scieoza presentò le sue parole alla società, e
lingue particolari. I segni arbitrari dovettero la loro forza solamente alla
doppia abitudine di quelli che gl’impiegano e di quelli a cui si dirigono.
Queste azioni, questi segni esteriori, che il ragazzo imita, sono uniti nella
mente di quelli che gli servono di modello a dei sentimenti; questi sentimenti lo
sono ad alcune idee. I sentimenti e le idee a suoni articolati. Il ragazzo
imita dapprima i movimenti, ripete poscia i suoni articolati o le parole, a cagione
d'esempio, “padre”, “madre”, “vizio”, “virtù”, “religione”, “demonio”. Il ragazzo
non ha bisogno d'inventare i segni artificiali delle idee. Egli gli impara
soltanto; ciò che per gl’antichi fu un lungo sforzo di genio, non è per lui che
un esercizio meccanico della memoria. Bentosto il ragazzo deve provare un
principio di sentimento, ridendo all'altrui riso, piangendo all'altrui pianto,
fremendo all'altrui fremilo benchè ne ignori la causa. Ma l'idea, s'ella esiste,
essendo sempre la più difficile, la più lontana, la meno interessante a
conoscersi, il ragazzo è imitatore come la scimia. Gli altrui moti, i gesti, l'accento,
l’aria, il tono, tutti gli attesteriori lo colpiscono nei primi anni della sua
vita e d o c cupano la sua attenzione;egli è spinto ad imitare ed arió petere
tutto ciò che vede, ed isuoi organi mobili cootrag. gonol'abitudinedimolte
azioni,priache ilpensierosia capace di penetrarne lo scopo e d'osservarne il
motivo: insginocchiarsi, fare il segno della croce, piegare la fronte, giungere
le mani, levarsi il cappello, fuggire nelle tenebre, baciar l'altrui mano, fare
inchini. La ripetizione frequente diquesti suoni, gesti, sentimenti gli unisce
con stretti nodi e tali che quando i suoni vengono a colpire l'orecchio o si presentano
alla memoria, spingono gl’organi motori ai gesti relativi, e il sistema
sensibile agl’associati sentimenti. Questa è la cagione per cui esempi
ripetuti, antiche abitudini forzano la maggior parte degl’uomini ad ammirare,
fremere, tremare, sdegnarsi, passionarsi in tutti imodi al suono delle parole
le più insignificanti, le più vaghe, le più vuote d'idee, e che appunto per la
violenza dei sentimenti associati si sottraggono alla analisi. Conviene anche
osservare che più le parole sono confuse ed oscure, più piacciono e soddisfanno
il gusto degli ignoranti. Queste ragioni ci spiegano il motivo per cui le
stesse cose fanno impressioni diverse, secondo che sono pronunciate in una
lingua o in un'altra. Si osserva, dice Rayoal, che i giudei stabiliti in gran
numero alla Giamaica si facevano giuoco d'ingannare i tribunali di giustizia. Un
magstrato sospetta che tale disordine potesse provenire da ciò che il suo
Testamento, su'di cuido vevano giurare,era tradotta in idioma inglese. E quindi
decretato che per l'avenire I Giudei giurer ebbero sul testo ebraico. Dopo
questa precauzione gli spergiuri divendero infinitamente più rari. Per simile
motivo Augusto lascia sussislere eadem magistratuum vocabula, acciò il popolo romano
conchiudesse che sussisteva ancora la repubblica, sussistendo i nomi delle sue
magistrature, e il rispetto ma c chioale eccitato negl’animi popolari dalle
parole si, fissasse sulle nuove cariche che ritenevano le antiche
denominazioni. Trovandosi Leibnizio a Nuremberg seppe che riera in quella città
una compagnia di chimici, che col più profondo segreto travagliavano alla
ricerca della pietra filosofica. Il desiderio d'entrarvi, gli suggerio l’idea
che produce l'effetto bramato. Egli estragge dagli antichi alchimisti una serie
di frasi oscure, la cui unione forma una lettera più oscura ancora e non
intesada lui stesso. Questa lettera divenne un titolo peressere accolto. Leibnizio,
tanto più ammirato quanto meno inteso, fu riconosciuto addetto e segretario della
società. Bailly, Éloge de Leibnitz. TEORIA DELLA SENSAZIONE. Il ragazzo o
non la verifica che tardi, come l'idea di “padre”, o non la verifica che in
parte, come quella di “vizio”, o,non la verifica mai nè può verificarla, come
l'idea di “demonio”, “magia”, “angelo”, “fortuna” e simili. Per
eguale ragione, allorchè le idee più belle e più sublimi vengono tradotte in
lingua usuale, bassa, plebea, per dono parte di quel pregio che conservano in
una lingua antica o straniera. Quella specie di spregio che si attacca agl’usi
volgari e quella specie di rispetto che va unito alle lingue morte od estere,
sembra comunicarsi all'idea e degra darla a'nostri occhi o sublimarla.
L'indeterminazione del linguaggio più in morale e legi slazione ha luogo, cbe
nelle arti e nella storia naturale: gli oggetti di queste sono verificabili e
misurabili coi sepsie cogli strumenti, quindi le stesse parole risvegliano in
tutti presso a poco lestesse idee:al contrario gli oggetti morali non essendo
verificabili con eguale precisione, restano nella nebbia della fantasia; le
parole, da cui vengono indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza,
e per lopiù risvegliano idee diverse nelle diverse teste in ragione delle
circostanze in cui furono apprese. Pretendere che le stesse parole
(principalmente se trattasi di cose morali) risveglino in tuttele stesseidee, egli
è pretendere che quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto.
Nei giardini d'Epicuro la parola “virtù” risvegliava idee ridenti e piacevoli.
Sotto i portici di Zenone, idee fosche e melanconiche. “Legge” significa la
volontà di tutti per un greco, la volontà d'un solo per un persiano. le
indicava per l'addietro un despota sciolto da ogni legge, attualmente
quest'idea è più limitata , ed ha diversi significati a Londra, Amsterdam,
Copenhague. “Libertà” nella mente del filosofo indica la somma delle azioni non
vincolate dalla legge. Nella mente del volgo, la facoltà d'invadere i beni
de'ricchi e di far nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole
si fa sentire ne'trattati tra, le nazioni, in cui la loro ambiguità
diviene,causa o pretesto di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità
d'una frase estende l’arbitrio del giudice a danno dell'innocente ne’ contratti,
nei codici civili, nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'espressiooe
è fonte di mille liti tra i cittadini, e vessazioni a. Havvi alla China una
legge che condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto al sovrano.
Comparve un giorno nella gazzetta della corte un aneddoto non raccontato con
perfetta esaltezza. Il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero che
mentire nelle gazzette della corte e non mostrare sufficiente rispetto al
sovrano. Quindi il redattore fu messo a morte. ATTENZIONE E RAZIOCINIO.“
commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti, cantoni,
comuni, l'uniformità de' pesi, in isure, monete, gli stessi libri nelle
università, la stessa educazione ne’ licei lendono a dare alle parole la stessa
significazione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de. finibile di
coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio proveniente dal
modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggetto che esprime, bisogna dire
che in ogni lingua non v'ba quasi una parola che rappresenti sola una idea
chiaro-distinta da se stessa. Tutte prendono sensidiversi dal posto che
occupano nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento,
dal gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune
ti mostra un dato espelto d'idee,uo altro, se si college con altre. Più avanti,
più indietro le ne farà vedere dei diversi. Detta con un tuono asseverante, ha
un senso. Con un tuono di meraviglia, un altro. Con irrisione, un terzo. Con interrogazione,
un quarto. Cosicchè si potrebbe assomigliare le parole ai colori delle peone
d'un colombo, che variano secondo il moto del sole, del colombo, dell'osservatore.
Sono quindi quovi, fonti d'errori i diversi sensi che le stesse parole
esprimono passando da un ordine di cose ad un altro. Un oratore, dopo avere
esaltato i nomi di molti personaggi illustri dell’antichità, si dirige così
a'suoi uditori: ingrati che noi siamo! noi cilngniamo della brevita della vita,
mentrei è innostro polere di renderci immortali. Egli è evidente che questa
argomentazione confonde due maniere di vivere che sono distiolissime e diverse.
Lo stesso difetto si fa vedere nella seguente massima di Rousseau. Se la natura
ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che medita è un'animale depravato.
Perchè questa sentenza fosse vera, converrebbe provare che il primo ed unico
destino dell'uomo è di essere sano; che la virtù consiste nella sanità, e che
la meditazione è in compatibile coi buoni costumi. Allora un dollo sarà un
essere depravato come il soldato che espone la sua sanità e la sua vita in
difesa della patria. Si potrà dire che ogni ammalato è uno scellerato, un
mostro; che un monco è un Sano è qui'addiettivo del corpo, e significa uno
stato fisico; depravalo è addiettivo dell'auimo, e significa uno stato
morale. animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani
come ci ha destinati ad avere due braccia. Aliro esempio. Bernardin de Saint
Pierre vuole che assolutamente si bandisca l'emulazione dalle scuole pubbliche;
e per provare ch'ella è inutile, argomenta così. Analizziamo questo argomento.
L’emulazione per imparare la lezione, per fare dei temi, per studiare le
scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'emulazione è
dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per
conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di
questa doppia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente
naturali, egualmente aggradevoli che quelle del corpo? Egualmente naturali? lo
rispondo di no, se per naturali inten desi necessarie ed imperiose. Egualmente
aggradevoli? Questo è possibile, ma la causa si rifonde nel piacere d'essere applaudito, ammirato,
ricompensato. Quindi l'autore non s'accorge che coi buoni effetti
dell'emulazione lepla di provarne l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala
fede, le passioni lulle abusano delle parole, perciò, al dire di Parini, il
mercante è pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri nomi
6'A merci che non mnaivarcaro imonti. уоро campagna, come sono necessarie
talvolta per farli stu diare? Questa piccolo popolazione ha forse immaginato
delle astuzie, e inventati degl’artifizi per allungare gli studi, e per
ottenere un tema più difficile? Ho io avuto bisogno nell'infanzia di sorpassare
i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi piacere? E perchè è
egli slato necessario che imparassi asor passarli ne’miei studi, per trovarci dilello?
Non ho iopo. tulo instruirmi a parlare e ragionare senza emulazioni? Le
funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, egual mente aggradevoli
che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è inutile oel bere e nel mangiare, per
che queste operazioni sono comandate dal più pressante, dal più imperioso de’ bisogoi,
l'amore della vita; ma quantivi e conciliano la santità e la grassezza
coll'inerzia e l'ignoranza? Gli scolari temono forse tanto le ricreazioni
quanto temono la dieta? Sono mai state necessarie le minacce ed i castighi per
condurli al refettorio o farli partire per la Cromwel, per coprire le sue
viste atobiziose col manto della religione, aveva dato alla maggior parte
de'suoi reg.gimentiinomi dei santi del Testamento Vecchio. Cromwel, dice uno
scrittore anonimo di quel tempo, ha ballulo illam buro in tutto il Vecchio
Testamento; si può imparare la genealogia del nostro Salvatore dai nomi de'suoi
reggimenti. Il commissario di guerra non aveva altra lista che ilprimo ca
pitolo di S. Matteo. In tutti itempi, in tutte le religioni,in
tuttiipartili,ilfanatismo,ilquale non sipiccò mai diequità, diede a quelli che
voleva perdere, non i nowi che merita vano, ma inoai che potevano loro nuocere.
Socrate,che depurando le idee superstiziose, le conduceva all'unità di Dio ,
riceve il titolo d' aleo dai sacerdoti di Cerere: empio chiamavasi presso gli
Egiziani chi von adorava un gatto, un bue o un coccodrillo. Si da dai Cartaginesi
lo stesso titolo a chi abborriva il sacrifizio delle umane vittime. I romani danno
a tutti i cristiani il nome di galilei o giudei, sforzandosi dire uderli odiosi
non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla China i nostri missionari che
diffondeodo la religione dei galilei diminuiscono il concorso ai tempii de' falsi
idoli, e quindi i proventi de' sacerdoti, vengono da questi dipinti come
ribelli ed accusati di congiura coutro lo Stato. Le espressioni odiose sono
uo'arma troppo favorevole alla calunnia perchè ella non s'affretti a farne uso.
Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una parola di sprezzo per
caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri avversari. Con una di
queste parole si prova tutto, si risponde a tutto, si difende la propria
opinione, si distrugge l'altrui. APascal, che con tanta sagacità svela nelle sue
lettere provinciali la corruzione della morale, e risposto ch'egli era
quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre dalle
espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie
infinitamente variabili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione
d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico, e lo prov r'anno
svolgendo la somma de’ beni di cui è seconda, ma non diranno, per es., questa
legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi
sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee
d'approvazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto. Quindi se
i due partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza
de’ combattenti, e per cominciare TEORIA DELLA SENSAZIONE
ATTENZIONE E RAZIOCINIO. Combinare od inventare. La ninfa della tignuola
d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale s’involge in
cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che questa sua abi
lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando èsoverchiamente pesante,
viaggiunge un bocconcello dipa 'gliao dil egno, equando troppoleggiere, un pezzellodi
grossa rena. il vero esame, converrà rinunciare a queste parole appassionate
ed esclusive, per calcolare gli effetti della legge in bene e in male.
Osservano gli storici che nel corso della guerra del Peloponneso successe
taletrambusto nelle idee e ne' principii, che le parole più usuali cambiarono
di senso. Si da il nome di dabbenaggine alla buonafede, di destrezza alla duplicità,
di debolezza alla prudenza, di pusillanimità alla moderazione, mentre i tratti
d'audacia e di violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente
per la causa pubblica. Una tale confusione del linguaggio è forse uno de’ sintomi
più caratteristici della depravazione d'un popolo. In altri tempi si può
offendere la virtù. Ciò non ostante se ne riconosce ancora la sua autorità, quando
le si assegnano de’ limiti. Ma quando si giunge sido a spogliarla del suo nome,
ella perde i suoi diritti al trono, e il vizio se ne impadronisce e vi si
asside tranquillamente. Per capire ciò che succede allora in una nazione, basta
osservare ciò che succede nelle società de’ viziosi e scellerati. I ladri, gl’aggressori
, i monetari falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto
proprio che confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti
uniformi, volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si
compiacciono ad affrontarla. Quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le
impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto,
associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo
stesso scrittore, ha colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima. Posi
le ginocchia a terraper meglio osservare, evidiche ellase paròla coda e la
tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le ale. Prese ella
quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alza con essa dal terreno circa
due piedi, ma un venticello leggiere scuotendo le ale della mosca, fa
capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a terra.
Osservai allora distintamenle che colla bocca le taglia primieramente un'ala, e
poi l'altra, e quindi fuggi via non più molestata dal vento. Questi due animale
lti,che sanno disporre le cose in modo, ossia ritrovare mezzi tali da oltenere
il fine bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare.
Duhamel osserva che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi
al soffitto. Egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicare questa
parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di
Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più cognizioni di quelle della
tigauola e della vespa. Ma il fine ottenuto essendo molto vantaggioso
all'umanità, la combinazione è più pregevole. Il pregio di questa combinazione
cresce, se si riflette ch'ella è applicabile ad altri oggetti, a cagione
d'esempio, ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni saggissime
profondissime, e che suppongono infinita destrezza nell'esecuzione. Ma siccome
non arrecano alcun vantaggio, non hanno alcun pregio agl’occhi del saggio.
Boverick, meccanico d'uva de, strezza e d’upa perseveranza prodigiosa, fabbrica
una catena di duecento anelli che col suo catenaccio e la sua chiave pesava
circa un terzo di grano. Questa catena e destinata ad iocatenare una pulce. Egli
fa una carrozza che s'apriva e si chiudeva a inolla, era tratta da sei cavalli,
porta quattro persone e due lacchè, e condolia da un cocchiere, ai piedi del
quale sta assiso un cane, e il lutto venne strascioato da una pulce esercitata
a questo travaglio. L'invenzione e l'esecuzione di questa macchina puerile fa
desiderare che Boverick impiega meglio i suoi talenti. Grice: “”Si suppongano
due selvaggi” – exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An
engraving’s caption has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that
like Socrates he did ‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre
Gioia, Melchiorre Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo,
pulitezza, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giorello – il libertino – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Milano). Filosofo italiano. – Grice: “I
like Giorello: he philosophises on evil and good – the devil wrestles with the
angel – but also on Mickey Mouse that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del
topolino” – and perhaps ore exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’
a ‘fiumetto’ of 1948!” –Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro
de la Società Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della
Scienza. Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita
della conoscenza con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche
e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche
in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati
verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza,
etica e politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si
ispira, tra gli altri, a Mill. Si occupa anche di storia della scienza in
particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle
matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo,
filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere
Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e
il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori, Le ragioni della scienza, Roma-Bari, Laterza,Filosofia
della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa
universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia
della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la
sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della
scienza, Roma-Bari, Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla
comunicazione: Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano,
CUEM, I volti del tempo, e Milano, Bompiani,
Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina, Di nessuna chiesa. La libertà del laico,
Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Bruno Forte, Cinisello
Balsamo, San Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina, Il decalogo. I dieci comandamenti commentati
dai filosofi, II, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio
Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace",
Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano,
Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane, 4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice
San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,
Il peso politico della Chiesa, Cinisello
Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni
& Lab, Harsanyi visto da Giorello, Milano, Luiss University press, Lo
scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e
carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San
Raffaele, Introduzione a Apostolos
Doxiadis e Christos H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda, Lussuria. La passione della conoscenza,
Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,.
Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio
Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,. Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto
incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. CULTURAAddio
a Giulio Giorello, filosofo della scienza e difensore della libertàBy Vincenzo
VillarosaPosted on 16 Giugno 2020 È morto all’età di 75 anni il filosofo Giulio
Giorello, per le conseguenze dell’influenza da COVID-19, dopo aver trascorso
due mesi di degenza in ospedale ed essere stato dimesso alla metà di maggio.
Successore del maestro Ludovico Geymonat alla cattedra di Filosofia della
Scienza dell’Università Statale di Milano, il 12 giugno scorso il filosofo
aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Giuseppe Conte lo ha
ricordato, in un messaggio sui social, come un pensatore che ha saputo
riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione. Nato a Milano
nel 1945, Giorello si laureò in Filosofia alla fine degli anni Sessanta e in
Matematica, qualche anno dopo, seguendo la tradizione antifascista e marxista
del maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra
pensiero scientifico e umanistico. In seguito, fu docente di Meccanica
razionale all’Università di Pavia e poi alla Facoltà di Scienze presso
l’Università di Catania, a quella di Scienze naturali all’Università
dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano. L’accademico milanese
fu presidente della SILFS (Società italiana di Logica e Filosofia della
scienza), ma i suoi studi spaziavano dalla mitologia all’antropologia e alla
psicologia evolutiva fino alla bioetica e alle neuroscienze. Uno tra i più
bravi epistemologi italiani, insomma, capace di unire il rigore per gli studi
sul metodo della scienza alle riflessioni sull’ambiente sociale e politico nel
quale si muove la ricerca scientifica. Accanto all’attenzione per le
discipline fisico-matematiche e all’accrescimento della conoscenza scientifica,
Giulio Giorello analizzava le modalità complesse e contraddittorie della
convivenza sociale e politica. Sulla scia del pensiero del filosofo John Stuart
Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla libertà, nel
1981 –, scrisse, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la
possibile difesa della libertà umana. La sua instancabile attività di
saggista era basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e
del dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza
di questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione
editoriale della collana Scienza e idee per Raffaello Cortina Editore e nella
capacità di divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle
pagine culturali del giornale Corriere della Sera. Tra le opere di
saggistica, ricordiamo Filosofia della scienza (Jaca Book, 1992) e due
contributi recenti di divulgazione scientifica come La filosofia della scienza
nel XX secolo (con Donald Gillies, Laterza, 2010) e La matematica della natura
(con Vincenzo Barone, Il Mulino, 2016). Nelle opere Di nessuna chiesa. La
libertà del laico (Cortina, 2005) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo
(Longanesi, 2010), infine, Giorello parlò del valore della laicità in maniera
antidogmatica e rispettosa della visione del mondo dei credenti. La
curiosità intellettuale e la personalità liberale del filosofo e matematico
milanese si espresse anche nell’interesse sul rapporto tra la cultura definita
alta e quella popolare presente, ad esempio, nel mondo dei fumetti. Il suo
saggio pop su La filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013) ne
è una divertente ma non banale rappresentazione. La perdita di Giorello
toglie alla scena italiana e internazionale uno dei più attenti conoscitori
dell’articolato cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso
tempo, un difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non
è possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale
dell’umanità. RELATED TOPICS:FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA,
SOCIETÀIndice 0. Introduzione... p.7 1. Il paradigma dei sette vizi capitali
nel Medioevo... p.11 1.1. Il settenario... p.11 1.2. Il vizio della lussuria...
p.12 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo... p.12 1.2.2. Vizio
del corpo... p.13 1.2.3. Vizio dell anima... p.15 1.2.4. I coniugati e la lussuria.
«Se non riescono a contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere (I Cor.
7,9)»... p.17 2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno... p.19 3.
La lussuria come potere nel Canto V dell Inferno... p.31 4. La lussuria come
piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria come filosofia
nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e come sovversione
nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V dell Inferno:
conclusione... p.66 Bibliografia... p.70 0. Introduzione Non v è dubbio
che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo
millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di
tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare
la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come afferma Emilio Pasquini
nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la
lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche nel terzo
millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non essere più
adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze critiche
differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge il suo
Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del nostro
tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto
quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi 4.
L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a intrigare.
Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un modo
meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano la
celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca (quando
si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi
(ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e
chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi
illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella vita di ognuno,
di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [ ]. Oggi,
asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro),
su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un
esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un individuo una
precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in terra 6. 2
Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia,
Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2001, pp.257. 3 Lorenzo Renzi, Le conseguenze
di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 4
Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit.,
pp.259. 5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7 Introduzione Si può
aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane
Dante s inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale
è completamente fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo
personale completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l
avvertimento di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando
rischia di condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese
segnala che il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue
scene illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell
oltremondo, l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro
mondo 8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi
possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La
conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini
e quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria
non concorda con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo
della presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano,
si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica
umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di
vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della
conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare,
nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della
letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la
lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una
libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta
e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10.
Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto
quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano
del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il
desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come
potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di
lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e
concetti. 7 Ibidem, pp.271-273. 8 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia.
Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9. 9 Giulio
Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010. 10
Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8 Introduzione A mio giudizio la
lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può
offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una
lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei
dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del
testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del
ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della
lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi
ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di
presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la
religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno
soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso
della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo
velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie
manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione
cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto
ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con
commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la
presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti.
Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel
celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta
di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio.
L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà
ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della
colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole
reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse
privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L
autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia
della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in
exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del
mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l
ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio
di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare
il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un
bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9
Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al
riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti
riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è il quarto
critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi ha
procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una
struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V,
di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del
terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai
misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e
lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del
genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione
filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base
delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano
varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri
commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia.
Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10 1. Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un
resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso
un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa
visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel
Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni
Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema
dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di
una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e
persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un
efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per
così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva,
ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto
presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la
storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre
ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V
secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo
maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più
significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al
XV secolo, il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico
attraverso gli scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande
successo. Dante, quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza
all idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto
Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria,
avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall
opera di Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI
secolo), ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale.
Anche Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura
medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi
capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi.
11 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi,
teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15.
Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel
quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella
occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze
orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale,
raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui
vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine
del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si
sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee
rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà
proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli
da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una
continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati
alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del
settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue
tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di
quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il
vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non
solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già
nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano
apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto
abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato
lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea
ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si
riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo.
Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione
di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15
Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12 Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell
ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un
aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che
essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe
intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede
apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità
umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione,
crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio
proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si
può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione
della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella
ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità
dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima
della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero
stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la
procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la
loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati,
non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter
dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della
pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza
irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la
generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità.
Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione
agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia
già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di desessualizzazione
del peccato originale 18. Implica l accettazione della concupiscenza come una
delle conseguenze del peccato originale, non come l effetto principale di
questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall ambito peccaminoso nel
quale era stata introdotta: La natura era ormai inevitabilmente corrotta 19.
1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un
primo momento, la fornicazione), tutto come alla gola, lo statuto di vizio
carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151. 19 Ivi. 13 Il
paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente la
partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi
sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali:
gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si
presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel
Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione
approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del
vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di
conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili
mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle
forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe
ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la
lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con
il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può
manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana
per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano.
A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova
essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della
fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed
essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici
maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico,
Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla
fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non
vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto
riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che
il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal
suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute
ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull
eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere
i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai suggerimenti
lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che si vestono e
si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile: [sono 20
Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14 Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse del Diavolo
che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli uomini 23.
Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come istigatrici
del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro
fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così,
inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti
lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta come
un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è
soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana.
Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio
capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della
fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può
leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5,
28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso.
Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione
peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in
seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale
(questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza
evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo
reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora
specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo,
vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare,
assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di
essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che
ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo,
un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem,
pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo
Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S.
Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160.
15 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire,
dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e
proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e
Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l
idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono
sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle
pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito,
si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente
di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto
per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che
tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo
accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato
originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza
dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria,
Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della
sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime
reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito viene
confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per il
fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La
fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora
molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito
dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina.
Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e
strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il
danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più
grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello
spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la
potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello
alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza
della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione
cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a
simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima
in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza
concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo
nella 16 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di
controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi
avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte,
e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava
grandissimo. Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in
contesto scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua
importanza per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la
funzione [della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio
nella vita di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo
fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella
quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s
impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il
culmine assoluto dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure
dalla lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in
continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte
le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati
formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria,
ma nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli
coniugali [a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari
per soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo
modo, che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce
28. La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della
lussuria, si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che
la ragione per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per
il matrimonio consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la
lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva
anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il
matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge
che considera l unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della
castità, ma comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli
26 Ibidem, pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S.
Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172.
17 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la
società naturale che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio
avrebbe previsto l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili
prima del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di
organi sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo
disubbidivano a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che
gli uomini [...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse
durante tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame
stabilito tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si
estende dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere
tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima
di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da
questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica
nel settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18 2. La
lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla
lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è
mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel
caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una
rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due
innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata
direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola:
potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del desiderio
lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro volontà
lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine al suo
matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di
Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche
Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è
irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio
chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione,
è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è
familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia
la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e
di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima
e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una
MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga
tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che
tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte,
nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui
soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una
mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di
rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che,
contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un
dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio
Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio
Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al
testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007,
pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese,
commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90.
19 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e
Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l
aspetto penoso che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la
dimensione della lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica
fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di
lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa.
Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti,
considerarsi come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si
tratta del desiderio dell altro. Dante presta molta attenzione all espressione
di tale potenza. È probabilmente una delle più belle manifestazioni dello
spirito umano: unica, forte, ma anche tragica. Forse la bellezza risiede,
appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può realizzare grazie alla
volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche come, in
questo caso, il tragico. Il desiderio umano, giudicato lussurioso per
definizione, è presente nel Canto V non solo nella decisione presa da Paolo e
Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell Inferno, cioè all inizio del
viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla, infatti, di
ognuno di noi, ci troviamo all inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe
desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla
via della perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la
luce divina, è in cerca di una direzione nella sua vita. Questa aspirazione
predomina su tutto il suo essere, come il desiderio di Francesca domina su
Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che la laicizzazione è la lussuria
dell emancipazione dalla soggezione alla natura e/o alla divinità emancipazione
che costituisce la premessa di una società politica matura 36. Secondo me, l
autore suggerisce che l assunto che la laicizzazione sia un processo lussurioso
sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana della lussuria che la
considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie forme
in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa.
L idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che
il desiderio umano di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore
si rivela lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio,
tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio
cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L
opposizione 36 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit.,
pp.26. 20 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la
volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di
vista del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non
sia lussurioso non dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti
essenziali della lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che
la lussuria può esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria
istituisce il nesso tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è
analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza
che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie
domande. In questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la
conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera
sapere se e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà,
sorgerà la comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare
la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la
conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti
conosciuti nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea
mesopotamica la Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V,
tuttavia, si osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è
dimenticato, come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di
raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E
quella a me: Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella
miseria: e ciò sa l tuo dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano
benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di
conoscere li ha messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in
cui si baciavano e s appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo
passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer
la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che
piange e dice 38. Ciò illustra l importanza ardente del significato del
termine. Per di più, Giorello pone che la potenza della dea [Venere] è
quotidiana [ ], non solo eccezionale 39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la
caratteristica della lussuria rappresentata da questa volontà incredibilmente
potente non si manifesta unicamente in situazioni o momenti eccezionali.
Costituisce una forza sempre presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La
passione della conoscenza, cit., pp.35. 21 La lussuria come potenza nel
Canto V dell Inferno umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da
essa, se lo volesse. Questo, però, gli è connaturale: si tratta di una parte
dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo.
Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All uomo piace
infinitamente provare una tale energia dentro di se. Gli dà l idea che
potrebbe, infatti, realizzare il progetto che ha in mente, che potrebbe trovare
la risposta alla sua domanda. Gli dà il coraggio necessario per dare ascolto ai
sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in una ricerca o una
situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la volontà
lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale. Questo momento
speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo
di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di
Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata,
diventa troppo forte. La bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale
di volontà lussuriosa. Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la
lussuria) può rivelarsi maestra di inganno 40. Certo, nel Canto V, si osservano
delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce suo marito, Paolo suo fratello.
All aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo
della presente tesi. Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza
in Lussuria. Passione della conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una
riflessione interessante, è un idea che deduce da un testo di Agostino, Città
di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest opera che, secondo Agostino, la
fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella divina) sia
ben peggio [ ] di qualsiasi fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine
naturale l anima è anteposta al corpo. Agostino descrive la lotta della
passione [il corpo] e della volontà [l anima] parlando della lussuria,
affermando che esiste almeno l imperfezione della passione nei confronti della
pienezza della volontà 42. Ciò pone l accento sul valore più grande della forza
mentale che è la volontà dell uomo a paragone del suo corpo fisico. Rileva la
preziosità e la versatilità della potenza, la quale è valutata non solo dai
fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che si
tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L unione d
idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem, pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio,
Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani,
2001, pp.684-685. 22 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno
cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto,
nella Commedia dantesca. A mio giudizio questa fusione è una delle
caratteristiche più meravigliose dell opera. Si rivela in modo splendido nel
passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V proviene, tra l altro,
dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di tutti gli
altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di
Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne antiche e cavalieri (v. 71):
insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso, che aveva, di fatto,
connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta et Arturi regis
ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro apparizione conferisce
un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la grandezza delle storie
antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi quanto sono care a
Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della disperazione, dell amore e
della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel Canto V, ai
sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per quanto riguarda quella
relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si può segnalare
che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca, la
visita del pellegrino forma un opportunità unica per confessarsi (dal punto di
vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la
sua tragica storia d amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi,
cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i
dannati si presentano come un momento affatto eccezionale nello svolgersi (che
non ha però vero svolgimento) della pena di questi ultimi [ ]: per un motivo
superiore ossia, per l edificazione del P. e poi dei viventi che leggeranno il
resoconto del viaggio la Provvidenza suscita in alcuni dannati un estremo atto
di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere, dal voler portate 44 ]. Sul piano
poetico, ciò si traduce in una forte drammatizzazione degli episodi: Francesca,
per esempio, non avrà mai un altra occasione di confessarsi, di dare forma
verbale al proprio tormento 45. 43 Giorgio Inglese, commento al testo in
Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 44 Dante Alighieri,
Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio Inglese, commento al testo in
Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 23 La lussuria come
potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che precede, risulta che un estremo
atto di personalità implica una volontà potente, dato che la volontà
costituisce una parte essenziale dell essere umano. Si potrebbe dire che, con l
ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché dare forma
verbale al proprio tormento può significare dare forma verbale al suo peccato e
al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura. La seconda
parte della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come
dare forma verbale al modo in cui entrambi il ricordo del tempo d i dolci
sospiri 46 e quello della fine tragica della sua storia d amore la tormentano.
Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si presenterebbe non solo come
un colpevolista, ma anche come un giustificazionista. Ritornando alle donne
antiche e cavalieri, Renzi asserisce quanto segue: Se ci sarà ancora una
critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi, qualcuno noterà,
per esempio, che la pietà di Dante per Francesca, primo segno della sua
partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo svenimento,
era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque
a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti peccator carnali.
Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera
nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore, cresce la
compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e
silenzioso per tutto quell amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso
la persona amata. Pasquini pone che non si ha soltanto il dramma cruento dei
due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma interiore di Dante che si
sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48. Questo dramma interiore
che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia romagnola si spiega,
secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel Purgatorio (cf. infra).
Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale traviamento, sotto
la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo sottopone Beatrice; il che spiega
con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento che non è solo pietà di
fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit.,
pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca
nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48 Emilio Pasquini, Dante e le figure
del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24
La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené
(1748-1815), autore di Histoire littéraire d Italie, non è stato il Dante
filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto l
episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice. 50
In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e
Francesca, e pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di
noi, poiché il passaggio di Dante personaggio attraverso l inferno, il
purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il viaggio simbolico di ogni
peccatore che desidera ritrovare la retta via. Ginguené, per di più, non
evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in fondo, se non è mite, è la
più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51. Renzi spiega come questo
non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza
conoscersi l uno con l altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo
della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making
Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context 53 ]. E ci
aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento
e in altri 54 ], che era l unico che di queste cose se ne intendeva davvero, ha
notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più
gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San Tommaso 55. Forma un
argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l unico vero autore
dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e
certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca
da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante 57 ), segnala Renzi,
Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati dei lussuriosi.
Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu quasi 50
Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo Renzi in
Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante,
cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo della
Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le
Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making
Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in Dante
studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei rimatori
italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura medievale, Bari,
Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso
è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di
Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56 Francesco De Sanctis,
Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio
Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto Croce, La poesia di
Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25 La lussuria come potenza nel
Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in cui sono fusi l
orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice giustamente punita
59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante
non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha
avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori.
Asserisce però che Dante, al contrario di altri poeti, riesce a rompere e a
superare l incantesimo dolce dell amore. Così, afferma Renzi, il critico
italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia
della critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti
[quelli che considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile
delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna]
60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l innocenza di Francesca,
Inglese segnala che la donna, affermando che Amor, ch al cor gentil ratto s
apprende 61, da un punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, nella
prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente falsa poiché Amore [è] sempre
soggetto delle azioni determinanti [ prese costui della bella persona/che mi fu
tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo amato amar perdona/mi prese
del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non m abandona./amor condusse
noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura, infatti, tutte le due ipotesi
(tanto quello della colpevolezza quanto quello dell innocenza di Francesca)
rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore come il vero colpevole, o
giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela
responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo leggieri che si trova
nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe parte di un idea
esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole dimostrare, al
lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo formerebbe un
suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive come anima
tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata per
adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a
Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59 Giorgio
Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit.,
pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca
nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia. Inferno,
cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di
Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit.,
pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante
Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello In
Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho
letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di
Vincenzo Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio
sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo. image Io vorrei
contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando
soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della
scienza e delle idee. Tale merito gli è stato riconosciuto da uno
dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome
ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di
“Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti
bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito
(2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico
Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza.
Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia
delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima
quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la
storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del
tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro
quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte
trascina) il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni
insopportabile) caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto
lontano dall’idea che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel
mondo, di trasformarlo (come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in
“una linda casetta”. Una parte consistente della filosofia italiana sembra
impegnata a confrontare accuratamente fra loro i testi di cinque o sei
rispettabili filosofi di lingua inglese, a commentarli, a commentare i
risultati del confronto, a polemizzare con gli altri commentatori tentando, nel
più dei casi, arzigogolate mediazioni fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi
pare lecito dubitare: Giulio Giorello non fa parte della vasta, soporifera e
innocua schiera degli oscuri e instancabili “roditori accademici”».[1]
L’espressione “roditori accademici” era un rimando a quanto scritto sul
tema da Paul K. Feyerabend,[2] un pensatore con cui Rossi ha spesso
polemizzato, ma per il quale nutriva profonda stima.[3] E che anche Giorello,
non a caso, come ha ricordato Barone, ben conosceva. Sua la prefazione
all’edizione italiana di Against method. Outline of an anarchistic theory of
knowledge, edito in originale nel 1975, e pubblicato da Feltrinelli nel
1979.[4] Rossi citava spesso, con orgoglio, che il suo libro che
compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra scienza e magia, Il tempo dei
maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse uscito nella collana “Scienza e
idee” diretta da Giorello per Raffello Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio
avesse chiaro cosa significasse fare storia della scienza, come ricordava
nell’analisi del libro di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione
culturale (2008): «La parola chiave del processo storico – come nota Giulio
Giorello nella brillante prefazione che ha scritto per questo libro – è
imprevedibilità. Accade infatti spesso nel presente (ed è accaduto spesso nel
passato) che gli scienziati siano stati costretti a “vedere” cose diverse da
quelle che avrebbero invece dovuto scorgere sulla base delle proprie credenze
personali».[6] Come ci ha ricordato Barone, Giulio Giorello era
laureato sia in filosofia che in matematica. Per questo motivo, come aveva
presente Paolo Rossi, Giorello non ha mai pensato che il semplice fatto di
essere scienziati equivalga, per coloro che svolgono tale professione, ad una
autorizzazione «a parlare di testi che non hanno letto, a prendere posizioni su
questioni che non conoscono, ad esprimere opinioni su problemi che non hanno
mai avvicinato».[7] Del resto, già oltre un secolo fa il matematico Paul
Tannery, uno dei padri fondatori della storia della scienza come disciplina
specifica, affermava che «per essere un buono storico non basta essere
scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il
gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente
differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di
conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono
invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso
della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore delle
collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio Sindoni,
che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi. Alla
ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella parte
storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza
approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in
nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il
“romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee
molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]
Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non
dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu
introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole
del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento
diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la
scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich Nietzsche.
Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico e alla
stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti più
creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per le
dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere della
cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e
dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose
contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a
ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole
dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come
entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio
(sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile
ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le
sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11]
Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito
umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come
è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è
immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi
“straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è
miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12]
Grazie di tutto, Giulio Note 1) P. Rossi. 2018. A mio
non modesto parere. Le recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di R. Bondì e M.
Rossi Monti. Bologna: Il Mulino, pp. 224-225. 2) P.K. Feyerabend. 1981. La
scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, p. 213. 3) P. Rossi. 1999.
Paul K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi
sulla storia della filosofia.Bologna: Il Mulino, pp. 161-167. 4) P.K.
Feyerabend. 1979. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza (1975). Prefazione di G. Giorello. Milano: Feltrinelli. 5) Cfr. ad
esempio, P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere, cit., p. 259. 6) Ivi, p.
389. 7) P. Rossi. 1999. Ci sono molti Galilei?in Un altro presente, cit. p.
134. 8) P. Tannery. 1904. De l'histoire générale des sciences, in “Revue de
Synthèse”) G. Giorello. 2016. Flammarion, lo “scienziato”, sconfitto da Verne,
il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente
nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 62-68. 10) G. Giorello.
2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, in Le due culture, a
cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, pp. 116-117. 11) P. Rossi. 1967.
Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici di
storia della scienza. Firenze: Barbera, p. 182. 12) G. Giorello. 2005. Per una
Repubblica delle Scienze e delle Lettere, cit., p. 118.Grice: “The etymology of
libertine ruins it! – or ruins the concept. A slave liberated, being of a low
class condition, would be criticized for his excesses of freedom!” Giulio
Giorello. Giorello. Keywords: il libertino, implicatura speculativa – specchio
e il reame: la communicazione -- “il fantasma e il desiderio” “lo spettro e il
libertino” “lo specchio del reame” – “il libertino” “lo scimmione intelligente”
lo specchio di Narciso, Bruno, Leopardi-- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Giorello” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Giorgi – l’implicatura di Bacco – filosofia
italiana – filosofia leccese -- Luigi Speranza (Cavallino).
Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia con Seppilli
e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”, rivalutando i
brani in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna a Lecce. “Le
strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo, Lecce), “Tarantismo
e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della
tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella: saggio
musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo, Lecce). “Pizzica-Pizzica,
la musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione:
struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo” (Lecce, Pensa MultiMedia);
“L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina);
“Pizzica e tarantismo: la carne del mito dall'etnomusicologia all'estetica
musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il tarantismo come mito: dagli errori di De
Martino alla rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito
del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della rinascita, Galatina,
Congedo); “I poeti del vino, Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il
vino: il pensiero armonico, Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica,
Galatina, Congedo); Husserl e la Krisis,
3ª in “Segni e comprensione”, Milano); Il francescanesimo tra idealità e
storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli); “Il
canto popolare salentino, in Convegno Di Studi Demologici Salentini, Copertino.
F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo
secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in, Quarant'anni dopo De
Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La iatromusica carne del
mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica musicale, in, Mito e
tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica pizzica immensa
risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro arti, materiali
del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De Giorgi, “Il
ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni e comprensione”,
Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione culturale pugliese C.
Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni popolari nei disegni di
Nino Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La czarda e il vento:
antologia di autori salentini, G. Conte, Congedo Pierpaolo De Giorgi, Poesia
sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori
contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni
di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”;
Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle
volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi
e Trilogia del molto e ben comunicare, in
Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica
pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Lecce, 5Conte, Lecce, Isola nel Trasimeno,
in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni,
Conte, Lecce, Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da
Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un
cielo di luce cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di
pittura, Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998.
Discografia Album Fantastica Pizzica (MCDiscoexpress) Pizzica e Trance
(MCDiscoexpress) Pizzica e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica
d'autore (CDDrim) 5Pizzica grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica
e RinascitaRistampa (CDC&M) Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la
taranta e il vino. Il pensiero armonico – Pierpaolo De Giorgi 4 Gennaio
2022 G.B. Il libro è stato pubblicato la prima volta nel
corso del 2010 e dopo undici anni riteniamo particolarmente ricordarlo per la
sua attualità culturale. Pierpaolo De Giorgi, peraltro, è socio della nostra
ASSOCIAZIONE APSEC e collaboratore di questa nostra rivista. “La ricerca
innovativa e serrata compiuta da Pierpaolo De Giorgi, in tanti anni di impegno
nelle acque agitate dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al
porto sicuro dello studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero
armonico. Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura
e rigore scientifico, si susseguano qui continuamente e senza soluzione di
continuità, offrendo una concezione finalmente reale del tarantismo e della sua
musica terapeutica, la pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico
e religioso del vino nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente
connesse con quelle antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo della
Magna Grecia e dei territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione
entusiastica alla vita, della reciprocità e del dialogo. Tramite
Dioniso, nella musica e nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo
recupera il contatto con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano
armoniche, duali e complementari. Per questo i simboli della taranta, della
pizzica pizzica e del vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia
perduta e che si pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un
nuovo umanesimo. Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e
del rito, e vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere
considerati come arte tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale.
Nel delineare i confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante
ma non del tutto sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di
Cassano. In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il
pensiero armonico” è il pensiero della rinascita e della misura, valori
indispensabili anche oggi per un corretto cammino della coscienza verso la
comprensione di se stessa e dell’uomo verso la propria natura divina.”
Indice IL PENSIERO ARMONICO E LA RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il pensiero
armonico Il mare, l’armonia degli opposti e la luce mediterranea Il pensiero
armonico come incontro di mythos e di logos Le radici elleniche della
tradizione pugliese Archeologia e storia. Etnomusicologia ed estetica della
tarantella La ricerca comparativa sui brindisi e le analogie con la pizzica
pizzica Il mito e il pensiero armonico del Mediterraneo nella contemporaneità
L’ambivalenza del mito e la misura armonica La misura armonica e il
cristianesimo Monoteismo e panteismo Noi e i miti del tarantismo e del
labirinto. Verso un nuovo umanesimo I BRINDISI E LA PIZZICA PIZZICA COME
SIMBOLI DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica come simboli di rinascita
in Puglia La festa e il pensiero mitico della rinascita La forza estetica di
un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica Pizzica pizzica, tarantella e
bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza mitica della pizzica pizzica e
della tarantella Le civiltà del vino e l’ambiente poetico tradizionale della
Puglia I brindisi, la tradizione popolare e il soggetto collettivo La ricerca
etnomusicologica ed estetica e i brindisi tradizionali Il ritmo armonico della
pizzica pizzica e la gestione delle contraddizioni – La cumbersazione e i
brindisi IL TEMPO CICLICO, LA RIVOLTA COLLETTIVA E IL PENSIERO ARMONICO
TRA ARTE E MITO Il tarantismo come rito di rinascita e il tempo ciclico come
attività psichica collettiva di rivolta Nietzsche, l’eterno ritorno e il
recupero del pensiero arcaico del Mediterraneo – Le analogie dello
Zarathustra con il tarantismo La vita come conoscenza: grandezza e miseria di
Nietzsche. – L’eterno ritorno dell’identico e l’eterno ritorno
dell’analogo Gli errori di De Martino e le intuizioni di Camus. La rivolta come
lotta contro il negativo e come affermazione dell’essere e della vita I
brindisi, la pizzica pizzica e il rito del tarantismo come affermazioni della
vita – La ierogamia e la rinascita I simboli della rivolta e
dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione della pizzica tarantata:
mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di Torrepaduli e la rivolta mitica I
risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa simbolica. La pizzica
pizzica come analogon della dynamis armonica universale PENSIERO ARMONICO
E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo del Sud e i fraintendimenti di
Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis dionisiaca e la
Processione dei Misteri di Taranto. – Il mare come simbolo armonico e
come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico del tarantismo e la
tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater: l’evoluzione della coscienza
La Grecia e il governo rituale degli archetipi. Pizzica pizzica e labirinto I
brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come arte tradizionale collettiva
L’arte collettiva tradizionale come arte del mito. L’umanesimo della
misura IL SIMPOSIO, I BRINDISI E
L’UMANESIMO DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e
magnogreco Il brindisi e il simposio L’ethos del vino come armonia degli
opposti La sperimentazione del divino e l’etica della misura Il pensiero
armonico, l’agape e il rischio della dismisura La sublimazione del simposio La
dismisura e la degenerazione del simposio L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA
RICERCA E DALLA COMPARAZIONE La danza, le uova e le corna come simboli
simposiali di rinascita Il gesto dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle
danze della rinascita I saperi tradizionali dell’equilibrio mensurale del
pensiero armonico: il ritmo e la benedizione La città di Brindisi, l’origine
del nome brindisi e il Bacco in Toscana La cena della spillazione Il porto di
Brindisi e le corna rituali come simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e
di Semole come benedizione Indice dei nomi Iconografìa
comparativa Lecce Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione
dalla Tradizione alla Contemporaneità Incontri culturaliINCONTRI CULTURALI
Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla
Contemporaneità Da Ernesto De Martino ad oggi la Pizzica Salentina, la Taranta
e tutto quel mondo che attorno ad essa ruota in maniera spettacolare e
folklorico, in realtà nasconde studi e tradizioni che affondano le loro radici
in un passato lontano. In una prospettiva più ampia si può dire che in Europa
c'è un luogo che da qualche tempo a questa parte ha espresso una incredibile
sequenza di suoni, stili, artisti, esperimenti e contaminazioni culturali.
Questo luogo è il Salento. La Terra del Rimorso - come la definì Ernesto de
Martino - si è trasformata nella Terra dello spettacolo delle tradizioni.
Riportando con forza la cultura popolare, l'attenzione per le radici, al centro
dell'immaginario giovanile e del consumo pop, il Salento si è rivelata una meta
a cui non si può rinunciare. A cinquanta anni dal viaggio della troupe di
Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si sono trasformati in altro,
dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il Salento è stato spettatore
della nascita delle dance hall del Sud Sound System, e dell'irruzione sulla
scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore, dall'altro all'accademia
sino poi al più grande world music festival del mondo, la Notte della Taranta.
Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli iniziatici, simbolici ed
esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e Pierpaolo De Giorgi in un
incontro dibattito senza precedenti Mail Presidente Ass. Thorah –
piscopo.grazia@libero.it Biografie relatori Pierpaolo
De Giorgi, laureato in Filosofia, è etnomusicologo, filosofo, musicista e
poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di Torrepaduli”, con i quali ha
suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando la nascita-rinascita del
genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che hanno venduto più di
centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche. Sue liriche sono
state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore Luigi Marzo, ha
pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio passando dal Salento
(Del Grifo 1991). Ha tradotto in italiano La danza delle spade e la tarantella
di Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi volumi di ricerca,
tra i quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica della tarantella
(Congedo 2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I poeti del vino
(Congedo 2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La pizzica, la taranta
e il vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La rinascita della pizzica:
testi, poesia e storia dei Tamburellisti di Torrepaduli. La via della Taranta
(Congedo 2012) che riformulano radicalmente le indagini sul tarantismo e sulla
tarantella iatromusicale. Maurizio Nocera - “Maurizio Nocera (classe
1947) … è un eccellente rappresentante di quella genia … di intellettuali
militanti, che sono sempre di meno, oggi, in giro. “Impegnato” dalla punta
delle (consumate) scarpe fino alla radice dei (pochi) capelli, infaticabile
viaggiatore, talent scout, esploratore di mondi diversi, inguaribile sognatore,
gran parlatore, insegnante, politologo, promoter culturale, contastorie,
indefesso ricercatore e divulgatore di patrie memorie, bibliofilo,
collezionista, scrittore, salentino al cento per cento eppure cittadino del
mondo, giornalista, poeta, saggista, storico, critico letterario, editore.”
(Paolo Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in
http://spigolaturesalentine.wordpress.co
m/2010/07/03/spigolautori-maurizio-nocer a/). Maurizio Nocera è segretario
provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi is not an Italian philosopher; he
is a Leccese philosopher. You have to be Leccese to be a Leccese philosopher,
and only a Leccese philosopher will NOT appropriate TARANTA – as Martino did –
misunderstanding it – The idea of Nietzsche on Bacco is all very well, but
Giorgi notes that you have to have the Leccese experience to understand all
this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords: l’implicatura di Bacco, il
ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Giorgi – fiducia nella fiducia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vernole).
Filosofo. Grice: “Giorgi discovered a
phenomenon I often overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla
Parsons, la fiducia di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi,
for various reasons; unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our
Kantian-type morality on trust, Giorgi recognises a very apt distinction
between trust and ‘meta-trust’ – fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!”
Insegna a Salento. Si laurea a Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il
Centro Studi sul Rischio a Lecce. Studia i sistemi sociali. Altre opera:
“Sociologia del diritto” Manuale di diritto del lavoro e legislazione sociale”
“Azione e imputazione” “La società”; “Diritto e legittimazione” “Mondi della
società” o, con Stefano Magnolo” “Filosofia del diritto” “Futuri passati” Fiducia
è un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità. Fiducia non è
un valore positivo dell'agire o dell'esperienza; non rappresenta una preferenza
rispetto al suo opposto, non ha valore morale di preferibilità. Fiducia e
sfiducia sono grandezze non convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare
fiducia in altri non sono qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o
migliori in assoluto. Il riscontro della loro preferibilità è la situazione, la
conferma della validità dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo
nella dimensione temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato
solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione
fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma
dell'incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il
rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo,
al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di
assorbimento dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema,
allora, è il tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione
temporale della cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè
quando è già diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in
questo spazio si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare,
mettere alla prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle
aspettative dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che
orienta l'agire e l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il
futuro nella rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo
delle risorse di una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su
una propria rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza,
renderebbe inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione
tra la complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica,
rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le
risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e
all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento
all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non
ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a
che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria
rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative
dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo
c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione
dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, Riferimenti
Bibliografici - P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione
sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, 1983;*
- A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica
del rischio Decisione razionale e azione sociale Raffaele De Giorgi
Docente di Filosofia del diritto - Università di Lecce venerdì 22 gennaio
1999 - 17,30 Centro Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali Se
si osserva il panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse
sono alla ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non
dispongono ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono
pervenute ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le
discussioni teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare
in relazione a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la
presenza di un sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento
ad una società che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i
suoi limiti, ma poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze
della società moderna e le poteva trattare solo come problemi della
distribuzione del benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date
da un atteggiamento scettico verso l’organizzazione e la razionalità (M. Weber)
o da una critica della struttura di classe della società moderna. Di queste
acquisizioni vive ancora oggi la discussione teorica. La società moderna
ha reso urgenti problemi completamente diversi: il problema dell’ecologia, il
problema delle conseguenze che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca
biologica e genetica: ma anche il problema delle conseguenze legate a
determinate politiche di investimento o quello relativo al rapporto tra uso del
denaro per fini speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni
indici degli ambiti problematici con i quali continuamente si confronta la
società contemporanea e rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di
preoccupazione, sembra essere più alta. Negli anni più recenti è sembrato
che la scienza sociale riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici:
si è elaborato così un orientamento problematico che può essere descritto
mediante concetti quali complessità, problemi del controllo e guida,
possibilità dell’azione ed altri ancora. Così la società viene descritta dalla
prospettiva dell’agire politico e quindi dalla prospettiva della
pianificazione, la quale ha davanti a sé campi di realtà altamente complessi,
in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze perverse” e producono problemi
che danno motivo a nuove forme dell’agire. Tuttavia anche questa discussione ha
raggiunto in modo incontestabile i suoi limiti, non dispone di potenziale
esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai solo l’originaria formulazione
dei problemi. All’ottimismo del progresso si è sostituita la paura del futuro,
all’ansia della pianificazione e del controllo, la rassegnazione verso le
conseguenze perverse dell’agire che, non potendo essere previste, vengono rese
oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore per considerare il presente
con disappunto e per tentare di risolvere mediante il ricorso alla morale ciò
che sembrava impossibile risolvere mediante la razionalità. Non si
può affatto prevedere che nel prossimo futuro la scienza sociale riuscirà a
colmare il deficit teorico che la caratterizza e a pervenire ad una convincente
descrizione della società moderna. E’ possibile però isolare temi speciali, che
in questa direzione sono fruttuosi e possono essere utilizzati perché le
ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio può costituire un tema
cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla discussione sui classici e
mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie sulla decisione razionale
o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la dimensione del tempo, una
dimensione centrale per la società moderna da tutte le prospettive. Esso
altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che nell’opinione pubblica
hanno acquistato un significato considerevole e che, gradualmente, diventano
dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire un contributo rilevante
alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali oggi inevitabilmente
viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener conto. 2. Stato
della ricerca. Negli ultimi vent’anni il tema rischio ha stimolato una
mole immensa di ricerche ed ha raccolto una letteratura che ormai non è più
possibile controllare. Nella letteratura meno recente il tema si è sviluppato
prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La ricerca però si è concentrata su
alcuni punti cruciali e non è pervenuta all’elaborazione di una chiara
concettualità teoretica. Da una parte è dato di trovare ricerche
sulla valutazione delle conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie; queste
ricerche presentano ramificazioni molto concrete: ad esempio la valutazione
degli effetti cancerogeni che derivano da alcuni prodotti chimici o la
valutazione delle possibilità che si verifichino eventi particolarmente
improbabili ed insieme altamente catastrofici. Questa letteratura è orientata
nel senso delle teorie della casualità o nel senso della statistica: essa ha
prodotto a sua volta altra letteratura che si occupa della posizione e del ruolo
degli esperti rispetto alla politica e che di conseguenza individua una perdita
di prestigio e di credibilità della scienza e degli esperti nelle diverse
tecnologie, qualora questi, sotto la pressione e l’urgenza delle decisioni
siano costretti a rendere manifeste le loro insicurezze o le controversie
interne alla scienza stessa. Si tratta di una letteratura e di un
insieme di ricerche che tematizzano i problemi della sicurezza rispetto a
situazioni di pericolo oggettivo, ma che non riguardano la prospettiva di chi,
nell’agire concreto, deve decidere se rischiare o non rischiare e a quali
costi. Accanto a queste ricerche è dato di trovarne altre che sono
orientate in misura crescente in senso psicologico e che indagano i modi in cui
i singoli si comportano in situazioni di rischio. Risultato di queste ricerche
è una distinzione di variabili che influenzano il comportamento, come ad
esempio l’influsso della fiducia di sé o del controllo di sé sulla
disponibilità di colui che agisce verso il rischio. Un altro
orientamento di ricerca si occupa dei deficit di razionalità e degli “errori”
statistici che è possibile individuare nel comportamento decisionale
quotidiano. La disponibilità al rischio dipende, secondo queste ricerche, non
da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il problema col quale deve
misurarsi. Questi orientamenti ai quali si sostiene la ricerca sul
rischio permettono di comprendere perché gli esperti che si occupano della
percezione e valutazione del rischio e delle strategie del suo trattamento,
siano essenzialmente studiosi di scienze naturali, di statistica, di economia
(in particolare per i settori relativi alle teorie della scelta razionale, del
calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia. Persino il tema “comunicazione sul
rischio” viene trattato da specialisti che hanno questa formazione. La
sociologia si è occupata fino ad ora prevalentemente degli aspetti limitati dei
nuovi movimenti che si formano nella società a seguito della accresciuta
percezione del rischio. La scienza politica ha manifestato scarsa attenzione
per i problemi che derivano dal fatto che le questioni legate al rischio
sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla medicina si è stabilizzata
un’etica che si occupa dei modi in cui la morale dovrebbe affrontare questioni
che sembrano sottrarsi al calcolo razionale. Nonostante la sua ampiezza,
l’attuale ricerca sul rischio non riesce a pervenire a risultati utili sia alla
descrizione dell’agire decisionale che alla determinazione di possibilità ulteriori
degli stessi ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che derivano dal
modo stesso in cui il problema del rischio viene tematizzato. Questi vincoli
sono definiti dai modelli derivati dalle teorie della decisione razionale e
dalle teorie psicologico-individualistiche. 3. Integrazione
teorica. Tanto dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei
diversi approcci scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica.
Le prestazioni innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato
attuale della ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a
rendere disponibile una concettualità teorica capace di rendere possibili
questi riferimenti. Il concetto di rischio è stato definito
essenzialmente in relazione agli ambiti della relazione razionale, per così
dire, come concetto per la elaborazione dei problemi del calcolo razionale. Da
qui derivano considerevoli difficoltà di delimitarne significato e contenuto.
Nella letteratura si scambiano e si utilizzano come equivalenti e fungibili con
il concetto di rischio formulazioni quali pericolo, danger, hazard, insicurezza
e simili. Proprio per questo, sul piano metodologico è necessario mettere in
chiaro nel contesto di quali distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e
significato proprio. La distinzione tra rischio e sicurezza sembra
inutilizzabile. Sicurezza in quanto opposta a rischio, indica solo un posto
vuoto che non può certo essere riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema
rischio-sicurezza, indica solo un concetto riflessivo: esso esibisce solo la
posizione dalla quale tutte le decisioni possono essere analizzate dal punto di
vista del loro rischio. Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la
coscienza del rischio; d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII
secolo, tematiche della sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano
insieme. Per questo sarebbe necessario provare se sia possibile
intendere il concetto di rischio utilizzando le prospettive fornite dalla
teoria attributiva. Nel generale contesto di una insicurezza rispetto al futuro
e di un danno possibile, si potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno
venga imputato ad una decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato
come conseguenza di una decisione (o da colui che decide o da altri). Il
concetto opposto sarebbe allora il concetto di pericolo, che è applicabile
quando danni possibili vengano imputati all’esterno. Una tale
concettualizzazione permetterebbe di utilizzare la problematica
dell’attribuzione che si è rivelata fruttuosa e saldamente sperimentata. La
concettualizzazione proposta dà insieme plausibilità al fatto che nella società
moderna la maggiore coscienza del rischio sia correlata all’accrescimento delle
possibilità di decisione. Riferimenti Bibliografici - Ulrich
Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M.,
1986;* - Ulrich Beck (Ed.), Politik in der Risikogesellschaft. Essays und
Analysen, Frankfurt a.M., 1991; - Vincent T. Covello, J. Mumpower, Environmental
Impact Assessment, Technology Assessment, and Risk Analysis, NATO ASI Series,
Berlin-Heidelberg, 1985; - Mary Douglas, Come percepiamo il pericolo.
Antropologia del rischio, Milano, 1992;* - Mary Douglas, Aaron Wildavsky, Risk
and Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental
Dangers, California UP, 1983;* - Adalbert Evers, Helga Nowotny (Eds), Über den
Umgang mit Unsicherheit. Die Entdeckung der Gestaltbarkeit von Gesellschaft,
Frankfurt a.M., 1987; - Anthony Giddens, The Consequences of Modernity,
Stanford UP, 1990;* - Alois Hahn, Willy H. Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le Sida:
savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la recherche en sciences sociales»,
104, pp. 81-89, 1994; - Toru Hijikata, Armin Nassehi (Eds), Riskante
Strategien. Beiträge zur Soziologie des Risikos, Opladen, 1997; - B.B. Johnson,
Vincent A. Covello (Eds), The Social and Cultural Construction of Risk,
Dordrecht, 1987; - Franz-Xaver Kaufmann, Sicherheit als soziologisches und
sozialpolitisches Problem. Eine Untersuchung zu einer Wertidee
hochdifferenzierter Gesellschaften, Stuttgart, 1970; - Roswita Königswieser,
Matthias Haller, Peter Maas, Heinz Jarmai (Eds), Risiko-Dialog, Köln, 1996; -
Georg Krücken, Risikotransformation. Die politische Regulierung
technisch-ökologischer Gefahren in der Risikogesellschaft, Opladen, 1997; -
Niklas Luhmann, Sociologia del rischio, Milano, 1996;* - Charles Perrow, Normal
Accidents. Living with High-Risk Technologies, New York, 1984; - Aaron
Wildavsky, Searching for Safety, New Brunswick-London, 1988. (*) I titoli
contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione,
per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione
Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19) Presso la sede della Biblioteca, dopo
una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la
registrazione.Grice: “Giorgi understands trustworthiness perfectly. However, he
does not seem to care to provide a moral background for it, which is okay with
me, since being trustworthy and expecting others to be trustworthy is what an
honest chap does! It’s different with PERJURY, and Giorgi has shed light on the
notion of legitimacy – an oath of trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not
just moral. It is however better to consider the moral trustworthiness as PRIOR
conceptually to the legal trustworthiness – even if conceptual priority can go
both ways. EPISTEMICALLY, to have a law that condemns perjury may be the best
way NOT to have faith in faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other
has a moral-legal bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has
to be considered historically, since if there was something the Italians are
good at is Roman law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella
fiducia, il giuridico, il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza.
Grice e
Giovanni – la civetta di Minerva – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “The Italians
love ‘divenire’ as in ‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a
princess, ain’t Mary being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write
an essay on Marx on cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian
philosopher HAS to philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni
calls what I would call a critique of conversational reason!” Ha aderito
successivamente alla Rosa nel Pugno. Simpatizzò
per la monarchia e l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli
scontri che causarono la strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la
sua partecipazione con queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché
credevo all'unita dello Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si
laurea a Napoli con la tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari. Direttore di “Il Centauro. Rivista di
filosofia". Altre saggi: “L'esperienza come oggettivazione: alle origini
della scienza”; “Il concetto di classe sociale in Cicerone”; “La borghesia
italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx dopo Marx” (cf. Luigi Speranza, “Grice dopo Grice.”
Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo di Minerva –
la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua potenza
dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” – istituzione
istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito
democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni
a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della
sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli -- Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia.
Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis, La parabola di Giovanni. Il dibattito
Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte
le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà
tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire
è eterna di EMANUELE SEVERINO Giovanni Gentile fu assassinato per- ché era la
voce più autorevole e con- vincente del fascismo. Ep- pure la sua filosofia è
la ne- gazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo.
Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del
pen- siero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto —
forse gli assassini di Gen- tile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la
cultura filosofica oggi dominante, che mai rico- noscerebbe a un italiano un
così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in
Gentile un avversario della scienza, l’attuali- smo gentiliano è l’autentica
filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planeta- rio
della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho
mostrato il fonda- mento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de
Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica,
2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfon- dimento — come
d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore.
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai
raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità
siffatta resti travolta da altri modi di pensa- re, da altri costumi, cioè si
trasformi, muoia: di- venga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose
che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno
distrutte: era innegabi- le solo provvisoriamente. Esser convinti dell’ine-
sistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti
dell’inesistenza di ogni Essere im- mutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice.
La negazione di ogni verità assoluta e innega- bile non investe dunque
l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la
convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente
innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca
dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo
mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo
politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). Ma è
appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione,
l’incolmabile contra- sto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei
miei scritti, l’affermazione cioè che la verità asso- lutamente innegabile
esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è
eterno, ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che
sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazio- ni. Che
però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra,
egli è inte-ressato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di
contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esi-
stenza umana è, da ultimo, un contrasto insana- bile tra il desiderio
dell’uomo, finito, di esser sal- vato dall’Infinito e la problematicità del
rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano
essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe
un vi- zio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una
finissima procedura in- terpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo
domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a me. Provo a
rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra sede. Ma
prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra
richia- mata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente
innegabile o una pro- posta dove non si esclude che la verità innegabile esista
da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che
anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «stori- cità» del
reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua
distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a
questo punto hanno un carattere subordi- nato. E infatti de Giovanni mi chiede
se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo»,
se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che
«l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il
domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo
muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il conte- sto in cui de Giovanni avanza queste
domande- affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a
volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno
richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai
negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo ca- davere, ma hanno sempre
negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la
morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo
andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il dolore, l’agonia, la
morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» si-
gnifica che se ne fa esperienza. Certo: si fa espe- rienza dell’orrore della
morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un an- dare
nel nulla non crede (è impossibile che cre- da) che l’uomo vada nel nulla ma,
insieme, conti- nui ad essere un «fatto» che appartiene al conte- nuto
dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima
di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati
nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva
il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi,
dunque, crede che la morte sia an nientamento crede che — pur avendo avuto espe-
rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di- ventato niente sia diventato
anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. Ma
allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è
uscito dall’espe- rienza, e quindi mostri che esso è diventato nien- te. Di
questa sorte l’esperienza non può che tace- re. Cioè l’annientamento non può
essere un «fat- to». (E se il cadavere viene bruciato e, come si di- ce,
«diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto,
esce dall’esperienza —anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che es- so,
diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad
attestarlo). Ci si convince dunque che la morte è annienta- mento non sulla
base dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o meno consistenti.
All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende
della morte dei loro simili e restano col- piti dalla loro assenza; i morti non
ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su
questa base, quando si fa avanti la rifles- sione filosofica sul nulla, si
pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimen-tarne
l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria
generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impos- sibilità di
ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò
stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostra- zione, di una
«teoria», non della constatazione di un fatto. Dunque, la sconcertante
affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eter-
no, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto
che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che
— affermando la sua capacità di atte- stare l’annientamento degli uomini e
delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono
molti, moltissimi? Non importa. An- che quando qualcuno ebbe a mostrare che è
la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano,
sconcertati. A questo punto de Giovanni deve mostrare per- ché (una volta
escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcer-
tante affermazione ho indicato nei miei scritti. At- tendo. Ma anche tutte le
altre sue domande atten- dono la mia risposta.Il tramonto del principe:
"Fin dall'inizio della sua attività Biagio de Giovanni ha accompagnato al
suo discorso teorico e politico una notevole attività di carattere
storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per certi versi questi sono tre
aspetti di una medesima ricerca che, secondo una tipica 'tradizione' italiana,
ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia, storiografia e politica. Ma
questa è una considerazione preliminare, di carattere generale. Ciò che
distingue la posizione di de Giovanni è il modo con cui ha istituito questo
intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che è riuscito a
conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una postfazione
sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di Giovanni. Giovanni.
Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire della ragione
conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia – stato -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione conversazionale”
– The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Giovenale – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Decimo Giunio
Giovenale. He was renowned for his satires in which it is possible to identify
a variety of philosophical interests, if not influences.
Grice e Giovio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola).
Filosofo italiano. Giovio was the son of Paulino di Nola. From a letter written
to him by his father, it appears that he was a keen student of philosophy.
Grice e
Giraldi – filosofia italiana – filosofia ligure -- Luigi Speranza (Ventimiglia).
Filosofo italiano. Grice: “Only a Ligurian philosopher would philosophise on
Hegel’s real logic and lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about
Giraldi is that he is from Ventimiglia and moved to Noli – the most charming
corners of Italy!” – Grice: “Giraldi calls his position ‘romatnic
essentialism;’ having born in Ventmiglia he would, wouldn’t he?”“I like
Giraldi; nobody in England would dare write “The son of Peter Pan,” but
Giraldi, otherwise known as the author of ‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio
di Pinocchio’”! Il padre di Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di
estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la scalata del successo
al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di grande saggezza e
religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia, dove Giraldi stesso
nacque e trascorse la sua infanzia. Sebbene la famiglia fosse benestante, egli
soffriva per la grande conflittualità interna, continuamente vessato dalla
sorella maggiore che non esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre
la madre non faceva parola con il padre di quanto assisteva. Racconta che in
questo periodo riusciva a trovare pace solo in chiesa. Con una bugia astuta riuscì a scappare di
casa, entrando in un collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro
collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Riuscì
a compiere studi classici a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Non
frequenta le lezioni delle materie filosofiche curricolari, ma studia per conto
proprio. Tuttavia sigue abbastanza regolarmente le lezioni di Ponzo, anche se
non era materia d'esame. Si laurea e presta servizio militare durante la
seconda guerra mondiale. Si laurea in filosofia discutendo molto animatamente
la tesi con Spirito, il quale ironizzò
sulle sue pretese di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo
dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di Consentino,
che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche
l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna
mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto
prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi
hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo
antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di
mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza
di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla.
Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di
sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi. In Etica del sentiment, ancorando il
principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento
di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del
sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia del
Sentimento, parte proprio dalla
posizione del Consentino per ripercorrere gli itinerari di una filosofia
dell'essere indiveniente e per affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici
dell'Io. In Filosofia giuridica espone la concezione di diritto naturale quale
sentimento fondamentale giuridico, condizione trascendentale di ogni diritto
positive. Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad
altri codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere
leggi e non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche
della riflessione su temi politici. L'opera Storiografia come rettorica tende
ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica,
coerentemente con la tesi di Cicerone della historia opus oratorum maxime e con
quella aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che
si differenzia da quello della necessità. In Epistemologia invoca una
"demitizzazione" anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più
accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica),
poiché tenderebbero pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche,
nonostante gli apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di
alcuni notevoli scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi
che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali
ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere dedicate alla
religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi
che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il
contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita
e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la
fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza. L'analisi della religiosità tenta perciò di
emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato
assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia
Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità
dell'anima mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del
Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di
Estetica e Linguistica generale, con alcune integrazioni filologiche presenti
in alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche
per l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi
"di ieri e di oggi". La proposta
avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione
sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le
distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di
aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo
porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto
la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita ultraterrena
o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non esistenza. Tra le numerose acquisizioni che lo
difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera la
consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero; la
ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno esplicate;
l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e concetto,
sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una purezza del
conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza
oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il mondo
odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa, particolarmente
nella negazione. Non potendosi dare una
irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare la vasta pregnanza
del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per l'esperienza e il
pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non esiste pensiero
senza pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza “ideante”
(significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili, non crede
che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa
comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità
fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una
debita attenzione per la scelta e la decisione.
Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da
quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona
volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico:
impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e
Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si
arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una
fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente e anche kantianamente
la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo sceglie per sé,
nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie
della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze radicali e speculazioni
abissali a partire da una decisione, che può essere quella dell'anima unica
immortale, o quella del pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non
esistenza di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale,
con una rivitalizzazione delle esperienze antiche. La decisione personale propende per una
concezione dell'anima unitaria, di stampo aristotelico. Se l'immortalità
naturale di tomistica memoria è da lui considerata "la più materialistica,
e più grezza", preferisce pensare ad una immortalità conseguita, oppure
chiesta a Chi può donarla e concessa a chi la chiede. Sul mondo reale fisico
resta una indecisione, ma propende verso un residuo di natura mentale, una
sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e Galluppi oltre il grande telone
dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe rapportarlo ad una mente divina,
perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe connotazioni filosofiche. Infine,
riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la scelta diviene decisione pura,
egli tende a negare la validità delle dimostrazioni, pur scorgendo in esse una
bella prova della potenza della mente umana. La conclusione non è però la non
esistenza di Dio, ma la non dimostrazione della sua esistenza. Chi ammette l'esistenza di Dio, tuttavia,
deve assumere la radicalità di tale affermazione "guardando il mondo dagli
occhi di Dio" e non facendo etsi deus non daretur. Chi prendesse la scelta
teistica dovrebbe tacersi per sempre e rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette
in risalto anche la Volontà, definendola potenza fattiva dell'Idea, e
constatandone il carattere generativo-spermatico, per collocare in una
prospettiva differente il vitalismo dell'élan vital bergsoniano e della Wille
di Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea non solo quale conoscenza
filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e di sentimento. Ad essere
eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi giunti al massime vette di
autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che vivono inconsapevoli della
propria dignità divina, folgoranti però di una autocoscienza morale. Bàrel Dal punto di vista poetico, l'opera
principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel, iniziato negli anni trenta e sorto
dall'ispirazione di un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo
finito per un poema apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura
di Lord of the World di Robert Hugh Benson e dell'Apocalisse. Il primo dei tre volumi di cui si compone il
Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu presentato a Eugenio Giovannetti de Il
Giornale d'Italia, che propose come titolo Il Dio Eroico. Gli anni seguenti,
segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono l'occasione per trasporlo in
prosa. Questa versione, appena terminata la guerra, fu proposta a vari editori
ma che per una serie di sfortunate coincidenzeMondadori non disponeva della
carta, e dopo alcuni anni, quando la carta è disponibile, cambia idea sulla
pubblicazione; la casa editrice Api di Mazzucchelli nel frattempo fallìl'idea
di pubblicazione venne temporaneamente accantonata. Nel frattempo alcuni versi
furono pubblicati frammentariamente. Il 1964 fu l'anno del riordino delle due
versioni in un unico libro che contenesse sia versi, sia prosa, in uno spiccato
pluristilismo sperimentale. La pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli
anni sessanta e gli anni settanta sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in
raccolte unitarie successive. Il tema è
insolito e il contenuto, con riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo,
non è di semplice accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un
momento simbolico dell'arte, il secondo è classico e il terzo romantico, nei
canoni dell'estetica hegeliana. Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista
Bàrel sovrappone le passioni alle idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna
in proporzioni umane e nel terzo, La morte degli dèi, scende negli abissi
vertiginosi del Pensiero, che la poesia tenta di inseguire. È stato tradotto
anche in lingua francese dalla poetessa e latinista Geneviève Immè dell'Pau. Saggi:
“Organon Philosophicum”, Ironia, morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica
del sentimento” Filosofia dell'Unicità, Gnoseologia
del sentimento, Pergamena, La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità,
Milano “Filosofia della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una
nostra riforma della Logica Hegeliana, Pergamena, La Metafisica. Pergamena, Iesous
Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli,
Pergamena Dizionario di Estetica, Pergamena Studi successivi anel periodico
Sistematica. Res Publica. Educazione civica, Pergamena Res Publica. Teoria
dell'Ineguaglianza, Pergamena Nel Pleròma. Da Dio alla Materia, Pergamena Storiografia
come rettorica. Autobiografia come filosofia, Pergamena Memoriale Ambrosiano e
Memoriale Italico, Pergamena Dio, Pergamena
Estetica della Musica, Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni
Hegeliane, Editrice, Meditazioni Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza
Moderna, Pergamena L'immortalità dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La
filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e
l'educazione del principe, Viola, Milano; ora in Paideia grande. Un mistico
bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel Morale, Saggiatore, Torino,
L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e Stato da Spedalieri a Marx,
Pergamena L'estetica italiana nella prima metà del secolo XX: figure e problemi.,
Nistri-Lischi, Pisa, Storia della pedagogia, Armando Roma "le edizioni successive alla X sono state
scempiate da interventi dell'Editoreriporta Giraldi in Sistematica). Il
pensiero politico tra Ottocento e Novecento, Pergamena, Adolfo Ferrière.
Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe Lomabardo Radice tra
poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo dell'educazione Pensatore
politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello Lambruschini. Armando
Roma, Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica francese,
Pergamena Saggi su Francesco di Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost.
Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi,
Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti,
Pergamena Storia della filosofia, Trevisini Milano L'Italia nella dittatura e
nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini,
Boncompagni, Gentile. Storia del Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Riviste
Moltissimi saggi e studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica
sono stati pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso: L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al.
Filologia Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A.
Ronda, Milano, Studi sul Rinascimento,
Pergamena Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo da
Vinci scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante Alighieri in
un poema umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il
Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara, Pergamena, G. M. A. Carrara, Armiranda.
Inedito umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M.
A. Carrara, III, De choreis Musarum,
Pergamena Testo sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista.
G. M. A. Carrara, Sermones objurgatorii, Pergamena Sui tragici greci. Da mio
diario filologico, Pergamena Filologia. Teoria e saggi, Pergamena Su Dante con
verità, Pergamena Il Manzoni, in Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia
e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio,
Torino Bàrel. I. Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena
Hendecasyllabi aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena
Il figlio di Pinocchio, Pergamena Fratelli Frilli, Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri
Intemelii, Pergamena Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus,
Pergamena Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in
Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è
a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli
scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene Musa
latina, Pergamena Il ramo d'oro, Pergamena Scritti in Italiano, Latino,
Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena
Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus,
Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono
i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamena Tevere amico,
Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano
di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, Faust mediterraneo, Pergamena
Editrice, Atlantidos persis, Pergamena Editrice, François Villon, Il
Testamento, traduzione e saggio critico Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, Amitiés
françaises, Pergamena Editrice, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente,
Pergamena Letture belle, Pergamena Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato
da una bugia, in La Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di
Storia generale della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia
di Svezia per il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un
dizionario di estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto
novelle raccolte in due volumi. Vive a Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr
Zygulski, Filosofo liberale, in Termometro Politico. Giraldi4. Pierre-Philippe
Druet, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia, Revue Philosophique de Louvain, John Dudley, Sui tragici greci. Dal mio diario
filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da "Autobiografia come
filosofia" (Milano) e pagine integrative in Sistematica, Milano,
Pergamena, Angelo Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico
del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Giancarlo Ottaviani, La scuola
del Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, G. Semerano, La favola
dell'indo-europeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed
with ‘essenza’, which is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially
nothing!” Grice: “Giraldi, who defended
Gentile, rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his
essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing
the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers
to Croce, Gentile, and the roots of
idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni
Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia
della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio
ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente,
nel pleroma: da dio alla materia, gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Girgenti – la metrica del filosofo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti).
Filosofo italiano. Grice: Ritter thinks Girgenti is related to the Velia – and
Pareto to the Crotone – so it’s amazing that Bruto never liked those three
Greeks of the Athenian embassy seeing that most pre-Platonic philosophy came
from Magna Grecia, that is, Italy! Some must have remained in the genes!” --
Grice: “I like Girgenti; obviously Mussolini didn’t!” Grice: “I love Girgenti –
he philosophised in verse, not prosa – rhyme being unexistant, it was all about
the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is none other than Love that unites
all things! And then he fell in the Etna!” “Mussolini thought it was rude of
the Girgentians to call their land ‘Girgenti,’ so he formulated a
self-referential ‘decretto’: “From now on, Girgentians shall be called
Agrigentians.’” Peano objected: “Your decree is self-contradictory or invokes a
vicious regressus ad infiniutum!” -- filosofo italiano. Siceliota. Nacque da
una famiglia antica, nobile e ricca di Girgenti.Come suo padre Metone, che ebbe
un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno Trasideo, egli partecipò
alla vita politica della città, schierandosi dalla parte dei democratici e
contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine
della tirannide, un governo chiamato dei "Mille". La tradizione gli attribuisce uno spirito severo
verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso. Tra i
suoi discepoli vi fu anche Gorgia. Successivamente Empedocle abolì anche
l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo
appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici. Anche Timeo nell'undicesimo e nel dodicesimo
libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle sembra aver
avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove
appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio immortale,
non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era
ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle
conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo
posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al
suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed
ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il
figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo
la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi
all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece
fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la
tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di
Epicarpo. La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della
natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione
delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e
storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di
Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano
e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a
proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione
le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini
banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si
prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di
sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare
le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra
avesse affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e
il controllo di vento e pioggia. I sicelioti lo veneravano come profeta e
gli attribuivano numerosi miracoli. Le numerose testimonianze che
riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di
attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le
numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio
che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide
Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi
nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno
dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto
in patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una
biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A
Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni
trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie.
A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”.
Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa
400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo
poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe
di “Sulla natura”. “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti,
e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o
vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri
ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto.
Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un
discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera
alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un
tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche,
pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda,
mutevole, dagli Quattro elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama
tali elementi "radici", non nate ed eternamente uguali e afferma che sono in tutto solo quattro,
associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni
orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la
Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:
fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione
delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa.
Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che
l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è
nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.” In questo modo, i primi principi si empiono
così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore
(Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e
il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina,
raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto
alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose
della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia,
Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere",
"avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di
"separare", "dividere" mediante la
"contesa". Così Amore
nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e
infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue
"membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo
l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente
alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto
e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate
e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in
maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla
fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate,
nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati
che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello
Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di
una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una
serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da
un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti
costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo. “È
vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da
vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un
delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento,
i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila
stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura
mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto
dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre,
la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici
dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io
sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente
Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto?
Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento.
L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se
andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno
allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a
errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la
Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono
nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente. Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si
trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici,
poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo
ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata
secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal
che, come Pitagora, anche a Empedocle ripugnano i sacrifici animali e
l'alimentazione carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni,
commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di
qui la loro esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro
affermazione che commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare
con il caldo sangue dei beati», ed Empedocle dice in qualche luogo: Non
cesserete dall'uccisione che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate
reciprocamente per la cecità della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio,
che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo
coloro che sacrificano l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo
immolato prepara l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio
prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano
le loro carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni
che è stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione
naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della
reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta
mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali
incongruenze con la versatilità di Empedocle, scienziato e profeta al tempo
stesso, medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa
delle due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano,
identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo
stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. “Dicantur ei quos physikoús
Graeci nominant eidem poetae, quoniam Empedocles physicus egregium poema
fecerit» «Siano pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici,
dal momento che il fisico Empedocle scrisse un poema egregio» (Cicerone,
De Oratore 1, 217) «padre della retorica» (Aristotele fr. 1, 9, 65) Lucrezio
(De rerum natura 727 ss.) lo prende addirittura come modello. Renan lo
definisce «uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro» Gli
viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono, fra gli
altri, Pirandello e Camilleri. Secondo le discordanti fonti sulla vita di
Empedocle la cronologia andrebbe fissata tra il 484-1 e il 424-1.Cfr. Gabriele
Giannantoni, I presocratici. Roma-Bari). Secondo Bignone (“Empedocle”, Torino)
Empedocle sarebbe vissuto tra il 492 a.C. e il 432 a.C. Anche Robin ritiene che
la sua vita sembra sia scorsa tra il primo decennio del secolo V e il 430
circa. Schiefsky ritiene che Empedocle sia nato nel 490 a.C. e morto nel 430
a.C. Platone, Parmenide, 127 B Platone,
Parmenide, 127 C. Diogene Laerzio, VIII.
51 Diogene Laerzio, VIII. 73. Timeo, ap. Diogene Laerzio, VIII. 64, comp.
65, 66. Aristotele ap. Diogene Laerzio,
VIII. 63; cfr. Timeo, ap. Diogene Laerzio, 66, 76. Diogene Laerzio, VIII, 66, 67. Mannucci, La cena di Pitagora, Carocci
editore. Satiro, ap. Diogene Laerzio, VIII. 78; Timeo, ap. Diogene Laerzio,
67. Diogene Laerzio, VIII. 60, 70,
69. Plutarco, de Curios. Princ., Adv.
Colote, Plinio, HN XXXVI. 27, e altri.
Così nella letteratura antica, come riferisce Bertrand Russel nella sua
Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo: «Grande Empedocle
che, l'anima ardente, saltò in Etna, ed è stato arrostito intero». Diogene Laerzio, VIII. 67, 69, 70, 71;
Orazio, ad Pison. 464, ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse
all'Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo
confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio.
Successivamente fu riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari fu
rilanciato in alto. Infatti, egli era solito usare calzari di bronzo.”
(Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 8.68-69). Cfr. anche Eraclide Pontico, fr.
83 Wehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? - Empedocle. Si può sapere
perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un eccesso di malinconia. No: per
orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una
scarpa e il trucco fu scoperto. (Luciano di Samosata, I dialoghi). Timeo ci
attesta esser lui finito di morte naturale. Dicono alcuni che trovandosi egli
in Messina a cagion di una festa sia ivi caduto da un carro, e rottasi la
coscia, sia morto. Credono altri che in mare naufragasse: altri che si fosse strangolato
da sé. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d'Empedocle gergentino, GERENTI –
no GIRGENTI -- ed. Lo Bianco, Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap.
Diogene Laerzio, VIII. 52, comp. 74, 73.
Wolfgang Haase, 2, Principat; 36, Philosophie, Wissenschaften, Technik
6, Philosophie (Doxographica [Forts.]), ed. Walter de Gruyter, Franco Volpi,
Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori). Jori, Empedocle in
Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti il
Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione
della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori
troppo sicuri di sé.” Cardin, Empedocle, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani,
Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1 p.213 D-K 31 B 7.
D-K 31 B 17 Kingsley, Misteri e
magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore,
In corrispondenza con le quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del
freddo (aria), dell'asciutto (terra), e dell'umido (acqua). Le quattro radici di
Empedocle risultano essere poi i quattro elementi di Aristotele e Tolomeo. Edoneo è un appellativo proprio del dio degli inferi
Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia, 913; o anche inno omerico A
Demetra. Forse si riferisce a Persefone;
per una dotta riflessione su questo nome, certamente un teonimo poco
conosciuto, si rimanda a Gallavotti in Empedocle, Poema fisico e lustrale,
Milano, Mondadori/Lorenzo Valla. Secondo Empedocle (B 62; 63) i due sessi (maschi,
non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature "di natura
integra", che si erano a loro volta evolute da forma di vita più
primitive. Un papiro di recente ritrovamento, contenente aforismi di Empedocle,
ha consentito tuttavia di integrare le due versioni, portando a ritenerle
complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno stesso
trattato o poema filosofico. In tempi più recenti, è stata avanzata l'ipotesi
che si tratti di Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella
notizia di Diogene Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla
specifica collocazione del bronzo all'interno della villa dove faceva pendant
con il bronzo raffigurante Pitagora (inv. 5607), che fu suo maestro» (Museo
archeologico Nazionale di Napoli. “Sulle
origini”. Ne conservavamo trecentocinquanta versi.”Martin ha consegnato
complessivi settantaquattro esametri dei quali venticinque coincidono con
quelli già posseduti. “Ma da ogni parte
è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che gioisce di
avvolgente solitudine.» (Empedocle, D-K 31 B 28, Poema fisico e Lustrale,
Milano, Mondadori, 1975. Tonelli, Empedocle di Agrigento. Frammenti e
testimonianze. “Origini,” “Purificazioni,” con i frammenti del papiro di
Strasburgo” (Milano: Bompiani). Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione
e commento delle Testimonianze e dei Frammenti, ristampa, Roma, L'Erma di
Bretschneider, [Torino: Bocca]. Colli, Empedocle, Pisa, La Goliardica, Traglia,
“Studi sulla lingua di Empedocle” Bari, Adriatica, Bodrero, “Il principio
dell’amore nella filosofia d’ Empedocle” Roma, G. Bretschneider, La lingua di
Empedocle, Bari, Levante, Volpi, Empedocle: i suoi misteri rivelati in una
biblioteca, 13 novembre 1996. Empedocle
di Agrigento (PDF), su Università di Milano,1.
Filosofi: Empedocle, scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è
l'unica testimonianza diretta, Strasburgo, Adnkronos, Pigliando il nostro
Empedocle a trattar le cose naturali, cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe
egli a sdegno di seguir set ta e maestro. E come egli era franco di animo, e
grande d'ingegno; così immagi nò giusta la moda de' tempi, e l' usanza de'
filosofi un sistema novello. Questo di vulgato gli acquistò tal fama, ch'emulo
ei divenne per gloria e per sapere de' fisici più famosi di sua età Democrito e
Anassa gora. I Greci di fatto accolsero con ammi razione i suoi belli poemi; e
chi vennero poi ricordarono con onore Empedocle e i pensamenti di lui. Incerta
fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina sino a noi. Man cate per
l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino, chi ha voluto conoscer ne
lo spirito, è stato costretto di rintrac 6 ciarlo presso gli storici
dell'antica filosofia. I quali non ebbero affatto cura di notare il vincolo,
con cui destramente iva quegli legando i suoi pensieri. Anzi costoro così
disparati li rapportano, che si possan te nere non altrimenti che rottami, da'
quali non si pud il disegno ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però
eglino non che han male e tortamente fatto conoscere Ja fisica d'Empedocle; ma
nè pur bene e dirittamente apprezzare la forza e la virtir della sua mente.
Giacchè l'eccellenza de' sistemi è riposta nell' union delle parti, che si
rispondon tra loro; e da questo le. game si misura l'ingegno di chi l'hanno
inventato. Empedocle inoltre scrisse in versi, e ‘abbellì le sue idee, come
fanno i poeti. Per lo che pigliando alcuni letteralmente le finzioni della sua
fantasia gli apposero o pinioni assurde e grossolane. Illusi altri dal le
immagini poetiche, che per lo più sono equivoche, travidero; e più presto ci
tra mandarono le loro illusioni, che i pensa - 7 menti del nostro filosofo.
Varie di fatto so. no le forme, sotto cui ci presentano Em pedocle gli antichi
e i moderni scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora pla tonizza
', e or favoleggia: e non ha gnari fu, non so come, anche gridato qual pre
cursore di Newton (1 ). Sicchè Empedocle, tra biasimato, lodato, e sfigurato, è
stato sempre mal conosciuto, e sempre calunniato. Volendo adunque richiamare in
luce la filosofia di lui, ho cercato e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che
per avvene. tura ci restano, e sparsi qua e là si leg gono presso diversi
scrittori. Coll ' ajuto di questi, che sono gli onorati avanzi della sua vera
fisica, son ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Per chè
tra le opinioni, che gli storici appon gono ad Empedocle, ho quelle scelto, che
ben s'adattano, e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da?
fram menti di lui, e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono
contrarie. Ho fatto in somma ciò, che suol praticara ma 8 si da chi 'voglioso
di restaurare un'antica statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,,
che tra loro s' incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà
diritto chiunque non è privo di senno, deve specialmente poter convenire ad
Empedocle. Poichè Aristotile ci atte sta: colui più che altro fisico della sua
età, aver detto delle cose, ch' eran tra loro ben legate e concordi (2 ). Ho
quin di fatto ogni sforzo per richiamare alla sua purezza e integrità la
dottrina del nostro filosofo quando da lui stesso, quando dall' autorità degli
antichi scrittori, sempre met. tendo in accordo le idee, che si traggono da
questi e da quello. Però non è da ma ravigliare, se con sì fatto accorgimento,
ab. bia liberato il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto
fatto d'ab bozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi
elementi delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro
intelletto, perchè oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i Greci,
cominciando da Talete, s' occupa ron tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si
smarrirono. Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco
formaron le cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a
Parmenide, e a Pittagora. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno
delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed
intellettuale. Parmenide spiritualizzò l'u nico elemento degli Jonici; e pose
unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dicea egli, e tutto è uno;
sicchè le mu tazioni della materia non altro eran per lui', che modi e semplici
apparenze. Pit tagora dal mondo materiale rifuggi alla Geo metria. E se bene
questa scienza non fos che un parto della nostra mente; pú re l’ehbe quegli,
non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella
Geometria leggeya i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le co se,
ch'eran materiali; e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon
gli se 8 b 10 ingegni presi da prima di maraviglia così pel filosofo di Flea,
come per quello di Samos; e corsero tutti a ' loro insegnamen ti. Ma stanchi di
poi di contemplare un mondo o metafisico, o geometrico, ritor narono
naturalmente alla materia; e nac que la filosofia corpuscolare. I primi a far
questo ritorno furono Empedocle; Anassagora; Leucippo e Demo crito. Costoro
calando dal mondo di Pit tagora alla materia materializzarono le u nità di
costui. Atomi chiamarono Leucip po e Democrito i principj delle cose (3 );
particelle simili Anassagora; ed Empedocle col nome li distinse di elementi
degli ele menti (4). Ma in verità i loro principi altro non erano, che le unità
di Pittago ra fatte materiali, espresse e indicate con vocaboli diversi.
Democrito lasciò a suoi atomi l'indi visibilità, di cui le unità di Pittagora
eran fornite nello stato suo intellettuale. Questa stessa indivisibilità
secondo alcuni, negd al le parti simili Anassagora. Differente dall' uno e
dall'altro fu per Aristotile l'opinio. ne d’Empedocle (5 ). Costui cercò nella
materia le sue unità, e dividendo e sud dividendo i corpi giunse a quelle
moleco le, che più non si potean dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli
colla ra gione, e proseguendo la division delle mo. lecole col suo pensiero,
s'accorse potersi queste sempre pit di nuovo dividere. Ven ne però affermando
che i suoi elementi de gli elementi eran divisibili; ma solo colla mente non
gia col fatto. Distinse, così di cendo, le unità di Pittagora dalle sue,
ch'eran materiali; e provvida in bel mo do alla durata della natura '. Perchè
essen do i principi delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione,
quelle deb bono sempre durare come al presente sono: Tennero tutti tre que'
fisici non che per cosa assurda, ma impossibile, la crea: zione dal nulla. Ne
venne loro in mente, come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda
d'ogni qualità. Chiama vano essi la materia senza forma, e senza 3 b 2 12
qualità ciò che non è (6): Ciò ch'è, dicea Empedocle, è impossibile venire da
quello, che non è (7 ). Ma diverse furon le quali tà, ch ' attribuiron costoro
alle loro unità secondo che diversamente riguardò ciascun di essi i corpi e la
natura. Anagsagora ebbe le sue particelle non altrimenti che briccioli
minutissimi, ma simili in propieta a corpi, ch'eran destinati a formare. E come
varj sono i corpi e differenti le lor propietà; così yarie e differenti pose in
corrispondenza le qualità delle sue particelle. Per lo che tras portò egli le
qualità delle masse a' fram menti di esse, e,e ristandosi alle apparenze ricayò,
come suol dirsi, da grande in pic colo. Gli atomi per Democrito erano al
contrario tutti della stessa natura; e solo differiyan tra loro per sito,
ordine, e fi gura. Idea, che ben si conviene alla sem plicità della natura; la
quale con pochi mezzi suol produrre fenomeni, che sono pressochè infiniti,
attesa la lor varietà, la lor moltitudine. Empedocle, ciò non o stante, rigettò
il pensier di Democrito; e 13 or 1 volendo spiegare la varietà materiale, de?
corpi, piglio, com ' egli dovea, e genno consiglio dall'esperienza.. Gli Jonici
addensando o rarefacendo acqua, or l'aria, or l'aria insieme e ' l fuoco,
diedero forma e qualità a ' cor pi dell'universo. Da questi e dal loro me: todo
si dilungo il nostro fisico. Studiava egli i corpi, e separandone le particelle
cer cava prima, e raccoglieva poi i loro com. ponenti. Però in luogo di fingere,
ritro vava ne' corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio componea alla
maniera degli Jo nici, na li analizzava come fanno i chi. niici. Le sue esperienze,
furono egli è ve. ro, incerte e imperfette, come si leggono ne' versi di lui.
Perchè dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche ri. cerche,
mancava d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora metafisica e
bambina. Ma ciò non pertanto que' pri mi e rozzi saggi del nostro Empedocle so
no da stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e
sperimen. 14 tale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a
giudizio d' Aristotile ', la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e ' l primo
stabilì la dottrina de' quattro ele menti (8 ). Quattro, dicea egli, son le
radici di ogni cosa: Giove, Giunone, Plu tone e, Nesti, figurando, sotto questi
sim, boli il fuoco, la terra, l ' aria,, ee l'acqua '. Per lo che nella sua
fisica le unità mate riali eran le parti, che diconsi integranti de quattro
elementi; e questi le costituen ti di tutti i corpi, che si trovano in na tura,
Sebbene il fisico di Gergenti avesse di stinto l' aria, l'acqua e la terra per
le diverse lor qualità '; pure in riguardo al fuoco l'ebbe e' tutte tre, come
se state fossero d' unica e medesima natura. Le particelle dell'aria e
dell'acqua tendono, secondo lui ', a condensarsi, come fa la terra. E al
contrario credea Empedocle es sere propietà del fuoco d'assottigliare, se
parare, e levare ogni solidezza alle parti celle dell' aria e dell' acqua. Di
fatto fu C 1 15 sua opinione che la luna si condensò a ca gione del fuoco, che
da essa si partì, non altrimenti che avviene nell'acqua, quando si riduce in
gelo (9 ). E se il fuoco indu. ra i corpi umidi, e vetrifica talvolta i so lidi,
ciò accade per Empedocle, perchè scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel li
dimoranti (10 ). Gli elementi dunque aria e acqua sarebbero stati solidi, se la
forza dissolvente del calore portato non l' avesse alla liquidità, che lor si
conviene Non conobbe, egli è vero, così pensando, qualunque corpo per via del
fuoco poter pigliare, passare, ritornare allo stato soli do, o liquido, o
aerifornie; ma giunse a comprendere l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro
fluidità. Questa verità, che in tempi più felici avrebbe potuto gene rarne
tant' altre, fu allor qual baleno in notte huja, che illumina in un attimo, poi
l' oscurità lascia più grande. Tal veri ta o affatto non fu avvertita, o punto
non fu ben compresa da’ filosofi d' allora. Ari stotile si lagna d’Empedocle,
come di chi e 16 avesse usato de quattro elementi, non al trimenti che fossero
stati due; contando quegli per uno i tre, che questi avea real. mente diviso
aria, terra, é acqua (11 ). Anzi chi furon dopo (quasi Empedocle non già
quattro, nia un solo elemento avesse stabilito nella sua filosofia ) si diedero
fal samente a credere il fuoco essere stato te nuto dal nostro fisico per lo
principio, da cui ogni cosa veniva, e in cui ogni cosa doveasi risolvere (12 ).
Ma comunque ciò, sia, egli è certo, da che. Empedocle manifestò quattro po ter
essere gli elementi delle cose, tutti abbracciarono la sua opinione. Di
leggieri ciascun' s'avvide l'aria, l'acqua, la terra il fuoco aver gran parte
nella composizio ne de' corpi, e ne' cangiamenti più notabi li, che avvengono
nel nostro globo e nel la nostra atmosfera '. Di fatto non più a capriccio come
prima si solea, s' accrebbe o diminui il numero degli elementi, e tol ta
ogn'instabilità tra le scuole, comune fu, e ferma rimase la sentenza de'
quattro ele 17 Conta area la dem fial menti. Sicchè su questa dottrina, qual
ferma base, venendo assai dopo a posare la moderna fisica; questa Empedocle
ricono scere deve', e lui onorare qual suo capo e fondatore. Hanno le scienze,
come ogni cosa umana i lor giri, e le loro vicende, che si distinguono da'
metodi, dalle opi. nioni, dalle verità, ed eziandio dagli er rori che son
dominanti. La fisica nella sua infanzia nise tra gli elementi l' aria, l' acqua,
il fuoco, la terra. Questi, non ha guari, ha gia scomposto la chimica. Altri ne
sostituiranno i nostri posteri, ch' al presente non si conoscon da noi. Ma
niuno negherà la debita lode al nostro fi losofo, che fondo il primo periodo
della fisica colla dottrina de' quattro elementi, e regoló i primi debolissimi
passi dello spiri to umano nello studio non che vasto ma difficile delle cose
naturali. - Più alto senno, e più forza d'in, gogno mostrò Empedocle, quando si
mise a cercar le forze, che mettono in movie mento la materia e gli elementi.
Si fatta 2, D i leta plaža matukio ered ܐܐ F
Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era sta. ta sin allora
impresa d'alcuno. Anassago ra, attese le sue particelle prive di moto e di vita,
non sapendo altro che specola re, ricorse a Dio; e colla forza onnipoten te di
lui agitò e sospinse le sue parti si mili, o loro impresse quel moto, che que.
ste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover la macchina, in
luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però Aristotilo contro
lui si sde gna, e giustamente il rampogna (13 ). Ba sto a Democrito di fornire
il moto a' suoi atomi, nè curò di saper come e d'onde quello venisse. Al più
facilitò il movimen to immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse
potuto agevolmente dime narsi; e particolarmente attribuendo agli atomi del
fuoco la figura sferica, come quella, che avesse questi potuto render atti a
scorrere e sdrucciolare. Ma Empe docle fu il primo al dir d' Aristotile, che
con molto senno in natura conobbe due come cagioni del moto degli ele St &
© S forze C 19 menti (14). Una di quelle chiamò amo. re, amicizia, concordia, o
l'altra come contraria o lio, inimicizia, lite. L'amore d'Empedocle non è quel
del la favola, di Parmenide, d' Esiodo, o d ' altri fabbri di cosmogonia. Era
forse per costoro un principio attivo che vivificava 1 universo. Ma questa era
un'idea, vaga, generale, e nulla utile alla fisica. Non è così l'amicizia
d'Empedocle. La quale è una forza, fornita di particolari propietà, e tanto
intriseca alla materia, quanto si stima da noi la sua gravità. In virtù di sì
fatto amore le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi
forma no a mano a mano le masse. Masse che vie più van sempre crescendo; perchè
la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una all'altra infallibilmente s'
unisce. Aria, diceva Einpedocle, si aggiunge ud aria, etere a etere, fuoco a
fuoco in mo do che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte del pari dall '
amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra lo C 2 E ro, e
compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la ma teria
si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza diverrebbe l'
universo unica męssa, unica sfera (15 ). Perchè è propietà peculiare dell '
amicizia di ridurre le cose, che son più, a una so la. La forza quindi per
Empedocle simbo leggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella
stessa, che oggi da' Chimici si chiama affinità. L'odio, non altrimenti che
l'amore, è parimente intriseco agli elementi de' cor pi, ma le qualità d'uno
son del tutto op poste a quelle dell'altro. Tende l'inimis cizia a disunir le
particelle congiunte; scio gliendo le masse, e scomponendo gli ag gregati. E'
singolar propietà di quella ri durre l ' uno in più: tal che se l'universo
fosse una sola massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe
tutto quan: to sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia,
lite per Empedocle son e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva.
Di fatto chiamava egli anche il fuoco inimicizia; perchè questa come quel lo
distrugge e separa ogni cosa (16 ). Dą ambidue queste forze tra loro op poste,
d'ailinità una, e dissolvente l' al tra, significate dall' amore e dall'odio,
il nostro Empedocle ne ricava il moto ne' cor pi. L'amicizia sollecita gli
elementi all' u nione tra lor l' avvicina, e nell' avvicinarli tra loro
parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le molecole unite, so
spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le muove. Forze adunque
so no l'amore, e l'odio del nostro fisico; co me quelle che avvicinando o
respingendo gli elementi cagionano lor movimento. Fors ze ch'egualmente son
chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono e scompongono i
corpi in natura. Ma co me furono esse adombrate sotto le forme morali d'amore e
odio, di lite e concora dia; sono state mal comprese e capriccio samente
interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze la divinità e la materia (17):
22 altri: l'ordine e'l disordine; il bene e ' l male (13 ): chi la luce e le
tenebre; chi l' Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose simili (19).
Tanto egli è vero, che il suo linguaggio, come poetico, ha recato ingiu ria a'
suoi pensamenti e alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il no
stro fisico, han que signorie; ma alternan ti e separate tra loro. Comincia
l'impero dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria
dell' inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una
sifatta vicenda non ha mai fi ne; così costante si mantiene il movimen to in
natura, e gli elementi in eterno s' uniscono e separano. Esprime egli tal con
tin: io e scambievole impero dell'odio e dell' aniore coll'immagine, e
somiglianza d'un cerchio, che si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti,
che all'infinito si posso no rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria,
che son propie della poetica, si potrebbe il pensiero d'Empedocle raſfigura re
nella vicenda delle forze, mercè la qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei
ell'aur Onn '. le i pianeti si'movono. In questi or preva le la forza
centripeta e viene a farsi mag. gior la centrifuga; or prevale la centrifu ga,
e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè alternativamente prevalendo le
due forze centrali, i pianeti s' accostano e dis costano dal sole, e
costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche. Tale dellº amicizia, e
inimicizia d'Empedocle. Come gli elementi s' uniscono; comincia a preva ler l'
inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gli elementi dividonsi;
principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo che
ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gli estremi dell'odio
occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge
Empedocle fa e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o
il füto, o la necessi tà, o l'antico giuramento degli Dei. Ma il fato del
nostro filosofo non è quello de. gli Stoici, o degli Eleatici. Egli null’ al
tro indica colla parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care
PA umpert 2. la que 24 tima natura di
quelle due forze. Siccome eterna ei reputava la materia, ed eterne le forze, da
cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e ne
cessariamente operare. Gli elementi secon do lui o son separati, e ſrettolosa
corre l ' amicizia a unirli; o sono uniti, e impa ziente va l'inimicizia a
separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l ' altra di congiun gere le cose
separate, o segregar le con giunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non
sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria
l'e terna vicenda delle due forze, come invin cibile si stima il decreto del
fato e della necessità. Il fato adunque nel dizionaria del nostro filosofo
altro non significa, che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due
forze senza più. Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse
introdotto nela la fisica il fato é la necessità (20 ). Posti questi principj
va Empedocle squa dernando il suo sistema, qual poeta, qua si collocato su d'un
eminenza, di la con 25 ta; ON ie. Sasa templando la natura dichiara agli uomini
le sublimi lezioni di sua filosofia. Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda
nell'us niverso; perchè la quantità della materia nè cresce nè manca. Tutto
nasce, tutto muore, tutto in altra forma trasformato ri sorge, L'accozzamento
di parti, che son disgiunte, n'è la nascita; e la separazion di quelle, che
sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi null altro è, che ” se parazione
e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e l'odio sempre fa e disfà, strugge
e compone. Mancherà il presente ordine di cose, sorgerà subito un altro. Questo
distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa si verrà a formare. Così senz' alcuna
fer posa uno in un altro ordine successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè
per que: sti continui giri si cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione,
o simmetria. La materia non è stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata
sempre qual sempre sarà: cioè amore e odio, separazione e union d' elementi.
Cosi parlava Empedocle nel suo d ali 200 € c). och eta, Jade 26 poema sulla
natura, o per dir meglio cosi egli smentì anzi tempo chi dopo lui dovean
supporre aver lui voluto il caos immagina to sol da' poeti (21 ). Lo stato di
confu sione e di caos pel nostro fisico, o non è stato, nè sarà mai, o sempre
egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta, e sempre sarà:
miscuglio e separazio ne: amicizia e inimicizia: nascita e morte. Passando
Empedocle d'una in un ' al tra idea strettamente legava i suoi pensie ri.
Siccome la materia è tutta divisa ne' quattro elementi; così i corpi per lui
eran composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra
lor son tutti diversi; quindi andava ricercando in che, e.come si differisser
tra loro. Tal difie renza ei rinvenne con gran perspicacia nella njaniera
diversa, con cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè
la terra, nè ' l fuoco che distingue le co se; ma la misurata lor mescolanza;
in bre. ve, la proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti.
Rappresentando da € st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche,
dicea: i dipintori mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van
figurando uomini, pian te, fabbriche, uccelli, e anche gli stessi Dei. Non
altrimenti fa la natura. Ha el la, come quattro colori, che sono i quat tro
elementi, e va coll ' accozzare un poco di questo, di quello, e quell' altro
forman do uomini, piante, animali, donne leg giadre, e chiarissimi Dei. Tutto
lo studio d'Empedocle era quel di scomporre i corpi, e scomponendoli cercava la
ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti. Per chè era persuaso, che
la loro varietà veni va, ed era tutta riposta nella varia pro porzion degli
elementi. Aristotile che am mira un sì bel pensamento da ad Empedo cle il vanto
d'aver lui il primo conosciuto una tal verità (22 ). Non si può quindi negare
il metodo d’Empedocle, come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chi
mico; chimiche esser le forze amore e os dio, che inprimean moto alla materia;
e chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.;
Det ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion
delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora
essere a chiunque manifesto Empedocle il primo aver delineato il siste. ma
dinamico, che oggidi leva tanto rumo re in Alemagna. Pone questo sistema al
cune sostanze semplici e primitive, che col le loro diverse combinazioni
producono la varietà de'corpi. Questo stesso fece Empe docle ammettendo i primi
elementi, e com binandoli in varia e differente lor propor zione, Forze
attrattive e repulsive vogliono i Dinamici; ed Empedocle immaginò affini tà e
forza dissolvente, o sia odio e amo re. Che se quegli a spiegare gli stati e i
volumi de' corpi si fondano sul contrasto e rapporto, in cui si tiene la forza
attratti va colla repulsiva; anche Empedocle dicea, che l'inimicizia sta
appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia nel tem po
opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra Dinamici e
il nostro fisico. Gli uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre nella
stessa orbita, e torneranno sem pre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni qual
volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con
osservazio. ni, e co' fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro
spirito, limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I
metafisici di fatto sogliono ricondurre sem. pre in iscena più o meno vaghe,
più o meno adornate le opinioni medesime. Gli antichi vollero rappresentar
l'essenza de' corpi. Però Democrito immagind il sistema atomistico; Empedocle
il dinamico. Oggi, che alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è
risalito in alto il sistema di Democrito, e quel d'Empedocle in Aloma gna.
Dobbiamo persuaderci una volta che le scienze s' accrescono non già colle
nostre opinioni, che sono semplici fantasmi della nostra mente, ma coll'
esservare, ed espri mere co' nostri pensieri i fatti e le consue. tudini della
natura. Questo metodo per avventura non era ignoto in quella stagione in
Gergenti. An 30 [ a crone l'amico d'Empiedocle, poste giù le ipotesi, fondava
la medicina sull'esperien za, e fu capo della setta empirica. Il no stro fisico
cercava e stabiliva la varietà de' corpi cercando e stabilendo la proporzion
de' lor componenti. Ma i tempi imprimono nel nostro spirito la lor forma, il
lor caratte re, le loro opinioni; operando su noi non altrimenti dell' aria la
qual si respira. Non è quindi da maravigliare se Empedo cle s'occupò, come
allor si facea, su i principi delle cose, e sulla generazion dell' universo. Il
romanzo della nascita del mondo era in que' tempi un'introduzione, che si
stimava necessaria alla fisica. Niuno affat to potea meritare il titolo di
sapiente, se non prima avesse ordito la sua cosmogonia. Quindi i filosofi
cominciavano allora i lor poemi dalla creazione del mondo; molto più, che a ciò
fare non dovean perdere gran tempo, nè durar molta fatica. Le loro cosmogonie
erano un lavoro più di fan tasia, che di ragione. Si fatti lavori me 31. glio
che cosmogonie potevan chiamarsi ro manzi, in cui i paragoni tenendo luogo di
raziocini affermiare è lo stesso che dimostra re; e le capricciose finzioni si
scambiano come opere della natura. Empedocle dun que al par degli altri intese
alla formazion dell' universo; svolgendo e dichiarando l' impero della sua
inventata amicizia. Diede prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla
terra. Da questa trasse l'acqua, l'a ria, l'atmosfera; indi le piante, gli
uomi, ni, e gli animali (23 ). Pose più diligen za e più tempo a formar dalla
terra; ma per opera dell'amore il genere umano. Rimescolando gli uomini colle
piante, e co gli animali, tenne costoro come unica ma teria, in cui tutti si
fossero contenuti qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato
la irma, leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a po co a poco
ideò egli essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di
noto e di vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di
poi 32 furon distinti i maschi dalle femmine. Nel. la quarta s' ebbero degli
uomini, che na. scono gli uni dagli altri; perché, distinto il sesso, si mosse
il carnale appetito (24). Le piante secondo lui fitte restarono in ter ra per
trarne l'alimento; e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro
con veniente alla loro natura (25 ). Queste co se sconce, incredibili, e
simiglianti sognò il nostro fisico, che dovrebbero passarsi sot to silenzio, se
non giovasse d'accennarle per dare șin' utile lezione allo spirito uma no. Il
quale ardito, com ' egli è, malgrado gli assai folgoranti brillantissimi lumi
non che della religione, ma della moderna de parata filosofia, a dì nostri va
sempre fi sicando geogonie e cosmogonie. Darwin di fatto adottò gli errori del
nostro Empedocle, e certamente da lui ebbe a trarre l'idea della successiva
perfezione, e a grado a grado del regno animale. L'uno e l'altro fece nascere i
vegetabili prima degli anima li nel tempo e nello stato, che le cose e rano
imperfette. Entrambi del pari segna 33 # rono gli animali essersi a poco a poco
svie luppati, e aver tratto tratto acquistato quel. la perfezione, di cui
oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal principio i ses si fossero
stati confusi si negli animali che negli uomini. Ambidue affermano che l '
universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè separati i sessi nacquero
gli ani mali gli uni dagli altri. Darwin in somma dice unica essere stata la
specie dei fila menti', che diede origine a tutti i corpi, che sono organizzati
(26). E parimente fu opinione d'Empedocle, che unica fu la pasta, da cui
vennero vegetabili, animac li, uomini, e Dei (27). Tanto egli è ve ro, che i
nostri pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s ' arrogano le
speculazioni degli antichi. Nella cosmogonia d'Empedocle sicco me a chiunque è
maniſesto, non intervie ne, ne opera alcuna cosa la Divinità. Ma così pensando,
intendea egli di recarle 0 nore più presto che ingiuria. Avendo egli ' la
materia, come allor si pensava, per co 34 I sa vilissima, temeva che la
sapienza si fos se bruttata, se avessé preso a ordinare co se, che son del
tutto materiali. Per lo che a intendere la formazione dell'universo, lasciata
la mente divina, invocò il caso, e commise gli elementi in poter della for:
tuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi er rori s' imbatte chi stoltamente,
e senza una precedente saggia e matura riflessio ne, vuol togliere il supremo
artefice dal la fabbrica del mondo. Il caso, fantasti cano essi, siccome
racchiude in se tutte le combinazioni possibili ad avvenire; così tra le molte,
e assai e infinite, che son mo struose, quelle poche ancora contiene, che son
regolari. Infinite, dicea Empedocle, sono state le forme, che ha preso teria ',
e senza numero le combinazioni de. gli elementi. Ma queste si son succedute
senz' alcuna. posa sin dall'eternità, e forse non han potuto durare perchè
prive so no state di regola e simmetria. Dopo tan. te é tante strane vicende,
gli elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la ma 35 quell'ordine,
che il mondo ritiene, e da tutti con ragione, s ' ammira. Dal caso a dunque
Empedocle formò l'universo. Al caso attribui egli quel, che privativamente è
sol propio della sapienza, e dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un
acci dente sogna egli essersi condotto il presen te ordine, ma dopo lungo,
vario, e suc cessivo disordine. Queste idee và Empedocle adornandh colla sua
fantasia vivace, e poetica. Figir ra egli mani, piedi, gambe, busti, oc chi,
braccia, spalle, teste di animali, di uomini, che tra lor misti é confusi si
por tan qua e là únendosi- senza regola, e sen za misura. Ora egli vede petti
senza spalı le; teste senza cervici; e fronti prive d' occhi. Or egli osserva
piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å gambe, di ta a fronti, e altre
irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori in volto u e uomini colla
testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta della pecora ', e in questa
quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i pedocle in somma finge, trasfornia, è
com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una volta furono, e di
quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor di natura dispone
egli ca guialmente quelle membra nelle proporzio ni, e misure che al presente
veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta varietà di
mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte mac chine degli uomini e
degli animali? In tal modo si sforzava il nostro fisico di render credibile ciò
ch'è falsissimo; facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e più
chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non cape
ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine, sapienza, e
nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna parte d'un
essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un sistema
tutti gli esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi armo 37
c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multi plici de corpi celesti son
regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e de rivano da unica
propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e questa
suppone disegno e architetto; chi contemplando la fabbrica dell'universo, ch '
è un grande e maraviglioso sistema in cia. e in tutte le sue parti, potrà non
ammirar la mente di chi seppe non che idearlo, má farlo? Se il mondo è così per
fetto, qual dovrebbe essere, se fosse l'o pera d'un supremo fattore; se
l'universo non mostra in ciascuna sua parte, avvegna chè minima, alcun segno o
piccolo o lon. tano di casualità; chi senza empietà o stol. tezza, potrà
riconoscerlo per opera del ca. so e non della mente d'un Dio? Ma senza più
travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo; l'esistenza d'un som. mo fattore,
oltre all'essere scritta nell' ani. mo nostro, si.legge ne' cieli, e a noi per
viene da ogn'angolo della terra. Da che Anassagora disse agli uomini la mente
di l 38 SO vina con singolar magistero è giusta leggi invariabili, áver
ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse. Il popolo d'Atene alzò
allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri, e onorò quel filosofo
del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha vinto in cið, e vincerà
sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il volgo non lo rigetta
con orrore le cavillazioni degli atei, che tentano invano negar l'esistenza
d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le speculazioni di que'
sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità alla classe appartiene,
attesa la somma evi denza, di quelle che sdegnan le pruove, e che si possono
guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili raziocinj d'una filosofia
illuminata. Empedocle e Democrito sebbene fossero stati superati da Anassagora,
perchè non già una mente divina, ma il caso avesser posto, come autor
dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi, o bel 39 osta k..
** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté Democrito per sua
particolar virtù concepi re egli il primo un sistema meccanico del mondo,
fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del niovimento. Valse Empedo.
cle per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un sistema chimico
dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato da forze, e
sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor l'esperienza,
che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se chi do po lor
filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto mettersi dietro
la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici d'Empedocle e i meccanici
di Demo: crito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e
anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a '
nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro
tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si
scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17
bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura.
S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica
avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è
sempre da confessarsi Empedocle e De. mocrito aver gettato i primi semi di que'
vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni
d’Empedocle sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere,
almeno non sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen
dono tra gli abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn'
altro riluce, che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non
gliel' avessero contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose
si rivol ge, che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono
altrettanti assurdi. Empedocle il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da
Empedocle astronomo. Tal differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte,
41 non m'inganno, nasce da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da'
frammenti de' poemi di lui; là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon
quasi tutte dagli Storici degli antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi
si può sospettare, che i suoi pensieri non sono strani e deformi, quan do egli
stesso l'annunzia; e al contrario pajono sconci ee mostruosi,, allorchè altri
parlano in vece di lui. E ' maggiore tal congettura, qualor si considera que
com pilatori essere stati grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro
affastellano in confu 90 le opinioni de ' filosofi, e o abbreviando le mozzano,
o interpolando le allungano, o pure in qualunque altra manieria, senz' alcuno
intendimento, ogni cosa deformando's le alterano. Non è quindi duro a com
prendersi, gli storici del nostro filosofo, tra per l'imperizia delle cose del
cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran tutte fi gurate e poetiche, averne
contraffatto la sua astronomia. Non si negan con ciò gli errori, in cui egli
per avventura avesse po f 42. tuto cadere. So benissimo l' astronomia dei Greci,
sfornita.com'era in que' tempi d ' osservazioni, ridursi, tolto il nascere o
trae montar d' alcune stelle, a una raccolta d' antiche tradizioni, o di
opinioni bizzarre. Si conviene pure Empedocle aver potuto di: re il movimento
del Sole essere stato da prima più lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si
concede altresi aver lui potuto opi nare l'asse della terra aver pigliato una
po sizione all' Eclittica inclinata, che prima non avea: (usanza de' cosmogoni
acconciare a lor talento le parti dell'universo, e condur le allo stato, in cui
ne' suoi tempi si trora no ). Ma non si può affatto credere, Empe docle aver
tenuto i tropici quasi due mura glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto
a torcere il suo cammino; e aver segnato și fatti circoli non altrimenti che
due confi. ni, che impediscono il Sole camminando verso i poli d'oltrepassare
il suo termine. Chiamò egli que circoli con linguaggio fi. gurato i confini del
Sole; perchè a quel li il Sole giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga.
In breve intese egli indica re l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio
in cui il Sole fornisce l'anquo ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com
putava allora da’ solstizj, i quali dall'om bre osservar comodamente si possono
coll? ajuto dell'ago. Con tali e simili sconcezze si è guastata l ' astronomia
d’Empedocle; Però se tra per difetto di memorie di lui, e per ignoranza degli
storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò ch' Empedocle penso sul. le cose del
cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli non disse, e a torto a lui
appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la terra fosse stata
un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità. Provvidero e glino
alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla sola fantasia a
modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte, le cui barbe
vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello spazio.
Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo f 2 44 co vertice
di forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A
mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra,
che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel
verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea
contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno
di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro
chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere
umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli
altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo
crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte,
le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro
filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid
contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45
tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della
ter ra (28 ). Chi, dicea Empedocle, tali co se divulgano, o poco veggono, o
nulla san. no dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i
sentimenti d' Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco
bruciasse nel centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come
sco rie, che la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon
terma li, quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore
dal quel mede simo fuoco (29 ). Empedocle in somma im maginò sin d'allora
l'ipotesi del fuoco cen. brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa
ha richiamato alla luce. Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal
vortice che occupava tutta la sfera, era stata condotta nel centro di ques sta.
Ma non sapeano essi comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li
brata si stesse nel punto di mezzo. Timi 1 46 di quindi i filosofi al par del
volgo, ne dilatavan la base, e tormentando i loro ingegni si sforzavan di
sostenerla colle ipo: tesi. Talete avvisò la terra restar sospesa nell'aria,
non altrimenti che un galleggian te sull'acqua, Democrito e Anassagora ne
fecero la base non che larga, ma conca va; aifinchè l' aria quivi sotto
racchiusa la potesse sostentar con sodezza. Parmenide credette sostenerla col
principio della ra gion sufficiente. La terra a suo pensare stava nel centro,
perchè non avea ragio ne, che la portasse per questo più tosto, che per quel
verso, Ma il nostro fisico si dilung) da co storo, e con altri principj prese a
spiegar sie la stabilita. L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla
terra per l'im peto del giro, che questa facea (30 ). Pe. rò la terra nel suo
sistema rotaya. Rota va del pari secondo lui il cielo; è altra differenza non
pose nella rotazion dell' una e dell' altro, che nella velocità, Minore la
yolea nella terra, che stava nel centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star
galo raal Po maggiore nel cielo, che in giri smisurati si volgea. Da cid
appunto egli ne trasse e perchè quella stesse in aria sen za cadere. Se girate,
egli dicea, con pre stezza una secchia; l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi
si tenga capovolta (31 ). Tal è nella sfera i La conversion celerissi ma del
cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al moto dunque del cielo egli in
catenava la posizion della terra nel cen. tro, il suo rotare, e lo starne, Si
sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par degli altri; perchè allor
s'ignorava la gravità della terra esser diretta al suo cen. tro. Ma il suo
metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare ne' fatti la ragione di
quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della secchia, che pre stamente
si volge, han preso argomento chi son portati per l'antichità, aver co nosciuto
il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a pensar giusto, ignorandosi allos
ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver potea l'idea vera e matematica di
quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48 d he Te la forza. Egli è vero
essersi saputo in que' tempi, e da Empedocle essersi ben dimo strato la
velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era fatto, non
forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani Empedocle e gli antichi di
cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante opinione, i corpi
a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi, fuggir dal centro
se leggieri (32 ). Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion della forza
centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion della terra.
Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in ve rità
della nostra Sicilia · Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa; ma
sin da tempi antichissimi Empedocle l' insegno nella nostra Gergenti. Avea il
nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della stessa natura.
Opinava egli quello e queste esser di fuo co (33 ). Ma non perciò è da credere,
ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1 fuoco terrestré.
Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per altro è ignota
anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava nella sua sfera
le sottili sue particelle (34). Queste ei credea, che dal Sole si moveano, e
pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea, va prima
nel mez zo, e poi perviene sino a noi (35 ). An ticipava così la scoperta
bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Gio ve doveano in
tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e
senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo
de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che
coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità.
L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne Empedocle', e cui oggi s'
acco stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri
d ' alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor مه 50: contrastata.
L'ipotesi che il Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e
ha fatto oggi credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do
sì gradatamente impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino
a spe. gnersi. Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la
perdita della luce solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi
sforzandosi d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la
massa solare con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel
suo giro sono vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a
risarcire la perdita diurna delle particel. le solari. Ma Empedocle in un modo,
che se non sarà forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s'
industrið provedero alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole
son poi riflessi dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion
concentrandosi, ritornano al Sole (36). 51 Però questi per riflessione acquista
quel, che per enuission perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo
splendore del Sole. Empedocle quindi potė ben dire la luce essere al presente
una riflessione di quella che fu una volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori
dell'antica filosofia non capirono i sensi del nostro filosofo. Credette ro
essi due essere i Soli d'Empedocle, uno invisibile, visibile l' altro, che
collocati in due opposti emisferi si guardavan tra lo ro. La terra, eglino
dissero, riflette al se condo i raggi invisibili lanciati dal primo; e quello
poi in forma di luce li rimanda alla terra (37). Ecco con quali sconcez ze
quegli storici guastarono i divisamenti del nostro filosofo sull' emission
della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà, che s'oppose a Empedocle ne'
suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce. Siccome nel tempo che la
luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio astretto a seguire la direzion
della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu, e poi non g 52 è più.
Empedocle a rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce,
o in qualche sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il
Sole, ei di cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque
nel rotare s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il
Sole nel punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in
miglior forma rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e
successiva propagazion della luce (38 ). • Empedocle ebbe la Luna come opaca,
perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse. Plutarco a
lui so lo (39), mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver
divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli
raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma
insieme straniera. Una lu ce straniera, dicea Empedocle qual poeta, circola
intorno alla 'terra (40). Ma Empe docle ebbe la disgrazia d' aver avuto gua 53
stato ogni suo sentimento. Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla
luce lunare da Empedocle, ricavo, non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna
qual pezzo svelto dal Sole. Ma buon per noi che ci sia re stato il verso
d'Empedocle, che smentisca l'interpetrazione di Tazio (41 ): Anassagora per
dare una misura del So le riferì la grandezza di quest' astro al solo
Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo, cui venne in pensiero di comparar
Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole fosse stato più della Luna
distante dalla terra so pra due volte (42). Ciò non ostante affermo quello
essere stato assai più grande di que sta; sebbene ambidue fossero appariti
dello stesso diametro (43 ). In somma l'ineguale distanza fu per lui certo
argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò essere stata cosa
di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che allora fece la
scienza del cielo. Giacchè niun altro prima d'Empedocle, ed egli fu e il solo e
il primo, che insegnò gli astri lontani 54. doverci comparire piccoli più de'
vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non solo,
ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri
apparenti della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i
periodi lunisolari, da cui nacque, e s’ avanzò l'astronomia de' medesimi. Si
potrebbe quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi
losofo, aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si
mova circa la terra. Ma punto non conviene dar a Empe docle una gloria o dubbia
o sospetta (44). Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine,
di cui li bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni
qual autore d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi
il nascere e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han
quello come opera d'ignoto autore e non di lui (45 ). Io non discordo da loro;
anzi confesso non essere stato Empedocle intento a osservare, 1 55 1 come si
conviene nell' astronomia. In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non
si osservava. Era quella la stagione della fan tasia, delle opinioni, e
dell'ipotesi, che suol sempre precedere l' altra, che porta seco il raziocinio,
l'osservazione, la veri tà. Però non è poca la gloria d’Empedo cle nell' aver
conosciuto la ' successiva pro pagazion della luce, la rotazion della ter ra,
l'opacità della Luna, è scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa
rato il primo le masse tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi
emulare Timocari e Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu
ron chiarissimi; pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo
assai più che la sua età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi
assai più illu minati e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di
quello migliori. Una fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l '
aria, in cui brucia. Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il
nostro filosofo, che immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra
con senno la natura. La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma
coll'esperienza, è il peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in
difetto di macchine e di strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri
come orolo gio a misurare il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base
forata a guisa di minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre
più andava a fi nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col
collo all'ingiù; e l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava
le ore. Questa appunto fu la macchina d'Empedocle, che nelle sue ma ini diventò
indice e misura di fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che
trastullando colla clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio
col le dita, e postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un
fonte. Entra allora l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C 57
quanto la donzella prema, e travagli, la clessidra non si può mai empiere tutta.
Stanca finalmente la verginella, alza le di ta, con cui chiudea quell'orifizio;
ed ec co l'acqua che sale, e giunge alla cima. Proposta l' esperienza,
Empedocle ne' suoi versi ne soggiunge lo spiegamento. L' aria, dice egli, che
sta racchiusa nella cavità della clessidra, colla sua molla, resiste all' acqua,
e la ripara di venire all'in su. Ma appena la donzella alza, le dita, l'aria e
sce, e però l'acqua non più impedita dall' aria sale, e tutta empie la
clessidra. In altro modo ci presenta ei la don zella. Finge egli che questa
volti la cles sidra; e allora un altra prova egli ci reca del peso e della
molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin della clessidra, questa
piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè l'acqua tutta fuori si ver
si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua, lungi di cadere da ’
forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano con fretta; ed ecco
l'acqua goccio h 58 re il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi.
Dichiarato il primo, ſu agevole a Em pedocle spiegare il secondo esperimento.
L' acqua, dicea egli, si sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria
sottoposta si resiste colla sua molla, che venga a vince peso dell' acqua.
Subito che la don zella alza la mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta;
e questa, ajutata dall' aria soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori.
Con tali esperienze, delle propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la
molla. Ciò nulla ostante furon quelle nell'età d'ap presso poste
ingiuriosamente in obblio. Se noti fossero stati al rinascer delle scienze gli
esperimenti d ' Empedocle, non si sareb be certo levato tanto grido per
l'invenzion del barometro. Ivi il mercurio sta sospeso dalla forza dell'aria,
come l'acqua sta so spesa entro la clessidra dalla forza egual. mente dell'aria.
Si fatte esperienze, che oggi son volgari, allora erano rade e uti € 59 lissime
alla fisica. Smarriti i Greci in que? tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor
me tafisica, non pigliavan cura nè d ' esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi
di fatti, co storo eran pur privi di scienza · Ne' versi d'Empedocle quindi il
principio si trova, e la nascita dirò così della fisica; perchè ivi si trovano
i primi esperimenti. Democrito al par d'Empedocle piglia va anch'egli allora la
via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati presto raggiunti dal divino
Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini cercarono allor di fondare un epoca
novella nella Greca filosofia, sfor zandosi di condurre gl'ingegni a studiar la
natura coll' esperienza, e colla osservazio ne. Ma tal metodo, ch'è lento,
ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che impazienti erano e caldi; e
però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene Empedocle avesse posto ogni
studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza stromenti,
nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippo h 2 60 crate
avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de
tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I
medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che
giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli
spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai
sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che
fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa
abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi
ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio
del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando
pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento
i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le
verita, che son degne non che di ricor, F S a 8 danza, ma di stupore. 62 Il
seme, il sesso, la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili
fu. rono i varii sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente.
Da prima avverte. Empedocle comune essere il fine assegnato dalla natura 'e
agli animali e a ' vegetabili. Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion
produrre animali, o piante simili a se (46). Questo fu messo da lui come base
delle sue illazioni, e co nie fermo segnale d'un punto, da cui egli partendosi
non s' avesse potuto mica smarri re nel proceder più oltre nelle sue nuove
scoperte. Soggiunge egli appresso: come l' animale viene dall'uovo, così la
pianta dal seme (47). Attesi questi fatti comincia o ' specolando a filosofarvi,
e da quelli guidato va con franchezza formando le sue conget ture. Se l'uovo e
il seme, egli prosegue, comune hanno il fine, ch' è la produzio ne; debbono
l'uno e l'altro colla stessa attitudine, e col medesimo impeto tendere al
medesimo fine (48 ). Da sì fatto fine ad ambi comune egli argomenta, come da 62
un indice, comune dover essere la natura del seme e dell' uovo. Ma Empedocle
forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo a fatti, mette in
opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la natura dell' uno
e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia, trova e
distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il germe
nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non
abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le
foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all'
embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due
esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i
cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel
seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali
da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col CO
63 soprannome d ' ovipare (49 ). Ecco avere Em. pedocle svelato agli uomini
assai prima d’Ar véo tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che
dall'uovo. Teofrasto infatti, e A ristotile (50 ) a Empedocle solo attribuiscon
la gloria della scoperta di tal verità, e gliela dan come propria. La fatica d
' Arvéo, fu egli è vero, utilissima all'avanzamento del le scienze, e degna di
tutta la lode. Ma egli pubblicando di nuovo lo stesso ritrova mento d'
Empedocle, null' altro fece che as sodar vie più colle prove ogni cosa nascer
dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior l'eccellenza dell'ingegno di chi
colla mente va congetturando ciò, che del tutto s’ è ignorato in preterito, e
prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro? Il nostro fisico, guidato com'
egli era dall' induzione, spinse più oltre i suoi ra gionamenti'. Affermd le
piante al par de gli animali dover essere tutte fornite di ses so. Conosciutosi
da lui il seme null' altro esser che uovo, come l'uovo si feconda per l' union
del maschio colla femina; co $ 64 sì argomentò egli del pari il seme per la
mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco ' quindi e sagace stabili
egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma schile e feminile in ogni
vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi conosciuti ma schi e femine tra
' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a palme, fichi, canape, pi stacchi.
Però dal nostro fisico prende ori gine il sistema, su cui oggi posa tutta la
Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne cercato, nè mostrato gli organi
genita li nelle piante, come poi han fatto con grande studio i moderni; ma ciò
facea e gli sempre col ragionare, e quelli vedea dirò così, coll' intelletto.
Nella testa de' grand' uomini, come dotati d'una specie di tatto pella verità,
la forza delle con getture si sostituisce talvolta all' evidenza de ' fatti.
Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore, che solo abbozza il quadro con
poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli altri la cura di compirne il
disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo 65 definì tutto nascer dall'uovo:
Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e poi Linnéo mostrarono il
sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron la dottri na, e compiron
l'idea tracciata dal nostro Gergentino. In verità non è poca la glo ria che a
costui torna nell' aver lui il pri mo schizzato degli originali, che di mano in
mano col favore del tempo si van tro vando in natura. Contemplare Empedocle,
che conget tura è uno spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto
dall'analogia supera tutti i suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va
diritto a trovare altre belle ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi.
gor di sua mente, tentoni cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli
il sesso sol nelle piante. Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche
anzi le rade verità solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante
altre verita gli mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli
organi genitali delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea
il polline portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in
questo si stà. Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l
Tulipano, che come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che
loro fecondi? Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante
acquatiche sul punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier
cupide, e aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia,
se nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian.
te, che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor
generazione a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia,
ma certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per
l'unione si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna
pianta, come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian.
te dover essere ermafrodite (51). Fil que: 67 sto, egli è vero, un errore;
perchè in al cune piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma
altresì, egli è vero, la più parte delle piante alla classe ap partenersi
dell'ermafrodite; oltr'a quelle, che sono androgine, e poligame. Empedocle
appresso, il mistero passo a indagare della generazion de’ vegetabili, con
quella confrontandola degli animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la
generazione animalesca. ' Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali
de’due ses si particelle analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste
nella unirsi, e l'embrion formare del corpo or ganizzato (52 ). Il carnale
appetito egli ri pose in quelle particelle, che, separato trovandosi nel
maschio e nella femina, ten. dono naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due
semi la cagione ei riferisce del parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o
disordine degli stessi la nascita d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui
al pa dre o alla madre somiglia in proporzione generazione i 2. 68 del più o
men prevalere del liquor semi nale quando della femina, quando del ma schio. La
ragione inoltre crede lui dare della sterilità delle mule, che all' angustia
attribuisce e obbliquita de canali della loro figura (53 ). Varie spiegazioni
va in com ma egli fantasticando, che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se
chi han tratta to della generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui.
Le molecole orga niche di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di
Bonnet e,di Haller, il filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o
meno, false o tutte immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane,
s' avvide Empedocle, poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione.
Ricordava ei delle donne, che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o
pitture, cui quelle, essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato (54 ).
Opinò egli quindi la fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul
legro, na cose 69 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar forma, e
simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare l'
immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene, ato
quasi secondo il linguaggio d ' Empedoc!e, che la fantasia o della femmina o
del nia schio, giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la
fisonomia della pro le nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi.
anzi tem po da Empedocle la famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse
egli, e cona chiuse del tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di
quelli. Ne men dissimigliante tra loro, disse Empedocle, dover essere la
nutrizione de gli uni e degli altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il
nostro filosofo, gli alimenti scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è
conveniente e accomodato alla loro na turá (55 ). Ciò egli credea farsi in ambi
due per via dell'affinità insieme e de' pori. Dell'affinità cosi egli parlava.
Siccome le cose amare all'amare si uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on
sullink 70 ei de 1 dis Tec cer ci alle dolci; ogni sinile in somma al suo
simile: cosi gli esseri organizzati quel pren dono dagli alimenti, che lor si
confa, e può nutrire ciascuna delle propie parti. Chiaro fu eziandio il suo
parlare de' po ri. La nutrizione, egli è certo, separarsi e dividersi negli
animali, e ne' vegetabili per mezzo de' pori, che son differenti in dia metro (56).
Le particelle, dette nutribi li, è certo altresì non potere indistinta mente
entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna insinuarsi nell' orifizio di que'
bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza. Un vino, egli dice, è diverso da
un altro, attesa la differenza non che del terreno ma della stirpe (57 ). Ecco
come par, che il nostro filosofo avesse voluto vie più assodar la sua opinione
della forza dell' affinità, e de' pori, massime su i vegeta bili (ch'è poi
propietà d'ogni corpo orga nizzato ) i quali giusta la propia organiz zazione
han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon capaci di saporé diver so. A
senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti co re со ali 71 Fari
trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia ampiezza de ' pori per
canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari re preciproco modo,
vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de' vegetabili, sien degli
animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare, con cui la nutrizione si
sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi veduto essersi rifuggito
all' affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che maraviglia; se dopo la serie
di tanti secoli da questo suo pensare non sono mica iti lontani pa recchi pur
tra’ moderni? Grande in verità e diligentissima è stata oggidì la fatica de
nostri fisiologi nell'indagare i fenomeni del la nutrizione, Gli hanno essi
ridotto a ' fat, ti, o a leggi generali, che son propie e comuni a tutti i
corpi organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di trovare nella
contrattilità organica la forza, con cui gli alimenti son trasportati in canali
opportuni non sol negli animali, ma eziandio ne've getabili sino all'alto delle
propie foglie. Ma TX, ام د ገን muito 73 con tutto cið
o nulla o poco si sono essi avanzati nell'additar la maniera, con cui si fa la
nutrizione per gli organi diversi. Non si nega oggi darsi da' più a varii
organi, una specie di gusto, cui mercè quel suc chino, e tirino, che a ciascuno
in partico lar si conviene. Ma poi tal fatto pensa mento mostra forse esser del
tutto falso il ritrovato d'Empedocle? E' troppo vero, cho la natura yince in
molte cose, e vincera sempre ogni nostra speculazione e fatica e da filosofi
per lo più non si recano, cho sole congetture, ed ipotesi, Fattisi vedere
eguali da Empedocle i rapporti degli animali co' vegetabili nel se nie e sesso,
nel generarsi e nutrirsi, non re. stava altro a lui che applicarsi sulla tra
spirazione comune ad entrambi. Conobbe egli, che gli uni e gli altri per via
de' pori similmente traspirano, e quella parte degli alimenti tramandano che
loro è su perflua. Alla traspirazione di fatto attribuì costui o il perdersi
dagli alberi nella fred da stagione, o il serbarsi quelle foglie, che 1 73 1
dalla natura, non a caso, ma particolar mente sono ordinate al traspirare e al nu
trir delle piante. I primi, ei disse, tra spiran molto in estate, e
spossati levan le foglie in autunno. I secondi traspiran po co in estate, e
robusti ritengon le foglie in inverno. Fondava egli la copia o scarsez za del
lor traspirare sull' ineguale diame tro, e contraria posizion de' lor pori.
Gli uni a suo giudizio hanno larghi i pori del le radici, angústi quelli de'
rami. Gli al tri all'opposto angusti i pori delle radici, larghi quelli de'
rami. Però i primi più, succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I
secondi men succhiando e più traspirando perdon le foglie (58 ). Se una si
fatta posizione di pori, che immagind il nostro fisico, fosse stata confermata
dalle osservazioni, avrebbe sin d'allora egli sciola to un problema, che non
poco fastidio grandissimo stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a
quell' età organizzare ad arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne
presto dichiarare i fenomeni. Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di
nostri, chi abbian conosciuto e distinto ne' vegetabili non meno di quattro
specie di pori (59 ); Ma chi ha potuto, o con qual microscopio potrà mai
rinvenire, che a ' pori o larghi o stretti delle radici corrispondano a rove
scio quelli de' rami? Pur tuttavia a Empe. docle in parte siam noi debitori
della ragio. ne, che mostra il come dagli alberi cadan le foglie. La famosa
traspirazione ne' vege tabili, da lui allora scoperta, scioglie og gi a noi con
somma nostra ammirazione o senza nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun
vede le foglie cader più pre sto, quando la state è più calda. Ognun pur vede
gli alberi robusti più de' deboli più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun
vede altresì quegli alberi in inverno rite ner le foglie, che poco traspirano.
I 100 derni al più han distinto le foglie, che cadono in pezzi da quelle, che
intere si staccano, secondo che l'une o l'altre sono al tronco diversamente
attaccate. Costoro 75 di più son giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono
intere, prima che le nuovo dalle lor gemme si svolgano, e altre ristan no
finchè non ispuntin le nuove (60). Da ciò essi han tratto, che quegli alberi, i
quali gettan le foglie dopo lo spuntar del le gemme, debbon mostrarsi
verdeggianti in inverno. E che all'incontro quegli altri, i quali gettan le
foglie pria dello spuntar delle gemme, debbon vedersi nudi nella stege sa
stagione (61 ): Che perciò? i nostri fisiologi forse san. no oggi della caduta
delle foglie dagli al beri assai più di quel, che ne seppe al. lora il nostro
filosofo? Abbian quanto si vo glia convenuto oggi i moderni le foglie tra.
spirar più quanto più abbondano di pori. Abbiano quanto si voglia pure costoro
af fermata la copia o della traspirazione o de' succhi si travagliar le foglie,
e i lor vasi ostruire, che finiscan di vegetare, muoja no, e cadano. Eziandio
ne abbiano essi inferito tutti gli alberi dovere perder le fos glie, chi in
Autunno, chi in Primavera. Ma k 2 26 de 60 fu NI tal differenza non è se non
perchè le fo glie di quelli più, e le foglie di questi meno' traspirano, e
l'une servon più, l' altre meno alla nutrizion delle piante? E non è questa la
grande scoperta appunto d' Empedocle, e che forma uno de' suoi gran di elogi?
Il pigliare i vegetabili e gli animali au mento dal calore, il goder di
gioventù, il cadere in malattia, il giungere alla vecchiez za, sono altresì
que' tratti di simiglianza perfetta, che il nostro fisico andava a quel. li aggiungendo.
Nè lascid ei di notare, che i vegetabili al par degli animali si muv vano,
resistano, si raddrizzino (62 ). Gran de com' egli era di mente, e degno d' in.
terpetrar la natura, talmente s’ ingegna va di legare il primo con poche o comu
ni leggi i due regni, che paion tanto di stanti e discordi tra loro, il
vegetabile e l' animale. Gli antichi presero maraviglia di questo specolazioni
di lui, e si ne restaron convinti, che si sforzarono aggiungervi qual che cosa
del loro, Empedocle aveva già 0 PE C te 77 detto, che il seme senza più è nella
ter ra ciò, che il feto nell'utero (63 ) ed egli no procedendo più oltre' non
ebbero a schi fo affermare la pianta essere un animale fitto in terra per le
radici, e l'animale una pianta, che cammina. I moderni poi non han tralasciato
punto di assai profittar de pensamenti d' Empedocle, cui mercè tira ta avanti
la traccia e allungati, diciam.co sì, i suoi stessi passi, sono iti scoprendo
nuovi rapporti, che agli attimali legan le piante. Le piante dormire come gli
anima li; respirare coni'essi; avere i lor muli; pro. pagarsi i polpi al par
delle piante; esservi animali (che son quei, che vivono attacca ti alle pietre
) che cercano la luce e vergo essa rivolgonsi, come appunto fanno le pian
te: questi e simiglianti sono i grandi ogo getti, su cui i moderni profittando
d' Em pedocle si sono fissati. Ciò non ostante 90 no tante, e di tal momento le
differen ze, che separano gli animali da' vegetabili, che non è stato
possibile di ridurli in tut. to giusta la pretesa d'Empedocle alle me 78 desime
leggi. Pare soltanto che nel presen te stato delle nostre cognizioni tutto con
corra a dimostrare aver la natura espresso e racchiuso dirò così quasi sotto
unica fore mola il gran fenomeno della nuova produ. zione de' corpi organizzati.
Questa appun to cercò, e questa rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il
sesso nelle piante, e conobbe il seme non esser altro che uovo: e affermò
apertamente le piante, come gli animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni
d'Empedocle su gli esseri organizzati', in difetto d'oga' altra pruova,
basterebbero sole a indicare la for, za, e l'eccellenza del suo intendimento.
Dovea egli supplir la mancanza de' fatti, inventar de' metodi per
non ismarrirsi, ras. sodare i suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando,
Operazioni, che vo gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la
condizione dell' umana natnra, che la nostra mente non può senza stento
riflettere, ragionare, scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda
al 7.9 cuno, ch ' ei qual poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle
somiglianze tra i vege tabili e gli animali più colla fantasia che colla
ragione. La fantasia crea non isco pre; finge non ragiona; abbellisce non in
catena; e se talora connette, i suoi lega mi sono immaginari e non reali. Molti
fu rono i cosmogoni tra gli antichi, Ma Em. pedocle solamente s' addita come
chi com prese in egual modo operarsi la generazio ne negli animali e ne'
vegetabili. Fu egli è vero intento a legare questi a quegli esse ri, come suol
farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova più le somiglianze delle cose che le
lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo, con cui il nostro Gergentino aju
tava la sua mente, ch' altro non era, nè esser poteą nella sua età, che quel
dell' analogia. La quale, siccome essa suole, argomentando da cose simili,
potea soltana to condurlo, a veder somiglianze. Se dun que Empedocle col favor
dell' analogia pro pose congetture, che poi si son trovate ve re dalle nostre
osservazioni, e ben da dir 80 si ch' egli fu nobile di monte, robusto ne suoi
raziocinj, e di gran sentimento nelle cose naturali., Un altro e più vasto
teatro s' apre o rą di altre e nuove specolazioni, Empedo cle, posti da parte e
vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli esseri organizzati, con cui l'avea
egli sin allora confuso. Prese costui a considerar l’ Uomo solo e isolato non
che in metafisica e morale, ma in pa recchie fisiche scienze. Rivolse ei le sue
prime indagini alla fisica dell'Uomo, cui i corpuscolisti con gran cura in quel
tema po attendeano. Empedocle, Anagsagora, De mocrito scrissero sulla natura;
ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e tutti tre ten tarono di svolgere
l'economia, giusta cui vive, si muove, si regola la macchina u mana. Fu forse
un tale studio sull' uomo che sopra ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi.
I quali, senza più, aveano fino allora quello riguardato come un soggetto
soltanto metafisico, o morale, o politico. Ma ' le fisiche ricerche d'Empedocle
81 sull’ Uomo trapassarono di gran lunga quel le di Democrito e d’Anassagora.
Perchè, sagace, com'egli era, si mise in investigazio ni non prima tentate
d'altri, e utilissime. Tanti furono i punti di vista, sotto cui e' prese a
contemplare il corpo umano; e al trettante può dirsi essere state le scienze,
cui diede principio il vigor di sua mente. Egli il primo applicò la chimica ',
e sie a nalisi al corpo umano; segnd le prime li nee d'anatomia: fece sforzi se
non sempre efficaci, sempre almen generosi a gettare i fondamenti della
fisiologia dell' Uomo:: Il sistema d'Empedocle sulla natura fu chimico; così
chimiche del pari furono le sue prime ricerche sull'uomo. Comincio egli a
esaminar questo nelle sue parti, e quanto più allor si potèa, ne imprese an
cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma posta di parti eguali di ciascun de'
quattro elementi. Di due parti eguali di fuoco e di terra sono formati i nervi,
e le unghie son similmente nervi raffreddati dall'aria (64). Otto furon le
parti, ch'ei distinse nelle os 1 82 sa: due di terra, altrettante di acqua, e
quattro di fuoco (65). Se non si corresse un qualche pericolo di travedere, chi
non direbbe aver lui trovato l'ossa abbondare di fuoco, perchè abbondan di fosforo?
Ma che che ne sia, non v'ha dubbio, aver lui dato principio con sì fatte
analisi a un novello rano di chimica · Ramo, che dopo Empedocle fu del tutto
posto in non cale: ma che oggi, attesa la sua grand' utiltà con ardor si
coltiva, e che va sempre più smisuratamente crescendo sotto il nome di chimica
de corpi organizzati: Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra ' Greci, che
s ' applicarono con som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co storo, vinti
gli errori della religione e de' tempi, aveano cominciato a coltivarla De
mocrito in Abdera, ed Empedocle in Ger genti. Descrive quest'ultimo la spina
del dorso, e tienla, come di fatto è, non ' altri menti che la carena del corpo
umano (66 ). Distingue egli di più inspirazione da espi razione mostra i canali
per cui si re r 83 spira dalle narici (67 ). Ricerca egli inti ne l'organo del
sentire, e trapassando il neato uditorio, discopre quella parte dell' udito,
che attesa la sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e chiamasi anco
ra la chiocciola (68 ). Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni
anatomiche, che per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco
mostra il suo gran sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse',
il rottape d ' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la
magnificenza di un edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta
della chiocciola dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi
scrittori', essersi il nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che.
Questa situata in luogo riposto dell' udito non si potea discoprir certamente
se non da chi fosse stato molto prima versa - to e perito nelle materie
anatomiche. M eno scarse son le notizie delle fun. zioni della vita e de'
sensi dell’ Uomo: e che per fortuna ci restano della fisiologia d'Empedocle. 1
84:; Il sangue umano, come ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo
co stanțe mantiene il calore. Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione
sovrana turale e divina. Empedocle all'opposto eb be il calore, come cosa
ingenita e conna turale al sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne'
tempi d'appresso Aristoti le, Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a
formare un sistema, trasse dal calore del sangue, come da prima ca gione, una
spiegazione non già vera, ma certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le
regolate, pulsazioni delle arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che
il muove nelle vene. Ma igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la
circolazione del sangue. Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un
movimento d'oscillazione. Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca
vità delle vene, e in queste va quello giul $ u continuatamente oscillando (69).
La for: che lo stesso agita, era secondo lui il sangue si za 85 calore:. e
questo essendo ingenito al san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il
moto. A tal movimento legò il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion
della vi ta. Quando il sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria
tosto s ' insi nua ne' sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa
quel vano, che nell' andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli
aggiungea l' aria quivị restarsi: perchè il sangue, secondo Empedocle, spin to
dal calore, e su tornando, preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo
ri tornare (70). Accade, seguiva egli a dire, ciò che nella clessidra si
osserva (71 ).." Ivi l' aria respinge l'acqua, o da questa quella è re
spinta. Non altrimenti nella respirazione l' aria esce o entra secondo che il
sangue si porta o giù o su nelle vene. Però all'an dare o venire del sangue
risponde alter nando il venire o andare dell'aria. Ques sta forma, entrando, l
' inspirazione; ilscen. 86. do 'l' espirazione e nell’unal e nell' altra è
riposto giusta il suo sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella
respirazione esce ed entra nelle vene toglie al sangue a giu dizio d'Empedocle
una porzion di calore. Ciò indusse gli antichi medici, che abbrac ciarono tal
sua opinjone, a curar coll'aria fresca e matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re.
Il respirar dunque cagionava secondo il nostro filosofo diminuzion di calore.
Da ciò anch'egli iuferiva la necessità, che strin. ge gli animali a dormire. Il
sonno in fat ti egli diceva; null' altro essere, che dimi nuzion di calore. (72
). In quella parte quindi di fisiologia d ' Empedocle che riguarda le funzioni
vitali, il sonno vien dal respirare, e questo dall' oscillazione del sangue.
Sicchè sonno, spirazion, movimento di sangue tra lor son connessi, e tutti
quanti a un tempo dal calore provengono. Nel calore in somma e' pose la cagione
di vita e di moto. La morte (73 ), egli dicea, è privazion di ca re 87 lore
però riguardava sonno come.egli il principio di morte. Giacchè questa, a suo
credere, è privazione, e quello diminu zion di calore. Tali principj di
medicina, ch'eran teorici, guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel
piccol' calore., da noi già osservato, che ritenea la donna Ger gentina caduta
in asfissia (24) conobbe Empedocle, ch'ella era ancor capace dell' aiuto della
medicina. Tanto egli è vero, che la sua pratica era alla sua teorica con corde,
e questa per l'andamento naturale del suo spirito era legata tutta e formava un
sistema. Ecco in qual povero stato erano allo ra l' anatomia, e la fisiologia,
la fisica in breve del corpo umano. Nuda era questa di fatti, e piena d'errori,
e d'ipotesi. Ma tale è la condizione delle fisiche discipline: Nascono esse
imbecilli, a stento s'accresco no, e vanno non di rado alla verità per la via
degli errori. A chi allor poteva vee nire in mente, che l'aria nel respirare'
in luogo di toglier calore, ñe porga al san 88 ana? gue e ne porga gran copia?
Come potea Empedocle anticipar specolando in que di tante yerità, che
suppongono la cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di fatti, che
allora ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po che e
imperfette linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma tali
schizzi, avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli degnissimi
di sua gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia delle
scienze. Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di
mostrare almen da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi,
e che del tutto s'igno rano. Empedocle fece ancor di più. Dino to egli la
chiniica del corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia
discoprendo la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un
sol fatto, le principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo
secolo non avrebbe certamente lasciato ad altri la gloria d' ac 8 89 crescere
queste utili scienze. Ma nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti
que' mezzi non solo opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e
và. sti disegni, che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe
Empe docle la fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la
fisiologia e get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che
riguarda i sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando 80 pra
d'ogn'altro nella lor fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir
gli oga getti che, son fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in
ogn’ istante in alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e
invisibili. Eran queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal
fuoco su nostri organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi,
da quali esse spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro
essere, che impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si
parton dagli oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. Empedocle
intanto non dissenti mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane
certo, non se ne mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare
i sensi a uno a uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare
spiegazione. Fece egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che
sin ' al lora non s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli
dimostrò non es ser lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo
delle comuni e dominan ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel
senso ora abbandona i corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes
si qualche nuovo argomento. Trattando Empedocle dell' odorato, e del gusto non
altro mette in opera, ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice,
trasportati dall'aria s ' acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir
dell' odorato. I cani, ei soggiunge, cosi e non altrimenti 91 indagan futando
l'orme della fiera, Che se il catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici;
allora i pori di questo tosto s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non
si sente (75 ). Tratta egli appresso dell'udito, e la sciati e pori, e
corpuscoli, piglia dall'ana tomia il suo nuovo argomento. L'udito, ei dice,
nasce dalla battitura dell' aria nel la parte dell'orecchia, la quale a guisa
di chiocciola è torta in giro, stando essa so spesa dentro, e come un sonaglio
percossa. L'anatomia, ch'era allor grossolana piccol conforto a lui porse nel
dichiarare la vista. Conobbe Empedocle un de' tre umori, ch'è l' aqueo, e
qualche membra na, senza più, di quelle, che coprono il globo visivo. Però
sfornito dell' ajuto dell' anatomia era egli dubbio e incerto. Em pedocle
nondimeno giunse a comprendere dover la luce avere gran parte nella visio ne
degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto si fosse ei travagliato, nol potè af
fatto conoscere. 1 m 2 92 Suppone il nostro filosofo entro dell' occhio, non
che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco nativo. L'una, e l'altra a suo credere,
ivi stanno in tal quantità, che per lo più sono ineguali. Così egli distingue
gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli af ferma abbondar di fuoco,
scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser poveri di fuoco s ricchissimi
d’aequa (76). Però ei soggiunge gli uni mal veggon di notte per difetto di
acqua; e gli altri veggon male di giorno per iscarsezza di fuoco (77). Ma sía o
poca, ó molta la luce che stanzia nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro
una lanterna. Lo splendore del lume, ei dice., fuori della lanterna si span de,
e nella notte ci guida. Così i raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e
ci di mostran gli oggetti. Empedocle talora aga giunge a raggi della luce i
corpuscoli. I raggi secondo lui, che dall'occhio si lancia no, prima s'
imbattono nelle particelle, che si spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si
congiungono giusta il medesimo: e 93 insiene congiunti si portano all'occhio, e
muovono il senso visivo (78). Aristotile disapprova tali pensamenti d'Empedocle.
La visione degli ocohi, egli dice, è da riſerirsi solamente all'acqua, e niente
al fuoco (79 ). Nella storia dello spirito umano accade sovente, che un er rore
un altro ne " caccia, e ' l falso al falso di mano in mano succeda.
Aristotile oltrº a ciò rimprovera il nostro filosofo, che dub. bio egli e
incerto abbia, fatto cagion del vedere ora i raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra
i soli corpuscoli (80). Ma in ciò sem bra Aristotile a torto riprendere
Empedocle. Non sapea persuadersi il nostro Gergen tino, che totalmente passiva
fosse la se de del senso visivo. Non potea egli inol tre comprendere, che niuna
parte avesse la luce nel gran magistero del nostro vedere. Incerto restò quindi
di se, di sue idee, e delle spiegazioni volgari; ma tale incertez. za o quanto
onore a lui reca ! Dubitar del le opinioni, che son false, e in voga, è il
primo ma più difficil passo, che si può fare verso del vero. 94 La fisiologia,
che va a di nostri spa ziando per tutte le scienze, comunica ezian. dio colla
metafisica e colla morale. Quest' unione, ch'è il frutto naturale dell'avan
zamento delle scienze, fu dirò così presen tita dal nostro Gergentino. E di
fatto sul la sodissima base della fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che
l' altra. Da che Pittagora, e Parmenide ab bandonarono i priini la
testimonianza de' sensi, come ingannevole, i Greci tenzona chi contro la
ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella vennero quindi in discredito: 6
sorsero intanto i sofisti, e gli scettici. Socrate, Ippocrate', e altri di si
mil sorte tentaron conciliar la ragione co ' sensi. Ma vani furono i loro
sforzi. Duro la gran lite durante la Greca filosofia. La stessa rinacque al
rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si pugnò allor quando contro i sensi,
quando contro la ragione; e di nuovo si giunse allo scetticismo. Ma nggi simili
dispute sono già state bandite da noi; e si terran lontane, finchè lo studio
rono, 95 delle fisiche, e delle Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne'
tempi d'Empedocle la scuola d ' Eléa orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare
i sensi, e a inalzar la ragione. Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter
no, immutabile. E come i sensi ci mostra no il multiplo, il mortale, il
mutabile; co sì essi c' ingannano. Però conchiudean co storo la ragione poter
sola conoscere cid, che è, ed essa solamente decidere della realtà delle cose.
Contro i medesimi entrarono in lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo
sotti. gliezze di quella scuola, fisici com'erano, difesero i sensi, senza
annullar la ragione. Anagsagora con sottile avvedimento distinse le particelle
simili da ' loro composti; Demo crito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia
pedocle gli elementi dalle lor combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi,
dicean costoro, sono eterni, immutabili. Non son tali le combinazioni, gli
aggregati, i com posti, che mancano, e cangiano. Questi 96 si conoscon da’sēnsi,
quelli dalla ragione. Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e
ragione: assegnando a questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e
distinte. I corpi, come composti, operano a senno d'Empedocle, e di Democrito
su i nostri organi, che sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre
sensazioni; ma queste a parer d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola
di Jonia avea tal mente confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava
questi con quelle, e tenea le" une, non altrimenti, che immagini fe
delissime degli altri. Non così pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono,
dirò co si, le sensazioni dagli oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed
ebbero quelle, come soli, e semplici modi, quali di fatto sono, del nostro
sentire. Il bianco o il ne ro, il caldo o il freddo, l'amaro o il dol ce
esistono, diceano essi, ne' nostri organi, nelle nostre sensazioni, e non già
negli ogo getti. Costoro quindi solean chiamare co 1 97 1. eglia gnizioni, di
apparenza, e di opinione, e non gia di verità, e di realtà quelle, che si
traggon da' sensi. Ma non perciò credea Empedocle, co me alcuni vogliono, le
nostre sensazioni es sere immaginarie. Cangiano queste, vero, secondo che a lui
piaeque, come can gia lo stato de' corpi, o come s’ înmuta la disposizione
degli organi. Ma vero, e reale è altresì il sentimento, che si desta da' cor pi.
Tal' è della sua dottrina, al pari di quella di Newton intorno a colori. Vege
giamo ne' corpi o rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce, che percuoton
l'occhio, sono o rossi o gialli; ne' rossi ne' gialli so no i corpi, che que'
raggi colorano. Il ros ò il giallo è in somma nell'occhio, e nell'impressione,
che in esso fanno i rag gi di luce: Così a creder d'Empedocle le sensazioni
sono reali. Ma le medesime non rappresentan mai le qualità, che ne' corpi
appariscono; null'altro essendo, che altret tanti modi del nostro sentire,
Diversa da quella de sensi, credeano SO, n 98. E 1. i corpuscolisti, esser la
via, con cui s'ac quista da noi la conoscenza degli elemen ti, o degli atomi.
Questi non si poteano secondo loro, come semplici, conoscer da' sensi, che sono
composti. Ogni simile, era antico assioma, non si può conoscere, non col suo
simile. Però Democrito ed Empedocle, tolta a' sensi la cognizione de' sempliei,
la riservarono all'anima. Per questo l'anima, giusta Democrito, era for mata
d'atomi; e secondo Empedocle degli elementi, ma uniti alle due forze di amo. re,
e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r acqua coll'
acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e l'amore altresì
l' odio, e l'amore: Empedocle portava, dove potea, l'oc chio alla fisica
costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta anatomica.
Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di siste ma; e
ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come Empedocle in tutto, e sempre 99 era
concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue, che asperger
e bagna il cuore dell' uomo (81 ). Perchè ripostosi da lui il principio e di
moto, e di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea ripor l’anima; Era
questa dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de' sensi. Ma ambidue
ricevevano le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen si dalle
combinazioni. L' una acquistava la cognizione delle cose eterne, e immutabili,
e gli altri la notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni in somma
oporavan sulla macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi
sull'anima, come com binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi.
Nacque da ciò, che Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione:
l'intel letto altro non esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare
ogni cogni zione, e scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro
filosofo, affermo, pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100
anima stanziarsi nel sangue. Ma Empedo. çle non si fermè quì al par di costoro:
passò molto innanzi. A parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne
sup pose egli entro noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle
cose intellet. tuali e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a
guisa de corpi; ne un unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice,
non ha forma nè membra umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le
mani. Iddio è santa mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni
verso co' suoi veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua
vita è il pensare. Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di
Domocrito, e le cose materiali: per tornare a Pittagora, e alle cose,
intellettuali. ins. L'anima dunque, destinata da Em. pedocle a conoscer cose
spirituali, e divine, dovea essere, e fu per lui altresì senza dubbio
spirituale, e divina. Questa proce. 101 dea, secondo che dicevano Empedocle, e
i Pittagorici, da Dio, ed era particella del la sostanza divina. Se ne
appresentavano essi la ġenerazione sotto varie immagini: or di fiaccola, che
tante altre ne accende; or d'idea che tante altre no genera; or di parola, che
trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o di cose simili, che sarebbe
lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse agevolmente popolarono il
mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran partecipi della natura divina.
Di questa classe prese dirò così il nos,. stro filosofo le anime spirituali. Le
due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo dell' uomo forman la primaria base
di sua me tafisica dottriną. Una egli sostenne essero immateriale, materiale l'
altra, ' quella ese sere immortale ed eterna, e questa mori re insieme col
corpo: la primą versarsi in contemplazion di cose intellettuali, e astrat te; e
la seconda in cognizione di elemen ti, e di due forze odio, e amore.. Ma non
mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di dire anime in ciascun corpo di o
gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna della gravità d'un filosofo: Ma
chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi fin' og. gi ci ha detto cose più
vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima col corpo, e sul reciproco loro
influsso, e commercio? Chi presi di boria, annullato lo spirito, tutto riducono
a macchina. Protagora volea, che giudicare, e ragionare fosse la stessa
facol. tà del sentire. Ma questa è un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano
l' unità del pensiero, e l'attività del ragionare dell' uomo. Taglián costoro,
come suol dirsi, non isciolgono il nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato
dirò così il sistema organi co, tutto l' uomo riducono a spirito. Stahl volea,
che l'anima sola operava tutte quan te le funzioni del corpo. Ma questa è u• na
falsità, e una follia. Talla dimostra: no i movimenti involontarj, e organici.
Vo glion costoro, como suol dirsi, occultare il sol colla rete. Chi poco più
'ragionevoli, pigliata una via di mozzo, vollero.combi. 103 nare ambidue le
forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz volea un'armonia prestabi lita, cui
mercè lo spirito segua ne' pensie ri, voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto:
Ma questa è una ciancia, è una fola più complicata della cosa stessa, che si
vuole spiegare.. Lo spirito umano in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò,
tanto più, o meno bizzarre, quanto più o meno son le. teste scaldate di tutti
filosofi. Nè vi è inoltre mai stata ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e
non ab hia avuto assai partigiani: tanto vale quel la specie di prestigio, che
la novità ope ra sull’intendimento dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’
Empedocle abbia sup posto in ogni corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto
delirante, quanto Pro tagora, tutto macchina; nè tanto immagi nario quanto
Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico qual Leibnitz tutto armonia pri
initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa dottrina di Protagora, che le
idee spirituali non procedono dal sentire. Svi 104 luppò anzi tempo contro
Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della vita con fisiologiche
ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne Empedocle alla fine l'
erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni esser capaci
di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e poscia.,
atteso il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è quindi
Empedocle colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di
tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema
intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe
di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono
recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il
tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a
mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo
presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno da 105 na,
prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e
l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono
essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o,
diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. Empedocle di fatto secon do
la testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola
ra. gione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome
di retta ragione (82 ). Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può
sola discer nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime
d'Empedocle, non rape presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà
intellettuale, e ambidue faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare
Empedocle cole locato tra la classe de' filosofi scettici (83). Egli non mai
affermd essere inutile, o va« na la testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli
disse, mostrarci i rapporti, che han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo
d'. 106 ognuno. I sensi, egli disse del pari, sve. gliare nelle intellettuali
facoltà le idee spi rituali, e, astratte. Al più al più diffida va Empedocle
de' giudizi de' sensi, che so vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però
egli volle, che i medesimi fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta
ragione. Questa potea solo a sentimento di lui discer nére il falso dal vero.
Forse, dicea ai suoi tempi Cicerone parlando d'Empedocle, costui ci acceca, e
ci priva de' sensi; allor quan do egli crede, che non fosse in essi gran forza
per giudicar di cose, che sieno sot toposte agli stessi (84)? Par, egli è vero,
Empedocle degli e lementi trattando, quali esseri semplici, ga gliardamente
scatenarsi contro de'sensi. Par lui scatenarsi altresi contro gli stessi, allor
ehé, dirizzandosi al suo amico Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell'
odio, ambidue forze immutabili, gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a
guardar le cose non già cogli occhi del corpo, ma con que' della mente. Pare
eziandio finalmente, giue 107 sta cid, che., Cicerone ine dice, lui andare in
furia, contro i medesimi gridando: niuna cosa poter noi nè veder, nè sentir,
ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi 'argomenti ci vo gliono a definire
come scettico il nostro fi losofo. Chi è intento a esperienze e ad a nalisi;
chi cerca con somina cura de' fat ti; chi da questi tenta d'investigare l'ope
razioni della natura sotto la guida dell' a nalogia: certamente non sa, nè può
esse re scettico. I fisici potranno non prender cura di cose spirituali, e
astratte; ma non mai l'esistenza negar di que' corpi, le cui propietà con
ardore cercano, e la cui in dole con diligenza studiano. L' espres sioni quindi
di quelle parole, non v'è dubbio ' dover valutarsi secondo e il pen sare, e il
parlare di quella stagione. Si chiamava allora pero, e ciò che è; quel ch' è
eterno, e immutabile, o sia quello, che sotto i sensi non cade: Però Empedo cle
a ragione parlando di elementi, e di farze, come quelli, che sono eterni e im 0
2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro
potere o ve dere, o sentire, o conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel
volersi definire il carattere, o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi
anche da' gran filosofi da uno all' altro estremo del tutto contrario. Anche i
grandi uomini tal. volta precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli
·traveggono. E' cosa da farci stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi
dichiaravano scettico Empedocle; altri all! opposto avessero lui materialista
definito, Aristotile, e altri con lui tacciano di ma: terialismo il nostro
Gergentino. Nel siste ma d'Empedocle il pensare, dico Aristoti le, lo stesso
val che il sentire; ogni nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que:
ste quella s' accresce (86). Ma questo stesso è altresì una calunnia. Passivi
sono, 4. senno d'Empedocle, i nostri sepsi; pas siva è parimenté una di quelle
due ani me, ch'egli suppone materiale entro noi. Pero la nostra scienza, disse
egli, accre. 109 scersi colle nostre sensazioni. Ma dall' una anima e
dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e intellettuale, si forma, come a
lui piacque, quella ragiono, che noi già abbiamo osservato. Questa, secondo
'lui, pesa, compara, giudica: in breve ragiona. Due sono i principj, giusta gli
avanzi di sua filosofia, cui mercè la ragione rettifica i giudizi de' sensi.
Primo: il nulla viene unicamente dal nulla. Secondo: il simile si può solamente
conoscer col simile. La ra gione quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni
a tali, e ad altri principj (se pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll'
ajuto di questi quella ci mostra il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal
essere lui, qual co lo dipinge Aristotile, un materia. lista? Chi ammette
principi di conoscere; di giudicare, assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni,
immutabili non può affatto cre dere, che il pensare lo stesso sia che il
sentire, nè punto può essere imputato co stui di materialismo. Non v'è uomo,
quanto si voglia grana. de, che non abbia i suoi nei; e anche i gran genj sono
soggetti sovente a censure. Si dice d’Empedocle in metafisica non essere stato
lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce? Nulla meno. Si bisogna
esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì impaniarci, che ci
debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure Em. pedocle, al par de'
corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. Empe docle qnal
allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le idee
da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli ritenne,
che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da' medesimi
(e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui rigettato del
tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di sedare colla sua
nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi contro del, la
ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente congiunse i sensi
cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e diritti separati
e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen sazioni, gran
forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti i corpusco
listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi al nostro
filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di conciliatori tra i
due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u mano. Fatica egli
senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è sospin to
dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei di meditare,
o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le opinioni
contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in somma ciò,
che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto. di due
opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto. Anzi
quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon gli
ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro, tutti
con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo ora
mai di volgerci dalla metafisica alla morale d'Empedocle. Ma portatesi assai
più avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi
pure per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la
dottrina d’Empedocle ), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro
si distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di
lui. Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui
principalmente egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati.
Riferi egli da prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a.
nimali a ' vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo
giunse sino alla metafisica. Dall' uomo poi tornò Em pedocle ad ambidue quegli
oggetti quasi al le sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli
indagando, se i vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se 113 gli
animali e vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima.
Si fatta investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi
piglia va l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla
hañ di comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi
all'incontro nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei
sogglungea, molto aver di comune cogli a nimali (87 ). Ambidue han tra loro
comu. ni le primarie funzioni vitali: son dotati di sesso, si nutriscono,
crescono, traspira ban gioventù, han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie,
sanità, nasco no, muojono. Però se gli animali son for niti di sentimento,
anche i vegetabili in ciò debbono essere a quelli compagni. Fu quindi sua
opinione essere gli alberi, 6 le piante capaci di tristezza, di gaudio, di
voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno; e di ogn'altro animalesco
appetito (88). Anzi spingendo egli più oltre la forza di sua analogia, posti
eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli animali, e tra questi e
i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima materiale non fosse un
privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne eziandio a tutti quanti
i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli die de, non che agli
animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a ogni sorte d'erbe, e
di piante (89 ). Anima e sentimento diede Empedocle a ' vegetabili ! fiori che
si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o piangono
! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma ne
rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più
istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni
abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono
re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò
sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro:
perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani,
e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista
apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li
ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni.
Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si
trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli
animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe
docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come
do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso
potrà dirittaa mente riprendere Empedocle? Di poi non vi sono a di nostri de '
fi siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di
caldo, di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o
aprono i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune
o lo scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te,
chi il senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella
valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè
questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son
finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già
trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se
Empedocle, che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito
insieme tutti i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea
essere a quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato
il vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e
rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una
idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta
non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora
non è. 117 Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, Empedocle aver
riguardato i corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora,
o i filosofi prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di
considerar le piante, di bruti, come dotati di sentimento, e di anima,
Empedocle fu il primo, almen tra pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu,
cho ebbe e uomini, e bruti, e piante, quali esseri congiunti tra loro dalla
sensibilità, come quasi comune strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un'
anima materiala egualmente. Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo
colle piante, o co ' brus ti ad alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella
ideata parentela, con cui e gli legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si
vede su qual base vada a poggiar la morale d'Empedo cle. Sulla fisica fondo ei
la sua, metafisia ca, e su quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra
scienza. Con si fatte vedute costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura
il primo, e gulle purgazioni il secondo. In questo Empedocle stabilì la sua
etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come
argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in
verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi
scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo
filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino.
Ma ciò avvenne, perchè Empedo cle, aggiustata la morale di Pittagora a suo modo,
e conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui.
La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di
qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel
corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da
reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da
questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la
metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale
pittagorica. Fu opinione d'Empedocle, che varj spiriti, mentre menavano yita
beata, avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli,
scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti
ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal
cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro
delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il
mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino
all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando
risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e
in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente
informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini.
Queste quindi 120 ta stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i
corpi eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo
il primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena
delle stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion
fa della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che
furono in nanti d ' Empedocle. Questa per la prima volta si legge ne' versi di
lui. Ai suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono
dopo fu quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da Empe docle comincia
una nuova età del pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della
fallenza delle anime, qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse.
Egli è vero, la metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima
presso gli Egizi (91 ). Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più
periodi il tempo della trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata
di tre mila 121 anni. In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima,
informato prima solamen te il corpo di un uomo, andar poi tratto tratto
passando non più ne' corpi d' altri uomini, ma di qualunque animale,. che abita
o l' aria, o il mare, o la terra. E' vero altresì tal dottrina essere stata
dall' Egitto portata da Pittagora presso de' Gre ci (92 ). Non si dubita nè
pure i Greci filosofi coll' andar del tempo averla molto alterata. Altri
restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani, altri pari agli Egizj ľ1°.
estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente, chi disse que periodi esseri
tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che ridussėro la durata d'ogni
periodo da tre mila a soli mille anni. Empedocle fra tanto afferind il nume ro
di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre mila anni. Ma l '
anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni sola volta nel
corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di ciascun degli
stessi, andavano mion 122 1 che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Fui
fanciullo, dicea Empedocle, fui don zella, augello, albero, pesce. Chi è or,
che non vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla
metempsi cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli
uomini, o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la
trasmigrazione ancor nelle pian te (93 ): Ma non si creda mica, che tale ag
giunta d'Empedocle alla dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli
Egiziani, fosse stata in lui l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid
indegno di un nuo vo, ' e original pensatore. Chi si risovviene del fisico
sistema del primo, conosce che si dovea far certamente quest' alterazione
notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa aver avuto Empedocle le
piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima materiale. Ma non
così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero quegli fece passar le
anime e dagli uomi 1 123 ni, e da bruti alle piante, e questi cre dean, che le
anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti. Le a mirne in
somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare informando tutti
que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati organizzati. Ecco le due
novità recate dal nostro filosofo alla morale di Pittagora, ma novi tà ben
legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa delle anime aggiunse Em.
pedocle la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena. Ma quel ch'è più,
a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la demonologia:
articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli quasi ingeniti
all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava lo spirito '
tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al le materiali
e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell' uomo dall' anima,
e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma l'anima, a suo pre q 2
12-1 dere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia, e. però era
sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli, come è misero,
come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti non è ei
sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare raffigurò
Empedocle, giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due opposti
genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni degli
uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d ' ognuno di
loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta lui alla
virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma ambidue
questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure tutto il
volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire fosse'
stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio. Tanto
egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi 125 >
filosofi le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di
errori. L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d'
ope. rar l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in
pratica ! Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la
figura di genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli
distinse i demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli
uomini, De nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi
altri ne sjamo debitori a Plutarco (95). Singolari eziandio, non che speciosi,
esser dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj,
che rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il
tempo, che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è
sfuggita da sifatta ingiuria la nominazione, con cui Empedocle appel 10. le
virtù, felice prodotto, delle regolate passioni. I pittagorici furono usi
chiamare 126 il mondo spelonca, ed Empedocle, qual pittagorico, chiamò le virtù,
e passioni virtuose ' potestà conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo,
come in un an tro (96 ). Il popolo, che in ogni cosa vede portenti, e finge de'
genj, accolse quasi revelazione venuta dal cielo, la de monologia del nostro
filosofo. Gli antichi scrittori, pari al volgo, non compresero nè pure il vero
intentimento di lui. Que sti però dipinsero Empedocle, come chi avesse popilato
l'intero universo di demo nj, e attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di
natura. Ma questa stessa dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e
teurgia fa mosa d'Empeclocle. Questa, in que' tempi cra un metodo di purificar
le anime col favore degli Dei benefici, che dovean con dir quelle all'unione
con Dio. Gli Dei bendici non eran che virtù astratte deifi. cate da lui: è
nella pratica delle sante o pere era riposto tutto il culto di quelli. Credea
egli, non poter le anime ritornare 1 27 agli onori divini, da cui erat cadute,
che coll' ajuto di quegli Dei, perchè credeva altreşi non potersi quelle
inalzare a Dio, che coll' esercizio delle sante virtù. La teur gia in somma
d'Empedocle fu un retto, e diritto nietodo di purificar le anime colle opere
buone. Sembra cosa veramente incredibile che uomini abbandonati al debile filo
della pro pia imbecille ragione, e privi di qualunque superior lume di
rivelazione divina, avessero potuto architettare un piano di quasi per fetta
morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta i pittagorici avesse po
tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e virtù, ma pena dovuta
al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè menomisssima parte, o
abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no, essere un santo
giuramento si spaccia va a tutti da Empedocle. Ciascun anima avvegnachè
virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a Dio, se non
compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. 128 Le purificazioni altro
cardine della mo rale d’Empedocle eran propiamente, secon do tutti i
Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in
quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime
potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i
periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar
si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri
riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di
purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista
o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli
augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da
Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli
uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù?
L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio
materiali. Le ceri. monie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini
níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I
riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la
fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro
spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle
scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai
vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee
immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose
dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni
del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo
studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria
delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che
tanto più la nostra mente si allontana dal r 130 > la materia e dagli
appetiti carnali, quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o
de' principj delle cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in
verità e uso di riti, e studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che
avessero potuto specolare gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe
mai giunta a purificar nè meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero
costoro accoppiato del pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere
il bersaglio, cui dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e
principal metodo di pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto
studio avessero posto costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo.
Tutti quanti (tranne il loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e
super bia ) furono del tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se
stessi, scrupo losamente ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del
propio loro cuore. In estimabile era la diligenza, ch' essi adope 131 rzano a
nettar d'ogni ruggine l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į
medesimi spendevano in contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e
que pre cetti, che si leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì
finito il lavoro della loro morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in
due parti, così alla purifica zione aggiunsero altresì la perfezione (97 ). Non
bastò a Pittagora l' essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e
mondata da vizi, e separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la
ren deva prigione. Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già
prima purificata, si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti,
e forma, si fos se confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che
secondo Pittagora ed Empedocle, erano di loro natura divi ne, ma contaminate
dalla colpa e mate ria ', dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi,
che fossero state degne di tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' 132
immacolato, e innocente viver d'Empedo cle obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e
a promettere ai puri, e perfetti la Divinità come premio. Sin quì Empedocle, e
Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno con questo. L' essere stata comune
l ' opinione tra loro nel principio, da cui la purificazione, e perfezione
avesse avuto sua origine, non fece punto discrepar l'uno dall'altro, Cre deano
ambidue le anime tutte degli uomi ni, e tutti gli spiriti altresì formare uni
ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove i sistemi loro non furon punto
d'accordo si fatti filosofi furon del tutto discordi. Em. pedocle, altrimenti
che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come unica famiglia. Non è più
quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in iscena una terza novità
d'Empedocle, come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol prestar fede ad
Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i Pittagorici della prima
età uccidevano, ec. 133 cettine i bovi destinati ai lavori, ogni sor ta
d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni: s '
astenevan solamente da' pesci. Empedocle all'incontro fu il primo che proibì
affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si
fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in
vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é
questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz
zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non
sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli
quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli
Dei, che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra
di bruti. Cessate, gridava Empedocle, o crudeli, di fare strage, e lordarvi di
san gue: Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo,
e vane preghiere disperge all'aria e al vento. Stol i 134 ti non veggono, che
divorando le fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano
de' lor padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del:
la severità d'Empedocle, e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà
verso i bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro
filosofo. L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello,
che dee le garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di
un uomo di società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere
giammai, se non campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano
lui. Se l'uomo deve avere pietà ver 80 gli uomini, uop' è non che estenderla,
mia cominciarla da' bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i
medesimi, agevol mente il reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli
uomini. Anche tra noi, se non può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di
scannar gli animali, sempre egli 1 135 vero, che debbasi tener come parte di e
ducazione gentile, quella d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la
pietà verso i bruti. Non son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi
filosofi per quegli insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano
stolti. La proibizio. ne ch' Empedocle diede a' suoi scolari d ' uccidere gli
animali, e cibarsene, ebbe in mira non sol di non essere crudeli, e feroci
cogli altri; ma di dispor loro ad amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle
disgrazie scam. bievolmente aiutarsi. Egli non senza sotti le avvedimento si
sforzò così in persona de? suoi compatriotti svegliare allora in tutta la
generazione degli uomini quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell'
altrui traversie: attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso
sopita, e quasi sempre soffogata, ed estinta. Però Empc docle a ingentilir gli
animi umani, e rasla dolcire i costumi degli uomini, volle che questi non si
avessero bruttato le mani del sangue, né avessero mangiato le carni de' 136
bruti. Chi è beniguo co ' bruti non può certo negare agli uoinini amore, pietà,
cor tesia, frattellanza. Pittagora nulla conse guente a' suoi stabiliti
principj della metem psicosi, trascurando quasi tutti gli anima li, ſecesi
soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse recata alcuna ingiuria alle piante,
che non fossero state nocevoli. Ma Empe docle fece molto più, e' meglio assai
di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen timento, proibi poi che si fosse
fatto loro del male: ailinchè non si fossero avvezza ti gli uomini ad offendere
esseri forniti di sensi e di organi. Fu in somma intendi mento di lui in tutte
le maniere, quasi tirando tutte le linee a un centro, stabili re tra gli uomini
fratellanza e amicizia Però fu, sollecito ei d ' ordinare, che oltre agli
animali, si avesse avuto compassione sin anche alle stesse piante.. Sarebbe
stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la morale d'Empedocle, s' egli
non avesse presentato o un premio, una pena agli osservanti, o violatori de'
737 ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del premio, e il timor della
pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano, inco raggiano i buoni a
operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il vizio. E' ben ragionevole
quindi, ch ' Empe docle avesse pigliato una via come stabili re e premio', e
pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando al par de
pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila anni di
ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far cir
colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di tre
mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano esse
in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto,
passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le
medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè
finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna. S
138 To appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando
tratto tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri
uomini. Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi
dieci periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in
ciascuno di essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran
tenaci ne' vizi, giusta Empedocle, bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo
alle tenebre, e in un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che
virtuose al compir di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo
lui, si portavano all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi
a mensa coi forti Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò
si raccoglie da ' versi d ' Empedocle. Così pur si pensava da' pittagorici di
Sicilia; nè al trimenti si canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e
Terone (98 ). Ecco tutto, il quadro compito della intera mora le d'Empedocle.
139 Egli è senz' alcun dubbio, essere stata questa assai raffinata, e, molto
diversa da quella del volgo. E ' cosa da recar mara. viglia l'osservare, com '
essa in tempi assai caliginosi, fosse stata tanto bene architetta ta, cosi
brillante, e del tutto diretta a ri. pulire il costume, a liberar l'uonio, quan
to più s' avesse potuto dai vizi, e a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid
nulla ostante ella ha eziandio i suoi gran difetti. L'essere stata la stessa
riservata ai soli sapienti, e ai soli iniziati ne fu il principale. Quel
sistema d'Etica, che non è fatto per tutti gli uomini, non può esser giusto,
santo, verace. Tutti quan. ti gli uomini sono astretti agli stessi doveri, e a
una sola virtù, Si può considerare, & gli è certo, la scuola pittagorica,
qual.ce nobio, é i pittagorici quali religiosi dell' antica Grecia. Ma
l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea yane le loro fatiche, avvelenava
ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi degno di lode il nostro filosofo,
che osservantissimo de' precetti pit § 2 110 tagorici non ebbe difficoltà di
manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica zioni per solo e
semplice amore di onestà, e di virtù, Empedocle, tranne la super bia, radice
infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come quel lo,
che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse aspirato sempre
a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a' tra passati; le
lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè recar loro
diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è privo di
senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la vanità de'
viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli omaggi, che si
tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare la stessa
gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire. Del nome
d'Empedocle fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La
filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra
Greci e Latini (99). Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia
delle scienze, ch' Empedocle si può dir, che appartenga a tutte le più colte
nazioni. La Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual
suo. Felice quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini !
La memoria e la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l'
emulazione, e ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome
d'Empedocle, caro alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica
de cor pi organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta
la materia a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di
repulsione, di affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe.
rienze, la terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della
successiva propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del
nutrirsi, del traspira* e 142 re, dell'essere ovipare le pianto al par de gli
animali son cose tutte propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi
ritrovamenti, tosto si rese celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno
de' concorrenti di venne tra Anassagora e Democrito, La gloria d'Empedocle, che
in gran parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero.
La Sicilia è la stessa oggi, ch'era allora ai tempi d'Em pedocle. Ella in
ogn'angolo, e in tutta quanta la sua superficie presenta a' nostri occhi
oggetti sempre degni di nostre filoso fiche ricerche. Piante d'ogni sorte,
acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e i più distinti volcani
esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chinico, il Botanico lo storico
naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame. E ' no stra somma
vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a insegnare a noi le
cose nostre. Si saran forse cam. biati il cielo, il clima, la terra, che un di
furono ne' tempi de' nostri antichi filo 1 143 sofi? 0 pur saran venuti meno
gli inge gni tra noi? Non sono eglino i Siciliani dotati ancora o d' acume
nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di pre stezza nell' eseguire,
che loro hanno in o gni tempo distinto? La Sicilia una volta e. mula della
Grecia in ogni genere di colo tura non potrà anche a di ‘ nostri con correre e
gareggiar nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio
dell' aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci
sarà di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via,
che conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti
quindi in ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la
grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni
nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni
d'ammi razione noi ricordiamo Empedocle. Empedocle non che fu eccellente filo
sofo: ma fu del pari profondo politico. Si 144 ciliani, non andate quà là ad
apprender ta pini da questo e da quello ordini civili, e fogge di governo.
Guardate i maestosi avanzi delle nostre antiche città;specchia. tevi su li
nostri passati famosi legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi,
non che della nostra Greca Sicilia, ma del la vita d'Empedocle. Così tratto
tratto di verrete atti a maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra
voi politica non cabala, libertà non licenza '. Empedocle, convinti un dì i
nobili di Gergenti di peculato, atterrò ivi la lor si gnoria: Non è disdicevole
quindi l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda
di nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de'
pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di
ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie
più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion
delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con 145 peso sulle città
immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare
schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il
tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate,
minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il
popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. ' Gia la voce
del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa
insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico
impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire
de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà
or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri
nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to,
che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi
fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si
possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra,
unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace
qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato
agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi
nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a
voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica
feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza,
Ma Empedocle dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi
presi del fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe.
Quante altre cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli
poten do in Gergenti stabilire un governo collo cato tutto nella potestà del
popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in quella città;
e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con cui
s'amministrano le cose pubbliche, è la ma 147 solida base, su cui dee riposare,
volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non
altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il
popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere
costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a
soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza,
di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario,
esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi,
e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto
corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in
Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un Empedocle. Egli ad
assodar vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria,
ebbe in fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub
blico civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è
questa da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più
che si può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può
fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente
corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza
nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non
potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima
quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le
false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri
antichi felicissimi tempi. Ma se i Siciliani tutti debbon trarre qualche utile
insegnamento dal nostro filo sofo; i Gergentini massime ne dovrebbero emular la
virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui sfolgora, riflette e va a
concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero ricordare i Gergentini, ch '
essi prin cipalmente a Empedocle son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e
così famosi nella nostra sicola storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare,
che vicino a que' tempi, che vis sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo.
lo, che calcano i Gergentini 'medesimi, det tò allora Empedocle a Gorgia
l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli stessi quindi a
ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero richiamare tra loro e
le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra amena e polita lettera
tura. Allor si potranno i Gergentini glo riare a ragione d' aver prodotto, e
dato la culla a Empedocle. Così eglino saran vera mente degni concittadini di
lui. Ne altri menti si potranno lusingare gli stessi di far risorger tra loro
il verace spirito d' Empe docle, e di poter quivi dire allo straniero. Dell'
eccelsa sua mente i sacri versi Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte
invenzioni, e si preclare Che credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse.
1 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L LA TERZA MEMORIA. 153 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L
I A TERZA MEMORIA. > Il n'est pas ) Freret raffigura l'attrazione e re
pulsione di Newton nell'amore e odio d ' Empedocle. E però dice besoin d'un
long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien, dé pouillé de
l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d ' Empedocle, Hi
stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres T. 18 Memoires
p. 102. (2 ) Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω.
Εμπεδοκλης και TYTO TAUTO TETOVIE „ Empedocle, di cui al cuno potrebbe portare
opinione aver, detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi;
egli cadde nel medesimo in 60veniente Arist. Metaph. 1. 3 cap. 4 il • 54 πος
και 8το! O (3 ) Arist. de Coelo 1.3 cap. 4 Λευκίπι και Δημοκρίτος Αβδερίτης
φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα δε αδιαιρετα τροπον γαρ
τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων • και γαρ ει μη σαφως
δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν, Leucippo e Democri to dicono le prime
grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in cer to modo
fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano chiu ro; pure
questo vogliono dire. » (4) Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των τεσσαρων
στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη και Empe
docle prima de' quattro elementi supponeva de minimi bricioli, ch'erano non
altrimen ti che gli elementi degli elementi, e par ti simili Stob. Εcl. Phys.
1. 1 p. 33. Ε più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των
στοιχείων »και elementi degli elementi. (5 ) Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι
ατος μον εσται το σωμα εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι 155 8 μεν του διαι
εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. » Se lo
scioglinzento delle parti si fermerà in qual che luogo, domando: o il corpo in
củi ri starà è indivisibile, o è divisibile; ma in alcun tempo mai non si potrà
dividere, co me pare ch ' Empedocle abbia voluto dire, Arist. de Coelo l. 3.
cap. 6. Sicchè Empe docle ammettea la divisibilità col pensiero non già col
fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη οντος μηδεν γινεσθαι
nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev significava ciò ch ' esiste e
il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia il des per corpo e il under per
yoto. Ma diverso era il significato dell' del ov. Empedocle ed Anassago ra
chiamavano Oy la materia dotata di qualità sensibili. E Democrito ed Epicuro la
materia fornita di figura. Al contrario i primi due indicavano col un oy la
mate ria priva di qualità, e i secondi la mates. ria senza figura. Di fatto
Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1. 1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε
μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L Latini tradussero il δεν per res o
corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come non aveano parole corrisponden ti
all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle stesse parole res et nihil. E ' nato
da ciò un equivoco nell' intendere i Greci. Questi non solo dissero nulla farsi
da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono niuna cosa, che ha qualità,
poter venire dalla materia priva di qualità. (8) Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής
) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα • γον εστι γενεσθαι και
Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia impossi bile venire un
essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je Arist. de Xenophane Zenone
et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους ειρημενοις γην προσθας
τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi, aggiungen do la terra
per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3. 157 (9 ) Σεληνην δε
φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα πυρος • τατον γαρ
παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle, essersi condensata da se
a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco; perciocchè questa 'si
con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang. I. 1. cap. 5. Lo stesso
dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I sassi e gli scogli sulla
terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza del fuoco. Plut. de
primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro filosofo, chę i cieli
siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione del fuoco. Plut. de
Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα πρωτος (Εμπεδοκλης ),
απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο
τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι και υδατι, pedocle fu il
prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella materia. Nondime no di
questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero ' quattro, ma due soli. Mette
il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua, ' la terra, l'aria, quasi
avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 4. (12 ) Origen.
Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας μηχανη χρηται τω προς
την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua cosmogonia non altrimen
ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 ) Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα
) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα • μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία
διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς συγκρίνεται και των αλλων στοιχων
εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα
μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την
ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε
και εναντιας. Non di rado presso d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia
unisce. Imperocchè quan. do per l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY
159 gli elementi; allora il fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli
altri elemen ii. Quando poi per via dell ' amicizia tutti gli elementi si
uniscono; allora è di ne cessità che le parti di ciascun elemento si separino.
Però Empedocle fu il primo, che superiore agli altri più antichi di lui, divi
dendo questa causa, intro lusse non un solo, ma piii e contrarj principj di
movimento: l'anticizia cioè e l' inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L '
vero che qui Aristo tile cerca di cogliere in assurdo il nostro
Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l' amicizia talvolta separa, e
l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno confes sa che giusta Empedocle
l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di moto. E in ciò loda il n'ostro
filosofo, e l ' inalza so pra tutti que' ch'erano stati prima di lui. (15 )
Molti sono i versi d' Empedocle che lo pruovano, che noi rapporteremo ne' fram
menti di lui. Ma Aristotile lo dice chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols
peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l '
inimicizia inerente alle cose, tutte queste non farebbero che uno come dice lo
stesso Empedocle,, Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l.
1 Com. 29,, rapporta che giusta Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre
tutto in una sfera lovely o zipov (16 ) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο.
μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo il fuoco lité perniciosa Plut. de primo
fri gido. E lo stesso Plutarco ne soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la
facoltà di dividere e separare. (17 ) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 )
Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19) Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich.
ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art. Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3
taph. l'opinione d'Empedocle sul circolo pe renne delle cose in virtù delle due
forze amicizia e inimicizia si lagna del nostro filosofo, che introduce la
necessità senza recare alcima cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161
αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 )
Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10 Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle
note a Cudwort. (22) Αρχη η φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και
Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την
φυσιν αναγκαζεται φαναι τον λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε
γάρ εν τι των στοιχεων λεγει αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της
μιξεως αυτων etc. Il principio delle cose è più presto la nä tura che la
materia delle cose.. Empedocle tirato dalla forza stessa della verità spesso è
costretto di confessare che la sostanza e la natura altro non sia che la
ragione o proporzione: ' come fa allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice
che l'osso non cen ga da questo o du quel elemento', nè da due elementi, nè da
tre, nè da tutti, ma dalla ragione in cui questi nell' osso si stan. no ec. is
Arist. de par. Animae l. 1. cap. E poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362
2 i filosofi prima d Empedocle non fecerd lo stesso perchè non soleano definire
ciò che fosse la cosa astion de to. pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον
τέτον, το τι ην αναι, και το ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de
Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist. Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid.
(25) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em
pedocle che gli animali, subito che nacque ro dalla terra, si divisero e
portarono in luoghi convenienti al loro temperamento. Que' che abbondavan di
fuoco o nell' ac qua o nell'aria. Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la
terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol. 3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La
massa tutta del seme, che noz mostrava alcuna forma, o figura chiama va
Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re tutta la natura organica secondo
Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag. 134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile
l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell opinione di Xenofane che credea la terra
infinita estendere sino alſ infinito le sue radici, soggiunge do
xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche co si lo sferzò, e
soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne' frammenti di lui.
(29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και Εμπεδοκλης μεν
υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι. Empedocle è
d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che sono agli occhi
di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle profondità dela la
terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae caleant", quae dam
etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui nisi aut in aperto evanuere,
aut mixtura frigidae intepuere, plures causae redduntur. Empedocles existimat
ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit, aquam ! X 2 164 calescere, si
subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est. Facere solemus dracones et
miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui fistulas struimus per
declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua per tantum fluat
spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in trat, effluit
calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca Quest. Nat. i. 3. (3ο)
Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς αναβλυσαι το υδωρ la
terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della girazione spicciò l' ac
qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα (γη ) ζητεσι την αιτίαν
και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και το μεγεθος αυτης αιτιον,
οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω περιθεασαν και θαττον
φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις κυαθοις υ δωρ και και
γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά γινομενον ομως ου
φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99 Alcuni cercano il
perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne cagione la sua
grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di pare re, che il
cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per cui la terra
non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice. Poichè seben
questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure l' acqua, che
di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima della girazione,,
Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe Lunae, (33 ) Plut. de
Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de anima 1, 2 cap. 2. (35)
Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο τα ηλιο φως ας το μετα
ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως συμβαινειν Empedocle
dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge nel mezzo, e poi
all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona ragio ne » s. Arist.
de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in prima avea il Sole per
una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un altro sole šíecome
attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle che il simile si va
sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale il dire che la luce
lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra, nasse di nuovo ad
unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro, tornasse a
risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth. orac.. che
la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν • (37 )
Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri, appongono ad
Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali l'uno mandava
rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans recourir á l’in
stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité disoit que cette
objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en mouvement; mais que la
terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant, du ra yon, et voyoit
l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux aujourd hui a cette
objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation successive de la
lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques Tom. 1 P. i lib. 3
pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος ανακλάσει τιγί τα ηλια προς
την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ' αυτης οθεν 80's. Jequor de
deep porn Resta dunque co me vera la sentenza d'Empedocle. Però la luce lunare
non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in orb. Lunae. (40 ) Est - il rien
de plus juste que ce vers, dont voici la traduction litterale de Greg en latin
circulare circa terram yolvitur a lienum lumen dit- il en parlant de lo lu ne?
Achille Tatius en tire une preuve qu' Empedocle a regardé cette planéte comme
un morceau détaché du soleil. Il n'a pas conçu que cet alienum lumen vouloit
dire lumière empruntée, ce qui est très-confor me a la verité. Montucla Hist.
des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1. 3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ).
Empedocles plus duplo lunam dia stare censet a terra quam a sole. Galen. Hist.
Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και
σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il Sole essere una gran massa di fuoco più
grande della Luna Laert. in Emp. (44) Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma
che la Luna al dir d'Empedocle giraya a simiglianza d'una ruota: Ora in que'
tempi si esprimea la rùvoluzione d'un corpo intorno al propio asse sotto la
figura ra d'una rủota, Cosi di fatto indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di
Ponto, Eco fanto di Siracusa, il movimento della tere ra intorno al propio asse.
Per altro i Pit tagorici sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi
presenta sempre lo stes so emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo,
se la Luna girando intor no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché
è da credersi cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu
na. Ma come Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi
io non ho creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45)
Fabricio Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med.
luogo. (48) Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην
εν αυτός και συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως
Εμπεδοκλης αρήκε φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche
cosa d' alimen to uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo.
Per lo che Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto
1. i cap. ' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ '
ωοτοκεί μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος
αυτα γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται
το φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern »
Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono
ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la
nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá
la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap.
23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i
cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova
esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi
ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme.
Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha
dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη
= τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α
ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος
κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra
d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle
piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in
quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu.
ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che
queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i
cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή
κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe
ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles
quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris
semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap..
petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri
concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de
Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12
Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια
της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων
ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla
fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor
prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph.
I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d
Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj,
che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut.
de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem
ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum,
oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26.
173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le
fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la
disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω
και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν,
αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » »
A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della
rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi
pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che
quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere
negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme
edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française
ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5
cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap.
26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med.
luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap.
22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de
Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist,
de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5
cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria
seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4
Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα
πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle,
abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist.
de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι
ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non
veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di
fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1.
4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la
visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen.
anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles
animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9
e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν
οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας
αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν
τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον
εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere
il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi
essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e
l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello
spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus
iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut
orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos
subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut
interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil
cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 )
Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη
01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire,
che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1.
11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι
λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante
sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1.
(89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις
απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser
fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac.
Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26.
(91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα
γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται.
επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες
ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν
τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere
immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale;
dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o
aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l
anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι
Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω
αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la
metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio
scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp.
adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι
συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως
Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται
μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di
noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta
la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che
ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da
due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co'
nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 )
Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα
τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα
αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste
cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero
occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le
potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto
quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem,
Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl.
in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica
dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama
atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa
» 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri
tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come
questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato
nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice:
que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do
ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella
pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno,
dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e
splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la
metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima
del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo
tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi
eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso
delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e
quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in
fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco
liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo
dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015
Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e
nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro
pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il
poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio
gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio
si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε
το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che
įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente
gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per
non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la
furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli
antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare
Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co
l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί
α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da
Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la
filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella
di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell'
auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut
scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum
veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo,
cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma
privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80,
ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi
pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator
Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui
stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι
μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε
οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και
φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l'
interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per
l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato
un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come,
crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C.
Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di
quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re.
Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio
di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato.
AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri
potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον
θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι Ꭸporgy etc., Degnissimo è l '
imperadore di ammirazione e di venerazione non che per le cose, che in quella
legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la libertà del la religione, e
perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio dettate, con perizia 185 non
minore di quella, per · Giove, che non fece quell'antico Empedocle., Di che si
vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui allora si tenea il nostro filosofo,
che ad esso si comparava l ' Imperadore Gioviniano, allorchè si volea lodare.
Abulfarage presso gli Arabi, secondo che dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474
loda Empedocle, come chi avea ottimamen te conosciuto gli attributi divini.
Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata vinovata da Campanella, da Magna.
no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me desimo luogo. Per lo che si vede
chiarissimo quanto male Orazio conoscea il nostro filosofo; allorchè disse. Ep.
12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii deliret acumen. a a 187 MEMORIA
QUARTA Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino. ROM nico è l' oggetto
di questa ultima mes moria: presentare a un colpo d'occhio tute ti accozzati
gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò molte, e quasi tutte,
com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure niun poema di lui è
venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi ci restano L'inno ad
Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto, bruciati. Il poema sulla
sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo discorso sulla medicina
non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi, se questo fosse stato
scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa secondo Sui da. I frammenti
in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si conoscono, ri guardano e fan
parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni: l' uno sulle purgazioni,
l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen tini; il secondo a
Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de' fram menti de' versi
d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a questi due gran poemi.
Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj tempi praticaron lo
stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel suo Ibro della
poesia fi. losofica. Giovanni Alberto Fabricio prese appresso il pensiero
d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe.
Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto
Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il
frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita
delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi
d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch'
attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano
nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio
travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de'
versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di
raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar
delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di
manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe'
vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però,
mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per
cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che
sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto
più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo
si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria
debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un
Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di
Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti
versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d '
Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo
disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di
potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan,
do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando
correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o
falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di
questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento.
In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata
egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà
certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa.
Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna
degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come
un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella
terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle
smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco
valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice
Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della
prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato
Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera
poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia,
e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo,
e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea
preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro.
Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che
savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia
d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla
tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle
un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode,
che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il
primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo
contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che
comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed
Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama
egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi
mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle,
che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed
eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro
argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il
sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia.
Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non
concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o
del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo
leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti
persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e
questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib.
1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o Siciliano e Pittagorico, non mise
in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più
polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi
versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più
dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse
di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e
l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non
lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo
più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura
delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere
qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di
san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a
Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto
d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca '
egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio
ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo
seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi
testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc
cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle
sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole,
le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi
dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi
essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle
immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti
ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196
cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati
da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti;
gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica
come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle
esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge
nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con
quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della
visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della
clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si
conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si
prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche
nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si
sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da.
quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal
elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di
cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè
diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto
perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla
sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema
da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser.
diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati
trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo,
o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli
scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora
d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori
doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in
ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la
ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro
tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con
frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi,
che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è
cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso
libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con
cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e
l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo
qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare,
nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200
ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί
αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2
) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η
αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ
εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων
τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις
Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε
δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I.
Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta
E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con
solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che
piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro
radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite.
Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora
Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte.
Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC
20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα
φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν
εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν
γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε
ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ
τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν
γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ
και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον
εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ '
ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε
φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ "
αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε
λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ'
αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο.
Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a
separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza
Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia, Standosi
in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi dall' un
già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai stabil.
Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di un
cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo spesso
sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la somma
del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più si
forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria
d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa,
ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la
contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν
καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο
επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται
αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi.
Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente
Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La
chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse
involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la
lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l
' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al
fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò,
ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver
non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non
v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora
venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli
è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση
φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ
αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια
θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς
μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα
μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον
αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα
πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε
μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5)
207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda
Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la
lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui
si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un;
ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi,
che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que',
che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron
puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il
tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni
fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto
sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d'
immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ '
ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ '
ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα
σαρκος (6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων
λαχε νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης
κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della
morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando
sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in
somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son,
d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della
bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or
mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual
s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi
formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor
sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara
due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro:
dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και
αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης
προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα
πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην
οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’
οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και
Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa
bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e
lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame
o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder
l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui
vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è
scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all'
altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e
per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e
piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son
d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per
gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han
moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν
Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα
φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ'
εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες
τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ
' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν.
ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι
περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ
εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων:
Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua
perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in
dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello
Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini
Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;.
Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e
per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal
qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur
per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non
è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio intorno
rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a vicenda, ed a
vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε δ ' αυ διχ'
εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα γενηται. Ουτως
η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος πλεον εκτελεθεσι.
Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα
λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ Τεσσαρα των παντων ριζωματα
πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην
οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε
Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα
(12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce, Tant' altre razze di mortali han
vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto si unisce; ma talor per stizza Di
lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in alto, finchè non s'unisca. Cosi
l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già nato il più rinasce. Entrambi
han vita, ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l'uno, e l' altro Alterna,
e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un cerchio eternamente gira. Quattro,
figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son radici di tutto: il fuoco, e l'acqua,
La terra, e l ' aer d'un immensa altezza; Perchè da questi sol viene, e deriva
Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard. Dopo, che lite, la gran lite ascosa
Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli onori salt. Perchè l'impero
Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed eterno giuramento. 256 Αρτια
μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα
Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ ' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον
εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ' αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων
διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα
και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω
• φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον
μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι. φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14)
Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και
κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto,
perchè tutto ha pari Íl numer delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il
Sole, il Cielo, il Marc E tutto quel, che tra mortali errando Miste ha le parti
giusta sua natura. Ciò, che ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce
al suo simile, Giacchè le cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le
divide L'inimicizia. Nascon quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la
tempra, E per le forme, ch' hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce
allora Ch' appetiscon le cose il generare. Un altra cosa a dichiararti io
prendo: Nulla ha natura, nè mortale ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol
miscuglio, E delle cose miste è scioglimento Ciò, che natura gli uomini
chiamaro. Quando a caso nell'aria s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la
razza, O quella degli uccelli, o delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ
δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15 ). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε
πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8
γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον
Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον
ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον
ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη
ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ
ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi,
allor si dice Che nascon essi; e quando si discioglie Il miscuglio di lor, ch'
han trista morte, Lib. II. Come nel separarsi il fuoco trasse De' maschi i
germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi, che 'l dire Rozzo non è,
nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla terra i tipi Spuntaron tutti.
Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil -bramando, Restaron quelli sol
umide forme, e l'immago per lor parti aventi. Però nel tipo de' lor membri
ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo, non ancor l'organ di voce, Nè
la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon de' mostri con due facce, o
petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini quelli con bovina testa,
D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν πολλαι κορσαι αγαυχενες
εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18 Βραχιονες γυμνοι χωρίς
μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε
μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα λελογχε βια θαλέθοντος εν
ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι
ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν, υδρομελαθροις Θηρσιτ’
οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα παντα και εκπγ: πασι
λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και σφιν επιστομίοις
πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε φαγον μεν Σ 221
L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz' aver cervici.
Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza spalle fatte, I
membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per anior talvolta S'
uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della verde etate.
All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là d' intorno
Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi, alle fiere Che
montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli uccelli Che solcan l
' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti L' aer dentro si tira,
é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli estremi del corpo, e
metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ Kευθαν αιθερι δ
ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν αμα Αιθαρ
παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1. ωσπερ
οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ' ευκαδα
χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’ ομβρος
εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ α τ
οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων υδωρ.
Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί » χροι
ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο
δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν
Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα
κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα
κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223
Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii.
Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit
Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle
In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle
Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo
Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di
facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura
Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di
spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa
intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando
a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena
riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον
νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria
sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar
pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In
altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base
forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d '
entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini
gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di
sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base
gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira
Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi
quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come
d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας
παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων
Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι
ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν
εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ '
εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και
τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν
υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη
κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227
Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che
da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il
soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto
illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il
naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in
le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia
dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà
fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi
cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo
trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui persuasion
entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα Αλλα Φρην ιερη
και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ
ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα
παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν η δ αθηρ σφιγγων περί
κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato, Che su membri
s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non have Ginocchia,
che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti Che vergogna, e
lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer non si può da
nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier ricerca, e
scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri appartengono.
Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e d'onde
ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo sen
chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e
tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 )
Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα
ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος
κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον
Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων «
σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο)
Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon
pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan
discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in
alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan
lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U
Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne,
E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere,
Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel
punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη
συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 )
Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης
πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα
οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη
καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης
πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237
Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle
man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso
s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man
le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le
pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In
tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ
', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα
χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα
διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν
ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και
εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια
τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria
ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce:
Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino
diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella
femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte.
Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli
arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236
Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν
απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру
тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην
δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και
σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα
κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς
παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια
παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i
raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo
della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere,
e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite.
Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi
la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal
sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare
dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le
cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59
). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον
ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν
καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης
Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και
οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ
ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων
απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero
poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo
Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste
Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla
forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra
musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa
natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o
pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a
cui le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man
ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε
λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε
γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67
κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος
ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι
κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος
Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar
le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte
di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la
terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba
de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi
sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la
farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno
in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero
eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν
αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ'
ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας
(72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’
αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην
αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος
ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ
' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης
Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo
il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti
Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di
pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra
il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra
mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la
porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei
fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s'
avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che
non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom.
Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo
hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων,
καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων
θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ
ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον
Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον
εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ
τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε
γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla
lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima
vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian
disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir,
che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor
presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier
docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai
ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il
tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la
fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i
suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch'
all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα
γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ '
ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν
Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια
κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα
δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος
(76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la
fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero.
Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che
tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che
con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur
se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra
procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca
state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran
movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti.
248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην
πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος
ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε
θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι
σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν
μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν
(77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι
πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti,
abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante
bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè
qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti.
Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè
sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e
mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali
s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi
a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di
guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè
d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor
m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις
αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις
μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και
αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε
διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ '
αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα
λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei
Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita
Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi
dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del
fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila;
ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul
ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro,
caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su
lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli
scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i
giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε
και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω
πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε
(84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε'
αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87).
Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε
κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες
οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi
la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo
piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali
affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual
grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo,
e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto
al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza
voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra,
abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ '
αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης
τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92).
2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε
τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα
σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν
εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ'
εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor
fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la
cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e
Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto
oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io,
mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala
della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio
non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che
chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia
prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '.
Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος';
8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον
υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες
οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως
πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι
(96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι
χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e
l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si
sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete
colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che
mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi
cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma
quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di
minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte
Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi
d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi
spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie
labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ '
εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι
γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99).
Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα
μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι
ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101
). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες
απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma
sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e
divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato,
non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che
possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di
pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I
medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü
d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii,
d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν
κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε
μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των
οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103)
ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα
κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται
Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra
d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel
seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte
Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte
schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col
pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone,
Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua
patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba
ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου
υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους
κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας
απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον
αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107).
263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è
discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti
languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse.
Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri,
del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i
genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro,
che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O
COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo
verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas
αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e
que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma
la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica
come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de
Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono
dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil.
afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son
rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp.
adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl.
Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i
quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene
da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo
Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da
yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli.
Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1.
cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed
al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp.
Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di
Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per
quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog.
v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è
formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono
riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al
15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem.
Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l
10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè
si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10
). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura.
Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel
primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi,
täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato
in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è
posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati
amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c
in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di
essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle
mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’
versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo
che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys.
4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che
l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14
aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome
0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da
dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i
corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa
interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac
ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il
più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24
cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271
lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso
Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo.
L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod.
Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni
altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel
30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'.
Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne
del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso
Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da
Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo
libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri,
che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel
verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in
Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502,
Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed
Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in
tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v.
77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια
φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6
).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi
a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L'
epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all'
etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso
Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo.
Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν
πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati
vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II.
1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL
deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8
) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9
presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e
nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ. αγε
των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον
επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov
legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti
colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di
sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel
testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a
negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m
m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene
all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero
so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua
natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi
vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa
Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα.
It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al
v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10
l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono
tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il
Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys.
aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che
Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere
collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi
ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11,
e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell'
11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v:
560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i
versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però
si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver
si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11)
Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il
terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom.
I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle
nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico.
Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono
collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4.
Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept.
vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono
appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due
forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice
del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è
tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le
parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari.
Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro
elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De
Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati
nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως
και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v.
797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod.
in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca
che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris
nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me
in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di
natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono
una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi
fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in
genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 )
Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8
Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων
διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta
questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de
maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan
par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla
nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti
i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle
parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro.
IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo
Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma
de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in
questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari.
Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran
tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi
sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen.
I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de
coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si
è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono
da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma
niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più
bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica,
in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro
respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è
stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen.
do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto
chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini.
Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em.
pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso
WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica
ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200
Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406.
L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371
ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che
non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore
che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano
corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v.
395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de
sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il.
9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e
simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85
ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li
succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys.
5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v.
526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto
ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel
i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione
delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 )
Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso
Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1.
5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli
ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta
ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser
disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil.
7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY
TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro
delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il
pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea
n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so
manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi
si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al
mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece
pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta
che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2
de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem.
Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater.
et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l.
7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con
Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et
de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito
xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult.
1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys.
and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come
dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v.
352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog.
(36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl.
l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta
epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med.
luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44)
Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6.
La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest.
Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener.
anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener.
anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon.
p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da
leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota
(35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da
Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv.
Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in
questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il
tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si
adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso
come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 )
Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L'
última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un
imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε
εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel
med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 )
Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod,
interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO
è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63
) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3.
quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66)
Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos.
(67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut.
Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de
Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi
si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve
nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da
Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo,
e non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche
rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA,
ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi
conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al
senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 )
sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc
vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan
parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75
) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4,
5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni
παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so
Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime,
presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V.
82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv.
Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi
Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός
των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8.
Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge.
giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79)
Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur.
carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο
Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno,
e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81
) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom.
1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85)
Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl.
Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem.
" Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen.
Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al
pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto
ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli
ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può
comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90)
Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur
gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την
αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα
λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da
stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte
lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L'
epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto
έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di
μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad
Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco
πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον
υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle
filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera
pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui
indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e
tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem.
Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da
Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son
collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che
riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα
περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. »
Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale.
Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto
supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir.
adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è
tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due
altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di
Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si
ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero
nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l.
2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v.
83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso
somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d '
cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100
) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes
sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due
versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in
luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor
risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι
ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur
ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione
vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si
potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn
leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi
sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth.
p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in
questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce
Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è
diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran
monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va
scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto
e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105)
Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè
liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò
Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s'
attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri
ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2.
Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione,
che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè
non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della
generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo,
eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107
) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica.
Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser
d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come
ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne'
suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA
SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις
Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες
ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και
Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu
egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano
otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a
governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola
pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35,
che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici
consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice:
“If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of
Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic
Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have
happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle
da Girgenti – Keywords: Girgenti -- Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e
Girgenti – la parola che non s’incatena – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I love
Girgenti for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he
has elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if
ever one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is
welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina,
Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini,
Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo
in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia
riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero
forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra
filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il
platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema,
applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la
"fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina
deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico,
che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione
dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere
analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio
evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana
sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la
"Ellenizzazione del cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui
nell'incontro con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione
originaria (e dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una
posizione mediana potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo
cattolico e le chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi:
“Porfirio: catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il
primo cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero,
Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano,
Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti,
Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova;
Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista con
Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda
biografica, curriculum e nel sito
dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di
pubblicazioni Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia
sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il
pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di G. Reale, Vita
e Pensiero, Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e
apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino
Boezio in appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino
Martire, il primo cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di
San Giustino”. Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano,
Giustino, Apologie. Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda
Apologia per i Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”,
introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte,
Rusconi, Milano, Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari
analitici di D. Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole
chiave e indici di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano,
Porfirio, Sentenze sugli intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e
apparati di G. Girgenti, con in appendice la versione latina di Marsilio
Ficino, Rusconi, Milano. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione
tra henologia platonica e ontologia aristotelica, introduzione di G. Reale,
Vita e Pensiero, Milano, Porfirio,
Storia della Filosofia (frammenti), a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti,
Rusconi, Milano, Introduzione a Porfirio, “I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La
nuova interpretazione di Platone. Un dialogo di Hans-Georg Gadamer con la
Scuola di Tubinga e Milano e altri studiosi (Tubinga), introduzione di H.G.
Gadamer, prefazione, traduzione e note di G. Girgenti, Rusconi, Milano, nuova
edizione ampliata: Platone tra oralità e scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio,
Vita di Pitagora, monografia introduttiva e analisi filologica, traduzione e
note di A. R. Sodano, saggio preliminare e interpretazione filosofica, notizia
biografica, parole chiave e indici di G. Girgenti, in appendice la versione
araba di Ibn Abi Usabi’a, testo greco e arabo a fronte, Rusconi, Milano, J.
Patocka, Socrate. Lezioni di filosofia antica, introduzione, apparati e
bibliografia di G. Girgenti, traduzione di M. Cajtham l, testo ceco a fronte,
Rusconi, Milano, nuova edizione:
Bompiani, Milano, K. Wojtyla, Persona e Atto, a cura di G. Reale e T. Styczen,
revisione della traduzione italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P.
Mikulska, testo polacco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani,
Milano, Struttura dell’anima dell’anima secondo Agostino e presupposti
neoplatonici, in: Autori vari, Coscienza. Storia e percorsi di un concetto,
Donzelli, Roma, Der Begriff der Verantwortung in der Welt der Antike und des
Christentums, in K. Götz – J. Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und
Gesellschaft, Rainer Hampp Verlag, München; J. Seifert, Ritornare a
Platone. La fenomenologia realista come riforma critica della dottrina
platonica delle idee, in appendice un testo inedito su Platone di A. Reinach,
prefazione e traduzione di G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari,
Incontri con Hans-Georg Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti,
Bompiani, Milano, Porfirio nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico:
Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, Due fonti
neoplatoniche indirette di Cusano: Porfirio e Giamblico, in AA. VV., Nicolaus
Cusanus zwischen Deutschland und Italien Beiträge eines deutsch-italienischen
Symposions in der Villa Vigoni vom (Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts,
Bd. 48), hrsg von Martin Thurner, Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi,
traduzione di R. Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di
G. Reale. Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani.
Classici dello Spirito”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano K. Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte
le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale e T. Styczen,
apparati e indici di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2003. Diogene
Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi. Commentaria
in Porphyrium a se translatum (editio secunda). Boethius Georg
Schepps Samuel Brandt University of Leipzig European
Social Fund Saxony Gregory Crane Jouve OCR-ed,
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CTS/CITE Architecture. Latin p. 46
Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis
expediet, in qua quidem uereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum
uerbo expressum comparatum- que reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his
scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis
lepos, sed incorrupta ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse
uideor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae
translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et
quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum
est, ANICII. MALLII. SEVERINI. BOECII. IN YSAGOGAS PORPHIRII. A SE
TRANSLATA EDITIONIS SECVNDĘ LIBER PRIMVS INCIPIT- P; BOETII EXPOSITIO
SCDA IN YSAGOG. E; BOETII COMMENTA IN ISAGOGAS G; INCIP COMENTV BOETII,
in isagogis porphirii; Expos Scda L; COMENTV BOECII IN
ISAGOGAS R; inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH recens
quaedam est), item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam
continentibus ΛΣ ; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN
LATINVM A VICTORINO ORATORE (sic) ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM
(HΥS- \ ) POR- PHYRII (I pro Y Π ) AII ,- Icipidt
isagoge porphyrii (m. poster.) Ψ; de titulo
operis cf. Prolegomena 6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133.
11—13] cf. Cic. Acad. post. I 3,12. 6 fędi C
foedi Hm1N infidi FGm1 7 uerbo] e uerbo N 8
incoepti CEGHPRS 10 corrupta Em1Sm1 incorruptae
Em2 (e in mg. add. sed del .) Lm1 11 uidebor
brm 13 graecis Lm2 ut uia et filo quodam procedat
oratio, ex animae ipsius effi- cientiis ordiendum est. triplex omnino animae
uis in uegetandis corporibus deprehenditur, quarum una quidem uitam corpori
subministrat, ut nascendo crescat alendoque subsistat, alia uero sentiendi
iudicium praebet, tertia ui mentis et ratione subnixa est. quarum quidem
primae id officium est, ut creandis, nutriendis alendisque corporibus praesto
sit, nullum uero rati- onis praestet sensusue iudicium. haec autem est
herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus adfixum tenetur, secunda
uero composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem
constituens uarium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. omne enim
animal quod sensu uiget, idem et nascitur et nutritur et alitur, sensus uero
diuersi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt, itaque quicquid tantum
alitur, non etiam sentit, quicquid uero sentire potest, ei prima quoque
animae uis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. quibus
uero sensus adest, non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore
feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibili- busque sepositis
cognitarum sensu formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et
prout quodque animal ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed eas
imaginationes confusas atque ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum coniunctione
ac compo- 1 uia et filo quodam] CEm2H (uia fort. ras.
ex uiae), uiae et filo quodam N uiae (s. l. R) ex
filo quodam EmIGPR edd . uiae ( ex uia S ) ex quodam
filo LS uiae ( s. l . filo m1 ) quodam F
ratio CEmIGLRS ex] ab Hm1NP efficienti Em1
efficientis Fa. c . 3 post uitam add . solum CFHP
solam N corporis GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis FGRS
6 procreandis CHNP 7 nutriendisque ( om . alendis) EL
sit s. l. Gm2Nm2 9 terra CN 10 ac] ad FSm1
at LSm2 et G 11 rebus] quibus GRS de rebus
de quibus L 12 poterit E post iudicium add .
capit E (sed del.) L, s. l. m2 in HRS 13 et nutritur om. CHP,
s. l . nutritur (om. et) Lm2 14 ita CHR 16
poterit E quoque prima FGm2H 19 praesente ante
feriuntur FHN praesentes CHm1N abscedente]
Em2FGHmINESa.r . absente CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis GR 22
imagines FHN 23 ante sumunt add. sic brm
sitione efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec
aeque omnia, admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non
possunt, futuri uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum
priores alendi ac sen- tiendi trahit hisque uelut famulis atque
oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum
prae- sentium firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in
ignotarum inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae
non solum sensus iraaginationesque perfectas et non inconditas capit, sed
etiam pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque
confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione
sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus
imaginatione concepta et absen- tibus rebus nomina indere potest et quod
intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit,
illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota
uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec
non cur sit, optet agnoscere, quam triplicis animae uim sola, ut dictum
est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non
caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an
sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam
utriusque scientiam ratione possidet, quale sit 2 admissa] CR
amissa EFGm1NP amissam Gm2LS, ras. et s. l. ex
admissam H memoriam om. FGR, s. l. Sm2 , memoria
H 3 hiis F , sic saepe cogitatio CNm2 4
animae uis CEL 5 ante trahit add . uires brm 6
ea CHm1N est ante constituta CEGS , om. R 7 con-
tentione EGm1Sm1 contemplatione R, m2 in GLS 8 in
s. l. Gm1PmS , del. Lm2 ignotorum Hm1N 9
imaginationes EN 11 conformat Gm2Pm2 13 cognitione] in
cognitione FHNP 14 et] ex Em1HN sensibilibus
CEm1Hp. c. Nm2 sensibus Ha. c. Nm1 ante
imaginatione add . sibi E (del. m2) NPSm2 imaginatione] in
agnitione Gm1Sm1 agnitione Gm2R post concepta add.
nomina Hm1, idem post rebus s. l. m2 17 sint
E 19 optat LR 22 quia] qua Gm1 atque
EHm1Pm1 24 scientiam post ratione E
sententiam Hm1 pos- sedit FRS unum quodque
uestigat atque in eo cetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur
ita sit quaeritur et ratione nihilo minus uestigatur. Cum igitur
hic actus sit humani animi, ut semper aut in <rerum> praesentium
comprehensione aut in absentium intel- p. 47 legentia aut in
ignotarum inquisitione | atque inuentione uer- setur, duo sunt in quibus omnem
operam uis animae ratio- cinantis inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa
inqui- sitionis ratione cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat
quod post grauitas moralis exerceat, quibus inquirendis permulta esse
necesse est, quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione
deducant, ut in multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et
honestum uoluptate metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse
manifestum est, quoniam per imperitiam disputandi quicquid ratiocinatione
comprehenderant, hoc in res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus
est error; neque enim sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet,
in numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio
in res quoque ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo centum esse
contigerit, centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc
uero non aeque in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus
inuenerit, 4 aut om. CNR, s. l. Gm2Sm2 5 rerum add.
edd. post praesentium, ante Brandt; cf. p. 137, 6 6
ignotorum Gm2Hm1Lm2N ante in- uentione s. l. in Hm2 8
inpendat FPSa.c . naturam FHm1N certa inquisitionis]
Gm2H certae inquisitionis FNP inquisitionis certa CELm2 , om.
certa Gm1Lm1RS (fort. recte) 10 quod] eius quod r exer- cet
Hm1 12 minimum ante non E minime FSm1
diducant FGm2 13 atbomis plerique codd . consistere in
mg. Hm2 constare CFP, post er . ł consistere C honestam
Em1P honestatem F 14 uoluptate om. F uoluptatera
CEHm2 (te* m1) LNR, add . corporis L (del. m2) R, s. l. Gm2,
ante uol. edd . mentitur CEGHPRSm1 hoc] haec
H 16 racione CN comprehenderent m1 in
EHN 17 nero] ergo H maximus E error est
CFHNP post sese add . res FR , s. l. Pm2 19
digitos CEFN id natura quoque fixura tenetur, quare necesse
erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent,
nisi enim prius ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi
semitam, quae ueri similem, et agnoscere quae fida, quae possit esse
suspecta, rerum incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum
igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria
in disputatione colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem
re contraria conclusione facta utraque essent uera quae sibi dissentiens
ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset
ambiguum, uisum est prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare
naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an
uere comprehensum esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est
logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes
internoscendi uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem
uera sit, quae uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius
autem uis duplex esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in
iudicando. quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est,
euidenter expressit dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat
partes, unam inue- niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi
quidem uidetur, Aristoteles fuit. Stoici 20 Tullius] Top. 2, 6 s.
1 ante natura add . in HLSpr, s. l. Pm2 3
post nisi add . quis r prius enim E 4
disputandi om. GRS ad ueri similem s. l . ał que ueri se
similem agnouerit Hm2 et agnoscere] FSm1 ( om . et) et
agnouerit EGLPRSm2 ( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus
agnoscere Hm1, s. l . ał et agnouerint quae fida et reliqua
m2 ut ex diligentia rationum queamus ( ex quaeramus C )
agnoscere CN 7 et sibimet] sibimet C sibi et
EGRS 9 post re s. l . si Cm1? 10 cuique)
CHm1N cuiue cett . 13 tunc FHNPm1R post an add .
id R, s. l. Gm2Lm2, 2 litt. er. C 15 ipsis ratiotinationibus
Hm2 16 ante internoscendi add. et brm uiam CFHN
19 inneniendi et iudicandi ( om . in) Hm2 24 quidem uidetur]
FHNPCic . uidetur quidem GRS quidem om. CEL autem in altera
elaborauerunt; iudicandi enim uias diligenter persecuti sunt ea scientia
quam διαλεκτικήν appellant, inueniendi artem, quae τοπική
dicitur quaeque ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam
reliquerunt, nos autem quoniam in utraque summa utilitas est et utram-
que, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est, ordiemur, cum
igitur tantus huius considera- tionis fructus sit, danda est huic tam
sollertissimae disci- plinae tota mentis intentio, ut primis firmati in
disputandi ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehen-
sionem uenire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae
disciplinae praediximus, reliquum uidetur adiungere, an omnino pars quaedam sit
philosophiae an ut quibusdam placet, supellex atque instru- mentum, per
quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius quidem rei has
e contrario uideo esse sen- tentias. hi enim qui partem philosophiae putant
logicam con- siderationem, his fere argumentis utuntur, dicentes philoso- phiam
indubitanter habere partes speculatiuam atque actiuam. de hac tertia
rationali quaeritur an sit in parte ponenda, sed eam quoque partem esse
philosophiae non potest dubitari, nam sicut de naturalibus ceterisque sub
speculatiua positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus
ac 2 uias] ENPCic.p, om. cett. codd ., uiam brm ea
scientia] Pm1Cic . eam scientiam EPm2 edd. eam scilicet
scientiam CN artem et scientiam FSm2 scientiam
GHLRSm1 3 διαλεκτικήν ] Cic. dialecticen CFGHL- NPm2RS
dialecticam E dialectica Pm1 τοπική ] Cic .
topice Gm2LNS topica CEFGm1HPR 4 quaeque] quae et
Cic . 5 prior] prior est GLa.c.RS 6 in—est et] CN Cic., s. l.
Pm2, om. cett. codd., Boethius etiam in comment. in Cic. Top. lib. I p. 1047 D
haec uerba respicit 8 prima] prior Cic . ordiemur] EHm1NCic .
ordiamur CGHm2LPRS ordinamus F 13 quid FHm1NPp.c
. quod a.c . 14 ante reliquum add . esse GHP pars
sit quaedam GN quaedam pars sit L 18 hii
EHL 20 ante habere add . duas L m 1860
21 post rationali add . uel orationali EFGH (del. m2)
RS (del. mS) id est logica L ( s. l. m2) edd. ad
an s. l . si Cm2 24 inuestigatio L reliquis
quae sub actiuam partem cadunt, sola philosophia perpendit, ita quoque de hac
parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia
iudicat. quodsi speculatiua atque actiua idcirco philosophiae partes sunt,
quia de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit
logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec dis- putandi materia
subiecta est. iam uero inquiunt : cum in his tribus philosophia uersetur cumque
actiuam et speculatiuam consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de
rerum naturis, p. 48 haec de moribus quaerit, non dubium est
quin logica disci- plina a naturali atque morali suae materiae proprietate di-
stincta sit. est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et
ceteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur
neque actiua pars, quae de moribus inuigilat, aeque praestare potest,
quodsi in his tribus, id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia
consistit, quae proprio triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua
et actiua philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis
quoque philosophia pars esse conuincatur. qui uero non partem, sed
philosophiae instrumentum putant, haec fere afferant argumenta, non esse
inquiunt similem logicae finem speculatiuae atque actiuae partis extremo,
utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat, ut speculatiua 2
tractat Ep.r.FR, m2 in GLP 3 diiudicat CHm2 5 sola
philo- sophia CFN pertractet Em1 tractat
Hm1 7 iam] tam R ita FL 9 sublectas
discernat Em2 10 dubium non est CEL non est
dubium F 11 a om. LS, s. l. Gm2Pm2, postea add. R
disiuncta (iunc in ras. m1? ) R 12 est enim] etenim
GLRS post tractatus add. est LR, s. l. Pm2 14
orationibus E ratione Lm1, add . est L 17 sint
Rm1, ex sit Sm2 cumque H (q. er .)
Lm2N 18 et] atque EFNP philosophiae pbr dicantur
Lm2N non est dubium EFHNP 21 haec—argumenta del.
G asserunt ( ss in ras. m1? ) C similem om. GR,
post finem s. l. Sm2, ad similem s. l. ł
proprium Pm2 22 ante speculatiuae add . sed
R, s. l. Gm2Lm2 extremum E (u ex a uel o m2 )
GL (um ex am m2 ) Pm2RSm1 23 proprium suum
C ut] ita ut brm quidem rerum cognitionem, actiua uero
mores atque instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero
finis esse non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus
colligatus atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo
merito debeat optari, nisi quod propter inuestigationem rerum huius
effectio artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel
quae uera sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum
cognitionem referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in
exercitium moralitatis adducta beatitu- dinem pariunt. atque ideo quoniam
speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas
reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae
partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte
dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem uero tali ratione dis- cernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem
logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars
philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille logicae quem sola
speculatur philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur,
instrumentum esse philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio
iudiciumque rati- onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem
pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum
reducamus, quibus et fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur,
et in toto tamen corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum,
oculi ad 1 rerum] Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post
cognitionem add . rerum s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum
F, s. l. Gm2, om. cett . 2ad alteram] de altera Em2 3 non potest esse
FGN 4 est om. C 5 aptari FGm1Hm1Pm2R 6 affectio
EFHLm2Pm1Bm1 8 intendit F 9 rationum scientia CLP
10 mortalitatis bm 11 parant Ea.c . pariant Hm1
15 alterutra] utraque EP, add. post alterutra H, del. m2 ante
dicta add . supra EP, s. l. Lm2 18 enim] nero
CFHN 21 ei F 24 uidetur Em1FGm2LNPm2 28
optineant Fp.c.S uidendum, ceteraeque corporis partes
proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad totius utilitatem
corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam
partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica disciplina pars quidem
philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola magistra est, supellex uero,
quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas uestigatur. Sed
quoniam, quantum mihi quoque breuitas succincta largita est, ortum logicae et
quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda
sunt quem in praesens sumpsimus exponendum, titulo enim proponit Porphyrius
intro- ductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere, quid uero ualeat
haec introductio uel ad quid lectoris animum praeparet, breuiter explicabo.
Aristoteles enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac
intentione composuit, ut infinitas rerum diuersitates quae sub scientiam cadere
non possent, paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per
incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam uenire non poterat, per
generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret scientiaeque subiectum.
decem igitur genera rerum esse omnium considerauit, id est unam substantiam et
accidentia nouem, quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere
et pati, situs, habere, quae quoniam genera essent su- prema et quibus nullum
aliud superponi genus posset, omnem necesse est multitudinem rerum horum
decem generum spe- 1 quoddam] quod Em1 (aliquod m2
) G 2 utilitatem post corporis EG, ante
totius L 4 quas FSm2 5 quidem post philosophiae
H quaedam L 6 uero] uero est L 8 quoque om.
L quidem edd . ueritas Cm1N succincta]
CNPSm2 sua mora EFGHR sua mota Sm1 succincta suam
moram L 9 ortum om . L et de ortu CNF quod CF
est G explicaui CELm2PRS 11 titulum CHm1N
13 lectoris s. l. Gm2, post animum CN, post
praeparet H. om. E 14 paret EFGNRS 15 scribitur
EGRSm1 17 ita quod s. l. Gm2 (itaque m1) Rm2 quod
( om . ita) s. l. Sm2 20 decem] in decem C 23 et
om. FLNP situm habere CRa.c . situm esse habere Gm1S 24
genus superponi H possit Ea.c.FGm1NPRS 25 ante horum
add. per s, l. Pm2, ante species CFLR. s. l. Gm2Sm2
cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa
sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi p 49 tantum nomen,
quoniam omnia | esse praedicantur. quippe sub- stantia est, qualitas est,
quantitas est, et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non
est eorum communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque
decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt.
sed quae aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium
quiddam quod ea in singu- larem solitariamque uindicet formam. non est autem
idem proprium quod accidens. accidentia enim et uenire et abesse possunt,
propria ita sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint.
quae cum ita sint cumque Aristo- teles decem rerum genera repperisset, quae uel
intellegendo mens caperet uel loquendo disputator efferret - quicquid
enim intellectu capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum
decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret,
scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem,
quoniam oportet ante praediscere quid sit genus, ut decem illa quae
Aristoteles ceteris anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei
uero cognitio plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit
agnosci. si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur.
fieri enim potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species
in relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri
cui- 4 omnibus aliis FHLN 9 quoddam S 10
uendicet HLP uindicent ( ent in ras.) S
constituat CN 11 euenire FGm2R (om. et) abire NP 12
propria ita] propria enim ita H proprietates EGm1S propria
uero ita edd . insitae EGm1S 14 uel om. FP 16
cupimus E alterutrum FPm2S 19 ante
accidentis add . atque FHNP et L 21 inter-
posuit m1 in EGS superposuit Em2NP praeposuit
FGm2 possemus FN 22 cognitio post ualet
LP 24 impedito (uel in- ) Ca.c.EGm1HNS impedit
R turbari CS 25 inscitiam F 26 cuilibet]
cuiuslibet Gm1N,a.r. in EFS libet generi subdamus atque ita
fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura
speciei ante noscendum est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda
natura, ne priorum generum species inuicem per- mutemus, uerum etiam ut
in eodem quolibet genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne
substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis
homi- nem potius quam animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his
maximum retinet locum, qui enim omnino qualitatem a substantia uel cetera
a se genera distare cogno- scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo
autem discernere eorum differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia
nesciamus? nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum
etiam specierum quoque tollit omne iudicium. nam omnes species
differentiae informant, ignorata differentia species quoque necesse est ignorari,
quomodo uero fieri potest, ut quamlibet differentiam possimus agnoscere, si
omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? iam nero proprii tantus
usus est, ut Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria
perquisiuerit. quae propria esse quis deprehenderit, antequam quid omnino sit
proprium discat? nec in his tantum propriis haec cognitio ualet quae singulis
nomi- nibus efferuntur, ut hominis risibile, uerum etiam in his quae in locum
definitionis adhibentur, omnia enim propria rem subrectam quodam termino
descriptionis includunt, quod suo quoque loco 25 suo loco] lib. IV c. 15
s. 1 generis Gm1REa.r.Sa.r . fiet CH fit
N permixtio FHm2LNP 4 primorum FNP 5 in om.
CERS, s. l. Gm2 6 ante generi add . cuilibet
brm 7 aut—corpus om. E, s. l. Gm2Sm2 8 corpus om. FP
, del. Hm2 9 qui] quomodo Ep.c.HPp.c.R 11
nouerimus R quo- modo—ignorari (16) in inf. mg. Em2
autem] nero E(m2) 14 offundit] E (m2) Pm1
obfundit Hm2 diffundit Gm1 effundit cett.; cf. p.
159,16 15 informant differentiae brm 16 quomodo] qui
FNP uero om. G 18 huius nominis FNP 20
perquisierit R quis esse FR 21 deprehen- derit in
ras. E deprehenderet Np.c . deprehendet ( ex -it)
P 22 proprii Gm2N post singulis add . tantum
FHLNP 24 subiecto EGm1RS oportunius commemorabo,
accidentis quoque cognitio quantum afferat, quis dubitare queat, cum uideat
inter decem praedica- menta nouem accidentis naturas? quae quomodo accidentia
esse putabimus, si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec
differentiarum nec proprii scientia nota sit, nisi accidentis naturam
firmissima consideratione teneamus? fieri enim potest, ut differentiae loco uel
proprii per inscientiam accidens apponatur, quod esse uitiosissimum etiam
definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant unius
cuiusque definitiones propriae, accidens tamen non uidentur admittere.
Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset, quae nimirum diuersas sub se
species continerent, quae species nuraquam diuersae forent, nisi differentiis
segregarentur, cum- que omnia in substantiam atque accidens, accidens uero in
alia nouem praedicamenta soluisset cumque aliquorum praedi- camentorum
fere sit propria persecutus, de his ipsis quidem praedicamentis docuit, quid
uero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens, de quo
nunc dicendum est, uel quid proprium, uelut nota praeteriit, ne igitur ad
Praedicamenta Aristotelis uenientes, quid significaret unum p. 50
quodque eorum quae superius dicta sunt ignora|rent, hunc librum Porphyrius de
earum quinque rerum cognitione per- scripsit, quo perspecto et considerato quid
unum quodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea
quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio
est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se
conscripsisse ipsa, ut 1 opportunius NR post accidentis
add . teneri L , post naturas (3) tenere HN
3 quonam modo FHLNP 5 tota EN, m1 in GPS 6 te-
nemus C 7 insciciarn FN 11 ante rerum
add . decem cod. Monac. 4621 brm, recte? 15 nouem om. S edd.,
s. l. Em2Gm2 16 fere om. EFGS, er. H 18 nunc om.
GRS est dicendum CL 21. 24 eo- rum delendum esse coni.
Engelhrecht 23 quo] ut CHLNP inspecto FNP perfecto
EGm1 24 eorum] cod. Monac. 4621 ( om . quae), om. codd.
nostri proposuit FP proposui H posuit NR 25
ab om. ENR praeponerentur CHm2NR 27 ipse L
ita F dictum est, tituli inscriptione signauit, sed licet ad
hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est,
uerum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. quam idem Porphyrius in
principio huius libri commemorat dicens; Cum sit necessarium,
Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctri- nam,
nosse quid genus sit et quid differentia quid- que species et quid proprium et
quid apcidens, et ad definitionum adsignationem et omnino ad ea quae in
diuisione uel demonstratione sunt, utili hac istarum rerum speculatione, compendiosam
tibi traditionem faciens temptabo breuiter uelut introductionis modo ea quae ab
antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem quaestionibus abstinens,
simpliciores uero mediocriter coniec- tan s. Utilitas huius libri
quadrifariam spargitur, namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio,
magno legentibus usui 5—16] Porph. p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9
Busse). 2 eius utilitas est] FGm2 (in mg. add.) HP
utilitas eius est in mg. add. Em2 est eius utilitas s. l.
add. Lm2 eius est utilitas N, om, RS; est tamen simplex eius
utilitas C 3 uerum in mg. Em2 sed GLS sed
et R multiplex et in mg. Em2, s. l. Sm2 est er.
uid. E 5 ante Cura add . PROLOGVS RS, de
inscript. codicum Isagogen tantum con- tinent. cf. ad initium libri
Chrysaori] G chrisaori EHNPa.c . Γ ( s. l .
menanti) Ώμ2ΣΦ chrysaoni S chrisarori ( uel cris-
uel chriss-,1 CFLPp.c . R lATl m1 *! (-oui) ante et
add. te C (er.) FLNA (del.) Σ , s. l .
scil, te E 6 ante praedicamentorum add . X
Δ 7 sit genus L A et om . Φ quidue
N 8 pr . et s. l. E, om . A 9 diffinitionem
Em1 \ m2 , in -nes, hoc in -num mut. F 10
in] ad FHP , ante in er . ad uid. C
diuisionem Ca.r.FHNP T a.r . A a.r . Q uel] et N et
ad FHP uel in ΔΣΦ demonstrationem Ca.r .
(-ne ras. ex -ne ut uid .) FHNP F a.r. A a.r .(b
utili] edd . utilia codd . 11 hac] HP , s. l. Sm2
hanc CLNΤ ΛΙIΣΦ , del . Δ , om . EFGRS
speculationem CEa.r.Hm2L A a.r . ΑΦ , in -num
corr. Σ compendiosa ras. ex -sa C A 12 traditione
( uel -cione) CLΝ Φ , ras. ex -nem HT A 14
altioribus] ab altioribus A 17 quadrifaria S ante
ad add . et EGP , s. l. L 18 etiam om . G
est et ad cetera, quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his
legentibus utilitas comparatur, est enim per hoc corpusculum et
praedicamentorum facilis cognitio et defini- tionum integra adsignatio et
diuisionum recta perspectio et demonstrationum ueracissima conclusio, quae res
quanto diffi- ciles atque arduae sunt, tanto perspicaciorem
studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum uero est quod in omni- bus
libris euenit. nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque
utilitas inde prouenire possit expenditur et licet extra multa, ut fit,
huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem uidetur
habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem sumpsimus exponente,
cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non
dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint
comites definitio, diuisio ac demonstratio, quorum nobis quaedam hic
principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit, inquit,
utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta
Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam adsigna- tionem, ad
diuisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis überrimaque
cognitio, compendiosam, inquit, tra- 2 utilitas legentibus
FHP 3 opusculum CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149, 3 4
integra om. ER, s. l. Gm2Sm2 recta] perfecta CFGm2-
Hm1N 8 post libris add . his HNP hoc
R , s. l , sed exters. G sit] est H 9 id
est (add. Lm2) perpenditur Em2Lm2 10 ante huius-
modi add . in CE (del.) G (del. m2) N librum] LPm2RSm2,
om. Hm1 , libros FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro CE (del.) Gm2NPm1
sequntur ( uel sec-) R, m1 in EGS 11 uidentur FH
ad quod] aliquod Cm1 ad quam FGm2Pm2 eius] eorum
FGm2HPm1 12 ante ipso add . ut (s. l. est Lm2) in
hoc CFHLNP, s. l . ut in Em2 hoc Gm2 ex-
ponendum CE (dum in er . te?) FHLNP ( ex
-dus m1 exponere m2 ) Sm1 post cum s. l .
enim Hm2 13 praeparandi H 14 ante dubium
add . est FHNP , s. l. Gm2, post s. l. L 15 minoris
CGm1N 16 nobis om. C hic quaedam C
principalia NSm1 17 huiusmodi totus EG 19 eamque
Hm1Sm1 20 ad om. C, s. l. Gm2 , et FHN et ad
P et] ac H, om. CFNP , et ad edd . demonstrationemque CN
demonstrationum- que FP quae] quia Lm2R, om. CFNP 21
traditione ras. ex -nē H ditionem faciens ea quae
ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim
esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam intro-
ductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refn- giam,
simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota
quidem sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et
facilitate incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur quidnam
celet amplius altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in
Graeco άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus
Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium
esse dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas
significatur. alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse
moueri, id est necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda
est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae
uero duae huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci
obtineat significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium,
Chrysaori; namque, ut dictum est, neces- 12 Marcus Tullius] cf. infra
apparatum. 2 enim om. E 3 corpus HNPm1 4
refugio EGR 5 simplicium Gm2LPm2 6 eas
EFGm1HNSm1 7 ad quidem s. l. autem
Gm2 8 prohemii EPS uberrima <sit> Brandt 9
animum EGLm2Pm2R uidetur om. ERS, s. l. Gm2 11 ΑΝΑ Γ
ΑΙΟΝ uel ANAKAION uel sim. codd . ANA IT CION ł
ANAKAION C 12 etenim F ad Marcus Tullius in mg .
Marcus enim tullius pro fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id
est adiutorem danium ( leg . fundanium) add. Hm2, ex Mario Victorino De
defin., Boeth. p. 906 B, haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller 13
aliquod C aliquid Hm1NPm2 nos] Hm1Pp.e.Sm1
nostrum cett.; an nostrum est scribendum ? ante cum add .
ut EG (del. m2) HLm2P uel F nos Hm2 14
dicamus L 16 post , esse] esset F est
Hm1LNP 18 uero om . N ergo F 21
Chrysaori] CEm1 chrisaori uel eris- uel
crys- uel crisar- uel sim. cett . necessarium] harum
E ( s. l . duarum necessitatum m2 ) Gm1S necessarium
harum F sarium et utilitatem significat et necessitatem,
uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile est ad ea
p. 51 quae superius dicta sunt, de genere et specie | et ceteris
disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa
ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam neque praeter
generis uel speciei cognitionem praedicamenta discuntur nec definitio genus
relinquit et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de
diuisione et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit
haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad cognitionem uenire
quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio
positum est qua neces- sitatem significari uellet ac non potius utilitatem,
ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione
significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut aliquam
necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero
semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit
necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen- torum
doctrinam, si igitur hoc necessarium utile intel- legamus et id nomine
ipso uertamus dicentes : cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud
Aristotelem praedicamen- 1 et om. R, del. CGm2 significans R
ante necessitatem add . altera R, s. l. Gm2 4
necessitas est E quia om. NS sint post
haec F, post praecognita H 5 agnosci CN
post cognosci add . quae (om. E) praedicamenta dicuntur
CEGL (in sup. mg. m2) PR cognitiones (del. et s. l . quae
add. m2) praedicamentarum (rum del. m2 ) dicuntur S
nam—discuntur om. GRS, in sup. mg. Lm2 nam—cognitionem in mg.
Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec C sed nec
S neque N 10 sit] erit Em2GLm1RS 13
significare FN 15 utatur Sm1 oratione CHm1N
16 aliud] aliquid CHm1N 17 post se add .
quiddam CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem edd . quod] ad quod NP
defertur Gm1Lm1RS 18 enim om . C Chrysaori] eaedem fere
quae p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae 19 et] te
et L 20 post doctrinam add . nosse quid genus
sit C nosse quid sit genus et cetera in mg. Lm2 22
Chrysaori] ut 18 et om . EFGS te et L
doctri- nam praedicamentorum C torum doctrinam, nosse quid
genus sit et cetera, recte se habebit ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’
permutetur atque dicamus : cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud
Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid genus sit et cetera,
rectae intellegentiae sermonum ordo non conuenit. quocirca hic diutius
immorandum non est. quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse
ad ea ad quae hic tractatus intenditur perueniri, non tamen de necessi- tate
hic dictum est necessarium, sed potius de utilitate. Nunc uero,
licet idem superius dictum sit, tamen breuiter quid ad praedicamenta
generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio,
disputemus. Aristoteles enim in Praedicamentis decem genera constituit rerum quae
de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem uenire
posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur
generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis
inscribitur, hoc ipsum uero referri ad aliquid uelut ad genus tale est, quale
si quis spe- ciem supponat generi, hoc uero neque praeter cognitionem
speciei ullo modo fieri potest nec uero ipsae species quid sint uel cuius magis
sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur, sed differentiarum
natura incognita, quae unius 1 recte—sermonum] recte intellegentiae
sermonum ordo conuenit CLP (ex 5) 2 uero] autem
C 3 atque] itaque FN ut CLH (in ras.) Chry-
saori] ut p . 150, 18 4 est] sit GLRS nosse—sit
om. EH 5 ordo ante sermonum E 7
post his s. l. quinque Lm2 pr. (sic)
ad om. G , in mg. Em1? 8 tractatus hic H
intendit L peruenire Lm1S 9 ante hic
add . solummodo F 10 nunc] nam F 11 quod EN
12 possit Lm2 cognitio R 15 possit Fa.c.LS 16
Aristoteles delend. esse coni. Brandt eo om. E 17
De om. NS , de s. l. Lm2 uero s. l. Gm2 18 post ,
ad om. GRS, s. l. Em2Lm2P qui S 19 neque er
. L nec N post cognitionem add.
generis neque praeter cognitio- nem CFHP (in mg. m2)
generis nec E (s. l. m1?)N, s. l. generis et Lm2
20 nullo Lm2 neque F 21 magis] modi CEm2
(in aliis m1) Hm1Pp.c. (corr. m1?) modo N possint
S possumus Gm1Lm2 possemus m1 possimus
E perspici] scire EGm1 (sciri m2 ) L
agnosci RS cuiusque speciei sint differentiae, modis omnibus
ignorabitur, quare sciendum est quoniam, si de generibus Aristoteles tractat in
Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei
quoque comitatur agnitio, sed hoc cognito, quid sit differentia non potest
ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam
peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino
intellectus patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit : diuersorum generum et non
subalternatim positorum diuersae secundum species et differentiae sunt, quod
his ignoratis intellegi inpossibile est. sed idem Aristoteles proprium
unius cuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum
substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum
susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque
inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis- simile
aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit proprietas
contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis et habitus,
quae affirmationis et 8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16 s. 13 s.]
ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26 s. 16 s.]
ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid. c.
10. 1 sit differentia S 5 non potest s. l. Gm2
quamquam] cum F 6 et generis—differentiae post attulerit
E 8 pateat EGLRS dicit] Brandt dicat codd. edd.;
cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6 10 post secundum add
. se EGL (del.) ES, er. uid. H et om. CN, del. Lm2, er. uid.
H; cf. Aristot. Cat. c. 3 τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα
τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί et Boethii
interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se) quid GRS 11
possibile EG ( post est signum interrogat.) RS
propria FHNP 14 ante numero s. l. cum
E 15 aequum Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17 atque] aut N 16
dicitur FHLm2P et dissimile] F uel dissimile s. l.
Em2 aut dissimile s. l . Gm2Pm1? , om. cett.; cf.
Aristot. Cat. c . 9 Τ ών μέν ouv είρημένων — τό ομοιον χα)
άνο'μοιον — αοτήν et Boethii interpretat, p. 259
A (simile et dissimile,) 17 aliis DGPm1RS ( s in ras); cf.
Aristot, ibid . έτέρω , Boeth. ibid . alteri 18 post
relationem add . contrarii Em1, del. et s. l . ut sapientia
stulticiae m2 negationis, in quibus ita tractat tamquam iam
peritis scienti- busque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat,
frustra ea quae de his disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est,
quod accidens maximum praedicamentorum obtineat locum, quod proprio
nomine nouem praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta quidem
quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. quod uero ait et ad
definitionum adsignationem, facile cognosci potest, si prius substantiae
rationum diuisio fiat, substantiae ratio alia quidem in descrip- tione ponitur,
alia uero in definitione, sed ea quae in descrip- tione est, pro|prietatem
quandam colligit eius rei cuius sub- p. 52 stantiae rationem
prodit, ac non modo proprietate id quod monstrat informat, uerum etiam ipsa fit
proprium, quod in definitionem quoque uenire necesse est; si quis enim
quan- titatis rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas est secundum quam
aequale atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem quidem quantitatis
in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria
est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa
descriptio, definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa quoque
fit propria, definitio namque substantiam monstrat, genus differen- tiis iungit
et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei
quam definit reddit aequalia. ita igitur ad descriptionem utilis est
proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa
fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod
primum 1 ita om. RS, s. l. m2 in EGL tamquam iam] quasi
C 5 optinet FHm1LmSN obtineat ante
praedicamentorum E 7 libri huius CGLRS ; cf. p. 155,
14. 17. 156, 8 utilitas] brm intentio codd . 10
post substantiae add . uero F, s. l . enim Lm2
16 ante dicat s. l . sc. ut Lm2 20 proprietates
CFHNP ipsa] ita G 22 nam qui Gm2Lm1 (namque
qui m2 ) S 26 proprietas sola CLP sola proprietas
sola FGm1S 27 ad sicut s. l . ł sic Em2
uero s. l . Hm2 quod om . F quidem
R ponitur, et species, ad quam genus illud aptatur, et
differentiae, quibus iunctis cum genere species definitur, sed si cui haec
pressiora quam expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc scire conuenit,
nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reseruasse
iudicio, ut ad intellegentiam simplicem huius libri editio prima
sufficiat, ad interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia nec
in singulis uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur.
Ad diuisionem uero faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum
scientiam rerum de quibus in hac libri serie disputatur, casu fiat potius
quam ratione partitio, hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam
diuidamus, id est si nomen ipsum diuisionis in ea quae significat partiamur,
est namque diuisio generis in species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album,
aliud nigrum, aliud uero medium’, rursus diuisio est, quotiens uox plura
significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut
si quis dicat ‘nomen canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem
que et caeleste sidus et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione
disiuncta sunt, diuidi autem dicitur et quotiens totum in partes proprias
separatur, ut cum dicimus ‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud
tectum’, et haec quidem triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est autem
4] in prima editione nihil eiusmodi. 1 post ponitur add .
utile est CN, post species s. l . utilis est Lm2
et species—aptatur in mg. Em2Gm2 illud genus C 3
eum om. E , s. l. Gm2 , ei R 4 uti FGLRSm1
5 reseruasse] CPm2 edd . reser- uare E ( -re in ras .)
FGm2HNPm1 (ante reseruare add . se m1, del. m2)
reseruantes Gm1S seruantes Lm1 seruare m2
reseruantes sumus R 8 colloquatur] m1 in GLS
eloquatur CEm2 (in ras.) HN collocatur Em1R , m2 in GLS
edd . loquatur FP 9 utilis est LP 10 rerum om.
E 12 post . si om. EG, s. l. Sm2 13 ante
partiamur s. l . si E partia- tur Gm1 14 aliud
est] CEp.c.R edd . aliud esse Ea.c.GHLPS esse aliud
FN 15 rursum CEGNPm1R est s. l. Sm2 , ante
diuisio FHNP , et ante rursus et post
diuisio R 16 quam] quod EG a.c . (quae p.c .)
LRS sunt CFLNPa.c . 18 quadripedemque Sm1 20
distincta FHm1NP 23 partitio] separatio EGLm1Pm1RS
alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum
accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia
in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt
alba, alia nigra, alia medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia
separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii
coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’,
cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero
partitio tripliciter fiat cum- que in superiore secundum se triplici
partitione sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque
praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter
differentiarum, quas necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est
igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc diuisionem sit quae primo
aditu genus ac species et differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae
est secundum se in uocis significantias, nec haec quidem ab huius libri
utilitate discreta est. uno enim modo cognosci poterit, utrum uox cuius diui-
sionem facere quaerimus, aequiuoca esse uideatur an genus, si ea quae
significat definiantur, et si ea quae sub communi nomine sunt, definitione
clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus, quodsi illa
quae proposita 3 sunt alia H uel] aut brm
rursum FS 4 corporalium Ca.c.Hm1N 5 rursum
F 6 liquentia Ea.c.Gm1 8 fit G sit ante
omnis F , post diuisio N 9 accidentia S 10
superiori Sm2 11 sepa- rare om. EN 12 possit Em2
uero om. C post praeter s. l . scientiam Sm2 16
ea del. L, er. uid. P ante quae add . est N
(om. post quae] P (er. uid.)
secundum—significantias] FHN uocis post
significantias C se et in om cett . 18 uno]
nullo F quo m2 in HLP enim] quidem N 20 si]
nisi FLm2Pm2 significant CNPm2 et (om. si,
) in ros. Hm2 si et RS (et s. l. m2 ) si om. EL,
s. l. Gm2Pm2 , etenim L (ex et m2) Pm1 communi nomine] CEm2
(in ras.) FHNP (nomine s. l. m2 ) communione cett. 21 sunt del. L,
s. l. Pm2 ante definitione add . una FHL (del. m2) R,
s. l. Em2Pm2 diffinitione s. l. Gm2 claudantur
EGLRS 22 earum ES post genus s. l . necesse est
Gm2 praeposita EGPS uox designat, non possunt una
definitione concludi, nemo dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit
communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita
significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi, si
igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid uero nomen
aequiuocum, definitio uero per genera differentiasque discurrit, quisquamne
dubitare potest aeque in hac diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem
ualere? illa uero secundum se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum
discernitur ac non potius p. 53 generis in species diuisio esse
putabitur, nisi sint genus |et species et differentiae earumque uis ante
disciplinae ratione tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius
esse quam partes fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen
in una quaque specie totum posse con- gruere, totius uero in una quaque
parte sua nomen conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse
generis in species, aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis
singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia
nuncupantur, neque tectum uero neque parietes aut fundamenta singillatim
domus nomine appellari solent, sed 1 concludi om .,
nemo—comprehendi (5) in inf. mg. Gm1? nemo—ita
sit in ras. Em2 2 uox—communis] uox non (non er. L, om. S )
sit communis Gm1 uel 2 Lm1Sm1, post uox add . sit aequiuoca
neque (non, sed del. G ) ita ( om. G etiam S ) s. l.
Gm2 uel alia Sm2, in mg. Lm2 3 ante his add . de
E (er.) G (del. m2) ES his s. l. Lm2 4 post posita s.
l. sunt Hm2 non possunt] definiri ( uel diff-j (-ri ex
-re Cm2 ) non possunt ( add . neq. Cm1, er. et una add.
m2 ) nec CFN 6 fit] H est C sit cett
. 8 aeque] etiam CFHm1NPSm1 9 auctorem GR
utilitatem Lm2 10 discernetur Hm2 (fort. recte)
discernatur N ac] et FHNP 11 esse om. R,
ante diuisio FN sit FSm1 sunt G et]
ac R 12 earum quauis ELR, m2 in GHPS , earum quis
Fm1 quamuis ( om . earum,) m2 ; cf. p. 157, 3 13
quisque CFHR esse potius FNR 14 dum F 15
quaque om. FN 17 sit ELRm1 (est m2 )
S 19 id om . RS, s. l. Em2Gm2 singula CEa.r. (ut
uid.) GLPm1 singularis Sa.c . singu- laque R 20 aut]
ac FHLNP neque S 21 singulatim CNR appel-
lari] nuncupari FHLNP cum fuerint iunctae partes, tunc recte
totius nomen excipiunt, de ea uero diuisione quae secundum accidens fit, nullus
ignorat quin incognito accidenti incognitaque ui generis ac differen- tiarum
facile euenire possit, ut accidens ita in subiecta soluatur quasi genus
in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit
inscientia. Et quoniam quid hic liber ad diuisionem prosit osten-
dimus, nunc.de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat
qui in tanta hac disciplina uigilantissimo in- genio et sollertissimo
labore sudauerit. fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa
rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex conuenientibus, ex primis,
ex causa, ex neces- sariis, ex per se inhaerentibus, sed genera speciebus propriis
priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt, item species
sub se positis uel speciebus uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum
est. quae uero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus
naturaliter, duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos
scilicet et secundum naturam, nobis enim illa magis cognita sunt quae
sunt proxima, ut indiuidua, dehinc species, postremo genera, at uero natura
conuerso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima, atque ideo
quamlibet se longius 1 tunc er. C accipiunt F 3
incognita m1 in GRS accidente CN accidentia, del
. a EGm2Rm2 accidenti—differentiarum in mg ., ante
facile add . ea accidentia, sed del. E
incognitaque—differentia- rum om. GR cognitaque (sic) ut
generis ac differentiarum Sm1, del. m2 4 soluamus FHNP
5 postremum HP hunc ante omnem L, post
ordinem R 6 inscitia FHN 7 quid hic liber)
FGm1NP quid liber hic Em2HL hic quid liber Gm2 liber
quid hic Em1R liber hic quid S; quid ad diuisionem hic liber
C 8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem illi etiam FN ;
ne et - in in difficil ** ia et hereat in
ras. C 9 hereat s. l. Sm2 etiam m1 tota
CFN 11 alicuius om. CL 13 priora propriis C
15 pr . uel om. L, del. Pm2 19 enim] uero N 21
natura] Ea.c.GR naturae Ep.c.FHLPS secundum
naturam CN; cf. Boeth . Post. Analyt. Aristot. interpret. lib. I c.
II p. 714 B non enim idem est natura prius et ad nos prius neque notius
natura et nobis notius. 22 quantumlibet Em2 quantolibet
Pm2 a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et natura-
liter nota, differentiae uero substantiales illae sunt quas per se inesse his
rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere autem debet generum ac
differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina quae sint eius rei quae
demonstratur con- uenientia principia, possit intellegi, necessaria uero
esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem
sine genere et differentia intellegit essq non posse, genera uero et
differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species sunt, quia genera
earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstratiuis non
rei solum, uerum con- clusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii
locu- pletius dicent. Cum igitur perutile sit et definitione
quodlibet illud circum- scribere et diuisione dissoluere et demonstrationibus
comprobare, haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc
libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri ualeant, quis umquam poterit
dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem
cetera quae in ea magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum praebent?
Sed meminit Porphyrina introductionem aese conscribere neque ultra quam
institutionis modus est, formam tractatus egreditur, ait enim ‘se altiorum
quaestionum nodis abstinere, 1 protulerunt FLR
praetulerint N 2 substantiales] substantiae uel E 3
inesse post rebus C esse, del . in E
4 in om. C, s. l. Sm2 6 possint Hm1P 7 ante
genera add. et LP 8 intellegit in mg . Cm2, post
esse in ras. N 9 causae sunt FHL sunt om. R
causa G 11 demonstrantibus EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI
p. 718 D de- monstratiuus syllogismus 12 postremis L in ( s.
l .) postremis Pm2 postremo EFGPm1RS resolutoriis
L resolutarii F resoluturi RS resoluituri
G resolutius ac E 13 dicemus EGLPm1RS 15 demon- stratione
N 16 in om. FGPR, s. l. Hm2S 17 ualeant] m2 in
EHLS ualent CEm1F (n del .) GHm1NP (n
in ras .) RSm1 22 nec N 23 egre- ditur] CF
(aegr-) HNPm1 aggreditur L egredi EGRS
aggredi Pm2 altioribus FN nodis om . Cm1Sm1
modis FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2 simplices uero mediocri
coniectura perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones quas se differre
promittit, ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac speciebus illud quidem,
siue subsistunt siue in solis nudisque intellectibus posita sunt siue
subsistentia corporalia sunt an incor- poralia et utrum separata a sensibilibus
an in sensi- bilibus posita et circa ea constantia, dicere recusabo, altissimum
enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis.
Altiores,. inquit, quaestiones praetereo, ne eis intempestiue lectoris animo
ingestis initia eius priraitiasque perturbem, sed ne omnino faceret
neglegentem, ut nihil praeterquam quod ipse dixisset, lector amplius putaret
occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit, addidit, ut
de his minime obscure penitusque tractando nec le|ctori quicquam p.
54 obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure
posset agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese reti- 3—9] Porph. p.
1, 9—14 (Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum— negotium] Abaelardus, Epistolae,
Opp. I p. 5 ed. Cousin. 1 simpliciores L
praestringere G perscribere CFN 2 sunt N 3
inquit om . Ω ac] et ΗΝ Ω post
quidem add . quod EG (del.) Sm2 quae m1 4
subsistant L nudisque] nudis purisqne Ω ; Porph. p. 1,
10 έν μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς 5 substantia Em1
sunt ante corporalia Σ , post incorporalia
Δ sint LR A m2 , ras . ex sunt II 6 separat
R a sensibilibus om. Gm1 (s. l. m2) Sm1 (cf. proxima), ras.
ex ab insensi- bilibus \ m2; om . Porph. p. 1,12
ab CEa.r . A m1 A m1 an in sensibilibus posita et] FG
(posita s. l. m2 ) LR Ψ an in sensibilibus (a
sensibilibus m2 ) et S an ipsis sensibilibus (posita om
.) iuncta (in mg.) et ( om . II) Γ , s. l . Π m2
et ( cetera om .) CEHPm1 h m1 (s. l. an et in sensi- bilibus
posita m2 ) A m1 ( in mg . an sensibilibus iuncta m2
) Φ an (cet. om.) NPm2 Σ 7 consistentia
CHF A m1 8 enim—negotium] FHLP Q ( sed est enim A
) Abaelard . negotium ante est CEGRS enim est
negotium huius modo (sic) N; Porph. p. 1, 13
βαθύτατης οϊοης τής τοιοΰτης πραγματείας 10
ante eis add . in, sed del. E 11 primitiaque
R per- turbent FN 12 neglegentiam Gm1P praeter
(s. l.) quam C praeter id quam L 13
putasset C 14 exequi quaestionem] exeeutionem ( uel
eis-) EGHm1LRS 15 penitus Em1FG ne L 16
effunderet Ca.c.EGLNR infunderet Cp.c.FS ; cf. p. 145,
14 17 possit C a.c. Fa.c . se N cere promittit,
et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis uiris nec a pluribus
dissolutae, quarum prima est huius- modi. omne quod intellegit animus aut id
quod est in rerum natura constitutum, intellectu concipit et sibimet ratione
de- scribit aut id quod non est, uacua sibi imaginatione depingit. ergo
intellectus generis et ceterorum cuiusmodi sit quaeritur, utrumne ita
intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus uerum capimus
intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus, cum ea quae non sunt, animi nobis
cassa cogitatione formamus, quod si esse quidem constiterit et ab his
quae sunt, intellectum concipi dixerimus, tunc alia maior ac diffi-
cilior quaestio dubitationem parit, cum discernendi atque intel- legendi
generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur, nam quoniam omne quod est,
aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo
horum esse opor- tebit. quale erit igitur id quod genus dicitur, utrumne
cor- poreum an uero incorporeum? neque enim quid sit diligenter intenditur,
nisi in quo horum poni debeat agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit
quaestio, omne excludetur ambi- guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia
esse genus ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat
exsolui postulans, utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora
subsistentiae incorporales esse uideantur. duae quippe incorporeorum formae
sunt, ut alia praeter corpora esse 1 promisit C 2
doctissimis P 4 statutum L discribit E 5
id s. l. C 8 capiamus C ipsi nos] ipsos FR
ipsos ** (-os ex i m2 ) S ipsi
Hm1 nos s. l. m2 9 eludimus Hm2 cogitatione]
imaginatione F 11 intellectu ras. ex -tu E
ac] et R 12 parat FHm1PRS discer- nendae atque
intellegendae.. naturae EFGHNRS 13 natura L osten-
datur N 16 utrum FHm1NP 17 an] aut ex
ut F uero om. N 19 excluditur Cm2GHp.c.LPRS
20 aliquid quod] alia quae (que N ) FN aliud ( ex aliquid]
quod E esse post species FHL , om. N
21 ac] et H intellegentiam atque] animum intelligentiamqne
F intellegen- tiamque N 22 ipsa corpora EFGHN et
om. CFHLN (fort. recte) , del. Pm2 23 subsistentia
Ca.c.Gm2L substantiae Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes)
incorporalia Gm2L possint et separata a corporibus in sua
incorporalitate perdurent, ut deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea,
tamen praeter corpora esse non possint, ut linea nel superficies uel numerus
uel singulae qualitates, quas tametsi incorporeas esse pronuntiamus, quod
tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his
diuelli nequeant aut separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo
permaneant, quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente
dissoluere, tamen adgrediar, ut nec anxium lectoris animum relinquam nec
ipse in his quae praeter muneris sus- cepti seriem sunt, tempus operamque
consumam, primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero
eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species
aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola cogitatione formantur,
sed genera et species esse non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne
enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum
enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno
tempore tota sit. quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum
est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae
uno tempore totum genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno
tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in
pluribus totum uno sit tempore, in semet ipso sit unum 1 a om. CS,
s. l. Em2 corporalitate ELS 3 possunt ELNPR 4
tamenetsi Ca.c . (tam ras. ex tam) L tam si
Em1 tamensi GRS 5 quod] eo quod L tamen om.
G tam N 6 uti EGLPa.r.RS ante diuelli add. aut Hm1,
del. m2 7 a om. ERS , s. l. Gm2 separatae
ex -ta H 8 quaestiones licet FHLPN 9
rennuente Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut R 13 dubietatis
L exsoluere CF 14 atque] et EGLPRS 15 solo ( s.
l. Pm2 ) et FHNP 17 uno tempore pluribus] multorum uno
tempore N 18 est ( s. l. m2 ) enim G 19 tota sit]
transit F 20 est unum Fm2H 21 non, s. l . quod S
, ut non CHm1N 22 carpunt RS capiant F participant
Nm1 habeant Hm2Lm2P 24 possunt F possint
S enim om. FN. del. L 25 unoque Gm2 sit uno
FHN tempore in mg. Gm2 numero, quod si ita est, unum
quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod
est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit dici, quodsi est
quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum
genus, sed habebit aliud super- positum genus, quod illam multiplicitatem
unius sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia, quoniam habent
quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita
quoque quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo multiplex, habet sui
similitudinem, quod genus est, non est uero unum, quoniam in pluribus
est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inuentum, eadem
ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. itaque in
infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus disciplinae terminus occurrat,
quodsi unum quiddam numero genus est, commune multorum esse non poterit,
una enim res si communis est, aut partibus communis est et non iam tota
communis, sed partes eius propriae singulorum, aut in usus habentium etiam per
tempora transit, ut sit commune p. 55 ut seruus communis uel equus,
aut uno ] tempore omnibus commune fit, non tamen ut eorum quibus commune
est, sub- stantiam constituat, ut est theatrum uel spectaculum aliquod, quod
spectantibus omnibus commune est. genus uero secundum nullum horum modum
commune esse speciebus potest; nara 1 numero] in numero NR
quoddam FS quodque N quidem R 5
ad ultimum s. l . maximum E super se (se s. l. G
) positum GR 6 sui] LP edd . ui cett . ( post
nominis F ) hominis R 7 uocabulo] HLP edd., om. cett .
concludat H concludit Lm1 includat m2
includit R 12 requirendum F perquirendum N
13 ratio Hm1N tertium genus CL 14 nestigabitur FH
nestigabit N 15 quodsi] quod NR quiddam] quoddem
(sic) R 17 si communis] sic omnis F quae com- munis CN
si om. R post post , communis est add . ut puteus et
(uel H ) fons CHNP (del. m2) , in mg. E, s. l. Lm2 18
proprie CFLNR post singulorum add . sunt HP
, s. l. Lm2 , post sunt s. l . ut puteus et fons
Pm2 19 habent G etiam om. FNP iam LS
21 sit NP ( ras. ex fit) est R ita commune
esse debet, ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune
est, constituere ualeat et formare substantiam, quocirca si neque unum est,
quoniam commune est, neque multa, quoniam eius quoque multitudinis genus
aliud inquirendum est, uidebitur genus omnino non esse, idemque de ceteris
intellegendum est. quodsi tantum intel- lectibus genera et species ceteraque
capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut
ut sese res non habet nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest
—, si generis et speciei ceterorumque intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut
sese res ipsa habet quae intel- legitur, iam non tantum in intellectu posita
sunt, sed in rerum etiam ueritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit
eorum natura, quod superior quaestio uestigabat. quodsi ex re quidem
generis ceterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae
intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem
sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque
res est intellegitur, sic igitur, quoniam genus ac species nec sunt nec
cum intelleguntur, uerus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis
haec sit deponenda de his quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem
neque de ea re quae sit 1 sit] s. l. Lm1? brm, om. cett . 2
post tempore add. sit Np, s. l . Em2 3 conformare
N substantias FHNP ante si add. et Hm1
, del. m2 ad quoniam s. l . quod Hm2 4
multiplex m2 in CEGP,Lm1 8 habeat N aut—habet in
mg. Gm2 ut s. l. Lm2Sm2 9 habeat N , post add . nanus
est intellectus (Intellectus otn. brm ) qui de nullo subiecto
capitur in mg. Lm2, s. l. Rm1? brm intellectus
post potest C 11 ipsa res HLN 12 pr .
in om. ENR , s. l. F 13 etiam om. CL 14
uestigabit Lm2 inuestigabat F 17 esse post
intellectum F , post uanniu N , om .
R 18 enim falsum est CKNP est om . H , er
. L enim om. R 19 si CNPS, m1 in GHL
, nec R igitur—intelleguntur om . R quoniam om.
CN ac] et S neque FHN quae Sm1 20
neque FH cum om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec
uerus GLR earum HN est eorum CL non]
neque N 22 fit Lm2 neque de ea de qua uerum
aliquid intellegi proferriue possit, inquiritur. Haec quidem est ad
praesens de propositis quaestio; quam nos Alexandro consentientes hac
ratiocinatione soluemus. non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex
subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum
uideri. in his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per
compositionem fiunt. si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod
natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis
equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet Cen- taurum. quodsi hoc
per diuisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut
intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae
in aliis esse suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt aut,
si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato
exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est,
corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim
separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo
separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in
se a sensibus cepit, eas propria ui et 4 Alexandro] testimonia Simplicii
in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b 15—31 (= p. 45,
12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl, Gesch. d.
Logik im Abendlande I 623 n. 24. 6 sit CEFH (ex
fit ) NPR ante ut add . ita FN , s. l. Gm2Pm2
habeat FHm1NP 7 post uideri add . ut si quis
dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum
F 8 compositionem] conjunctionem EGLPRS, recte? 9
quisquam HP quisque N ponat H intellectu] in
intellectu F id om. N 10 patiatur NR
11 pr . atque] aut N efficiet L ( c ex g
m2) efficiat CF effigiat Sa.c . 12 haec E
ad abstractionera s. l . ł (??)positionem Lm2 ł
abscisionem Pm2 fit R 13 ita post res
C, om. R 14 ille] ipse R 16 ut s. l. Cm2, del. Lm2
, post hoc F 17 ad peruagato s. l . ł
uulgato Pm2 18 hoc om. F est om. ELS, s. l. Gm2 ,
et F 19 ante docetur add . et CHNP, in mg.
Lm2 20 a om. ERS, s. l. Gm2 21 anima Em1Gm1Pm2Sm1
22 post permixtasque add . corporibus brm
capit C eas in mg. Hm2 cogitatione distinguit,
omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus
cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et
disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se
ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim
proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel in
his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incor- poreis inuenit
animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium
rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus
incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita
haec cum accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens spe-
culatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam
ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non
possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam
sese ipsae res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius
dictum 20 superius] p. 164, 8. 2 corpore EGLRS 3
at nero om. C animi ( om . cui) R et om. GRS, s.
l. Lm2 post disiuncta add . ut equum et hominem quae iungi non
patitur natura, post composita add . ut corpus et lineam
et (sic) disiungi natura non patitur R 4 a s.l. m2 in
EGLS 5 ante incorpoream add . in FLNS 7 et]
ut S sunt proprietates CLR , add. ut equum et cetera R
8 ante corporibus add. et C etiamsi R et, s. l.
si Cm2F separarentur F (ra s. l.) R separantur Lm1N 9
ergo om. FN, del. Lm2 , uero H, s. l. Lm2 corporeis
Cm1GHLPa.c.R 10 incorporeis] corporeis Cm1 11 animus
inuenit FHNP post ilico add . ibi F, s. l. Gm2 , add .
quo E, sed del . 12 incorporalium Em1 speciesque] et species
esse F prospexerit HR 14 ante haec add .
et H (del. m2) N, s. l. Cm2 animus cum accipit F 15
accepit Pm1S animus accipit C post incorporalia
add . ea CHm2LPN diuisa Gm2 16 desiderat Em1Ga.c
. falso ante dicat F falsam CGm1Lm1 (
post nosl NRS 17 capiamus Cm2N 19 sese om.
F ipsae om . H , s. l. Em2 , ipsa F
est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum
p. 56 hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in
diuisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt
efficit, non modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate
uerum est inuenire potest. sunt igitur huiusmodi res in corporalibus
atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura
per- spici et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species
cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex
singulis hominibus inter se dissi- milibus humanitatis similitudo, quae
similitudo cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum
rursus diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in
earum indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur uero uniuersalia nihilque aliud species esse
putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero
substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum
similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum
in uniuersalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis est,
in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo
circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum
est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque
caua, quae 1 cõpositionem GHR facit post
hoc H 2 quia Gm1R quod Sm2 3 id om.
N, s. l. Em2H , post diuisionibus F assumptionibus
Em1Gm1P atque assumptionibus CL 5 post
solus add . intellectus F , scil, intellectas s. l. Lm2
6 corporibus FHN post sensibilibus add .
rebus CHLNP 8 ante genera add . et CFS ; et
species et genera R 11 post pr . simili- tudo add .
colligitur N , scil, colligitur s. l. Hm2Sm2 cognita
Cm1F cognita uel cogitata N 12 ueraciter Lm2N
perfecta Em1NP sit FN 13 in om. C 14
earum] Pp.c. (corr. m1?) eorum cett . 17 substantiarum
R 18 collecta cogitatio Cm1LP 22 autem] tamen R
23 eadem Em1Gm1Ha.c . eidem Gm2Lm1 fin eodem m2 )
PR e * dem (sic) S in ante subiecto s. l.,
post eodem er. uid. C, om. EGLPRS 24 sint om. L concaua
Cm2N cauata Lm1 res cum diuersis definitionibus
terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto
reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et
speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem subiectum
est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur
in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut
arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem
alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed
sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet
ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et
species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque
praeter corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem
incorporalia atque uniuersalia, sed subsistere in sensibilibus putat;
quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae,
idcirco uero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam
maxime probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est, quorum
Aristoteles est auctor. Illud uero quemadmodum de his ac de
propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime Peripatetici,
tibi nunc temptabo monstrare. Praetermissis his quaestionibus quas
altiores esse praedixit, 21—23] Porph. p. 1, 14—16 (Boeth. p. 25,
14—16). 1 earum] HPp.c.(corr. m1?) eorum cett . 3
enim om. LP quippe P, s. l. Lm2 concaua
Cm2N eadcmque FLRS 6 post singulare add .
est R, s. l. Sm2 9 post , alio] alio modo LR
10 post uero s. l . praeter corpora Pm2 11 subsistentia
in ras. E substantia GSm1 13 ante esse s. l
. ea E praeter s. l. Cm2 15 ante
sensibilibus add . ipsis G 16 dixi Lp.c.Sa.c . 17
uero s. l. Cm2 20 auctor est CLP est om. G
21 ante lemma ISTORIA add. S, sic ( uel
HIST-) ante omnia paene lemmata uero] autem Σ post, de
om. E 22 pro- babiliter] λογιχώτίρον Porph. p. 1,
15 tractauerint Cp c . GH X m1 23 monstrare
(demonstrare N ) temptabo FLN 24 ante
Praetermissis add . EXPOSITIO S, sic paene ubique ante explicat,
lemmatum Missis Sm1 exoptat mediocrem introductorii
operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio
daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc
opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem
tractatus promittit detracta obscuri- tatis difficultate, animum lectoris
inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum
auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe-
ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est
de differentiis, propriis atque accidentibus, sese probabiliter
disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci
λογικώς uel Ινδόξως dicunt, saepe enim et apud
Aristotelem λογικώς ‘ueri similiter’ ac ‘probabi- liter’ dictum
inuenimus et apud Boethum et apud Alexan- drum. Porphyrius quoque ipse in
multis hac significatione hoc usus est uerbo, quod nos scilicet in
translatione, quod ait λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’
diceremus omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut
pro- babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem
ingredientium atque lectorum, quod introductionis est proprium, nam cum
ab imperitorum hominum mentibus doc- trinae secretum altioris abhorreat, talis
esse introductio debet, p. 57 ut praeter opinionem ingredijentium
non sit. atque ideo melius 1 haec om. S 2 harum que
LS horumque Gm1 quaestionum] insti- tutionum
Gm1Lm1RS omissi Em1 omisso Lm1Sm1 amissio F 3
est s. l. Em2 , esset Gm1 ex] et FHN , s. l. (om
. ex) Em2 quo- rum FHN 4 subnisus EGm1Sm1
aggreditur EGLPRS 8 et] ac R 10 de] R, om. cett .
11 post ait add . id est C 12 λογιχώς
uel ένδόξως ] edd., ante λογιχώς add .
uel CGLPR ; ΛΟΓ ΙΚΟΟ uel ΛΩΓΙ- ΚΩΟ uel
alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ C, sim. Η endo ΧΩ Ο E ΕΝ ΑΟΓΩ
Ο S, alia uarie cett . 13 et om. GR est S
λογιχώς ] S , in cett. eadem fere quae 12
14 Boethum] b boetum p boethon Em2GNS
(recte?) boeton CEm1PR boethion F
bethon H boetoton Lm1 boeten m2 Boethum
(-tium m)rm 16 uerbo usus est CEGLRS 17 λογιχώς
] item ut 13 , λογικώτερον edd . 19
se L *mitteret, s. l . pro Cm2 23 ingredientium
opinionem C non ante praeter CEG ( corr. m2
) L atque ideo] ergo Gm1 (atque ita m2 )
LPm1RS melius probabiliter quam om. R, s. l. Gm2Sm2
probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, inter- pretati sumus,
antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed <se< eorum illum
maxime tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut
tota disputatio ad Praedicamenta conneniat. 2 eisdem]
E (eis in ras .) hisdem cett . disputasse post
rebus C , ante de eisdem L , disputare N 3
se post illum add . brm , post sed
Brandt sequi CEm2HN 4 reliquerint] Gm1HPp.r .
relinquerint FSm1P a.r . relinquerent. R a. r.Sm2
reliquerunt CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV add . C ,
COMENTORVM add. F , COMTV PLOLOGI, sic, add . S) LIB. I. INCIPIT
(LIB. add. F ) II.(INCIPIT. om. R ) CEFGPRS ( uariis cum
scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN Quaeri
in expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis
ordine praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, pro- prio accidentique praetulerit; de eo enim primitus
tractat, respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod
uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur,
maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut
ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species
intra se positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus
etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae
magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt
quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae
ceterorum substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris,
nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est,
et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum,
quod accidens, non manebit et 2 ante Quaeri codd. et p exhibent
idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione
CGm1L expositionis S prin- cipii CGm1L 3
dispositionis N 5 praetulerat C tractat in ras .,
s. l . scil, conamur Em2 tractare Em1Sm1 6
respondemus F 8 clu- ditur (i ex e m2 )
S naturae] naturae suae F 10 igitur] itaque C
et om . CN 11 etiam minus HS 12 etiam om.
R etiam et C ita] idcirco CE (in ras.) HLm2NP
ideo F inchoandum fuit] erat incho- andum FHNP 13
ante cetera add . et L natura suae magnitudinis FHN
coerceat et contineat Lm2 14 priora] propria LS
aufert Ca.c . 19 ante proprium add . est P, s. l.
Lm2 post gram- maticum add . esse FHP, s. l. Em2
post accidens add. est FP , ante N interemptum
genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel
rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est,
animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis
substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis
ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum,
iure est igitur in dispu- tatione praepositura. Sed quoniam generis
nomen multa significat hoc - est enim quod ait : Videtur autem neque
genus neque spe- cies simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic
multiplex significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac
separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat,
sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium nec
accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam
ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens
ipsa quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem
uitans tantum speciem nomi- nauit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem
generis signi- ficationem hoc modo; Genus enim dicitur et
aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem
collectio, 10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph.
p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8). 1 esse om. P 2
post grammaticum add . esse FHP , s. l. Em2 3
esse post est Gm2L , om. EGmIRS, post esse add . constituas
EP , s. l. Lm2 alt . est] sit FHNP 5 et om. FHNR
consummantur S 9 enim est L 10 ante Videtur add .
INCIPIT Δ DE GENERE ΓΔΛΠ2Φ Incipit diffinicio generis
Ψ m. post., om. cett . autem om. HN 12 est
significatio C 13 tractatus R 14 est] sit P
oculos HN neque genus om. C 15 pr . nec
FHP neque proprium neque N 16 simplicia G (a add.
m1 uel 2) LSm2 ac] et C 17 non] nec G 18 atque om. C 19
est om. G 20 solem Gm1 21 quidem om. C 24
ad] et ad S aliquod EN P IIS aliquem in ras
. Cm2 , fort . aliquid m1 secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico
autem Romuli, et multitudinis habentium aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo
est cognationem secundum diuisio- nem ab aliis generibus dictae.|
p. 58 Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem
uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo
coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut
cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo uocabulum
trahens et ipsi Romulo et ad se inuicem quasi quadam nominis hereditate
coniuncta est. eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se
omnes uno generis nomine deuin- cit et colligat, uidetur autem secuisse hanc
generis signifi- cationem in duas partes, cum copulatiuam coniunctionem
admiscuit dicens; genus dicitur et aliquorum quodam- modo se habentium ad unum
aliquid et ad se inuicem collectio, tamquam et illud genus dicatur ad unum se
aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se inuicem unius
generis significatione coniuncti sint. hoc uero minime; eadem enim a
quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam
multitudinem refert et ipsam 1 significationem] diffinitionem Φ
romanura Cm1G 2 scilicet om. Porph. p. 1, 20 3
ante inuicem add . se L (s. l. m2) brm Busse; cf.
p. 173, 12 4 eam quae] eamque CR 5 dictae] Hm1Lm2R \ m2
W dictam cett.; cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 ( τού πλήθοος_
) κεκλιμένοι» 7 uno om. FGRS, s. l. Em2 , unum H; cf.
21 ad quem s. l . ał quod Lm2 8 est coniuncta
F 9 dicitur—Romanorum in mg. E, s. l. Gm2, uerba multitudo
enim Romanorum del. Lm2 11 post trahens add .
sit E (del.) G (del. m2), s. l. Lm2 12 ea E (ras. ex eadem )
FHN ab CEH 14 colligit CFPm2RS alligat
L 16 genus om . H, s. l. N dicitur] edd., om.
H dici cett. (s. l. N) 17 ad] et ad S
aliquod N 18 collectionem FH aliquo modo om. EGRS
19 rursus post genus C rursum S
dicatur—generis om. GRSm1 dicatur unius generis s. l. m2 20
coniunctiua EGR coniuncta Sm2 sint] NS
sunt CFHLP , om. EGR post minime add . est
LPm2 22 refert—multitudinem om. EGSm1, s. l. m2 (sed praefert
) inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet.
quocirca non est putandus diuisionem fecisse, sed omne quic- quid in hac
generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo autem uerborum ita
sese habet — qui est hyperbaton intellegendus —: ‘genus enim dicitur et
aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se inuicem aliquo
modo habentium’ — rursus ‘collectio’ subaudienda; est enim zeugma —, cuius
significationis adiecit exemplum : secundum quam significationem Romanorum
dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis
rursus habitudine habentium aliquo modo ad inuicem cognationem, eam scilicet
quae ab illo est, id est Romulo, secundum diuisionem ab aliis generibus dictae,
scilicet multitudinis. haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se
inuicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus
ab Atheniensium ceterorumque separatur, ut sit integer uerborum ordo : ‘genus
enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se
inuicem, secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius
scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum diuisionem ab
aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad inuicem eam
quae ab illo est, id est Romulo, cognatio- 1 nomine] EGLRS
uinculo CFHN nomine uel uinculo P 4 se FHNP qui
om. ER, s. l. Gm2Sm2 6 pr . sese L 7 ante
collectio s. l . et ( ut uid .) C subaudiendo N ,
post sub. add . est LR, ante s. l. Pm2 8 zeuma
EFGHPS 14 dictam EGm1Lm1PSm2 haec enim multitudo om
. ERS, s. l. Gm2 aliquo modo om . FP, ante add .
et C, post add . se P (del. m1?), s. l. Gm2H 15
post unum s. l . aliquid Gm2 post habens add .
cognationem Pm2 edd . 17 separetur Fa.c.N separaretur
CFp.c.HLm1 sit] sic H (sit post uerborum,)
P (sit post ordo,) sic sit F ; integer sit C ;
ordo uerborum, post repet . sit N 18 collectio om.
E 20 ab] ad F habitudinem F , post repetit uerba
post . aliquo— exemplum (6—8) G 22 dictam CEGm1Lm1Sm2
post habentium add . se Lm2P 23 id est om. S, in
quo post cognationem locus p. 172, 4—13 secundum—deuincit et
collegit (sic) repetitus (5 dicta est, 12 ea
script.) nem.’ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis signi-
ficatione dicendum est. Dicitur autem et aliter rursus genus, quod
est unius cuiusque generationis principium uel ab eo qui genuit uel a loco in
quo quis genitus est. sic enim Orestem quidem dicimus a Tantalo habere
genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus Pindarum qui- dem Thebanum esse
genere, Platonem uero Athenien- sem; etenim patria principium est unius
cuiusque generationis, quemadmodum et pater. haec autem uide- tur
promptissima esse significatio; Romani enim sunt qui ex genere descendunt
Romuli, et Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi. Quattuor
omnino sunt principia quae unum quodque prin- cipaliter efficiunt. est enim una
causa quae effectiua dicitur, uelut pater filii, est alia quae
materialis, uelut lapides domus, tertia forma, uelut hominis rationabilitas,
quarta, quam ob rem, uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae per accidens
unius 3—13] Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16). 4
generationis om . A , in ras. C quae Gm1 ll
m1 5 a loco] ab eo loco CEGLRS; Porph. p. 2, 1
άπ6 τού τόποα sic ex si Cm2 enim in
ras. Cm2 6 oresthē C oresten LN ΣΝΑΣΦ
horestem FH T dicemus S genus habere F 7 Hyllum]
Gm1 yllum m2 illum ( ad quod s. l . tan- talum A
m2 ) cett . autem om. G 8 ante Thebanum add
. dicimus 2 9 principium] Porph. p. 2,4 αρχή τις
; cf. infra p. 178, 17 10 et] Ν Ψ (er. uid.) brm,
s. l . Δ , om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5 καί
om. codd. quidam (habet M) ; cf. p. 176, 1 11 esse om.
H sunt om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ , s. l. Lm2 , in mg . U
m2 dicuntur edd.; Porph. p. 2, 6 λέγονται ; cf.
p. 176, 7 12 cecropides Σ 13 a Cecrope] cecropis Ea.c .
(a cecropis p.c .) G (cae- m1 ci- m2
) R ex genere descendunt cecropis LS ΑΑΣ , s. l.
Em2 ( om . cecropis), fort. ex p. 176, 8 ; Porph. Κ εκροπίδαι
ol άπό Κέκροπος eorum HL A , in ras . 2 14
efficiunt principaliter H 16 filii] et filius Em1FGLPRS
post materialis add . dicitur FPR 17 ante
forma add . a R, s. l. Sm2, ras. in E uelut *
(i er .) C quam] NS, om. R , quae cett., fort.
recte ob rem s. l. Rm2 18 pugnae uictoria] N
pugna uictoriae cett . duo CNP accidentes Ea.c.GHm1
( in mg . ał accidentialiter m2 ) Lm1RSm2 accidentis
m1 cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus.
quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco
uel tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus accidenter dicitur
habere principium. horum omnium in hac secunda generis significatione duo
quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis uidebuntur
accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum, | ex his uero quae
accidentia, locum. ait enim ‘genus p. 59 dicitur et a quo quis
genitus est’, quod est effectiua princi- palium causa, ‘et in quo quis
loco est procreatus’, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda
significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis
editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus
ducere; Tantalus quippe Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem,
Agamemnon genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero
Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis
nomen accepit. sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est, locusque
in quo quis editus, uidetur diuersa esse generis significatio procreantis
et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed ne uideretur
duplex, per similitudinem coniunxit dicens : etenim patria principium est unius
cuiusque generationis, 2 uel in ras. E et C 3
quicquid ex quo quid Cm2, ante add . et F, post add .
enim L 4 accidentaliter CLN accidentialiter
EGPSm2; cf. indicem Meiseri 5 ex alterutris duo quaedam FP 6
consumit S sunt Cm1H sumit Cm2, s. l. N
generis significationem H 7 uidebantur LPRS
uideantur EG accommodata R post quidem add .
causis codd., om. unus F, del. Hm2 8 ante
effectiuum add . sumit H accidentalia N 9 dici
CFNP et om. C, s. l. Lm2 quisque CGRS 10 loco
procreatus est L procreatus est loco N quod
GKS 13 editus] editus est FHNP post quoque add . ipsa
FHP, s. l. Lm2 oresten LN , item 16 14 pelopen
E 15 agamemnonen EG (-men) 17 quoniam] quia FHN
ante Thebis s. l. a Hm2? 18 editus] editus est CL
accipit C est om. G 19 pr. quisque
R editus] editus est NP (est s. l. m2 ) 22
post uideretur add . tamen EP, s. l. Lm2 adiunxit
FN 23 patria s. l. Cm2, in mg. F generati Em1
generis RSm1 quemadmodum et pater. sed quoniam in
significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei
pro- pinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit signi- ficationes,
multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen conuenientius aptetur,
iudicat atque discernit dicens hanc esse promptissimam generis
significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt
qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. quae cum ita sint, confundi
rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt maxime Romani qui a
Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est quae a procreante
deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumerauit, quae est ‘mul-
titudinis ad unum et ad se inuicem quodammodo se habentium collectio’? sed
acutius intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae sunt. aliud est enim a
quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse plurimorum.
illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa
diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa
generis significatio, quae a procreante deducitur; prima uero illa non nisi in
multitudine consistit. illud quoque est, quod prima procreationis
principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id
unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero significatio nullam uim
nisi procreante sortitur. item in illa primae significationis multitudine huius
secundae particularitas continetur, ut in 2 fere] saepe C
(ante euenit ) LNPm2S intellectu G signi-
ficandae FRSm2 propinquis F propinquus
Gm1PR propinquum N 3 quoniamque Em2HLm2P, post
quoniam add . qui Sm1, del. m2 4 generi EGH (s
er .) 6 esse om. G 7 ducta R cecropides R 8
Cecrope] cecropede FR (-ide) post Romulo add .
descendunt N 9 significationes generis C 11
ducitur Lm1 15 est s. l. F, post enim CL
enim om. N aliquolibet ( om . a) G 16 deducere
CLm1 et om. N 18 si s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat]
puer unicus familiam distendat Cm1FHN aptatur N 21 est]
est intellegendum C primae Hm2 24 <a> procreante
Engelbrecht prima EGHLm1RS Romanorum genere Scipiadarum
genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. quoniam enim ad Romulum et ad
ceteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Scipiadae
uero dicuntur ad secundam generis significa- tionem, quia eorum familiae
Scipio et sanguinis principium fuit. Et prius quidem appellatum
est genus unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo
eorum qui sunt ab uno principio, ut a Romulo; namque diuidentes et ab
aliis separantes dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus.
Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una sol- uatur. cum
enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem
ad procreationis initium, nunc contrario modo illam prius a se enumeratam
significationem dicere uidetur quae est procreationis, illam uero posteriorem
quae est multitudinis; quod contrarium uideri potest, si quis ad ordinem
superius digestae disputationis aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de
humani consuetudine sermonis, in quo prius eam significationem generis
fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu
nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse
translatum, hoc uero idcirco, quoniam 7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p.
26, 16—19). 1 nam] natura CFL 2 scipiades HNP
ante pr. ad add . et FHNP , s. l. Em2Lm2 post, ad om.
L 4 scipiades N 5 quia] quod E et om. NP,
s. l. Cm2 8 generationis in ras. Cm2 generis PR 9
nam- que ( sic etiam B Bussii )] om . ΛΦ , add. Hm2 \
m2 nam 2 quam edd. Busse; Porph. p. 2, 8 το
πλήθ-ος—δ 10 post aliis add . generibus F ,
s. l. Lm2 11 collationem Λ collectionem post
esse HP ; romanorum esse collectionem F 12 post
facilis s. l . est Lm2Pm2 facile ( om . et) FN
expeditur FNPa.c . 13 retulerat F retulit R 14
post , ad om. FHNR, s. l. Sm2 post nunc s. l . autem
Lm2 15 prius] posterius CLm2NP numeratam N
16 post uidetur add . priorem CGLNP 18
perspexerit C 21 loquendique CN et (s. l.
m1?) loquendi H 23 ante hoc s. l .
dicit Lm1?, post idcirco in mg . dixit Pm2
superius dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut
ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa
quoque nuncupata uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter
homines appel- latum est quod quis a generante deduceret, post autem
factum est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem p.
60 quodammo|do se habentis genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium,
ut esset inter eas nominis societatisque discretio. His igitur
expletis uenit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad
dialecticam facultatem multus usus est. horum quippe generum historia
magis uel poesis tractat exordium, tertium uero genus apud philosophos con-
sideratur. de quo hoc modo loquitur : Aliter autem rursus genus
dicitur cui supponitur species, ad horum fortasse similitudinem dictum.
et- enim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt
specierum, uidetur etiam multi- tudinem continere omnem quae sub eo est.
Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare
contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem 1 superius] p. 174, 10.
14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth. p. 26, 19—23). 1 enim]
autem p. 174 , 10 2 secundum GR a (s. l.)
secunda E 5 quis Cm2 prius m1 7
duceretur Cm1 diuisiones EFHLm2NP 8 esset] est
(s. l.) et E has FH 9 expeditis N
ad om. F 10 cuius CF multus post usus
Lm1R , multum G 11 poesi Cm1 13 hoc] 2 litt. er.
C 14 genus ante rursus Λ , post
dicitur Φ cui—genus (16) om. N, quod indicatur uoce
usque addita (dicitur usque earum); sic ( saepe
etiam usque ad) paene constanter in N aliisque codd. ubi mediae
lemmatum partes omissae sunt 15 ab.. similitudine GL \ m2 \Z
16 eorum A m2 A earum—specierum] Porph. p. 2, 12
τών δφ’ lauto 17 ipso om . h m1 se m2Lp.c.
\HA> sunt add. Gm2 \ m2 uideturque brm Busse; Porph
. xai SoxeT xai etiam] enim F autem Δ 18
omnem] 2 ( h m1 ß m1 ) omnium CEGLPRS h m2 U m2
earum FHN, s. l. post omnium Lm2 sub eo est] PA m1 AU
m1 ST est Φ sub eo (ipso F \ m2 se Lm2 )
sunt (est E, s. l. G ) specierum EFGHLNPp.c . (sunt eo sub
a.c .) RS \ m2 U m2 sunt sub eo specierum C; cf. Porph. p.
2,12 s . 19 pro- posuit edd . 20 superiorem FLm1Pm1
dictam esse arbitratur. superius autem dictae significationes sunt una
quidem, cum nomen generis quadam principii anti- quitate ad se iunctam
multitudinem contineret, alia uero, cum genus ab uno quoque procreante
duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. cum igitur sint
superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo
inter philosophos sermo est, illud scilicet cui sup- ponitur species, quod
idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam
similitudinem supe- riorum. nam sicut illud genus quod ad multitudinem
dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species
cohercet et continet. item ut genus illud quod secun- dum procreationem
dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus
speciebus suis est prin- cipium. ergo quoniam utrisque est simile,
idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus
mutuatum esse ueri simile est. Tripliciter igitur cum genus
dicatur, de tertio apud philosophos sermo est; quod etiam describentes
adsi- 18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17 (Boeth. p. 26, 24—27, 2).
1 dictam esse arbitratur] ut dictum est GRS autem om.
C, s. l. Lm2, del. Pm2 dictae] duae Lm1, ante sunt s. l
. dictae m2 , duae ex dictae H (ras.) Sm2, ante
dictae s. l. Pm2, ante sunt edd., post R 2 quidem
om. C cum in mg. Cm2 quae m1N quadam om.
EFG quandam H qua RSm1 antiquitatem H
3 ad se iunctam] CLm2 ad se et adiunctam HN ad se
iniunctam Sm1 ab uno quoque iniunctam R adiunctam
cett.; cf. p. 177, 2 continet Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2
aliam G 4 deduceretur E 5 qui P 6
tertiam et qua F 7 post scilicet add
. genus F, s. l. Sm2 8 ante opinionis add .
suae N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg. Sm2 se m1 9
creditur Ca.r.FR 10 a multitudine Ep.c.FHN 11 suo]
sub C (nomine sub uno) FHNPm2 , ex suo EL
ita in mg. Cm2, s. l. Nm2 13 est] esse EGLm2RS 14
post suis add . constat FHN, post genus s. l. Em2
est] CLm1P esse cett . 15 idcirco] id C
nomen post generis FHNP, post quoque L 16
in hac etiam FHN hanc significationem CP 18 cum
genus—sit (p. 180, 2) om. N dicitur S A m1 /AS 19
etiam] etiam et R gnauerunt genus esse dicentes quod de
pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, ut
animal. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc
enim solum est quod substantiam monstrat, cetera uero aut unde quid
existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam quasi populi formam
diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet genus, illius
multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum uno nomine
collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segre- getur.
item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae
substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at
uero genus id cui sup- ponitur species, ad speciem accommodatum speciei
substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,
quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit
agnoscimus —, idcirco reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud
philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione
quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes, non definientes;
definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque
obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res
quae 1 esse ante genus Pm1, post dicentes
Σ et om. F 2 differentiis R quid]
iterum quod P praedicetur Γ 3 ut animal om
. ΑΣ 5 est solum enim CN enim est solum FP
6 existit E (it in ras .) GLPS existet
Sm1 extitit HN <multitudo> a Brandt 7
una... forma EGRS diuidantur G ostendit
EGLPm1S 8 multitudinis] multi- tudinem G 12 procreantis
Nm1 13 atque G 14 ad speciem om. N ad
differentiam Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est FHN 16
unum om. EGRS enim] etenim FN quodque unum
G 17 uidemur] debemus E (in ras.) GPm1RS, post uidemur
add . uel debemus Hm1 del. m2 post reiectis add .
quia non demonstrant substantiam L temptatis temporum Sm1, del.
m2 19 post quod add . genus EPm1, del. m2
20 ait ex aut Em1 addit m2NP addidit
F 21 ex] de H 23 dictum om. FH dictu GLS autem]
enim FNP alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi
genus, sed tamquam species sub alio collocata. unde non in eo quod genus est,
supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico species fit. quae cum ita
sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere non
posse. si igitur uoluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset;
genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco
descriptionem ait esse factam, non definitionem. descriptio uero est, ut in
priore uolumine dictum est, ex proprietatibus infor- matio quaedam rei et
tamquam coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum conuenerint, ita
ut omnia simul rei p. 61 cui applicantur aequentur, nisi ex genere
uel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur
descriptio generis haec : genus est quod de pluribus et differen- tibus
specie in eo quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de
pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de
qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei
intellegentiam significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis
animal. id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo,
boue et ceteris. sed haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur,
homo uero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet
mediocri re, sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. de quibus
dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia nuncupantur.
praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. sed quonam modo
fit 9 in priore uolumine] cf. p. 42, 8—43, 6 potius quam p. 153, 10 ss.;
cf. Proleg. adn. 7. 1 genere G post supponatur
add . sed cum (alii add. P ) subponi- tur ( uel sup-) CFHN,
s. l. Pm2 non—potest (3) del. E 2 col- locatur
CFHNPm2 non] enim EF 7 ei (eius HN ) aliud quod
HNPm1RS possit EGS 9 priori LN ex om. GHS,
s. l. Em2Lm2 11 plurima L plura post unum
C 16 post . ut om. FG 18 late E (in ras.) FHP,
ecte ? 19 exemplo] hoc modo CLP 20 prae- dicetur CEGPm1RS
ante equo add . et FHLN, er. P 21 boue] et boue
L et er. uid. C 22 a] ad Lm1S 23 mediocri re]
medio- critate H 24 forma tota E (del. tota) G 26 fit
om. G haec praedicatio? non enim quicquid interrogaueris, mox ani-
mal respondetur : non enim si quantus sit homo interrogaueris, ‘animal’
respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam.
item si ‘qualis’ interroges, ne huic quidem responsio conuenit animalis,
ceterisque omnibus inter- rogationibus hanc animalis responsionem ineptam
atque inu- tilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit
interroget. interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit
bos, ‘animalia’ respondebitur. ita nomen animalis ad interrogationem ‘quid sit’
de homine, equo atque boue ac de ceteris praedicatur, unde fit ut animal
praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. et quo- niam
generis haec definitio est, animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est.
omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud
quod alterius prae- dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit,
ad alte- rum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras,
dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem
monstrat per se sicut est, non tam- quam referatur ad aliud. at uero cum
dicimus animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus,
sed de ea relatione qua potest animal ad ceterorum quae sibi subiecta 2
non] num FHN rogaueris Cm1GS 3 ante
animal add . mox F respondetur F ut] non
FHN 4 post qualis add . sit FHNP, s. l. Em2, s. l
. homo sit Lm2 interroges] Em1Lm1P roges cett .
nec CG haec CSm2 id m1 hic FN 5
interrogantibus EG 6 ineptam] CFHNPp.c.Lm2
idiotam E (s. l. i . inertem m2) GLm1 (s. l. inpro-
priam m1?) Pa.c.S Hilgard idiotam uel ineptam R
idiotae Engelbrecht 7 nisi] ni C 8 interrogat
Em2HN enim] autem F post . quid] quidque R 9 sit
om. E animal C item EGLm1PRS 11 ac] et
R 13 ante bouis add . atque FHNP 14 genus
autem C 15 ante alterius add . ad
CEm2HN praedicationem Em1PSm1 edd., post add . refertur Pm2
edd . 18 dicas Lm2 21 esse om. EGRS, s. l. Lm2 re
om. EGR, s. l. Sm2 post hoc add . nomen C, s. l .
Em2Pm2, ante FHNS de del. L, s. l. Pm2 22 relatione in
ras . E ratione GLPm1R sunt praedicationem
referri. itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri
praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in
earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis
rationem per exempla subiecit dicens : Eorum enim quae
praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo, sicut indiuidua ut Socrates et
hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum genera et species et
differentiae et propria et accidentia com- muniter, sed non proprie alicui. est
autem genus qui- dem ut animal, species uero ut homo, differentia autem ut
rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere.
Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius diuisionem
idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc
modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de
pluralitate dicuntur. 7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27, 2—7).
1 post itaque add . ut P, s. l. Lm2 est om.
R, post generis F quiddam Ea.r.G quidem
CNPm1 2 praedicatione post res C 3 eo- rum
CGNS, m1 in ELP 4 tantum E substantiam NR , -a
ex -a CS; cf. p. 187, 11. 18 5 autem om. C, in mg.
Lm2 8 indiuiduum C indibus ( s. l . indiuidua Em2 )
diabus (a, ex e E ) EG ut Socrates— hoc om.
CLNP ,—risibile (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic et hoc)
GH ut] sicut Em2 (in mg.) RS ΑΣ et hic et hec et hoc
F 9 uero om. CFLNPR autem Σ
quemadmodum—risibile (13) om. CL ( sed uerba est autem
11 —sedere 14 exhibet p. 184 , 14) NP ut genera, om. reliqua
usque accidens (13) F 10 differentia Sm1
m1 pro- prium Γ 11 sed] et ΛΣ
proprie] L (p. 184, 14) R Ψ propria ΓΑΑΠ ( ras.
ex -ae) 2 (a in ras .) Φ ( post
alicui); Porph. p. 2, 20 ιδίως est— risibile om.
R est—sedere (14) om. S 12 uero s. l . Δ m2 Φ
m2 13 ante accidens add . ut CL ut] id
est CLm2P uel E et R; Porph. 2,22
otov 14 ante nigrum add. et R
16 a LPS 17 post separet add . et (F) id
facit FHN, s. l. Em2 18 pr . alia] alia quidem
FHN alia de singularitate om. G, s. l. Em2, post
pluralitate CLm1 post . alia] alia uero FHNS dicuntur]
praedicantur post singularitate FHN de singularitate
uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo
dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato,
ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc
sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale est —, sed hoc quod nunc
suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix
—, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de
quolibet alio albo praedicari quod in hac niue est, quia ad singularitatem
deductum est atque ad indiuiduam formam constrictum est indiuidui
participatione. alia uero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera,
species, differentiae et propria et accidentia communiter, p. 62
sed non proprie alicui. | genera quidem de pluribus praedi- cantur speciebus
suis, species uero de pluribus praedicantur indiuiduis; homo enim, quod
est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit.
item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos
de quibus praedicetur. differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus
dici potest, ut rationale de homine ac de deo corporibusque caelestibus,
quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item
etsi de una specie praedicatur, de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub
conuenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et ceteris
indiuiduis quae homini supponuntur. accidens etiam 1 uero om.
FHN 2 possunt CLm1 3 ante Plato add . ut
FH, s. l. Lm2 et N edd . 4 quod] ut F ut] et
N 6 sed] sed et F 7 niui Gm2Sm1 enim est FL
8 niui Sm1, item 9 9 hac] alia EFGR (a.c.ut uid.
ac p.c.) Sm1 10 post , ad om. GHLR, s. l. Em2Nm2 ,
in FSm2 14 propriae FGa.c.Sm1 propria CHLN
post alicui uerba lemmatis p. 183, 11—14 est
autem—sedere add. L 15 plurimis FN 16 post
indiuiduis add . suis CFHP 17 qui] quod FHN 19
praedicatur FHN 20 potest dici E 21 quae om. R,
s. l. Sm2 q. er. N 22 item] autem Lm2P specie om.
C 23 tamen ante de H 25 post
indiuiduis add . dicitur CLP, s. l. Hm2 hominibus
EG homini * ( b. ? er.) L supponantur Em1GS
supponuntur ante homini C de multis dicitur; album enim
et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta
sunt. sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues
quoque, quorum species longe diuersae sunt. accidens autem quoniam
communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinauit dicens
et accidentia communiter, sed non proprie alicui. quae enim proprie alicui
accidunt, indi- uidua fiunt et de uno tantum ualentia praedicari, ea quae
communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. ut enim de niue dictum
est, illud album quod in hac subiecta niue est, non est communiter accidens,
sed proprie huic niui quae oculis ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod
commu- niter praedicari poterat — de multis enim album dici potest, ut albus
homo, albus equus, alba nix —, factum est, ut de una tantum niue
praedicari illud album possit cuius partici- patione ipsum quoque factum est
singulare. omnino autem omnia genera uel species uel differentiae uel propria
uel acci- dentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera uel species
uel differentiae uel propria uel accidentia sunt, mani- festum est
quoniam de pluribus praedicantur. at si ea in his speculemur in quibus sunt, ut
secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, euenit ut ex
pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur adduci. animal
enim, 3 enim om. C et (s. l. m2) enim
L sedit CN simia] post sedet FH et
simia R aues] auis N set et aues F sedet
auis H 4 quo- que om. FN , uero L quarum
Lm1 post sunt s. l . sedent Pm2 scil, sedent
Sm2 5 ante communiter add . et FHN, s. l.
Em2Pm2 7 propria HN pr . alicui om. GLR quae s.
l. Sm2 cum E (s. l. m2)FH enim proprie s. l.
Em2Sm2 propria N accidunt ali- cui E 8 ea quae] et
quae E ea quidem quae N eademque cum P et
cum F cum H 9 queunt om. Em1G, s. l. Sm2
possunt E m2 Pm1 (potest m2 ) R 10 niui
Sm1 niue est subiecta HL niui Sm1 nunc
G 12 ostensione GRS ita * (q. er .) C
ita quoque Sm2, ad itaque s. l . quoque Hm2 15
niui GSm1 17 differentias CE (s in er . e?)
GL 20 quoniam] quod G 21 ut] et FN subiectam CEGH
a.r.Lm1PSm2 22 substantiamque ( om . et) FHNP metiantur
E mentiamur Ca.r.Sa.c . eueniet HN pluritate
Gm1P quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in
Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum,
quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem
hominibus praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est
indiuiduo consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus
est ac singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed
in Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur,
in Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de
pluribus dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est.
Fieri autem potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem
ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de
pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum
acci- dens. eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod
quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus
ac species, in eo quod quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid
sit praedi- cantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime;
de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem
quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus
praedicantur, ut accidentia, 1 plurimis R 5 si s. l.
Lm2Sm2 quae et est om. F est— indiuidua in
mg. Cm2 7 est post singularis E 9 hominibus
om. FN praedicatur CEGL (ante hominibus) Pm1RS dici possit
N in Socrate om. ER unica Em1GS unicam Lm1
unita R 10 cum s. l. Em2Sm2 11 possit dici
E singulari] singulari corpore CFHN perspectum] CE (in ras.)
FH, m2 in LPS perspecta Lm1 a.c . (perfecta m1p.c .) R
perfectam Pm1Sm1 profecto ( alt . o in ras .) N profecto
perfecta G in- diuidua EGLm1RS 12 ante
eorum add . ut GRS, del. EL 13 dicun- tur] praedicantur
Pm2 praedicantur] dicuntur L ( ex dicantur m2
) P 14 plurimis R praedicantur] dicuntur N
17 pr . quod—differentia (19) in ras. Em2 post , in
eo—differentia (19) om. GR 19 iterum FN 20 pluribus
(plurimis H ) praedicantur FHN 21 post
speciebus add . quidem FHNP pluribus om. GRS, s. l.
Lm2, post praedicantur Em1Fm1 23 post pluribus
add . speciebus CFHN, s. l. Em2 alia quae de uno tantum, ut
propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae praedicantur,
alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. eorum quae de plu- ribus, alia
in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. eorum quae
in eo quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia
minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae-
dicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et
accidentia, alia de una tantum specie, ut propria. eorum uero quae de
differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in
substantia praedicantur, ut diffe- rentiae, alia in communiter euenientibus, ut
accidentia. et per hanc diuisionem quinque harum rerum definitiones colligi
possunt hoc modo. genus est quod | de pluribus specie differen- p.
63 tibus in eo quod quid sit praedicatur. species est quod de
pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur.
differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in
substantia praedicatur. proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale
sit non in sub- stantia praedicatur. accidens est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. 1
quae om. FN una C (s. l. add . specie ) FHN
possit FRS potest N 2 etiam om. LP 4
post pr . sit add . praedicantur CFHNP, s.l. Lm2 6 specie]
speciebus Ea.r.FLNPS 7 autem in mg. E, s. l. Lm2 9
accidentia et differentiae C post accidentia add . communiter
Pm2 edd . 10 uero om. GRS, in mg. Em2Lm2 quae in
mg. Em2 de differentibus specie om. GLRS, in mg . de specie differentibus
Em2 de om . C 11 substantiam RSa.r . 12 conuenientibus
Pm2 13 de- finitiones] diuisiones FHm1 14 specie
differentibus hic F, post quid sit (15) cett.; cf. proxima et p.
193, 1 15 est] autem E 18 substan- tiam R
proprium—praedicatur (20)] om. GR, in mg. Em2 proprium (uero
s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod
quale ait (sit s. l. Lm2 ) non in substantia praedicatur LPm2
non in substantiam praedicatur Sm1, del. m2, in sup. mg . ( ante non
inse- renda ) haec proprium est quod de pluribus specie minime
differentibus, deinde pauca uerba, quorum extremum
<praedi>cat<ur>, cum mg. abscisa, sequuntur uerba
accidens est (20) —praedicatur (21) , m2 20
ante specie add . et CE (del.) GLP Et nos quidem
has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio uero alia
fuit intentio. non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat, sed
tantum ut cetera a generis forma et proprietate separaret. idcirco diuisit quidem
omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis praedicantur, aut in
ea quae de pluribus, ea uero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse
dixit aut species aut cetera, horumque exempla subiciens adiungit :
Ab his ergo quae de uno solo praedicantur, diffe- runt genera eo quod de
pluribus adsignata praedi- centur, ab his autem quae de pluribus, ab
speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedican- tur, sed non de
differentibus specie, sed numero; homo enim cum sit species, de Socrate et
Platone praedicatur, qui non specie differunt a se inuicem, sed numero,
animal uero cum genus sit, de homine et boue et equo praedicatur, qui differunt
a se inui- cem et specie quoque, non numero solo. a proprio uero differt genus,
quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et
de his quae sub una specie sunt indiuiduis, quemadmodum 9—p. 189,
16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth. p. 27, 8—28, 7). 2
separemus GNRm1Sm1 porphirii Lm1 fuit alia
CN 4 forma generis H separet NPa.c.Sm1 ante
idcirco add . hic FRS 5 diuisit s. l. Em2
separauit m1 quidem s. l. R, ante diuisit L
6 praedicarentur FHLm2Pm2 plurimis Em1Lm2 uero]
autem C 7 plurimis FGm2N praedicarentur
FHLm2 8 horum F 9 Ab om. GHP, s. l. ER ergo]
uero H praedicarentur N 10 prae- dicantur
Em1GLm2PRSm2 Busse 11 ab his—accidens (p. 189, 14) ] Ω
, om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque HISTORIA
(cf. ad p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189, 17—193, 16
insertae sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum lectiones hic pro-
ponentur post . ab] Ω (etiam B Bussii) a edd.
Busse 12 post quidem add . differunt genera
Γ praedicatur ΛΣ 13 sed non] sed om . Σ non
tamen H m2 ‘i’ 14 Platone] de platone A 16 sit
genus Σ 17 boue] de boue Γ 18 et om. ΓΦ
non] Porph. p. 3, 1 aX\’ οΰχί solum edd. cum
Porph . τώ άριθ·μώ μόνον 20 hiis Φ 21 una om.
Porph. p. 3, 3 risibile de homine solo et de particularibus homini-
bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de pluribus et
differentibus specie. a differentia uero et ab his quae communiter sunt
accidentibus differt genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus
spe- cie praedicantur differentiae et communiter acciden- tia, sed non in eo
quod quid sit praedicantur, sed in eo quod quale quid sit. interrogantibus enim
nobis illud de quo praedicantur haec, non in eo quod quid sit dicimus
praedicari, sed magis in eo quod quale sit. interroganti enim qualis est homo,
dicimus ratio- nalis, et in eo quod qualis est coruus, dicimus quo- niam niger.
est autem rationale quidem differentia, nigrum uero accidens. quando autem quid
est homo interrogamur, animal respondemus; erat autem homi- nis genus
animal. Nunc genus a ceteris omnibus quae quolibet modo
praedi- 3 specie s. l . Γ , om. optimi codd. Porph. p.
3,5, delend. uid. Bussio 5 locum quoniam—animal (16)
post genus p. 193, 18 add. LS etiamsi LS sΠ*ΙΓ
specie differentibus ΛΣ ; Porph. p. 3, 6 διαφερόντων τψ
ειόει 6 differentia Lm2S 7 sed non] Δ ( ad
sed s. l . id est tamen m1? ) Π ( ad sed s.
l . uel tamen m1? ) A Busse tamen non LS ΤΣΦ non
tamen Ψ edd.; Porph. p. 3, 8 άλλ’ οόκ , cf.
supra p. 188, 13, infra 190, 12 7 sit om. L sed in eo quod
quale quid sit] codd. cum Porph. p. 3, 8 codicib. Lm2Mm2 άλλ’
έν τψ όποιον τ£ έστιν , delend. uid. Bussio 8 quid om. S
Φ interrogantibus—sit (11) om . Φ ad
interrogantibus s. l . uel interrogati Δ nobis] LS A m2
Ii (del. m2) Busse nos A m1 (enim post
nos,) Ψ , om . ΓΔ2 ( decst Φ );
Porph. p. 3, 8 έρωτησάντων γάρ ήμών uel τινών
codd . 9 post illud s. l . quomodo (m1?)
uel de quo (m2) Δ haec s. l. Lm2 10
post quale add . quid Π (del. m2) Ψ m Busse, om
. LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p. 195, 4. 196, 8. 15) , aliquid
s. l . Λ ( deest Φ ); Porph. p. 3, 10
έν τψ ποιόν τί έατιν 11 interroganti] ΑΣ a.r . Ψ
interrogantibus S interrogati cett.; Porph. p, 3, 10 έν
γάρ τψ έρωταν 12. dicimus] Π m2 ΣΨ , om . Φ ,
dicitur cett.; Porph. p. 3, 11 οομέν 14 autem om.
N quid est] quidem FN qui Gm1, s. l . est
m2 quod est L 15 interrogamus P A , m1 in
EGR Z interrogemus S erat] RS, m1 in Ρ ΔΛ ,
est 1 erit cett.; Porph. p. 3, 13 vjv genus
ho- minis Σ cantur separare contendit hoc modo. quoniam enim
genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum
praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui- duum ac singulare sublectum;
sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est
cum ceteris, id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco,
quo- niam ipsa quoque de pluribus praedicantur. horum igitur sin- gulorum
differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub
animi deducat aspectum, dicens : ab his autem quae de pluribus praedicantur,
differt genus, ab speciebus quidem primum, quoniam species etsi de
pluribus praedicantur, non tamen de differentibus specie, sed numero. species
enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species
appellaretur. p. 64 si enim genus est quod de pluribus specie |
differentibus in eo quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus
dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differenti- bus
praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas
est. homo enim praedicatur de Socrate, Platone et ceteris quae a se non specie
disiuncta sunt, sicut homo atque equus, sed numero : quod quidem habet
dubitationem quid sit hoc quod dicitur numero differre. numero enim differre
aliquid uidebitur quotiens numerus a 2 quidem om. CHN
qui G, ex quae Lm2 3 post praedicantur add
. ut socrates et hic et hoc H quae CN 5 uno] uno
solo LS est ei L est om. CEHN 6
post specie add . et FHP, s. l. Lm2 accidente
Lm2Pm1N 9 aspectum deducat E ab] CL (s. l.) NSm2, om.
cett . 10 autem] enim P post pluribus add . id est ( add .
specie, sed del. E ) ab his quae ( haec s. l. E ) de pluribus
Em2GPRS 11 a R primum om. S, s. l. Lm2; deest p. 188,
12 12 praedicatur S non tamen] sed non S de
om. FHNP 15 plurimis Em2GPRS 16 plurimis EGR dicatur]
praedicetur C praedicatur edd . 19 fas est] placet
HNPm1 post enim s. l . cum sit species Em2Pm2 (ex p.
188,14) quod est species Lm2 20 et ceteris del. E
qui Ep. c . disiuncta ( ad quod s. l . differunt)—equus del.
E 21 post equus add . uel bos LP 23
differre (in mg. H) post aliquid FHLN aliquis
GS quoties (-cies) EPRS numero differt, ut grex boum
qui fortasse continet triginta boues, differt numero ab alio boum grege, si
centum in se contineat boues; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo
quod boues, ne eo quidem : numero igitur differunt, quod illi plures,
illi uero sunt pauciores. quomodo igitur So- crates et Plato specie non
differunt, sed numero, cum et So- crates unus sit et Plato unus, unitas uero
numero ab unitate non differat? sed ita intellegendum quod dictum est numero
differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum numerantur
differentibus. cum enim dicimus ‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus
unitates, ac si digito tangamus dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de
Platone ‘hic unus est’, non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Pla-
tone. alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam
monstraretur. quod non fit. nisi enim tetigeris Socratem uel mente uel digito
itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur. ergo differunt
quae sunt numero dif- ferentia. cum igitur species de numero differentibus, non
de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur,
ut de boue, de equo et de ceteris quae a se specie inuicem differunt, non
numero solo. tribus enim modis unum quodque uel differre ab aliquo dicitur uel
alicui idem esse, 3 continet EGLRS differt C, add .
neque CP, s. l. Hm2, s. l . nec Lm2 4 ne—differunt]
H ( post quidem del . haec m2 ) N
igitur om. EG nec in eo (recte?) quidem differunt. Igitur
numero differunt L non nisi quidem numero. Igitur differunt numero
F non nisi (eo add. S, sed del .) quidem numero differunt
RS Numero igitur (Igitur numero C ) differunt, cet .
om. CP 5 quomodo] quo R igitur] uero C 6
specie—Plato om. F 7 pr . unum PS 8 differt
CEm2NPR post intellegendum add . est CL 10 dum]
cum F 12 ante rursus s. l . et S 14
possit FLRS posset fieri in mg. Cm2 ut] in
Cm2Em2G tactu socrates Em1G 15 ante etiam
add . et ( sed et in etiam del. uid. E ) EG
demonstraretur LP 19 speciebus CFHN post genus s.
l . quoque Lm2 et om. Em1 ( s. l . et de m2
) R specie differentibus EF 20 pr . de om.
CL et om. FH de s. l. Em2Lm2 ceterisque
quae F inuicem specie FN genere, specie, numero.
quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si
eadem sint genere, differant specie. si uero eadem sint specie, genere quoque
eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere — uterque enim
animal nuncupatur —, differunt specie, quoniam alia est hominis species,
alia equi. Socrates uero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt
genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. si
quid uero uel genere uel specie idem sit, non necesse est idem esse numero,
quod si idem sit numero, idem et specie et genere esse necesse est; ut
Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, numero
tamen reperiun- tur esse disiuncti. gladius uero atque ensis idem sunt numero,
nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius, sed nec specie diuersi sunt,
utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque enim instrumentum est,
quod est gladii genus. quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal
praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est.
idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus
praedicatur. nam si integram generis defi- nitionem demus, dabimus hoc
modo : genus est quod de plu- 1 ante genere add . id est
P, s. l. Hm2Lm2 genere—esse specie om. EGRS numero] et numero
C 2 esse post specie C, ante eadem FH
ut si—differant specie om. FHNPm1 , in mg. add., sed del. m2
genere—eadem sint om. C 3 sunt F 4 est] esse ( idem
ante necesse ) GSm1 sunt EFGKHm1NRSm1 5 animalia
FHN nuncupantur FHNS differentia Hm1N 6
species om. FG, ante est C 7 uterqne EGLPRS,
recte? 8 et om. CP sub hominis et om. GLRS, s. l.
Em2Pm2 post , sub om. C ponitur Lm2Sm2 9 sit]
sint S sunt Fm1 (in mg . est m2) Nm1 10 quod si—necesse
est post disiuncti (13) transpos. et 13 enim
pro uero scr. brm 12 tamen] tantum CLm1 15 diuersi
* (s er.) , om , sunt C est gladius
FN 16 ad instrumentum s. l . bellicum Em2
17 bos ante homo EG atque bos post
equus FN 18 ergo om. FHNP, del. Cm1? Lm1? Sm2
etiam s. l. Lm1? 19 ante id- circo add . et
F, s. l. Sm2 ab specie om. EGLS a R de] a
R ab CEGLS 20 post specie s. l .
quidem L definitionem ( uel diff-) generis FHNP 21
dabimus om. EG ( add . dicimus post modo) RS, s.
l. Lm2, post modo C ribus specie et numero
differentibus in eo quod quid sit prae- dicatur, at uero speciei sic : species
est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A
proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de una sola specie,
cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie sunt indiuiduis.
proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad
aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de
ea specie cuius est proprium praedicatur et de his indiuiduis quae sub
illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et
ceteris quae sub hominis nomine continentur. genus uero non de una tantum
specie, ut dictum est, sed de pluribus. differt igitur genus a proprio eo quod
de pluribus speciebus praedi- catur, cum proprium de una tantum de qua
dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt indiuiduis. A differentia uero
et ab his quae communiter sunt accidentibus differt genus. differentiae atque
accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. omnino enim quia
haec in eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a
genere; nam in ceteris quidem propinqua sunt generi, nam et 1
specie—differentibus] specie non (non Lm2 s. l. et R et cum
cett. P ) numero solo (solo s. l. Lm2, om. P ) differentibus
LPR 2 plurimis S 3 in—sit om. HN 4 proprium]
prius S proprium—praedicatur] pro- prium praedicatur et de una sola
specie C quidem—est proprium om . G, s. l. Em2
quidem om. etiam S 6 post proprium add .
uero N enim brm 7 uni om. GS, post speciei
E (s. l. m2) HR 9 post hominis add . est edd . 11
et] ut RS de om. FN, s. l. Pm2 Platone] de
platone G et ceteris] ceterisque FHNP 12 qui
Em2 13 ut s. l. Hm2Pm2 de om. N plurimis
CEm1GNR, add . et differentibus specie S, in mg. Pm2 ( om . specie)
14 praedicetur Lm2P 15 post tantum s. l .
specie Lm2 appellatur FHm1NR 17 sunt accidentibus]
accidunt HN 18 genus] cf. ad p. 189, 5; post locum p. 189,
5—16 uerba Quare—praedicantur p. 194, 20 s. add.
L discrepantia FL 19 separatione del. et s. l . diffinitione
Em2, post separatione add . uel definitione Hm1, del.
m2 20 sint Em2HN 21 in] CL (s. l. m2) N, om. cett
. de pluribus praedicantur et de specie differentibus, sed
non p. 65 in eo quod quid sit. si quis enim | interroget : qualis
est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis : qualis est
coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem interroges : quid est homo?
animal respondebitur, quod est genus. quod uero ait : haec non in eo quod
quid sit dicimus praedi- cari, sed magis in eo quod quale sit, hoc magis
quaesti- oni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in sub- stantia
putat oportere praedicari. quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua
praedicatur, non quale sit, sed quid sit ostendit. unde non uidetur
differentia in eo quod quale sit praedicari, sed potius in eo quod quid sit.
sed sol- uitur hoc modo. differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa
substantiam qualitatem determinet, id est substanti- alem proferat qualitatem.
quod ergo dictum est magis, tale est tamquam si diceret : uidetur quidem
substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari, sed magis
illud est uerius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit
praedicatur. Quare de pluribus praedicari diuidit genus ab
his quae de uno solo eorum quae sunt indiuidua praedi- cantur,
differentibus uero specie separat ab his quae 20—p. 195, 5| Porph. p. 3,
14—19 (Boeth. p. 28, 7—13). 1 plurimis FH 3
respondebitur R rationabilis N quis om. R, post s. l .
scil. (om. brm) interroget Hm2brm post , est om.
HN 4 dicetur FHN interrogetis N 9 autem]
uero FHN 10 qualis Cm2FHP 16 tamquam] ac F
20 uerba Quare—praedicantur (21) et p. 193, 18 et hic (
hic om . praedicatur) habet L, eadem iam ante lemma add. S
predicari ex preditur Pm2 genus diuidit hic
L hiis F 21 sola F eorum—accidentibus ( p.195, 3
)] Ω , in sup. mg . non sunt indiuidua (21) —
accidentibus add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae de una solummodo substantia
dicuntur R, om. cett. codd . eorum quae sunt indiuidua om. p. 193,
18 L eorum om. L (hic) A 22 ante
differentibus add . de ΓΛΦ ; differentibus—quibus
praedicantur (195, 5) post colligamus p. 196,1 inseruit S,
itaque uerba quae (195, 3) —quibus praedicantur (195, 5) et illic
et hic habet separatur Φ , in mg . genus add .
Γ sicut species praedicantur uel sicut propria; in eo autem quod
quid sit praedicari diuidit a differentiis et communiter accidentibus, quae non
in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit uel quodammodo se habens
praedicantur de quibus praedicantur. Tria esse diximus quae
significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus
praedicari, de specie differenti- bus et in eo quod quid sit. quae singulae partes
genus a ceteris quae quomodolibet praedicantur distribuunt ac secer-
nunt, quod ipse breuiter colligens dicit; id enim quod de pluribus praedicatur,
genus ab his diuidit quae de uno tan- tum praedicantur indiuiduo. indiuiduum
autem pluribus dici- tur modis. dicitur indiuiduum quod omnino secari non
potest, ut unitas uel mens; dicitur indiuiduum quod ob soliditatem diuidi
nequit, ut adamans; dicitur indiuiduum cuius praedicatio in reliqua similia non
conuenit, ut Socrates : nam cum illi sint ceteri homines similes, non conuenit
proprietas et praedi- catio Socratis in ceteris. ergo ab his quae de uno tantum
praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur. restant
igitur quattuor, species et proprium, differentia et acci- 6 diximus] p.
181, 15. 2 diuiditur Φ , s. l . genus add.
Lm2 differentibus S 3 ante quae add .
et CEGP quae om. R non om. S (hic) quod]
quia R 4 post . sit] Σ est cett; cf. p.
196, 8 quodammodo in ras. Em2 quod ad modum CG
quemadmodum LP quod a modo R quomodo Ψ
edd. Busse ; Porph. p. 3, 19 πώς ; cf. supra p.
128, 10 5 praedicantur om . ΓΦ ante de
quibus add . de his S ( ad p. 194, 22 ) ab his Σ
his A hiis Φ de quibus praedicantur] S (ad p.
194, 22) ΓΛ (de s. l .) 2Φ , om. cett . 7
informant FHm1N post, de] Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed
FHm1Pm1; cf. p. 181, 16 8 et om. R 9 quolibet modo CL
(modo s. l. m2 ) N quo *** libet (libe er. uid .) F
praedicatur GPm1 10 col- ligens breuiter EGS 12 dicitur
pluribus C 13 non potest secari CFN 14 indiuiduum—dicitur
(15) om. G 15 adamas HLm1P (-as ras. ex -ans),
amans R 18 ceteros NP 20 igitur] ergo FP dif-
ferentiae EHa.c.NP, ante add . et H, s. l. Lm2 dens,
quorum a genere differentias colligamus. singulis igitur differentiis ab his
rebus segregabitur genus. ea quidem dif- ferentia qua de specie differentibus
genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur uel sicut
propria. species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium uero de
una tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differenti- bus.
item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit
praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. itaque
genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis,
ab speciebus uero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de
specie differentibus dicitur, proprium uero et species minime. item genus in
qualitate praedicationis a differentia accidentique diuiditur. qualitas enim
praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel in eo quod quale sit
praedicari. Nihil igitur neque superfluum neque minus con- tinet
generis dicta descriptio. Omnis descriptio uel definitio debet ei
quod definitur aequari. si enim definitio definito non sit aequalis et si
quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut
semper definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem
definitionem 16 s.] Porph. p. 3, 19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.)
1 quarum Cm1Lm1 colligamus ante differentias
C colligemus (e ex i) H; cf. ad p. 194, 22 2 ea
quidem—dicitur om. S 3 post differentibus add .
praedicari edd . separat ab his] FLm1R dum separat ab
his S differt ab his CN differt (s. l. Em2) ab
(a L ) specie et proprio HP , s. l. Lm2
(seperat—propria [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab his add .
Hm2, om. EG separatur ab his edd.; cf. p. 194, 20 4
praedicantur post propria H 5 nulla] nulla alia
LS 8 enim] uero FHN 10 a LNR 13 ab
FHP (b er .) 15 praedicare GR 16 Nihil ex
Nil Pm1? pr . neque om . ΛΛΠΣΨ Porph. p. 3, 19
Busse, del . Γ m2 17 genus F dicta om. E, s. l
. Σ , post descriptio G locus Porph. p. 3, 19 s.
plenior est (cf . τής έννοιας , quod deest ap. Boeth.) 18
Omnis descriptio in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2
post Omnis add . enim L, s. l. Sm2, post debet C
(er.) EGR 19 definito om. FPS et om. CFN 21
definitio ( uel diff) Ca.r.N post si s. l . sit
L definitio C definiti ( uel diff-) Em2HN
substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus
praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim
uere dicere potest ‘omne animal homo est’. atque idcirco si sibi praedicatio
conuertenda est, aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque
super- fluum quicquam habet neque di|minutum, ut in ea ipsa generis p.
66 descriptione. dictum est enim esse genus quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere
conuerti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in
eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait,
nec plus neque minus continet generis facta descriptio. 1
substantiam CEm2 4 pr . est om. C 5
oporteat EGHL ( a del .) PRS ante sit add .
ut E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2 6 habeat R
diminutiuum Em1 7 enim est G esse s. l. Em2L,
post genus Pm2 8 praedicatur Em2FNa.c . 9
post ut s. l . si Lm2 quicquid] quod
EGLm1RS 10 praedicatur Em2 11 conuerti potest] * (ñ er .)
con- uertitur C conuertitur. est F conuerti (non
del .) potest S neque— neque FLm2P nec—nec HLm1
neque—nec N 12 continet s. l. Nm2 Sm2, om. F,
post generis CEGL facta] dicta p. 196, 17 ANICII
MANLII (MALLII G ) SEVERINI BOETII V. C. ET I LL EXCONS. ORD.
PATRICII IN ISAGOGAS (YSAGOG. E ) PORPHYRII ID EST INTRODVCTIONEM
(introductiones C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE COMMENTARIVS
SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic. C, post
PORPHYRII add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT E ) INCIPIT
LIBER TERTIVS C ( pleraque litt. minusc. scr .) GE (
uariis cum scripturis compendiisque ); sede trans- lationis comtarius expł
incip lib IΙI. L ; EXPL COMMENTARIVS. II. INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC
COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·, EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER
TERTIVS (TERCIVS LIBER P ) FP ; INCIPIT LIBER TERTIVS R
; subscriptio deest in H Superior de genere disputatio
uideatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad
aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si
speciei quae sit intellegentia nesciatur. sed quoniam diuersa est in suis
naturis eorum consideratio atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut
singula in prooemio proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post
generis disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim
haec fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod naturae suae
magnitudine cetera con- tineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine
trac- tatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim
differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id
quod eius informatione perficitur. posterior igitur est species a
differentia, prius igitur de dif- ferentia tractandum fuit. etenim prooemio
etiam consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit,
dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum
est quaestioni, quoniam omnia quaecumque 19 dicens] p. 147, 5. 7. 148,
17. 2 uidetur CGHL, ras. ex uideatur PS 3
sumpsisse CHN 5 ne- scitur FHm1 7 mixtis
Fa.c.Lm1 8 posuit H diuidere ante ita G,
post cuncta CLP , diuise HNa.c . prosequitur
Gm1PR 10 pro- ponendi CFNR genus R 12 nonne
Em2FHPSm2 ante aequum add . et HP, s. l. Em2 speciei
differentiam EFHLm2P; cf. p. 239, 9 13 obtineret CLm1 14
ipsae CNP est s. l. Gm2Lm2 15 informet E 16
post Em1GLm1RS igitur] ergo C a om. CRS, er.
L 17 ut enim N ut CH etiam om. CF
18 post quo add . prius CN eam ordine CFN
quam CFN 19 post dicens add . ubi ait
E 20 ante huic add . sed E ad aliquid
praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse
pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen
pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe
nisi generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad
speciem; nec uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt
genus ac species, ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in
naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad
inferiora uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum
constituit, eorum continens factus est iure tractatus : De specie
igitur inchoans ait hoc modo. Species autem dicitur quidem et de
unius cuiusque forma, secundum quam dictum est : ‘primum quidem species
digna imperio’. dicitur autem species et ea quae est sub adsignato genere,
secundum quam sole- mus dicere hominem quidem speciem animalis, cum sit genus
animal, album autem coloris speciem, trian- gulum uero figurae speciem.
Sicut generis supra significationes distinxit aequiuocas, ita idem in
specie facit dicens non esse speciei simplicem signi- ficationem. et ponit
quidem duas, longe autem plures esse 7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180,
23 ss. 13—19] Porph. p. 3, 21— 4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9
ss. 1 positis Gm1Sm1 3 nomen] non Ea.c.Ga.c . 4
uideri EP 8 in om. R 9 consistit CLNPSm2
constat Em1 tum R ac] et H 10
referuntur FLm1 referantur NS refertur Pm2R
11 continuus CN 12 ante De add . sed CH
, m1 in LRS , si E de ex sed Sm2
sed del. Lm2Rm2 13 ante Species inscriptio
DE SPECIE (EXPLICIT DE GENERE. INCIPIT DE SPECIE Ψ ) additur
in 11 et om. L 14 primum] G edd .
primi L primis Sm1 priami cett. Busse; Porph. p.
4, 1 πρώτον piv είδος άξιον τυραννίδος (Eurip. Aeol.
frg. 15, 2 N.) ; cf . quemlibet illum infra p. 200, 22
15 post digna add . est HNPR AAΦ , s. l. LSm2,
edd. Busse; om. Porph. post et ras., s. l . etiam Γ 17 qui-
dem om. N, post add . esse FR, s. l. L , esse post
speciem s. l. Pm2 cum—animal om. S 18 autem om.
Ε ΑΣ 20 ita om. HN manifestum est, quas
idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. dicit autem
primum quidem speciem uocari unius cuiusque formam, quae ex accidentium
congre- p. 67 gatione perficitur. cautissime autem dictum est
unius|cuius- que, hoc enim secundum accidens dicitur. quae enim uni
cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species, sed ex
accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae species quae humanitas
nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed tamquam ipsa qualitas
substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est quae unius
cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes.
postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen modis ad aliud
atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est
si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem; si
sub animali eam intellegendo locaueris, deducit animalis in sese
participationem separaturque a ceteris ani- malibus ac fit generis species.
quodsi unius cuiusque proprie- tatem consideres, id est quam uirilis uultus,
quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et quodam-
modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet
illum imperio esse aptum propter formae 1 praeterit CEGLPR 2
primo FHNP 3 formam] CN figuram cett 5 haec
GL ( s. l. add . species m2 ) RSm1 uni om.
EGRS 6 ea om. HN 7 ante species (specie H )
add . ac CHN ex om. CH 8 forma, s. l .
species (m. 2) E pr . quae] sed quae E eaque] ea quae
EFGH Lm1Sm2 9 post sed add . est brm,
post qualitas S 11 unius cuiusque corpori] CNPm2R
in (s. l. Lm2) unius cuiusque (in add. Lm1, del. m2 ) corpore
( ex -ri Lm2 ) FHLPm1 unius cuiusque (in s. l.
Sm2 ) corpore EGS accidentaliter CLm2P sita
FHLm1 si ita Na.c . ea] hac F 12 postremoque
CNPm2 (recte?) postremo quoque Rm1 postremum quae Rm2S
postremum H 13 sunt FH post atque add . ad
CHR 14 in- telligantur LRm1 15 si post
humanitatem FHN respexeris N eaque] Cm1N ea
quae cett . determinet R 16 eam om. GPRS (recte?)
, s. l. Em2 17 se Lm1N 18 species generis C
20 informantur LPm2 21 accidentalis Lm2Pm2 22
quamlibet FLm1 quodlibet Sm2 illum om.
CHLNP illud RS eximiam dignitatem. huic aliam adiungit
speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos uero triplicem
speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae quali- tatem,
aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam de qua nunc loquitur,
quae sub genere collocatur. creden- dum uero est propter obscuritatem eius quam
nos adie- cimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum,
ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem speciei haec exempla
subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album autem coloris,
triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt
genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura.
Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de pluribus et
differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, et speciem dicimus
id quod sub genere est. Dudum cum generis descriptionem adsignaret,
in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de
pluribus specie differentibus in eo quod quid ait prae- dicaretur, ut
scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero cum speciem definire
contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere
ponatur. 13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23). 18 (dicens)—20]
p. 180, 1 s. 3 subiecimus CLN substantialem
FLm2Bm2 4 indiuiduam G 5 collocatur (-catur in ras. m2)
E colligatur GLm2 (colligitur m1 ) Rm1s 6 est]
est quod EPRS 7 quia] quae CN quaerit C
quaeret Hm1N 8 praetermissa quae Em1Sa.c . praetermissa
Rm1 dedisse Gm1 edidisset R, ante edid. add
. ipsum r 9 ut] et EGLm1Ra.c.S 11 eorum quae]
CFHN earum quae EGR earumque LPS 12 trianguli
figura] Lm1 figura trianguli Pm2 forma trianguli HNPm1
trianguli forma cett.; fort , trianguli >uero>; cf. 10. 199,
19 13 Quodsi] Quid sit FPm1 (Quod sit m2 ) Quod
CL Sic Λ2 signantes F 14 et om. F, s. l.
R 15 sit om. ERS praedicatur—quid sit (19) om. N
id s. l. Hm2 16 quod sub assignato genere ponitur (est p
) edd., Porph. p. 4, 6 το όπό τό άποοοθ-έν γένος 19 et
differentibus p. 180, 1 20 genus definiret C 21 nunc]
nam Cm1 cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi.
omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque
apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri
oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei
nomen describeret uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut
notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum
speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque
conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in
speciei autem descrip- tione sit notius generis, quod fieri nequit. si
enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei
nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis,
in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni
occurrit dicens : Nosse autem oportet <quod>, quoniam et
genus ali- cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est
et in utrorumque rationibus ntrisque uti. Omnia quaecumque ad
aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur;
quodsi definitio unius cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere,
iure ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam
genus speciei genus est et substantiam suam et 16—18] Porph. p. 4, 7—9
(Boeth. p. 28, 23—29, 1). 2 post , definitione ( uel
diff-) CHNPm2 claudit C nec concludit F 3
monstrabat E (-bat ex -batur? m2 ) R
5 sit] est FHN 6 notiorem FR 8 uelit FHNPm1
9 conuertit] uidetur conuertere CHLm2P genere R
10 post quidem add . descriptione CFHLN, in mg. Em2,
fort. recte autem] quidem C uero FHNP 11
sit om. G pr . genus FH 16 autem om. Porph . quod
add. edd.; Porph. p. 4, 7 είϊέναι χρή ότι, έπεί χτλ .
17 pr . est om. FN, s. l . Λ , ante
alicuius Σ idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus
uti Σ 18 et] hoc N om . FPSA S neutrorumque
Em1 utrasque Em1 utriusque Λ 20 post
definitio add . uel descriptio CFHNP, s. l. Em2Lm2 22
ante inuicem add . ad CL, s. l. Pm2 , ad se F, s. l.
Rm2 23 ante substantiam add . in FHm1, del. m2
post , et om. F, s. l. Hm2Sm2 uocabulum genus ab specie
sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero
species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non
fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum qualitates —
aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola
speciei | permanent proprietate neque p. 68 in naturam generis
transeunt —, idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens :
Adsignant ergo et sic speciem : species est quod ponitur sub
genere et de quo genus in eo quod quid sit praedicatur. amplius autem sic
quoque : species est quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid
sit praedicatur. sed haec quidem adsignatio specialissimae est et quae solum
species est, aliae uero erunt etiam non specialissimarum.
Tribus speciem definitionibus informauit, quarum quidem duae omni speciei
conueniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione
determinant, tertia uero non ita. cum enim duae sint specierum formae, una
quidem, cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest,
altera, cum tantum species est neque in formam generis 9—15] Porph. p. 4,
9—14 (Boeth. p. 29, 2—7). 1 genus om. H generis
FLS ab om. F a NR, s. l. Hm2 specie s. l .
Hm2 species F definitionem ( uel diff-)
FGHP 2 pr . est] fuit Lm2 ( post
aduocandum) Pm2 3 descriptione] definitione ( uel
diff-) CFHLm2N diffinicione uel descripcione P 4
relinquendum] omittendum FHN uero post sunt
H 8 reddit FN 9 ergo] uero PLm2 autem
Σ et er. Λ speciem sic F quae CNR h
m1 (quo m2 ) ΛΣ 10 quo] EGHLm2Pm1
> qua cett . 11 amplius—praedicatur (13) om. L
12 et om . S ac EGRS 13 post praedicatur
add . ut homo equs (sic) bos et asinus et cetera C 14
specialissimae] ΧΨρ (-me) specialissima cett. codd. brm ;
Porph. p. 4, 12 aΰτη μέν ή άπόδοσις τού εΐδιχωχάτου άν εΐη
et om . FHR, s. l. Pm2, del. Sm2 sola C 17
omnis G 18 determinan- tur Hm2 19 post
ita s. l . est Hm2 sint om. Em1 sunt
CEm2GR ante specierum add . species Cm1, del.
m2 20 post cum s. l . sit Lm2 , post
aliquando EP (del. m1?), post species s. l .
scil. sit N transit, priores quidem duae, illa scilicet in
qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum
est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei
conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur.
nam et ea quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur. eam uim
significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de
quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam
quam retinet ex generis praedicatione. idem est autem et poni sub genere et de
eo praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi.
quodsi omnis species sub genere collocatur, mani- festum est omnem speciem hoc
ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur
quae numquam genus est et quae solum species restat. haec autem species
ea est quae de differentibus specie minime praedicatur. nam si id habet
genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species
praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie differentibus, ea solum erit
superioris generis species, subiectorum uero non erit genus. igitur
praedicatio ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de
differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus 2
ponitur—genere (5) om. N rursum CR 3 quo]
Schepss qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10 4 praedicaretur
EGLRS praedicetur edd . 5 ponuntur Cm2HN 6
speciem om. Sm1 species m2G post eam add .
tantum FHNP, s. l. Lm2 7 qua] CNP quae cett . 8
quo] p Schepss qua codd. brm; cf. 3 genus s. l.
Em2, ante add . species G praedicetur FHLm2NP
praedicaretur S 9 speciei om. C 10 est post
autem E (s. l. m2) R supponi EFGHLRS 11 generi] genere
CGm1 12 omnes (sed collocatur ) ELN 13 post
est add . autem CEGL (del. m2) S (del. m2) 15 est om.
EGS, ante genus ΗR , fit L per- stat E (
pers in ras.) HNa.c . 17 habet ante plus FH, post
N, plus post habet L a RS 18 si qua
species om. N praedicetur om. N praedicatur Em1HSm2
post subiectis add . Species uero differentibus numero
N 19 de om. N 21 de—non] non differentibus specie
N 22 ante distinguit add . sed hanc terciam, sed
del. E, post add . enim, sed del. RS quae genera esse possunt
et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. illa
igitur tertia de- scriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur,
definitur hoc modo : species est quod de pluribus numero differentibus in
eo quod quid sit praedicatur, ut homo; praedicatur enim de Cicerone ac
Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est, non specie, sed numero
discrepant. Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialis-
simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia solam ultimam
speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque
congruis inlustrat exemplis : Planum autem erit quod dicitur hoc
modo. in uno quoque praedicamento sunt quaedam generalissima et rursus alia
specialissima et inter generalissima et specialissima sunt alia. est
autem generalissimum quidem super quod nullum ultra aliud sit superueniens
genus, specialissimum autem, post quod non erit alia inferior species, inter
generalissimum autem et spe- cialissimum et genera et species sunt eadem, ad
aliud 7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p. 206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1
(Boeth. p. 29, 7—30, 2). 1 et (s. l. m2)
monstrabat S monstratque FHNP solam Sm2 3
speciei] solum species est N speciei—species ac] quae (s. l.
m2) solum * species magisque (in ras.) species H
4 hoc modo in mg. Hm2 ante species add . Dicitur
enim FHP et differentibus numero p. 203, 12 6 Cicerone]
socrate N post ac add . de R 8
duae—claudit] C (om. pr . et) E (in ras. m2) FH (solum)
LNP duabus quidem et specialis- simas et non specialissimas species
claudit GR una quidem et specialis- simam et non specialis ultimam
speciem claudit Sm1, del. et in mg. corr. m2 (apte sunt
post duae quidem,) 10 id om. LR rem om. EGS, s. l. Pm2,
post orditur Lm2 12 in uno quoque—solum species (p.
206, 17) ] RS Q , om. cett . 14 rursum Γ et
inter—alia om. RS 15 sunt om . T m1, in mg. scil. sunt
ut corpus m2 , est ut uid . Δ 16 super— ultra] ultra
quod nullum RS ultra nullum ΓΦ 17 specialissima
R quod] quam RS 18 autem om . Γ 19
ante et genera add . alia p alia sunt quae brm;
Porph. p. 4, 19 άλλα, α ν,α'ι γένη quidem et ad
aliud sumpta. Sit autem in uno prae- dicamento manifestum quod dicitur.
substantia est quidem et ipsa genus. sub hac autem est corpus, sub corpore uero
animatum corpus, sub quo animal, sub animali uero rationale animal, sub quo
homo, sub ho- p. 69 mine uero Socrates et Plato et qui|sunt
particulares homines. sed horum substantia quidem generalissi- mum est et quod
genus sit solum, homo uero specia- lissimum et quod species solum sit, corpus
uero species quidem est substantiae. genus uero corporis animati; et
animatum corpus species quidem est corporis, genus uero animalis. animal autem
species quidem est cor- poris animati, genus uero animalis rationalis, sed
rationale animal species quidem est animalis, genus autem hominis, homo uero
species quidem est rationalis animalis, non autem etiam genus
particularium homi- num, sed solum species. et omne quod ante indiuidua
proximum est, species erit solum, non etiam genus. Praediximus ab
Aristotele decem praedicamenta esse dis- 19 Praediximus] p. 151,
12. 1 quidem post eadem R 5 ad om
. Λ , s. l. R T uno] uno quoque R A (quoque
er .) Φ , ad uno s. l . isto A m2 2 est
quidem] R ΓΦ est quiddam ( repet , est S ) cett . 3
est post corpus S, om . Φ 5 uero] RST
iI (s. l. m2) Φ , om . ΛΛΣΊ
Busse; Porph. p. 4. 23 δέ 6 uero] codd. nostri,
om. Busse; Porph. p. 4, 24 δέ post , et om.
RS 7 eorum RS generalissimum] codd. PQ (non L) Bussii
edd . genera- lissima codd. nostri; Porph. p. 4, 25 τό
γινικώτατον 8 uero om. R 9 ante et add .
est 2 pr . specie R 10 est om . 2
, s. l . Δ 11 et] sed et brm, recte ut uid.; Porph. p.
4, 27 αλλά καί est om. R 12 animal autem] rursus
animal brm; Porph. p. 4, 28 κάλιν δέ to ζώον 13 uero]
ΓΔ (s. l. m2) Π*!' , om. cett . animalis]
Δ (s. l. m2) ΣΊ ’ ( post ratio- nalis). om.
cett.; Porph. p. 4, 29 γένος δέ τού λογικού ζώου 14 animal—
est om. R 15 autem] uero RS 16 autem del .
h m2 genus etiam R 17 et om. CEGP indiuiduum
F 18 est s. l. E erit CGR solum species
erit LS erit solum species E solum species est
CR solum speciem non etiam genus esse liquet G 19
Praedicimus R, add. etiam L posita, quae idcirco
praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero
de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio conuerti, maior est res illa
quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. itaque haec praedicamenta
maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. in uno
quoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est
longa series spe- cierum atque a maximo decursus ad minima. et illa quidem quae
de ceteris praedicantur ut genera neque ullis aliis sup- ponuntur ut
species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud
superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus dicuntur,
specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei
uocabulum illa sus- cipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur
proprie- tate sunt constituta. at quoniam species id quod species est ex
eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita
generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species
enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species,
sed habet quan- dam generis admixtionem, illa uero species quae ita
supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies
simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima
nuncupatur. inter genera igitur quae sunt generalissima et species quae
specialissimae sunt, in medio 1 uocauit Lp.c.P dicuntur
N 3 poterit CNSm1 res om. E, sed ras .,
ratio R 4 post , praedicatur] dicitur HNP 5
maxime Em1G a.c . 7 quaedam] quae CFHN genera om. CN,
ante sunt F et om . CHN 8 maximis
CFHNPm2 11 quia] quoniam HN 14 inper- mixtaque
Em2HPm2 intermixtaque NPm1 de qua s. l. Sm2 de
quo R quae E (ex alia uoce) N 15 at] ut CFN
quod] quoniam E 16 nomen om. FN quia] quoniam
F 17 aliis om. C 18 ante alii add .
generi CL (del. m2), post s. l. P 19 simplex om. GRS, s. l
. Em2Lm2 22 atque idcirco maxime (-ma H ) species est
(est om. H ) in mg. Hm1?, s. l. Lm2 ante species add .
est P, post C, s. l. Lm2 24 specialissima EGSm1
sunt om. EG, s. l. Pm2, post quae L sunt quaedam
quae superioribus quidem collata species sunt, inferioribus uero genera. haec
subalterna genera nuncupantur, quod ita sunt genera, ut alterum sub altero
collocetur. quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae
uero ita sunt genera, ut esse species possint, uel ita species, ut sint
genera nonnumquam, subalterna genera uel species appellantur. quod uero ita est
species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur.
His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exem- plum, ut ab eo in
ceteris quoque praedicamentis atque in ceteris speciebus in uno filo atque
ordine quid eueniat possit agnosci. substantia igitur generalissimum genus est;
haec enim de cunctis aliis praedicatur. ac primum huius species duae,
corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item
quod incorporeum est, substantia praedicatur. sub corporeo uero animatum
atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si
sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua uero pars, id est
species, continet animatum insensibile corpus. sub animali autem rationale atque
inrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali mortale
subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero corporeum; hunc enim
mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum appellatione 1 quidem om.
EG collata] FHm1NPm2 collatae Cm2EGHm2 ( add .
e, sed exters .) Lm2 collocata Pm1 collocatae
Cm1Lm1RS (in ras.) sunt species CLR 2 haec] et C
nominantur FHNP 3 alterutrum Ea.r.Pm1 alterutro
Pm2 5 ita s. l. Em2Lm2, ante ut C 6 ut sint—est
species (7) s. l. Em2 9 igitur] ergo E 11
ante in add . ut Lm2Pm2 uno quoque Em2H
(quoq. del. m1 ?) PRS quod Ea.c . GLm2Pm1R 14
duae om. HN sunt add. C,s.l. Pm2, ante duae L
post pr . corporeum add . et C, s. l. Pm2 , atque FHN
15 ante post . substantia add . et ES (del) , ex
R 17 sub animato—ponitur om. R post . poni- tur] collocatur
FHNP 18 adicies RS 19 inanimatum Cm1Lm2NPm2S
(in s. l. minus cert .), post add . et s. l. Pm2
20 post rationali add . autem L 22 feceris
om. GRS, s. l. Em2 , scil. fecisti ( ante hominem) s. l. Sm2
constituis L post uero s. l . dico Lm2, post
corporeum Sm2 23 deum ueteres LN dignati sunt
deumque solem ceteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum
plurimus doctorum chorus arbitratus est. sub homine uero indiuidui
singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et ceteri, quorum numerum
pluralitas infinita non recipit. cuius rei subiecta descriptio sub oculos
ponat exemplum. | substantia p. 70 corporea |
incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile
animal rationale | inrationale rationale animal mortale | inmortale homo Plato
| Cicero Cato Superius posita descriptio omnem ordinem a
generalissimo us- que ad indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem
substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus,
nulli uero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo
autem species solum, quoniam Plato, 1 dignati sunt] designauerunt
Em2 deum quoque HLm2P 2 cum] tum Em2F
platone Lm2PSm1 tunc CGLSm1 4 cato om. C,
ante plato L , tito N 5 oculis CFP 6
ponit Lm1 figuram supra de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa
quoque a m1 facta, prior minus dilucida est), nisi quod ad pr . animal
add . sensibile et rationale post post . animal pos.,
et E, in quo ordo nominum cato plato cicero est, simillima est in
G, sed extrema pars homo—Cicero deest, et in H, nomina tamen
socrates plato cicero sunt; in S uoces mediae tantum substantia—homo
extant, sub uoce homo unum nomen est FVLCO GONCŁ, (explicare non
potuimus); figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum est
SVBSTANTIA 8 ad om. H, s. l. Em2 indiuiduum FLN in qua]
et E 10 uero] ergo H Cato et Cicero, quibus est
ipsa praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod
secundum a sub- stantia collocatur, et species esse probatur et genus,
substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis,
corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum uero
sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter pro- priam differentiam,
quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis
genus est et rationale mor- talis. cumque rationale mortale nihil sit aliud
nisi homo, rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse
Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus, sed est solum
species. nec solum differentiae rationalis species est homo, uerum etiam
Platonis et Catonis ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet
causam. nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale
atque inmortale diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est
Platonis atque ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque
ultima similitudo. est autem communis omnium regula eas esse species specialis-
simas quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus, coruus — sed
non auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur
—, quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam
habere non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum
inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam 1 Cato]
tito N et om. P, s. l. Lm2 5 corporis FN
enim] autem CLSm2 6 ipsum post igitur FL (s. l.
m2), om. EGRS propter] praeter H 7 quae ER
8 post rationale add . est genus R, s. l . scil.
genus L 11 Catonis om. CLN titonis N ante
Ciceronis add . et CFHP 12 species est solum C 13
catonis et platonis CL platonis titonis N 15
post rationalis add . homo G 16 homo om.
EGLS 17 atque] et C eorum enim E 18 erit]
est FHNP 19 ante om- nium add . et R
post regula add . est EG esse ante
eas FNS (s. l. m2), om. EGR 21 enim] uero CEGLRS
22 haec Gm1NR hee P species om. E
quarum Em2FSm2 sibi om. R 24 dis- putatione
F 25 iunguntur CLm1 coniungantur m2
efficiunt Fa.c.Sm1 efficiat m2 ut sit corpus
substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus.
item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est
animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria
illa superiora iunguntur. nam quod est sensibile, tantum est, quantum
substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item
superiora omnia rationi iuncta effi- ciunt rationale postremumque hominem
superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea,
animata, sensibilis, rationalis, mortalis. nos uero definitionem hominis
reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et
substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem
speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species
describuntur. Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod
nihil sit supra eam, genus erat generalis- simum, sic et homo, cum sit species
post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed
solum indiuiduorum| — indiuiduum enim est p. 71 Socrates et
Plato —, species erit sola et ultima species 15—p. 212, 18] Porph. p. 5,
1—16 (Boeth. p. 30, 2—20). 4 eadem H idem
ex eidem Lm2 6 retinet CN habens L 7
ratio- nali Pm2 coniuncta HL efficiuntur
Ea.r.GS 8 postremoque CHNP (recte?) postremum (-mo L )
uero LS 11 inter mortale et in animali add
. quia animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque
sensibile R 12 atque] et H 14 describuntur] dis- tribuuntur
FN 15 cum] R (sed ante breuis ras.) fi quae
cum cett . (quae del. et in mg. scr . parentesis 5 m2 ); an
quae scribend .? suprema om. S summa G 16 eo
quod] et A a.c . nihil] nullum N SA sit om. F, s. l
. Λ , est post eam Λ2 erat] RSm1
erit m2F sit P est cett. codd . edd. Busse;
Porph. p. 5, 2 ήν 17 sic et—species dicitur (p. 212,
15) ] RS Q , om. cett . et] etiam RS ΤΦ , glossa ut
uid. ad et in Π 18 alia] aliqua RS; add .
inferior ΔΛΠΣ*Ρ Busse, post species Γ , om.
RS Φ edd. Porph. p. 5, 3 aliud R 19 post
diuidi add . in species edd., recte ut uid., etiam Bussio placet;
Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις είδη post indiuiduorum
add . species R 20 post Plato add . et hoc
album brm, fort. recte; Porph. p. 5, 4 xat χοοχι χό
λεοχόν solum R solam S et, ut dictum est,
specialissima. quae uero sunt in medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt,
erunt species, eorum uero quae post ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent
duas habitudines, eam quae est ad superiora, secundum quam species ipsorum
esse dicuntur, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera
ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam habent habitudinem. nam et
generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus
sit omnium id quod est supremum, eam uero quae est ad superiora, non
habet, cum sit supre- mum et primum principium, specialissimum autem unam habet
habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum est species, eam uero quae est
ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam indiuiduorum species
dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea continens, species autem
superiorum, uelut quae ab eis contineatur. 2 ipsa om. R,
post sunt Γ species erunt RS; Porph. p. 5, 6 είη
αν εϊδη 3 uero—sunt om. S, s. l . autem quae sunt sub se
erunt m2 uero] autem RSm2 V<]?} fort.
recte post ipsa] sub ipsis R 4 duas habent ΔΛ2
Busse; Porph. p. 5, 7 έχει Sio σχέσεις habentes
S 7 dicuntur esse R extremae (-me) Sm1 h m1 A2 m2 b 8
habent unam Δ et generalissimum] id quod generalissimum est
RS; Porph. p. 5, 9 το τε γάρ γενιχώτατον 9 habet] habet
unam Δ 10 genus post omnium R, post
sit S Σ id] hic R ea R 11 post
uero add . habitudi- nem Γ non habet hic om.,
post principium add . non habet habitudi- nem R, add . et (ut
diximus) supra quod non est aliud superueniens genus edd. cum Porph. p.
5,12 12 ante specialissimum add . et brm
Busse, fort. recte, om. codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12
«ύ τί> είδιχώτατον δέ specialissimam R T m1
specialissima S autem] etiam brm 13 eam om.
RS 14 posteriora] inferiora RS 511 , recte ? 15 non
diuersam] Sm1 edd . quorum diuersam A m1 non ( del. uel om .
diuersam,) Sm2 A m2 et cett. Busse; Porph. p. 5, 14 oi%
άλλοίαν species dicitur—indiuiduorum om. FHN ,
sed—indiuiduorum om. CT 16 qui- dem om . Σ , post
add . dicitur edd.; codd. quidam Porph. p. 5,15 λέγεται
eam N 17 post continens add . est Σ autem]
uero L 18 his NR illis F contineantur
CEm2H continetur N Ω ( sed corr . K m2 , ex
-entur II m2 ) Ex proportione speciei nomen et generis
ostendit. nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus
dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem, sed
indiuidua, specialissima species dicitur, ut homo. quid est autem species
non habere? his praeesse quae neque in dissimilia diuidi possunt, ut genera
diuiduntur, neque in similia secantur, ut species. quae uero inter genera generalissima
speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur,
quoniam et ipsa aliis suppo- nuntur et his alia subiciuntur, quorum uel
in dissimilia uel in similia possit esse partitio. cumque duae sint habitudines
et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque
uersentur, una quidem quae ad superiora respi- ciat, ut specierum, quae suis
generibus supponuntur, alia uero quae ad inferiora, ut generum, cum
speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum reti-
nent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam uero quae ad
praeposita comparatur, non habent. gene- ralissimum enim genus nulli
supponitur. item species specia- lissima unam possidet habitudinem, per
quam scilicet ad sola genera comparatur, illam uero quae ad inferiora
committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. at uero quae
subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur. 1
propositione FPm1 et om. N, del. Sm2 , etiam FL 2
super F se om. CN, s, l. Lm2 4 species
specialissima FHN 5 speciem Lm2 post habere add .
nisi ( ex 2 al. litt. m2 ) L hoc est N id est R,
inseruit Pm1? 6 possint ESm2 7 ante
neque add . sed P, del. m1?, s. l· Lm2 quae—constituta]
specialissimae constitutae, cet. om. EGRS 8 ea et] illae
(illa L ) uero EGLRS 9 et om. FP quoniam]
quae EGLm1R subponantur S 10 subiciantur S pr .
uel om. EGR, s. l. Lm2 uel in similia om. EGRS 11
possint EGLm1S possunt R paratio Cm1 partitiones
EGLa.r.RS cumque—comparationes om. EGRS, in mg. Lm2 duo
Cm1 sunt NPa.c . 12 subpositae CHm1Lm1N, om. F 13
uersantur EGL 16 una Cm1 retinent ante
tantum H retinet R habent N 18
illam—comparatur (21) om. S habet G, m1 in CEH 19 genus
enim H nullis F 23 quae] illa quae F
utramque habitudinem G nam et illam possident quae ad
superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et
illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera
suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem
qua potest poni sub genere, ad ani- matum uero eam qua potest de specie
praedicari. specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur,
tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei
ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint
non habentia substantialem differentiam, sed accidentibus efficitur, ut
numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse
speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species
substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum
substantia sit, quodammodo nulli praeposita est, si ad substantiam quis
uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur
species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque
fit ut genus quidem semper plurimas sub 1 ad illam
et quae s. l . ał illud et ał quod L
ad om. CGHLPS quoniam quae] quantum que S 2
post sunt add . genera P, s. l. Lm2 3
praedicantur Hm1Sm1 4 superpositas Hm1 5 qu * a
(i er .) C poni potest E 6 quae EHm1LPN
specie] speciebus R 7 prae- ponuntur Hm1Pm1 8
subpositi E habent EP habebit Gm2 9 ul-
tima EGLm1S ad substantiam] substantia F 10
quidem GLm2S non] nec FHLm2NP habentia] Em2
habentes CEm1GL (es ex al. litt. m2 ) PS
habentem R habent FHN 11 post sed s.
l . scii, ex Hm1? accidentibus del. et s. l . ał accidentalem
Hm2 uel al ., acci- dentalem, s. l . ał accidentibus Lm1, s. l .
Nam accidentibus m2 saltim Lm2NPR 12 possint
EFGLRS et] nec F, m1 in HLN 13 species EGL ( es
in er . em? m2 ) Pm1RS esse om. FHN
praepositae EGLRSm2 (-tum m1 ) nam cum—praeposita est (16) in
sup. mg. Lm2 14 monstraret HPm1 monstrat RS unam,
quae] S unaque CFHNP ( ras. ex -que) unam
quamque EGR unam * L 15 substantiae GLR sit
s. l. ante substantia Pm2, om. EGLR , est S ante
quodammodo add. fit HN, post nulli C, om . est (16)
CHN 16 ad om. EGPRS 17 ac GR praedicatur
EGLRS se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur,
differentia uero nisi pluralitati non conuenit. at uero species etiam uni
aliquando indiuiduo praeesse potest. si enim unus, ut perhibetur, est phoenix,
phoenicis species de uno tantum indiuiduo praedicatur; solis etiam
species unum solem intel- legitur habere subiectum. ita nullam multitudinem |
species p. 72 per se continet, cum etiam si unum sit tantum indiuiduum,
speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus
partibus praeest. ut si aeris uirgulam diuidas, secundum id quod aes
dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. idcirco dictum est speciem,
licet sit indiuiduis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam
scilicet qua species est. quoniam enim praepositis subditur, species
nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta inferiorum quoque
species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. speciem uero substantiam
nuncupamus, nec ita est species substantia indiuiduorum, quemadmodum speciei
genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. reliquae enim partes
rationale sunt atque mortale, homo uero Socratis atque Ciceronis tota
substantia est; nulla enim additur dif- ferentia substantialis ad hominem, ut
Socrates fiat aut Cicero, 1 de differentibus enim] quod de
differentibus CL 2 ni C 4 est post
unus FHP, post phoenix N 5 solem] EGPpr
solum cett. codd . bm; cf. p. 218. 3. 219, 17 . 7 cum om.
S ut CFN tantum om . ENRS; cf.p. 219,11 post
indiuiduum add . unius generis G 8 tamen om. C
perit Sm2, add . sensus et F 9 post uirgulam
add . in partes suas (suas partes P ) id est (id est om. F ) aeneas
particulas (particulas om. F , aeneas uirgulas, sed del. L )
CFHLN, in mg. Pm2 10 in- telliguntur H 12 possidet
FN unam] illam L eam unam F 13 ante
qua s. l . in Sm2 14 nuncupatur] nominatur FHN 16
demonstrat CEGLP est om. S, post species in ras. N ,
esset F 17 substantia (ia ex ie F )
ante species FNa.c.RS, post indiuiduorum C 18
ani- malis homo] EGLm1 homo animalis Sm2P animal
hominis CLm2Sm1 hominis animal FH (inis in ras.
m2 et post animal 2 litt. er .) NR 19 etenim
R sunt om. EGR post mortale add . adduntur ( om. N )
animali ad diffiniendam substantiam hominis N edd . uero om.
CFGLRS sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo
integra definitione claudatur. idcirco igitur species specialissima tantum species
est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his
continetur, ad inferiora uero, quoniam eorum substantiam format et
continet. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit,
non est species, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus,
specialissimum uero, quod cum sit species, non est genus et quod cum sit
species, numquam diuiditur in species et quod de pluribus et
differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. ea uero quae in medio
sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et unum quodque ipsorum
speciem esse et genus ponunt, ad aliud qui- dem et ad aliud sumpta. ea uero
quae sunt ante spe- cialissima usque ad generalissimum ascendentia, et
genera dicuntur et species et subalterna genera, ut Agamemnon Atrides et
Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Posteaquam naturam
generum ac specierum diuersitatemque monstrauit, eorum ordinem
definitionis descriptionisque com- memorat. ac primum quidem generalissimi
generis terminum 6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30, 21—31,
7). 1 rationalis atque mortalis N 3 possidet]
optinet P 6 post deter- minant add .
philosophi C ergo om. CN enim EGLm1 <t>
p.c.; Porph. p. 5, 17 τοίνον ita om. CGHP,
s. l. Em2 A m2 quod] quoniam S 7 sit genus NR et
rursus—genera ut (17) ] LRS ii , om. cett . rursum S
8 erit] LRS T est cett.; Porph. p. 5, 18 οΰχ αν
ειη 9 pr . quod] quae S h a.c . post. quod—et quod (10)
om. L 10 diuidatur S 11 et] et de L 13 uocant]
Λ2Φ uocantur cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21 χολοΰσι
14 ipso eorum S speciem] Brandt species codd.
Busse ponunt] A m2 U m2 , e coni. scr. Busse , ponuntur
T m1 possunt m2 cum cett .; species esse
potest et genus edd.; Porph. p. 5, 22 xal έχαοτον αδτών είδος
είναι xal γένος τίθενται 17 post , et om. R ut
om. FS 18 et om. CEG pelides F post . et om. C 19
ultimo F 20 Post ** quam CL diuersitatem GLm1R ,
-que in ras. E, er. P inducit, id esse generalissimum genus
quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non
esse, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus. si enim haberet
aliud genus, minime ipsum generalissimum uocaretur. specialissima uero
species hoc modo : quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam
opposita ex oppo- sitis describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita
est suppositioni, genus autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si
idcirco erit primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur,
idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit,
oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus
descriptio : quod cum sit species, numquam diuidatur in species, id est genus
esse non possit. si enim omne genus specierum genus est, si quid non
diuiditur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod
de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua
definitione saepe est superius demonstratum. nunc 18 saepe superius] p.
188, 12. 190, 11 ss. 203, 11. 205, 4. 1 inducit] RSm1
indicit Em1 indicat GLa.c. dicit
CEm2FHLp.c. NPSm2 inducit dicens brm indicat
dicens p id om. EGRS, s. l. Lm2 3 non om. EGRS,
s. l. Lm2 superueniens om. EGRS, s. l. Lm2 si—genus om.
EGRS, in mg. sup. Lm2 5 uocetur EGLm1Sm2; post inlatus
est locus p. 219,14—220, 3 quoniam ridere—exemplam in EGL,
quoniam irridere (sic) —praedicatur p. 219, 15 (qui locus tamen
infra quoque extat) in S specialissima—idcirco erit (10) in ras. C
post modo add. describitur edd. 6 opposito]
opposita F opposito est H; post add. Quia
sicut genus (genus in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus
superponitur, ita et species specialissima nuncupatur, cui alia species non
subponitur (superponitur F ) et utrumque ex opposito dicitur alterius
sicut pater ex opposito dicitur filii F, in inf, mg. cum nota
d(esunt) h(aec) Hm1? opposita om. EGR, s. l. Sm2 7
quoniam om. EN 9 si er. E sed La.c, Pm2
11 ante ut add. rursus RS ut praeponi non
possit] ut minime praeponatur CFHN (in mg. add. m2)
oppositorum om. EGLRS recte om. C 13 quod] Lm1
edd. quae cett. ante numquam add.
quae CGHm1, del. m2 diuiditur CLRSm1 14 est om.
C possit] posse CFN potest edd . 16 potest
EGLRS Est] et FHNS et om. N illud attendendum
est. si, ut paulo superius dictum est, speciei unum indiuiduum potest esse
subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel
lunae, quorum species singulis suis indiuiduis superponuntur, qui conuenit
dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid
sit praedicatur? sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime
dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. sed de his illa ratio est de qua etiam
superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quae- p.
73 stionis absoluit. | omnia enim quae sub speciebus specialissimis
sunt, siue infinita sint siue finito numero constituta siue ad singularitatem deducantur,
dum est aliquod indiuiduum, semper species permanebit neque indiuiduorum
deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est,
tametsi plura sint indiuidua, substantiales differentias non habebunt. id
uero in genere dici non conuenit, quod his praeest quae substantiali a se
differentia disgregata sunt; praeest enim speciebus quae diuersis differentiis
informantur. 1 paulo superius. 8 superius] p. 215, 2 ss. 1
est om. G, s. l. Lm1 si, ut] sicut FGPSm1 sic
La.c. supra RS 3 suam S solis F mundi
FR, add. hoc inane spacium s. l. Lm2, post
lunae in mg. et hoc immane spacium quod uidemus P quo-
rum] quae Lm1 4 indiuiduis om. EGRS post superponuntur
add . quod si ita est ut species de uno quolibet indiuiduo praedicetur
(praedicatur P ) ut de phoenice (phe- P ) P edd. qui]
quomodo Hm2LP 6 praedicetur L 8 mundus om. EGRS,
s. l. Lm2 illa his EG ratio est om. EG 9
paulum N inplexa ( uel im-) EHm1LP nodum ras.
ex modum EN 10 sub] suis EGS in suis
R specialissima GPm1RS 11 sint] sunt CHa.c.Lm1R
finita CHm2N 12 deducuntur Lm2R adducuntur P,
add. ut fenix uel sol R aliquid FL semper—deminutione
om. EGRS, in mg. Lm2 semper s. l. Pm1?, post species N, om. L
(m2) 13 deminutione] C diminutione cett.
dum om. S si EGLm1R 14 ante consumitur
add. non EGL (del. m2) RS ut] quod
EGLRS 15 tamenetsi G tamen si RS sunt F
ante substantiales add. si G, s. l. Sm2, ras. in
E 16 id uero om. EG quod L idcirco id
R id circo Sm1 , circo del. m2 18 ante
speciebus s. l. genus E si igitur earum una
perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia
de differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium
indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indi-
uidui superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac
permanet. talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod
permansit et subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus
speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia
multo plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam
hae quibus unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia
multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis
homo dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur
species de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de
pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus
esse perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur,
at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus
solibus indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco
igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint
aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna
uocantur ita definiri queunt : subalternum 1 eorum EFGLm1RS
redacta EGLPm2RS edd. 2 de om. E 3 si enim] nam
si EGLRS 5 suppositae LNR superposita S
uene- rit EGLRS 6 alia EGLa.c.RS ante sunt s.
l. non E 7 quale] quam EGLa.c.RS et] ac
CFHNP 8 de numero pluribus Ca.c. numero de pluribus
p.c. 9 excusatur EGLRS quidem uno EG multo
om. FN, s. l. H 11 hae om. ER hee C eae H
ea N ante qui- bus add. e CR, er. uid. E
tantum om. S suppositum esse RS 12 dehinc] deinde
EGLRS hoc om. FHNS 13 semper om. CFH 14
etiamsi—praedicatur om. F de loco quoniam ridere eqs. in
EGLS cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam E 15 nihil
EGLPRS 16 phoenicibus om. F 17 ita (a in ras. m2) E
hoc om. S, post uno F 18 ac EGR ante animo
s. l. in Pm2 19 cogitationes Ca.c.F ante de
add. enim EG 20 praedicatur EGLRS 22
appellantur FHN genus est quod et genus esse poterit et
species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut
etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et Pelopides et
Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species
quasi Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan- talides,
cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species itemque
Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur, cum
Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus. Sed in familiis
quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in
generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum genus
omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus,
quem- admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad- 11-221,
7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p.
998 b , 22. 1 et om. RS et genus om. EG
ad—ut] CG ( ut om.) Hm2 ad eumque ( et ad eum
N) modum sunt ut Hm1N ad eumque ( eum que *
L eundem Pm2 ) modum qui (s. l. Lm2, part. in ras.
Pm2) est (s. l. Pm2) LP ad eum modum qui
est EFR ad eum ( eum del. m2, post que eu
er.) modum, in ras. quae est m2 S 4 et
Tantalides—Iouis] Lm2Pm2 (om. et Tantalides ) R edd.,
post species (5) Lm1S, om. cett. 5 quasi] quae si Sm1,
del. m2, ante add. et F, s. l. Pm2 , est R 6 Agamem-
nonis] tamen his ( is R) EGLm1R tamen non his Sm1, del.
m2 genus est del. Sm2 est om. P ante
Pelopides add. non E atrides non ( non del.
m2) L 7 comparatus] ( s in ras. m2) H comparatur ( cõ-
) cett Tantalusque] ut tantalus quae G 8 idemque
CP idem N 9 Atreum] creontum EG creontem
Lm1 tareontum S tamquam] quasi EGLR quae
S uelut HP 11 reducuntur ante ad N,
post reducuntur add. omnes L, s. l. Pm2;
reducunt coni. Busse; cf. p. 224, 19 reduci; Porph.
p. 6, 3 άναγουοι 12 ad om. EGRS A 13
speciebus] in speciebus R sic se ΝΣ habetur
EG neque—dicerentur (p. 221, 5) ] RS Q , om.
cett. enim om. R 14 neque Busse 15 sunt
generis Γ 16 sunt \ m2 2 ; Porph. p. 6, 6
χείοθ·ω quemadmodum om. S, add. dictum est edd.,
idem post Praedicamentis h m2 W m2 (cf. p. 224, 19);
om. Porph. p. 6, 7 modum in Praedicamentis, prima decem genera
quasi prima decem principia; uel si omnia quis entia uocet, aequiuoce, inquit,
nuncupabit, non uniuoce. si enim unum esset commune omnium genus ens,
uniuoce entia dicerentur; cum uero decem sint prima, com- munio secundum
nomen est solum, non etiam secun- dum rationem, quae secundum nomen est.
Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum,
quae ab Agamemnone peruenit ad Iouem, quem quidem pro numinis reuerentia
ultimum posuit. quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad
Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad antiquissimum Ophionem ducitur,
cuius Ophionis nullum principium est. ne igitur quod in familiis est, id in rebus
quoque esse credatur, ut res omnes possint ad unum sui nominis redire
principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac speciebus esse non posse;
neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse
principium potest. fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae
sunt unum putarent esse genus quod ens nuncupant, | tractum ab eo quod
dicimus ‘est’; omnia enim p. 74 3 inquit] sententia, non
uerba Aristotelis. 1 quasi in ras. Σ
sic A m1 sicut Ψ 2 prima om. Γ
, post decem Π 2 uocat A m1 II 3
nuncupauit S, in ras. ex -bit Γ 4 genus omnium
Busse entia uniuoce R post uniuoce add.
omnia edd. cum Porph. p. 6, 9 πάντα 5 uero]
autem Γ enim ΔΔΣΦ ; Porph. p. 6, 10 δέ
sunt FH prima] principia Lm1 prima genera
m2P (genera s. l. m2 ), prima principia N ΓΣ 7
ante rationem ( ante nomen E ) add. definitionis
( uel diff-) ELRS Q , om. Porph. p. 6, 11 quam E
post est add . solum CHN 8 Cum] Quoniam
CLm1NS Quoniam (del. m2) cum H di- cens
CLm1N dicit in ras. S cuius Pm1 cuiusque
F eiusdem R 9 ponit Sm2 ab om. F, s. l.
Gm2 10 nominis EGLS nomini R 11 ad ueteres]
aduertere Sm1 aduertisse CEFGLm2P aduertit se R
referantur Hm1N 12 caelium ( uel ce-) LPm2RS
zethum F zechum N Caelus] Hm2 caelius ( uel
ce-) LPm2Sm2 celium R caelum CEGHm1Pm1Sm1
zetus F zehus N othionem F ( sed ophionis)
14 esse ( Pm2 est m1 ) quoque FHNP 15 ante
sui exters. uid. proprii E 17 familia H 19 ut]
et Fa.c.S ut et N 20 est] esse S sunt
et de omnibus esse praedicatur. itaque et substantia est et qualitas est
itemque quantitas ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi
haec quae praedicamenta dicun- tur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum
omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur.
ab eo autem quod dicimus ‘est’ participium inflectentes Graeco quidem
sermone Sv Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus
rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse
primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diuersa
sint, tum ad nullum commune principium reducantur. haec autem decem
genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando,
situm, facere, pati, habere. quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse
praedicaretur — omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur
—, ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam
formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de
aliquibus nomen commune praedicaretur. quibus enim definitio communis nominis
con- uenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et communi
illo uocabulo uniuoce praedicantur, quibus uero non conuenit, uox his communis
tantum est, nulla uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc
modo. animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur
1 post. et om. EGRS, s. l. Lm2 2 cetera C 3
de] in GLm1RS 5 esse om. EGRS, s. l. Lm2 6 autem
s. l. L enim C est] esse FS principium EG,
m1 in LPS inflectentes post quidem N 7
quidem ante Graeco R ante sermone add.
de P, s. l. L post Latine add. autem FHN, s. l. Pm2 8
prudentissimus FNP rerum] principiorum EGLm1Pm1RS 9
omnes ante res C, om. EGRS, s. l. Lm2 dici
FGm1Pm2 10 ad FHNRm1 ipso Em1GPm1S ipsa FHN
ipsos Rm1 sunt CLm1R edd. 11 reducuntur
EFGLm2RPm1S 15 nu- merata CEGL innumerata S 16
repulit CEFHRP 17 eo debere] eodem uere (e re add. S )
EGSm1 18 post arbitrari add. debet E
19 praedicatur E praedicetur FHNP nominis
communis FN 22 his uox FHNP 23 manifestis
FLp.c. 24 praedicatur S dicamus CHN
animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad
hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate
definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata
sensibilis; id quoque uerum est. conuenit igitur haec definitio et
animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae
species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia
uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi
animalis nomine nuncu- pauerit, definiat si libet animal hoc modo,
substantiam ani- matam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem
homini qui uiuus est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est
animata substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis
definitio, id est animalis, non potest conuenire, non est animal commune
genus, sed tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo
homine atque picto non genus, sed uox plura signi- ficans; uox autem plura
significans aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca
dicitur. itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur
praedicamentis, quoniam tamen nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus
prae- dicamentis possit aptari, idcirco non dicitur uniuoce de prae-
dicamentis, id est ut genus, sed aequiuoce, id est ut uox plura significans.
Conuincitur etiam hac quoque ratione id quod dicimus, ens
praedicamentorum genus esse non posse. 2 hanc] uel hanc E 3
facultate Em1 4 equus] equi CFPm2 5 definitio (
uel diff-) haec FHN 6 homini] et homini CNP
atque] et, FHNPR eidem] CEm2FH a.r.NPR idem
Em1GHp.r.Lm1S eadem Lm2brm ea eidem p 8
animalis EGLa.c. una uoce E nun- cupantur C
nominentur FHN 9 uiuum] uerum EGLm1PRS 10 si libet]
scilicet CHm1N animal om. E 12 uero] FHP, om. S ,
quidem cett. 13 est post substantia LP 16 dicitur
quae Em1Sm1 dicitur quod LSm2 dicitur quia
CFN 17 genus] genus est FN uox—significans om.
CEGP, s. l. Lm2Sm2 18 autem] enim RS ante aequiuoca
add. quae CEGP nuncupantur GS 19 ita ELm1
23 id est om. CFN ut genus om. F 24 quoque om.
N unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri
subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato
uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam
alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse non
possunt. ens igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim
unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod
dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species
sibi minime conuertuntur. si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis,
praedicatur etiam unum. nam substantia unum est, qualitas unum est,
quantitas unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus
praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit
omnium genus. sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum
alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedica- mentorum genera
sunt, quod fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius
determinauit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium
posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli
pla- cet; sed sint posita, inquit, quemadmodum in Praedi- p.
75 camentis dictum est, prima decem ge|nera quasi decem prima principia,
scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati Aristotelis
concedentes haec decem genera nulli 3 ac R sint
post aequalia pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P 4 sibi-
metque ( quae F) FLm2Pm1 ita s. l. Lm2 5
ante haec add . aequa C , sed del . eidem Pm2
eius S 6 neutris Em1 8 pr . unum post
nec, om . post ens H dicitur om. S
dicimus Rbrm 13 esse] ens Lm2P post
omnibus add . his CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis (s. l.
m2) his L post erit add . ens CHN et
unum—omnium genus om. R 15 sed] si in ras. Em2 ut om.
FH 16 praeponi FH 17 hoc Ea.c. edd . 18 sit edd .
19 deduci LS duci Em1 20 genus ante esse
CFN, post posse S poterit F 21 sint]
FHm1 sunt cett . 23 prima om. N, post principia
R ut om. EGS 24 auctoritate Em1Hm1 ad
auctoritatem FN accedentes CFNS alii generi esse
credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non
uniuoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit
adhiberi. quae res facit, ut non uniuoce de his aliquid praedicetur. si
enim uniuoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus
praedicaretur; at si genus esset, definitio generis conueniret in species. quod
quia non fit, com- mune his id quod dicimus ens, uocabulum est uocis signi-
ficatione, non ratione substantiae. Decem quidem generalissima
sunt, specialissima uero in numero quidem quodam sunt, non tamen infi- nito,
indiuidua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt. quapropter usque
ad specialissima a generalissimis descendentem iubet Plato quiescere,
descendere autem per media diuidentem specificis differentiis; infinita,
inquit, relinquenda sunt; neque enim horum posse fieri disciplinam.
10—17] Porph. p. 6, 11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1). 14 Plato] Phileb. p.
16 C. Polit, p. 262 A—C. Sophist. p. 266 A. B adfert Busse. 1 entia
nuncupat] ERS (-pet), etiam entia nuncupat N ab ens
entia nuncupat (-pet Lm2 ) CGL etiam nuncupat (nuncupat
post ens P ) ab ens entia HP entia nuncupat ens F
2 nuncupabit (-uit FHN ) post uniuoce FHNP ,
nuntiauit S unam—definitionem ( uel diff-) poterit
adhibere FHN 3 nomen ex non Em2G 5
esse Hm1, add . ens s. l . L, ante esset P
eorum om. CN, post commune L 6 nomen in mg.
Hm2, del. Lm2 ens CH(in mg.) Lm2 ( s. l. ante
eorum) N 7 con- uenerit Em1 8 his om. GS 10
sunt om. S 11 in numero om . Δ quodam]
quaedam Pm1 sunt om., post indiuidua add .
est S tam C infinito] Fp. c . (finito a.c
.) Hm2S TNtt p.c . Φ in infinito Hm1N W a.c .
indefinito C ( ras. ex -tio) EGL a.c . (in indefinito
et ał definito corr. m1 ) PR kIPV (in er .) 12
indiuidua—quiescere) LRS Q , om. cett . 13 sunt infinita LRS
Busse; cf. p. 226, 22 a om. R 15 ante
descendere post usque (cf. ad p. 178, 14) add. ad
id CHP diuidentem per me- dia Γ 16 ante
infinita add . indiuidua uero Δ , sed del., post add .
uero ΓΦ 17 enim s. l. L, del . Γ horum] N
ii ( ante add . et ΛΦ , er. uid . Γ , post add .
indiuiduorum Γ ) eorum cett.; Porph. p. 6, 16
τούτων disciplina Cm1 Quoniam specierum nosse
naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non
potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de multitudine
generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione persequitur dicens
supremorum generum numerum notum — decem enim praedicamenta ab Aristotele
esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint —, species uero
multo plures esse quam genera. nam cum decem suprema sint genera cumque uni
generi non una, sed multae species supponantur proximaeque species supremis
generibus subalterna sint genera usque dum ad ultimas species
descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique
dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam subalterna, quoniam per
multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas descenditur species.
quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod
inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta diuiduntur. decem uero
generum species multo plures quam unius existere manifestum est, uerum tamen
etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur; quem facile si quis
discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere.
indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt uel quod tam
multa 1 generis EGLRS, recte? 2 scienti GRS scienti
alicui Lm2 5 su- premorum] supra horum EG, m1 in LPS
ante numerum add . esse FHNP, post notum L
6 post reperta s. l . commemorat Em2 7 gene-
ris om. R, post loco L , generum S sunt
CFH (ras. corr.) NPRSm2 8 nam cum—genera om. EGRS
9 sunt FLP (ras. corr.) 11 sint post genera
C sunt F 13 subalternas FH (s in ras. m2) N, ante
sub. add . genera PS, s. l. Lm2 16 hoc] in hoc F
inferiora FHm1Lm2NP 17 semper enim genera] FHN semper
si genera Cm1 semper enim sub- alterna (genera subalterna P
) Cm2 (part. in mg.) P et semper subalterna genera RS
et (om. G) semper subalterna EGL plurima N
18 ge- neris G unius] generis unius R species unius
generis Lm1 19 sint L compraehenduntur L 21
prosequatur NR 22 species G specie ante
sunt FHLNR tam] FHN ea EGLPRS tam ea
C sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi
comprehendique non possint, uel quod in generatione et cor- ruptione posita
nunc quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem
genera et subalterna et species eas quae specialissimae nuncupantur,
quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua
uero nullo modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species
id est specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita
essent numero, iubebat descen- dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua
ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita
colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis
differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo
ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus. hic enim hoc tantum
dixisse sufficiat, eas esse specificas dif- ferentias quibus species
informantur, ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal,
rationali atque inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo>
ceteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent,
Plato censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima 13 de
specificis—disputatur] lib. IV c. 8. 1 sint EFGHp.r . (
ex sunt) LPRS numeroque] FHN in unum EGLm1
(numero m2 ) RS numeroque in unum CP
concludi LS 3 uero) ex quidem uero P recepit
Brandt , quidem CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12 5 easque ( om .
quae,) LR specialissime GS 7 igitur om. C magis
a EGLPRS usque ad magis species] FHN magis om. C
quam a speciebus cett . 8 id est] e ut uid. er. C
specialissimas] CFHN a ( add. L ) specialissimis cett.; cf.
p. 225, 13 9 essent] sunt FN 10 diuidentem] diuisionem
EGHm1 (diuisorem m2 ) Lm1PRS 11 nec HN 12
comprobat ELm1 (probabat m2 ) R ut et
soluerentur om . EGPm1 (s. l. m2) RS post ut add .
in edd . 13 autem om. EGLPm1 (uero m2 ) RS
14 de om. FG differentiis CS a.c . 16 rationabile
E uel om. ERS et Lm1 17 ante rationali
et inrationali add . in Em2 rationale atque inrationale (
uel irr-) EGN p.c.RS 18 mortali om . N
mortale EGLPS inmortaleque EGNp.c.PRS ; mortale (sic)
ac (s. l.) inmortali L 18 hoc ergo add. Brandt ,
cetera <quo>que Engelbrecht separabimus FHN
separauimus R 19 informant Fa.c.Lm1NR ueniretur,
dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam indi- uiduorum numquam esset nec
disciplina nec numerus. Descendentibus igitur ad specialissima
necesse est diuidentem per multitudinem ire, ascendentibus uero ad
generalissima necesse est colligere multi- p. 76 tu|dinem.
collectiuum enim multorum in unam natu- ram species est et magis id quod genus
est, particularia uero et singularia e contrario in multitudinem semper
diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures homines unus,
particularibus autem unus et communis plures; diuisiuum est enim semper
quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune est.
Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis- soluere,
omnisque diuisio e contrario compositionem coniunc- tionemque meditatur.
quod enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex pluribus rursus
partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, indiuiduorum qui-
dem similitudinem species colligunt, specierum uero genera : similitudo uero
nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. ergo substantialem
similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est, substantialem
uero similitudinem spe- cierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt.
rursus 3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9 participa-
tione—11 plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin. 18
superius] p. 166, 8 ss. 3 ante igitur add .
illis L necesse—singulare est (12) om. N 4 ire
ante per L T ascendentibus—plures (11) ] Ω
, om. cett . 6 post multitudinem excidisse in
unum coni. Busse ( cum Porph. p. 6, 18 e’:; εν ),
add. edd . 8 e contrario—semper] Γ edd. cum Porph. p. 6,
20 semper in multitudinem e contrario cett. codd. Busse 9 est
unum Φ 10 unus, unus autem et communis particularibus plures
Abaelard . 11 commune P a.c . communes Φ enim post est
FS Φ , om. CELR , ante est cett . 12 est om.
E 14 est] enim C est enim L in om. G
, s. l. Lm2 15 post dissoluere add . est
C 17 plurimis F 19 uero] ergo CEGLm1RS 20 nisi]
ni C generis adunationem differentiae in species distribuunt,
spe- cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia
partiuntur. cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis
ad speciem, diuidendo semper facere multitudinem, cum uero ab speciebus
ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum
differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem
considerari potest. ut enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine
substantiali colligunt. ita indiuidua speciem propria infinitate
distribuunt. omnia enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero
et genera collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua,
specierum uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt
et species ab indiuiduis in multi- tudinem deducuntur, rursus autem genus
quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque
multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum
est quam species. species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam
species quam ipsarum quo- que specierum indiuiduas contrahit
singularesque personas. sed in hoc conuenienti utitur exemplo dicens quoniam
partici- patione speciei, id est hominis, Cato, Plato et Cicero pluresque
reliqui homines unus, id est milia hominum 1 post
generis s. l . ergo E species] specie G
speciem Lm1 2 ante indiuiduasque s. l . in
Hm2 3 haec igitur LNP 4 species ELm2R 5 a
ELS ad ( tamen speciebus) G 6 et om .
EGLPRS plures EFGLPm1RS quae ante fuerant
EGLPRS 7 fuerint S simili- tudinum (-nem Pm2 )
qualitates ( ex -tis Pm2) EFGLPRS ante adunare add .
et EGLPR 8 poterit Lm2 ante ipsae add .
species N, post in mg. Cm1? ipsae] Cm2H ipsa cett
. 9 unam similitudinem substantialem EFGLRS 10 propriam infinite (
uel -tae, -tate H ) EGHLPRS 12 post
adunatiua add . est CGH (in mg. m1?) Lm2 NPm2 13
specierum uero genera s. l. Hm2 14 distribuit EGRS 15
ducuntur EGHN 17 ducit HN 19 cum species tum N 20
indiuidua EGHLPRS 21 participationi G 23
post unus add . est Hm2 in eo quod sunt homines,
unus homo est; at uero unus homo, qui specialis est, si ad hominum multitudinem
qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. ita et plures homines in spe-
ciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus. sic igitur quod
singulare quidem est, diuisiuum est, quod uero commune, quoniam multorum
unum est, ut genus ac species, collectiuum atque adunatiuum.
Adsignato autem genere et specie, quid est utrumque, et genere quidem
uno, speciebus uero pluribus — semper enim in plures species diuisio
generisest —, genus quidem semper de specie prae- dicatur et omnia superiora de
inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere neque de supe-
rioribus; neque enim conuertitur. oportet autem aut aequa de aequis praedicari,
ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine,
minora uero de maioribus minime; neque enim ani- mal dices esse hominem,
quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus autem species prae-
8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33, 4). 1 est.
ut et 3 fiunt, ita r 2 pr . qui] quamuis
FNm1 post . quae EPR 3 et] ut Cm1 4 unus est] unum est
ał (haec del. m2) unus est C post . unus] unus est
LS infinitis CLm1 diffinitus R 5 quidem om.
FN diuisum Em1 diuisuum N quod] quia quod,
s. l . est G 6 uero commune] FS commune uero
Cm1 ( post uero add . est m2 ) HN commune
est uero LPm2R commune est numero EGPm1 ac] et
R ad Em2GLPm1 8 Assignati Pm1 quid est]
FHPm2 \ m1 quide CNRS quid sit Π m2 xV edd
. quod est cett. Busse; cf . sunt p. 236, 14 9 utrum-
que—uno] CEGHPm1 (quidem ex quodem) RS h m2 W m2
xP utrumqae quodque sit genus unum (unum genus N ) FN &
m1 AZΦ utrumque et (et om . L Π ) cum (cumque Π ) sit
genus unum LPm2 il m1 utrumque unum Γ species uero
plurimae FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ; ad utrumque— pluribus cf. Porph.
p. 7, 1 11 genus—indiuiduis (p. 231, 16) ] RS Q , om.
cett . speciebus R 14 autem] Porph. p. 7, 4
γάρ 15 aut] RS edd., om . Ω
Busse; Porph. p. 7, 4 ή aequis] aequo R
ignibile R 17 uero] autem S post minime add .
praedicantur Γ 18. 19 utroque loco dices]
RS dicis Ω edd. Busse; Porph. p. 7, 7
ειποις άν dicatur, de his necessario et speciei genus prae-
dicabitur et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est
Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|
uerum est et Socratem animal dicere atque sub- p. 77 stantiam.
semper igitur superioribus de infe- rioribus praedicatis species quidem de
indiuiduo praedicabitur, genus autem et de specie et de indi- uiduo,
generalissimum autem et de genere et de generibus, si plura sint media et
subalterna, et de specie et de indiuiduo. dicitur enim generalis- simum quidem
de omnibus sub se generibus spe- ciebusque et de indiuiduis, genus autem quod
ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de indiuiduis,
solum autem species de omnibus indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo parti-
culari. indiuiduum autem dicitur Socrates et hoc album et hic ueniens, ut
Sophronisci filius, si solus ei sit Socrates filius. Breuiter
quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. cum, inquit, adsignauerimus
quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus
docuerimusque unum genus semper in plurimas species solui, 2
generalissima Sm2 (specialissimum m1 ) ΓΛΛ 3
enim] autem S 4 autem] uero Λ uero] autem Δ
5 et Socratem animal] A m2 A m2 ( om . et,) Ψ hominem
et (et om , AA ) animal Α m1 Α m1 Φ et hominem ani-
mal RS Σ et ( om . II ) socratem et (et om . Γ )
hominem ( del . Γ m2 ) et ( om . T ) animal ΓΠ ; cf.
Porph. p. 7, 11 6 igitur] RS enim Ω ; Porph. p.
7, 12 οΰν superioribus] superiora RS TA a.c . 7 praedicantur
RS VA a.c . species] et species R indiuiduo] cod. Q. Bussii
brm indiuiduis RS Q ( ante add. eius Σ );
Porph,. p. 7, 13 τοΰ άτο’μοο 10 sunt RS m2
p.c subalterna] de subalternis A 11 enim] autem
S 13 et de om. R de om. S 14 de] Ω
cum Porph. p. 7, 17 et de RS 15 pr . de om.
S post . de] et de R 17 autem] enim N TAΛΣ ; Porph. p.
7, 19 ie 18 album] aliud T m1 (et illud m2
) A m1 ut] et Ν ΤΑ m2 ΑΣ 19 socrates sit CEGLPRS;
Porph. p. 7, 21 εΤη Σινγ,ράτης 20 quae FHN 21
et om. R illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de
inferio- ribus praedicantur, inferiora uero de superioribus minime. et ea quae
sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. ostendit autem genus in
plurimas species semper solui ad- signata generis definitione. quod enim de
pluribus rebus specie iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur,
esse definiuit genus. nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi
plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur.
ostensum est igitur ex definitionis adsigna- tione unius generis esse species
plures. quae cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species
uero de indiuiduis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de
superioribus nullo modo. id quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt,
substantialiter ea genera esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt
quam una quaeque species. neque enim in plurima diuideretur genus, nisi
ab una quaque specie maius existeret. id cum ita sit, nomen generis toti
conuenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum
etiam speciem superuadit. idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra
animalis uocabulum et homo et cetera continentur. at uero nullus dixerit
: omne animal homo est; non enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia,
cum sit minus, nullo modo generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt,
de minoribus praedicantur, quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus
praedicentur. at uero si qua sint aequalia, ea secundum naturae
parilitatem conuerti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita
sibimet 1 quoniam] quod S 2 uero om. ES 4
ante genus add . unum FHNPR, in mg. Cm2, recte? 5 definitio (
uel diff-) Ea.c.GLPm1S 6 esse] et esse R
definiuit] designauit Sm1 10 ante esse add .
semper FHNP 13 id cur HN idcirco F 14
ea add. Em2 quae L ( s. l. illa) PS
15 quaque E quoque S 17 toti] totum non R
18 post enim repet . non R 21 cetera]
cicero F cetera animalia G 23 itemque Lm1S
24 post post . quae s. l . uero Hm2 26 sunt
FHLN pari- tatem EGLp.c.RS 27 ignibile R ita]
si ita H coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque
quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut omne hinnibile equus sit et
omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de
sibi proximis inferioribus prae- dicantur, uerum etiam de inferiorum
inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de
inferioribus praedi- centur, inferiorum inferiora superioribus multo magis
infe- riora sunt, uelut substantia praedicatur de animali, quod est inferius;
sed animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de
homine. rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de
Socrate. ita- que species quidem de indiuiduis praedicantur, genera uero et de
speciebus et de indiuiduis. quod conuerti non po- test; nam neque indiuidua de
speciebus aut generibus prae- dicantur nec species de generibus. ita fit
ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari
et de speciebus et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id
est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus
specialissimis dici potest, species uero de indiuiduis, ut dictum est,
indiuidua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime
sunt 1 non om. brm post sit (si R ) add .
nisi CH (s. l. m2) LNPS ni R inhinnibilis EG
nec FN quid CF 2 pr . sit om. S post . sit]
est CEGLm1RS ; non sit om. brm; post add . nisi CLNPRS
, s. l. Hm2 ergo om. H enim F sit
equus FHNP 3 hinnibile N, post hinn. add . sit L,
ante P 4 sunt om. S, ante superiora EGP
sibi om. H 5 si om. S, s. l. Hm1? 8 uelut om.
LS ut C 9 pr . est s. l. Lm2 post .
est s. l. Gm2 praedicatur CELm2RS 10 etiam om.
FG 11 ante de add . et EGLR ita
R 13 de speciebus] hic desinit cod. F 14 aut] ac
R 15 itaque CHNP quod est] quidem CP quidem
est R 16 post praedicari add . potest L (s.
l.) m1 possit m2 N 17 possit om. N potest L
post ipso add . uero HNPR, s. l. Cm2Lm2 18 uero]
autem L id est] CHm2NS id est autem est Hm1
id autem est EGLa.c . (id est autem ut uid. p.c .) RP
ante om. EGR, s. l. Pm1? 19 collocat EGR et om.
HN 20 post uero add . quae post
indiuiduis add . dici potest R autem] enim Lm1 21
ea quae maximae G p. 78 indiuidua quae sub ostensionem
| indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex
aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significa-
tione uelit ostendere, non dicat ‘Socrates’, ne sit alius qui forte hoc nomine
nuncupetur, sed dicat ‘Sophronisci filius’, si unicus Sophronisco fuit.
indiuidua enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi oculorum
digito tac- tuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel nomine
proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum est
unicus filius, uel ex quolibet alio accidenti singularitas demonstratur,
eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum,
sicut generis quidem ad species, specierum uero ad indiuidua.
Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit
unum quodque eorum, quarum collectio numquam in alio eadem erit. Socratis
enim proprietates numquam in alio quolibet erunt 14—p. 235, 4] Porph. p.
7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10). 1 ostensione EGPS
ostentationem HN indicationeque EGPS indaga-
tionemque N 2 ante hic (is ex hic E
) add . ut CEGR et L atque quae]
Hm2LNP atque EGHm1 atque ea quae S eaque quae CR
propria CH proprietate R 4 qui post
forte HP 5 forte ante alius N 6
Sophronisci LNRS; cf . ei p. 231, 19 7 quaeant R
si uel ex siue Lm2 sensu GL ( ante add .
siue) P ( ras. ex -sui) R ipso
Cm1LPm1R tactuque H tactu uel R 8
monstrantur R accidenti significentur uel om. EGR
accidente N ante uel add . id est CH (del.
m2) Lm2NP 9 nomine om. EGR , post proprio S
illud om . S, del. Lm2 10 post uel add .
si HR, s. l. Lm2 11 demonstretur S eo quod in ras.
Cm2 eaque H (que add. m2, post er . quod) N
ea quae P; post quod add . accidentia in mg. Cm2
de (s. l.) accidenti in con - textu , ał eo quod
accidentia in mg. L ad esse unam] unam ad sese C ad
sese unam HN ad se unam L (s. l. et in mg . de se a.c.)
P 12 habeat] EGHm2Lp.c.PRS habet Cm1Hm1La.c.N
habeant Cm2L in mg . dictio] praedicatio CNSp.c .
transit CHNR 13 species] m2 in CH (in mg.) P, La.c .
specierum cett . 16 quarum—pluribus (p. 235, 3) ] R il
, om. cett . quarum] Π m2 Ψ quorum cett . in alio
post eadem s. l . \ m2 in alium R, post
alio add . quolibet 2 particularium, hae uero quae sunt
hominis, dico autem eius qui est communis, proprietates erunt eaedem in
pluribus, magis autem in omnibus particu- laribus hominibus in eo quod homines
sunt. Quoniam superius indiuiduum appellauit, huius nominis
rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur quae pluribus communia
sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem
continet. illa uero in quae commune diuiditur, communi natura participant
proprietasque communis rei his quibus com- munis est conuenit. at uero
indiuiduorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit
caluus, simus, propenso aluo ceterisque corporis lineamentis aut morum
institutione aut forma uocis, non conueniebat in alterum; hae enim
proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque
coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem proprietates in nullum
alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse communes, cuius autem
pro- prietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate
participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil parti- 1
post particularium add . eaedem edd . cum Porph. p. 7,
24 haec Δ eae Φ post hominis s. l .
proprietates Δ dico—communis om. R 2 proprietates
er . Λ proprietatis Γ 3 eadem Δ m1 2
pr . in] et in Γ post . in] et in ΓΛ m2 Φ
omnibus om. S 4 in om . Φ post
sunt add . continentur (ex p. 236, 7) R 6 ostendere
conatur C 7 <in> his brm quodque unum
Cm1 quibus EGLPRS edd . 10 participan- tur R post . communi (
om . est) Gm1 11 proprietas om. E proprietates
Gm1 12 caluus, simus] caluissimus EGHm1 (caluus uel
simus m2 ) Lm1PR 13 perpenso ESp.c . albo
Em1 (caluitio m2 ) G uentre N cor-
poris linea del., sed lin. er., s. l . corruptus Hm2
liniamentis CEG LNPm2S 14 post
institutione add . probatus EP, s. l. Lm2 uocis] Cm1EGPRS
uocisue sono Cm2HLm2 (uocis uel sonus m1 ) N con-
ueniebant EGm1Hm1P haec G 16 in nullo alio
EGHLm1PS 17 cuius—conueniunt om. EGLRS cuius] eius
P autem] uero N ita- que P in nullum—eius
om. P post eius add . itaque N igitur L 18
poterant EGL potuerunt ex poterunt P
potuerant R autem om. LS 19 proprietatem EGLRS
proprietate * (s er .) H 20 proprietatem
EGH LPRS nihil] nulli Lm2P participat
ER cipet, diuidi in ea quae non participant, non potest; recte igitur
haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua nuncupantur. at uero
hominis proprietas, id est spe- cialis, conuenit et in Socratem et in Platonem
et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus uenientes in quemlibet
alium singularem nulla ratione conueniunt. Continetur igitur
indiuiduum quidem sub spe- cie, species autem sub genere. totum enim quiddam
est genus, indiuiduum autem pars, species uero et totum et pars, sed pars
quidem alterius, totum autem non alterius, sed aliis; partibus enim totum
est. De genere quidem et specie et quid generalissimum et quid
specialissimum et quae genera eadem et spe- cies sunt, quae etiam indiuidua, et
quot modis genus et species dicitur, sufficienter dictum est. Hic
retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens indiuiduum ab specie
contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait : omne enim
genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in eo quod genus est,
continet, tametsi species esse potest; totum enim non ut genus species
est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod genus est, totum
est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum pars semper est,
num- 7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33, 10—17). 2
proprietates Em1NR conueniunt N 4 pr . et
om. C secund . in om. S tert . in om. HNP 5 uenientes ex
accidentibus C ex accidente (om . uenientes ) EGLm1RS 7
Continetur om. R (cf. ad p. 235, 4) con- tinentur A m2 K m1
Z quidem om . Φ est quidem Δ 8 totum—indi-
uidua (14) ] R Q , om. cett . 9 pars—uero] pars est species
autem Δ 10 pr . totum] totum est ΛΦ 11 sed in aliis, in
partibus edd. cum Porph. p. 8, 2 12 quod ΛΣ 13 et quid
specialissimum om . A quod A2 14 sint. R
ΓΛΙIΣ; cf. p. 237, 15 quod GS tot Pm1
modis om. S 15 dicatur N ΥΔΛΠΦΨ , s. l. add . Σ
; cf. p. 237, 19 16 Hic om. NR, s. l. Hm2 17
teneri C ipsas om. E ipsa Cm1 18
huiusce Lm2 19 pars om. E genus enim Cm1
(ante genus s. l . totum m2) HN 20 totum] tum
Hm1 tunc Ν enim] autem S 23 est ante
semper CN pars post est LS quam enim
ipsum aliquid sua proprietate concludit. species uero et totum est et pars,
pars quidem generis, totum uero indiuiduis. et cum pars est, ad singularitatem
refertur, cum totum, ad pluralitatem. quoniam enim unum genus pluribus 5
speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius,
quoniam autem species pluribus indiuiduis | praeest, p. 79 non est
uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura
continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse
poterit, ut uero totum sit, unum ipsum unius totum esse non poterit.
idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum. Et de
genere quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam
id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam
ea cui species nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et
species, scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero
supponitur, quae etiam indiuidua, ea scilicet quorum pro- prietates alteri
nequeunt conuenire, et quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut
in multitudine aut in pro- creatione aut in participatione substantiae,
species uero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum
est. quibus absolutis modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri
differentiae reseruetur. 2 ante post . pars add .
et C , post er . que L totum in mg. Cm2
uero om. HN autem C (in mg. add. m2) L quidem
S 3 indiuidui Cm1NS et] sed CHN post post . cum
add . uero R 4 quoniam] quod L 7 plu- ribus
HLm2NS 9 unum ipsum brm 12 Et] sed in er . et
Lm2 specie] de specie EG 13 post id add .
est P, s. l. Em2 14 quod C specialissimum ( om .
species,] HN nulla species NR 15 superponitur
(ras. corr. E) nulla EG eadem s. l. Lm2 16
supponitur HR aliquid uero supponitur om. ENR, in mg.
Cm2 17 ea om. EGLPRS 18 non queunt G quod
Em1GN quod quot R 20 aut in partici- patione s. l. Gm2
post substantiae add . aut ex figura S consistit edd .
uero aut] autem N 21 figura] genere S ex om. E
est om. S 22 post area s. l . ubi discutiamus
ea Em2 23 ante subscriptionem initium libri IV usque ad p.
239, 6 iniecta scriptum, post subscrip - tionem E
ANICII MANLII (MALLII G ) SEVERINI BOETII (BOECII G ) V. C. ET I LL
. EXCONS (EXC. E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN (YSAGOGAS E )
PORPHYRII (PORPHIRII E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE TRANSLATAE (ID
eqs. om ., SCDAE E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL. INCIP. LIB. IIII. EG
; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT L ) INCIPIT (LIBER
add. LS ) QVAR- TVS L (add. mS) NPRS (uariis cum.
compendiis) ; LIBER QVARTVS C; subscriptio deest in H
De differentia disputanti non aeque illud debet occur- rere quod in
generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. illic enim
meminimus inquisitum, cur esset omni- bus praepositum genus, ut id primum
ad disputationem ueniret, cur post genus species esset iniecta, nunc uero
superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam
fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. quodsi mirum uidebatur
speciem differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod
differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit
quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens
collocauerit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demon-
strabitur, accidens uero exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino
in substantia praedicetur, differentia uero utrumque contineat, et de pluribus
speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa
Porphyrii uerba ueniamus. Differentia nero communiter et proprie
et magis 3 quod—inquisitum] p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13]
Porph. p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33, 18—34, 7). 2 De differentia]
Differentiae E Differentia G Differentiam La.c .
disputanti] in disputando CEGLm1N non aeque illud] non illud quoque
C 3 quod] ut HN collationis Cm1HN 4
quaerebatur] hic desinit cod. S 11 ante specie
add . ea EG ab HL est quod om. GR (
post quid add .interrgatiue) s. l. Lm2 , sit Em1
sit quod m2 an quisquam? ad quisque add . iure
possit Em2 12 post eandem add . iure E, s.
l. Lm2 13 sit unius speciei semper C unius sit semper
speciei R unius semper speciei sit N 15
substantiam NR 16 substantiam Em1 18 ante
Differentia inscriptio DE ( om . Ψ ) DIF- FERENTIA
additur in 2 et magis proprie in mg. Cm2?
proprie dicitur. communiter quidem differre alterum ab altero dicitur,
quod alteritate quadam differt quo- cumque modo uel a se ipso uel ab alio.
differt enim Socrates a Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro
et faciente aliquid uel quiescente et semper in aliquo modo habendi
alteritatibus. proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inse-
parabili accidenti ab altero differt. inseparabile uero accidens est ut nasi
curuitas, caecitas oculorum, cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis
proprie differre alterum ab altero dicitur, quando specifica differentia
distiterit, quemadmodum homo ab equo p. 80 specifica differentia
differt rationali qualitate. | Tribus modis aliud ab alio distare
praediximus, genere. specie, numero, in quibus omnibus aut secundum
substantiales quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum
accidentes. nam quae genere uel specie distant, substantia- libus quibusdam
differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam
differentiis informantur. nam quod homo ab arbore genere distat, animalis
sensibilis qua- litas in eo differentiam facit. addita enim sensibilis
qualitas 14 praediximus] p. 191, 21. 1 dicitur]
λεγέσ&ω Porph. p. 8, 8; cf . nuncupatur infra p. 241,
18 communiter—distiterit (12) ] R Q , om. cett . 2
ab om . A , s. l . Γ 3 ipso om. R 4
pr . a om. R X puero] a puero ΣΦ 5 uiro] a uiro
Φ et] R T uel cett.; Porph. p. 8, 11 χοιί
aliquod S 6 habendi] habendi se Φ ; Porph. p. 8,
12 τού πώς εχειν 7 ab om . ΔΛΣ
quandam R 8 accidente R ; post add . alterum edd.
cum Porph. p. 8, 13 ab om . Σ 10 coaluerit Σ m2
post proprie add . autem ΓΔ (fort. recte)
uero Φ ; Porph. p. 8, 15 hi 11 ab om
. ΛΣ 12 destiterit TX m1 AZ quem- admodum—differt
del. Lm1? 13 differentia om. Ν Σ ante
rationali add . id est CEGL, s. l . Hm2 A m1?
rationabili CEGLPR 14 ab] LP, om. cett . 17 accidens
CEm2 accidentales Lm2 18 disgregata— quibusdam om. N, s. l.
R 19 post quibusdam add . substantialibus Hm2
edd.,recte? ad informantur s. l. disregantur N 21
ea Hm1Lm2NP animato animal facit, eidem detracta facit
animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt. igitur homo atque arbor genere
differunt — utraque enim sub animalis genere poni non possunt —, differentia
sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis tantum
genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa uero quae specie distant
manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut
homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque
inrationabilitate. ea uero quae indiuidua sunt et solo numero discrepant,
solis accidentibus distant. haec autem sunt uel separabilia uel inseparabilia,
separabilia quidem, ut moueri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille
somno prematur, bic uigilet. distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic
staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ter- narium
numerum has differentiarum diuersitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina
quibus post utatur, apponit dicens : omnis differentia uel communiter uel
proprie uel magis proprie nuncupatur, communiter quidem eam dif- ferentiam
sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate
consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, uel
quod ille sit senex, hic 5 ut dictnm est] p. 208, 17 ss. 1
eiusdem E et idem G eadem L
inanimatum L , in- er. EP; cf. p. 208, 14 ss . 2 post
arbor add . quae H (linea del., sed lin. er.) L (del.
m1) N 3 animali ( om . genere) N 4 ante
differentia add . sed ex E nam brm, post s. l . igitur
Pm2 5 praepositis CLm1N positis Em1, s. l . homine et
arbore Lm2Em2 6 distant specie C quod om.
CHN 7 dis- crepare CHN ut—discrepant om. EGL, s. l.
R 8 discrepant om. C 9 post
inrationabilitate add . distant L 10 sunt add. Lm2, in
mg. Pm2 13 distant Hm1Pm2 distet L distat
enim E 14 sit om. R, ante staturae HN staturae
sit post longioris L minimae] Ppr
minime cett. codd. bm 16 isque EG ipsis C post
utatur] postulatur EGR 17 propria Ca.c.L 18 propria
L differentiam eam HNP a differentia (om. eam) E
19 ad sumens s. l . exordium Em2 monstraret
EGLm1 (demonstraret m2 ) R 20 ut si] uti
EGLm1 (uti si m2 ) R a om. CGR, s. l.
Lm1?Pm2 differt ex -rat E 21 sit om.
C est EGL (s. l.) R iuuenis. a se ipso etiam saepe
aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit,
uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia.
communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse
possunt differentiae, sed separabilia accidentia sola significant. nam et
stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et
separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus
differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel
senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam ex pueritia ad
adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque
aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile
de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque
est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma per- durat.
idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux
uiderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque
ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc
communem differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari,
propria uero est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt,
ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus
atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam.
sunt uero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus
1 post differre add . quidem L 2 cum ante
in mg. Cm2 nunc si C 3 iam er. L, post nunc
N 5 proprie CL sed] CLm2NP , om. EG , et
R quae HLm1 separabiles E, post add . enim Lm1,
del. m2 6 pr . et om. P ac] et HNP 7
ideo EGL post omnium add- sunt edd . et om.
H esse om. G, post accidentia EL ; separabilium esse
accidentium N 8 si om . N quid EG qua
R 9 discuntur E 10 ante separabilia add .
ueraciter R 14 eo Lm1 15 est separabilis] est
separabilis forma PR separabilis forma est EGL nullius—per-
durat om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2 ac stabilis] et stabilis
C ( ut uid .) N ac stabili P estimabilis
E 18 alteritas ipsa EG 19 altera EGLm2R 22
nascetur Em1 24 ante erit add . etiam
R semper om. C inflictum cicatrice fuerit obductum,
haec si obcalluerit, pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab
altero, quod hic cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his
omnibus uel separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia sunt
naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel
iuuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et
superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora
uero inse- parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim
non natura, sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non
etiam facere. atque haec sunt separabilis acci- dentis extrinsecus uenientis
exempla, illa uero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri
obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens,
sed sub- stantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a
ceteris, quod rationalis est uel quod mortalis. | hae sunt p. 81
igitur magis propriae, quae monstrant unius cuiusque sub- stantiam. nam si
illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt,
aliae autem propriae, quoniam separari non possunt, quamuis sint in
accidentium numero, illae iuro magis propriae praedicantur, quae non modo a
subiecto separari non possunt, uerum subiecti ipsius speciem substantiamque
perficiunt. ex his igitur tribus differentiarum diuersitatibus, id est
communibus, propriis ac magis propriis, fiunt secundum genus uel speciem
uel numerum discrepantiae. nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae
nascuntur, ex magis propriis uero secundum genus ac speciem. 1 ante
cicatrice add . si H 6 uel om. C formatio
HNPm2 sic] HPm1 (et si m2 ) Rm1
(sieque m2 ) si EGLm1 (sique m2 ) tum CN
9 post currere add . sunt E 10 uoluptas
L 11 at Em1 atqui m2 separabilis sunt C 13
uulneris Lm2P autem propriae La.c.R 14 substantia
Cm1 15 informant Pm2, recte? 16 a om. HN rationa-
bilis EGLPR post mortalis add . est C hae]
Hp.r.L haec cett . sunt igitur] enim sunt H 20 quoniam]
quod R 22 ab G post ipsius add . suis Em1,
del. m2 23 tribus igitur CG 24 ac s. l. Em2 , et
CR Uniuersaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet
adueniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit, illa autem
quae est magis proprie, aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum
faciunt, aliae uero aliud. illae quidem quae faciunt aliud, specificae
uocantur, illae uero quae alteratum, simpliciter differentiae. animali enim
dif- ferentia adueniens rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa
uero quae est mouendi, alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem
aliud, illa uero alteratum solum fecit. Omnis differentia
alterius ab altero distantiam facit. sed haec uel est communis et continens uel
cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. quare quicquid
qualibet ratione ab alio diuersum est, alteratum esse dicitur. si uero
accesserit illi diuersitati ut etiam specifica quadam differentia sit diuersum,
non alteratum solum, uerum etiam aliud esse praedicatur. alteratio igitur
continens est, aliud uero intra alterationis spatium continetur; nam et quod
aliud est, alte- ratum est, sed non omne quod alteratum est, aliud dici
potest. itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diuersitas,
alteratum 1—11] Porph. p. 8, 17—9, 2 (Boeth. p. 34, 7—15). 1
ergo] uero CEGR; Porph. p. 8, 17 osv alterum E h
m2 A 2 sed ea—quiescente fecit (10) ] Ω , om. cett . ea
quae est eqs. ] cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett. α:
μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο 3 alterum Δ , item 4 autem]
uero ΔΣΦ 7 altera Φ* enim] autem A a.c . 8 ratio-
nale 2 facit ΓΣΦ item 9; Porph. p. 9, 1
ίποίησεν et speciem animalis fecit om. codd. quidam Porph.,
deleri uult Busse 10 faci(??) ΓΔ m2 ΣΦ qua * ( (??) ?
er.) re * C qua in re (si add. GLm1, s. l .
siqui- dem m2 ) EGL 11 ille Gm1 illae
Δ solum om. EG, s. l. Cm2 , solum modo P fecit]
ΔΛ , om. P, facit cett.; Porph. p. 9, 2
έποίηοιν 13 uel est] L uel ex EG est
uel N, om . est CR, om . uel HP (ante
est add . quidem ) communi EG continenti E ( -ti * )
G cum om. N, s. l. Em2 eo m1 14 proprio]
proximo GR, post proprio add . uel ma- ximo P 18
inter Gm1 19 nam et] Hm1NR igitur et EG
igitur omne ( et add. C) CHm2L 21 erit HN
quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo uel ex quibuslibet
differentiis considerata diuersitas alterationem facit intellegi, aliud uero
non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum.
itaque communes et propriae differentiae, quoniam accidentium, ut dictum
est, sunt, solum efficiunt alteratum, aliud uero minime, magis propriae autem,
quoniam substantiam tenent et in subiecti forma praedicantur, non modo alteratum,
quod est commune uel substantiali uel accidenti differentiae, sed etiam aliud
faciunt, quod ea sola retinet differentia quae substantiam continet
formamque sub- iecti. atque hae quidem differentiae quae faciunt aliud, speci-
ficae nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum
substantialibus differentiis informauerint, faciunt ab aliis ita esse diuersam,
ut non alterata solum sit, uerum etiam tota alia praedicetur. itaque fit
huiusmodi diuisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae nero aliud.
et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter puro nomine differentiae
nuncupantur, illae uero quae aliud, specificae differentiae prae- dicantur.
atque ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali
describuntur termino uel declarantur exemplo : aliud est quod tota speciei
ratione diuersum est, ut equus ab homine, quoniam rationalis differentia
animali adueniens hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. item
si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diuersus ab homine,
sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui 5 ut
dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss. 1 post , quidem om.
HNP, del. Lm2 uel ex quibuslibet om. H 2 ad
differentiis s. l . uel diuersitatibus Rm1 ? 7 formam N
9 accidentali Hm2NPm2 facit EGLP 10 quae er. C 11
hee P 12 ipsae om. EGLR 14 alteratum E (in ras.
m2) P alterum GLR 15 aliud R sit E 16
ut om. EH faciunt HNR facient Em2
facie m1 20 describantur Em1 21 ratione specie (sic)
E ab om. EGL, s. l. HP 22 facit HLNPm1 23 esse]
est Em1 ita R itaque N 24 effi- citur
N efficiatur (ur add. m2 ) P sedet faciat
alteratum. item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad
formam humanitatis attinet, permutatum est. ita secundum has differentias
alteratio sola consistit. at si equus quidem iaceat, homo uero ambulet, et
aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum,
semel uero aliud. alteratum est enim, uel quod omnino specie diuer- sum
est — et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est —, uel
quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero est aliud,
quod rationabili p, 82 atque inrationabili differentiis
dis|gregatur, quae specificae sunt et substantiales dicuntur. est igitur
alteratum quod ab alio qualibet ratione diuersum est. Secundum igitur
aliud facientes diuisiones fiunt a generibus in species et definitiones
adsignantur, quae sunt ex genere et huiusmodi differentiis, secundum
autem eas quae solum alteratum faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo
se habendi permutationes. Quoniam in principio operis huius
generis, speciei, differen- 13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34,
15—19). 18 in prin- cipio o. h.] p. 147, 5. 1 facit
Em1G item om. EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si om. EGL,
post ille R, in mg. Hm2 post . ille] iste N
caesius La.c . (ce-) Pm1 caecis N cecus
C 3 item in ras. L post has add . quo- que HNP,
s. l. Lm2 sola s. l. Em2 ut GN 4 uero om.
E 5 ab] de P pr . alterum GLm1 6 post
uero add . est C enim om . H (quidem
add. post est ) N, ante est CGPR 7 enim om. G 8
distet R 9 iacet HLm1N ambulat H rationali
atque inrationali HLm2R 10 differentia N
segregatur CR specificae sunt] differentiae specificae
C 13 post facientes add . differentias edd., om. codd.
cum cod. C Porph. p. 9,3 et Dauide commentatore p. 177, 23 (Busse); post add .
et edd. cum Porph . τέ 14 quae—faciunt (16) ] L Q
, om. cett . 15 ante sunt add . definitiones
Γ definitiones scilicet Δ et] ex Δ m2 16
ante alteratio add . at CG alteratio sola consistit] ai
έτερότητες μο'νον συνί- ατανται Porph. p. 9, 5 17 et]
in CEGLR ad Δ ; Porph. v.at aliquo
modo] aliquando Γ se add. Em2 habentis R
habentibus EGLm1 permutatione R permutationibus
CEGLm2 18 huius om. EGR, ante operis s. l. Lm2
specieique EGLNPR; cf. p. 148, 17 tiae, proprii accidentisque
notitiam ad diuisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco
nunc differentiarum ipsarum facta diuisione easdem partitur et segregat,
quaenam differentiae diuisionibus ac definitionibus accommodentur, quae
uero minime. quoniam igitur diuisio generis ita in species facienda est, ut
illae a se species omni substantiae ratione diuersae sint, idcirco non probat
assumendas esse eas ad diui- sionem differentias quae uel separabilis uel
inseparabilis acci- dentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum
est, solum faciunt alteratum, aliud uero perficere et informare non possunt.
inutiles igitur sunt ad diuisionem hae differentiae quae faciunt alteratum.
segregandae igitur sunt communes et propriae a generis diuisione, illae
assumendae tantum quae sunt magis propriae. illae enim faciunt aliud, quod
generis diuisio uidetur exposcere. ad definitionem quoque eaedem magis
propriae plurimum ualent, communes et propriae uelut inutiles segregantur;
communes enim et propriae, quo- niam accidens diuersi generis ferunt, nihil
substantiae ratione conformant, definitio uero omnis substantiam conatur ostendere.
specificae uero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem
informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. eaedem igitur
sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est,
eaedem diffe- 9 ut dictum est] cf. p. 244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21).
20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9
ss. 260, 6 ss. 2 definitionem] defensionem G
utile E 4 ac definitionibus om . EG 5 diuisio
igitur E 7 eas ante assumendas P, ante
esse HN diuisiones NRm1 8 uel inseparabilis om.
EGR 9 idcirco—faciunt] uel eas differentias quae faciunt (faciant R
) EGL (del. m2) R 10 aliud— alteratum (12) om. EGR 14
aliud faciunt C 15 definitionem] diui- sionem Cm1EGLm1
eadem Em1G 16 plurimum om. EG post ualent add .
nam EGL (del. m2) P 17 uelut—propriae om. EGR
enim om. CH 18 proferunt Lm2Pm2 procedent m1
praecedunt N a.c . 19 informant N 21 hee CP
haec E 22 eaedemque C eadem Em1GL diuisione
GN, add . generis GL etiam om. HN et P 23
diffinitione N ut enim—sumuntur om. edd . rentiae
nunc quidem constitutiuae ad definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad
partitionem generis accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud
constituunt, in substantiae uero definitione speciei informationem faciunt,
cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo quidem quo
aliud faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant,
definitionibus accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque
aliud faciunt, sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a
diuisione ut a definitione disiunctae sunt. A superioribus ergo
rursus inchoanti dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles,
alias uero inseparabiles. moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et
quaecumque his proxima sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel
simum uel rationale uel inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae
quidem sunt per se, aliae 11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34,
20—35, 6). 2 assumuntur Ea.c . partitionem]
coparationem N 3 ita—faciunt (4) in mg. sup. Hm2 Ita
igitur cum diuisio generis aliud quaerat. substantia uero speciei
informationem Hm1, eadem uerba loco ita—faciunt adiungit
N Ita igitur cum ad diuisionem generis aliud querant. aliud uero ad
speciei informacionem faciunt Hm3 3 diuisiuae] CHm2LN
(priore loco) Pm1 diuisione EG ad diuisionem
Hm3R diuisio Hm1N (post. l) Pm1 sunt] CHm2LN (pr. l.),
om. EGHm1 et 3 N (post. l.) R, s. l. Pm2 constituunt] CHm2N (pr.
l.) Pm2 quaerat Hm1N (post. l.) Pm1 quaerant ( uel
que-,) Hm3R quam erat EG constituunt quam erat
L in substantiae uero definitione] CHm2LN (pr. l.) Pm2 in
substantia uero Pm1R substantia uero EGHm1N (post. l.)
aliud uero Hm3 4 post uero add . ad
Hm3 faciunt om. EHm1N (post. l.) 5 pr. et
om. HN, s. l. Pm2 faciunt Lm1Pm1 et] ac C eo] in
eo N 6 quidem om. L quod HLm1NP (d er .)
uero] modo N 7 quod HRm1 9 sed] sub G
monstrat CGm1 11 ergo om . H uero N 2
; Porph. p. 9, 7 ouv rursus om. H 12
aliae... aliae h m1 separabiles esse Φ 13 alias
uero—perceptibile (p. 249, 2) om. C moueri—perceptibile] R Ω
, om. cett . 14 ante quaecumque s. l . omnia
Λ 15 at—inseparabilia in sup. mg . h m2 acylum
ΓΦ acilum ΛΣ , sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16
post inseparabilia add . sunt PAS<P edd. Busse, om.R
h cum Porph. p. 9,10 uero per accidens; nam rationale
per se inest homini et mortale et disciplinae esse perceptibile, at nero
aquilum esse uel simum secundum accidens et non per se. Superius
differentias triplici diuisione partitus est dicens aut communes esse aut
proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione in duas secuit partes
dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum. nunc tertiam earum quidem
facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias inse- parabiles,
posse autem de uno quoque cuius multae sunt dif- ferentiae, plurimas fieri
diuisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. nam si omnis diuisio
differentiis distribuitur, quorum multae sunt differentiae, multas etiam
diuisiones esse necesse est. fit autem ut animal diuidatur quidem hoc modo
: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia inrationabilia, item alia
mortalia, alia inmortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia
herbis uescentia, alia carnibus, alia semi- nibus. ita nihil mirum uideri
debet, si multiplex differentiae est facta partitio. ac primum quidem cum in
ternarium nume- rum differentiae membra secuisset, communes et proprias
et magis proprias nuncupauit. secunda uero diuisio communes et proprias intra
nomen alteratum | facientis inclusit, magis proprias p. 83 uero
intra aliud facientis. haec nero tertia diuisio, quae ait dif- ferentiarum
alias esse separabiles, alias inseparabil es, 5 Superius... dicens aut
eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has eqs.| p. 244, 2. 2
perceptibile] ΦΨ perceptibilem cett . ( in mg . capacem
T ) 3 uel] et Γ simium P post accidens add .
est Γ , s. l. Lm2, ras. in E et om. Ν ΑΣ 4
post se add. est P 5 differentia R 7
dicens in mg. Hm2 8 earum quid R earundem
CN quidem post pr . alias C 9 post post ,
alias add . uero C 14 animal] in animali quod H
diuiditur H quidem ante diuidatur Lp, om.
brm 15 animalium N edd . quidem post sunt NP, om.
H rationalia alia inrationalia H 18 item P
20 post secuisset add . ait HP aut CN
et magis—et proprias om. EG 21 nun- cupari H
nuncupauerit LPR 22 facientes CNPm1 propria
R proprium Em1GLp.c . 23 facientes CN qua
CLNRm1 unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus
differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis differentiae uocabulum
claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est propria differentia, et
reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles
differentiae esse dicuntur. quarum subdiuisio fit. inseparabilium
differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis
pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem aliquid inesse
dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco quaelibet species
est, quoniam substantiali differentia constituitur, illa differentia per
se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium, sed sui
praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas. homini enim
huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei
rationabilitas adest; quae si discesserit, species hominis non manebit.
et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat;
separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti.
secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae
nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae idcirco per accidens
nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil
subiecti substantiae commo- dantes. Illae igitur quae per se sunt,
in substantiae 24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35,
6—17). 1 ex om. EG, in inf. mg. L alteratum
post facientibus R, om. G post facientibus add . id est
communem L (in inf. mg.) P 2 adiungit] ponit La.c . cetera
R ceterasque Lm2 alteram C 3 una ras.
ex una C quidem] quidem fit G quippe
HN 4 et om. G, s. l. E 5 inseparabilis E
esse om. G 6 post quarum add . quidem
Lp ita brm post aliae add . enim EGL 8
inesse aliud ( ex aliquid m2 ) L 11 neque] non
Lm2R, ante neque add . quae Hm2 12 post
medium add . quae sunt propria Hm1, del. m2 13
rationalitas H, item 15 15 ei s. l. Hm2 16 quidem
eas (sic) C 17 nullus esse C 18 nisi] ni EG 20
proprie CN aquilum] cf. p. 248, 15 22 accedunt
Hm1N subiecto Hm1 subiectae Lm1N
(-te) 24 Igitur illae C in om . N
ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens,
nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae
quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et minus, illae uero quae
per accidens, uel si inse- parabiles sint, intentionem recipiunt et remissi-
onem; nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus,
neque generis dif- ferentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim sunt
quae unius cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque
intentionem neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel
coloratum aliquo modo et intenditur et remittitur. Differentiis
rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam
superius dixit. cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias,
magis pro- prias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud
minime, sed hoc solis magis propriis reseruauit. nunc igitur idem repetit
dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est
quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae
uero 16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss. 1 rationem GR
h suscipiuntur Lm2 percipiuntur Φ aliud]
illud E illae—suscipiens est (12) ] Ω , om. cett
. 3 dicuntur] accipiuntur Φ (ex 1); Porph. p. 9, 16
λαμβάνονχαι uel παραλαμβάνοντα codd .,
λέγονται Dauid comment. p. 184, 16 alteratum] alterum
W- m1 et om . Γ 4 quidem om . Λ
uero Γ 5 uero quae] quidem Γ si om .
Φ 6 sunt ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18 v.dv—Jaw
7 aut] Λ Busse et cett. codd. edd. (cf. 4);
Porph. p. 9, 19 ή cod. M m;
cett . 9 ipsae] otuxat Porph. p. 9, 20 10
post rationem add . id est diffinitionem Φ 11
neque—remissionem cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ , ooxe ανεσιν οντε
έπίχασιν cett . 12 aquilum] cf. ad p. 248, 15
autem om. P 13 pr . uel] et Γ colorari
Em1 et om. CLR 14 et] uel R 17 esse post
dixisset HNP, ante tres P 18 alteratum—proprias]
proprias alte- ratum facere dixit HNP 19 post
aliud add . uero HNPR, s. l. Lm2 quae sunt propriae, id
est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt
nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia
distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae
secundum accidens, quoniam quae substantiam mon- strant, intendi aut
remitti non possunt, quae uero sunt secun- dum accidens, et intentione crescunt
et remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum
neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec
crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque ipse a se plus aut
minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio
homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim aequaliter animalia,
aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse suum nec cremento
ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile monstrari
potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione uel remissione
uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius cuiusque speciei
substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis
augmenta. itaque substantiales differentiae neque intentionem neque
remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique unum et
idem est, et p. 84 intentionem re|missionemue non suscipit huius
exemplum. genus 2 nec N substantiam N sunt
EN neque edd . 4 est] L (s. l. m2) P edd., om.
cett . sunt om. E 5 secundum accidens quo- niam quae om.
EGP 6 ante intendi add . quae EGP post pos-
sunt add . secundum (s. l. E) accidens EGP
sunt om. CHL 7 in- tentione] intensione Pm2 edd., item 17—p.
253, 6 9 deminui] Pm1 minui L (ex diminui
m2) N diminui cett . quia C 10 decrementa Em1G edd . 11
uel] aut L 12 neque N 13 uterque P aequa-
liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati. aequaliter ho- mines
esse dicuntur H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur adiungit
sic utrique enim aequaliter eqs. N 15 ampliorari EGLPm1
17 ante non s. l . et ob hoc Em2 19
informant Pm2 21 suscipient N cuius HNP
22 post unum add . est L 23 remissionemque
N post exemplum add. sit Lm1 edd. (ante
huius distinctio) , est Lm2, s. l. Hm2 enim dici non
potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur.
differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem, quoniam speciei
essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. quae uero
secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse uel simum
uel coloratum aliquo modo, et inten- tionem suscipiunt et remissionem. fieri
enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius simus, ille minus
aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales mor-
talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur admittere.
Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et cum hae quidem
sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus inseparabilium cum
hae quidem sint per se, illae uero per accidens, rursus earum quae sunt per se
differentiarum aliae quidem sunt secundum quas diuidimus ge- nera in species, aliae
uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur, ut cum per se
differen- tiae omnes huiusmodi sint, animati et inanimati, 12—p.
254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6). 16 differentiarum—19
specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p. 94.
1 post cuilibet add . esse L edd . 2 quae
om. GPR, del. Hm1? 3 formant CEGLm1R species
Lm2NP 3 ante quoniam add . quae EGHLPR
essentiam] substantiam N 4 ante quae add.
ill<a>e G 6 aquilum] cf. ad p. 248, 15
colorari EG 8 nigrior sit HNP hic— aquilus] hic uero
minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus
E amplius simus] amplissimus G, add . sit L aquilus]
ut 6 9 non quod R ut non HNPm1 quoniam non
m2 ratio- nabiles ELm2P 12 considerantur Λ m2 (
in er . -entur) 2 13 haec EG illae—sensibilis (p.
254, 5) om. CEG 14 et—sensibilis (ibid.) om. HLNP 16
rursus—sensibilis (ibid.) om. R per se sunt Λ2Φ 17
quidem om . Λ2 18 ea] ΓΔΨΨ edd . haec
ΛII2 20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et
inrationale mortale et inmortale h m1 animati—insensibilis] Porph.
p. 10, 4 εμψύχου και αίαβητικου ante sint
add . animalis edd. cum Porph . τοϋ ζώου quattuor
et (20—p. 254, 2) om . 2 sensibilis et insensibilis,
rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim
animal substantia ani- mata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et
inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis
differentiae; per eas enim genera in species diuidimus. Fit nunc
differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum
aliae sunt separabiles, aliae inse- parabiles, inseparabilium aliae sunt
secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles
generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species
differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum
diuisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis
proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse
monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles
uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens
alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias
uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam
sunt, subdiuisionem facit, quod 3 constituta T m1 4
post animata add . et ΓΛ Busse, om . ΔΠΣΦΨ
Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he ex e Rm2 est]
sunt R 6 diffe- rentia om . CEGPR et om
. CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac- et irrac-
P ) Lm2P 7 diuisi Em1 diuisae GPm1
has HP; Porph. p. 10, 8 St’ αΰτών 8 genera in] L
(s. l. m2) ΓΔΠ . (in mg. m2) Ψ
Porph., om. cett . 11 post inseparabilium add.
uero C 12 generis om. EGR, in mg. Lm2 15
post esse add . dixit HNP dicit R 16 dixit
om. HPR, s. l. Em2 rursum H 17 alias insepa- rabiles esse
(esse om. N ) monstrauit HNP 18 ac] et HN 20
acci- dens] se EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam Em1
alias (alia E ) se- cundum substantiam considerari G edd., in mg.
Em2, s. l . alias secun- dum Pm2, post considerari add . et
illas esse secundum accidens edd. quae—considerari om. E
post quae s. l . uero secundum accidens Pm2 propria
C proprias Pm2 nuncupari Pm2 21 eorum
(sic) uero quae secundum substantiam s. l. add. Em2 22
post quae add. et C aliae earum genus
diuidant, aliae speciem informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii
libri specierum generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia,
sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque
inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub
animali rationale atque inrationale, sub rationali mor- tale atque inmortale et
sub mortali species hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac
igitur diuisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim
specierum- que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum
autem constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei
atque incorporei differentiae partiuntur, cor- poreum uero animati atque
inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera
substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at
uero si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colli-
gantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum
animal species sit substantiae — omnia enim superiora de inferioribus
praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris
—, animatum tamen atque 2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12
ss. 1 diuidunt N diuident R informant CNR,
add . atque construant H atque constituunt (-ant ex
-ent P ) NP, s. l. Lm2 (ex p. 256, 3) at
E 2 facilitatem G cognitionem om. EG illa
s. l. Hm2 3 trans- feratur Hm1N; post transcribatur spatium
ad inscribendam figuram ut uid. relictum in EG sub] ubi E
hoc Em1GLm1R 4 atque incorporeum in mg. Em2 sub
corporeo om. GR, in mg Em2, s. l. Lm2 6 animal sub om.
E sub animali om. GR 6 rationabile E 7 et
om. HN, del. Em2 12 patiuntur Em1G corporeum—partiun-
tur (15) om. Em1, in mg . corporeum ( ex corpore m3
)—inanimati (ani- matum autem s. l. add. m3 ) sensibilis—partiuntur
add. m2 13 ani- matum om. G, post add . autem Em3
enim Lm1, del. m2 , et er. N 14 post
insensibilis add . partiuntur CL substantialis Gm1Pm2
15 si del. Lm2, post si del . et R heaedem
P (dem er .) R (h del .) hae HN 16
quae post descendentes L 17 in ex al. litt. Em2 18
informantur EHN informant part. ras. ex informatur
Lm2 fit E sensibile quae sunt differentiae, si
referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis
eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut
sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum
uero atque sensibile eiusdem differentiae consti- p. 85 tutiuae. |
item animal rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque
inmortali diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis
diuisiuae fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem
atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si
inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal,
quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del
substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera,
diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant
species earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc
quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe- 1 post
sunt add . eiusdem P (s. l. m2) edd . diuisiua Em1G
2 post sunt s. l . si ad speciem Lm2Pm2
uero om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2 fiunt s. l. Rm2 3 definitionemque]
diuisionemque EG formant Hm1 4 quidem] uero
N 5 ante genus add. eiusdem CN , post add . est s. l.
LPm2 ante differentiae add . generis GP, post add .
diuisiuae R post constitutiuae add . animalis R, s. l .
speciei animalis Lm2 6 rationabilitas—diuiditur] P
rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex inmortali
m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex inmor- tali m2 ) diuidit **
· H rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque inmortale
diuidit C rationale atque inrationale (diuidunt add. N )
mortale atque (et N ) inmortale diuidit (diuidit om. N ) NR
inrationabile (inratio- nale L ) atque inmortale diuiditur EGLm1,
in mg. ante atque add . irracionale. mortale etiam atque
m2 rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas atque immortalitas
diuidit brm 7 rationalitas E 8 diuisiua
Em1GLm1R 9 constitutiua GLm1R eiusque] hominisque HNP
nominis (del. Lm2) eiusque EGL 10 atque
perficiunt s. l. Rm2 11 irrationalitas EP mortali
Lm2Pm1 fiat G aut] atque L 12 rationalitas
HP 13 inmortalitas] inrationabilitas R dei om. G
, post substantiam E (s. l. m2) L formant
HN item HL 14 di- uisae E 17 esse om.
C eae EGR heae P rentiae specierum
constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam speciem
uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia
corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non
posse; 5 quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem
corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat.
est igitur aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili
scilicet atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia
corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest
esse subiectum — quicquid enim inrationabile est corruptioni sub- iacens et
generationi, inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam
substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent,
earum naturam et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur,
quae sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae,
respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iun- gantur, speciem
substantiam que nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae
sunt duae communes dif- ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco
isdem eius sub- stantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt
generis, quae alicuius possint constituere et conformare sub- 3—7
Aristoteli] cf. De caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38
a , frg. 24 (Cic. de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9
Platoni] Tim. p. 38 E. 39 E ss.; cf. supra p. 209, 2. 1
species G inrationalis CEGP differentiae E
5 concedit Lm1N 7 est] esse CN, ad est s. l . ał
esset L aliud G 8 con- ficeretur H, s. l. (
add . ał) ad conficiatur L irrationali Lm2P
9 ac- cedendum CN (ac er .) H (ac in ras.
m2 ), concedendum edd . est platoni CN et om. C
10 credendum om. CN 11 inrationale (irr- P ) HP
13 ante substantialium add . in CHN, post
diff. om. CHNR 16 efficientiae G 17 tametsi] etsi
C etiam (si er. H ) etsi H ( in mg . ł tametsi m2
) NP 19 loquitur HN 20 sit H num
ex non Rm2 isdem] NP eisdem (ei in ras. m2
) L hisdem cett., post s. l . differentiis add.
Em2 21 ante cur add . id HNP, s. l. Lm2
eius EG sunt ante eiusdem N, post
generis L 22 possunt NP con- firmare
Em1GRm1 stantiam. ita igitur hae, id est inrationale atque
inmortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen
substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent, praeterea
inrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit : est igitur
constitutiua inrationalis differentia, item inmor- tale ac rationale
coniuncta efficiunt deum : est igitur inmortale quod speciem formet, quodsi
inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur.
Sed hae quidem quae diuisiuae sunt differentiae generum, completiuae
fiunt et constitutiuae speci- erum; diuiditur enim animal rationali et
inrationali differentia et rursus mortali et inmortali differentia, sed ea quae
est rationalis differentia et mortalis, con- stitutiuae fiunt hominis,
rationalis uero et inmor- talis del, illae uero quae sunt inrationalis et
mor- talis, inrationabilium animalium, sic etiam et supremae substantiae
cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et sensibilis et
insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam animal
perfecerunt. 9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36, 7—15).
2 aliquod om. C aliquid LP possunt—substantiam]
possent tamen substantiam possent C 4 mortale EGPm1 5
irrationabilis NP ita R 6 coniunctae HN 8 eorum
edd . 9 haec CL heae P 10 generum om. EG
fiant Cm1Em1G sunt Σ 11 diuiditur—insensibilis
(18) ] 2 , om. cett . 12 pr . et—differentia om.
2 , add. X m2 13 ea... differentia] Porph.
p. 10, 12 ai... διαοοραί rationalis.. mortalis cum cod . M
Porph., cett . τοΰ 6-νητοδ καί τού λογικού 14 fiunt]
definiunt Δ m1 ΙΛΣ hominem Δ m1 ΑΣ 15 dni in ras.
2 , add . sunt et angeli Δ , sed del., ante dei
add. angeli et Π m2 , sed del.; codd. Porph. p. 10,13
aut θεού aut άγγέλοο quae sunt
add . X m2 post mortalis add . constitutiuae sunt
Γ 16 inratio- nalium X m2 \ m1 , add . sunt Φ etiam]
enim Φ supremae substan- tiae] T m2 (suae
substantiae m1 ) X m 2 (superna substantia m1 ) suprema
substantia cett. codd. edd. Busse; cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259,
23 18 animatum EGR sensibile E (le in ras
.) R 19 congregata ER perficerent G
perficiunt in ras . 2 post perfecerunt add . animata
uero et insensibilis perfecerunt plantam edd. cum Porph. p. 10, 17, om
. Boethius etiam in commentario Geminum differentiarum usum
esse demonstrat, unum qui- dem quo genera diuiduntur, alium uero quo species
infor- mantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur,
uerum etiam dum genera diuidunt, species in quas genera deducuntur
efficiunt, itaque quae diuisiuae sunt gene- rum, fiunt constitutiuae specierum,
huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit; animalis quippe
differentiae sunt diui- siuae rationale atque inrationale, mortale atque
inmortale; his enim praedicatio diuiditur animalis, omne enim quod animal
est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut inmortale est. sed istae
differentiae quae diuidunt genus quod est animal, speciei substantiam formamqne
constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique
differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit equus animal,
inrationali mortalique differentiis constitui|tur, quae dudum animal
diui- p. 86 debant. deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus,
ratio- nali inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere genus habita
partitio paulo ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum corporeum intellegi
oportet, ut solem et caelum ceteraque huiusmodi, quae cum animata et
rationabilia Plato esse con- firmat, tum in deorum uocabulum antiquitatis
ueneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia
demonstrantur uenire. nam cum eius diuisiuae sint differentiae 18 ut
diximus] p. 208, 22 ss. 20 Plato] cf. p. 257, 9. 2 aliud
EHm1Rm2 alio m1 uero om. R 4 partiuntur
GPm1 diuidendo N 5 deducantur HN dicuntur
R diuiduntur C (uid in er . duc? m2 ) diuisae
Em1Gm2HR 6 huius C rei om. EGR s. l. Lm2 7 ipse] ille
R diuisae Em1Gm2 8 mortale atque inmortale om. EGR, in
mg. Lm2 9 quod animal est] animal HNR 10 pr . aut
om. R post rationale add . est HN 11 est om.
HR quod] hoc C 13 post efficitur add. ab
his EPm1, del. m2, s. l. Lm2 post differentiis add .
constituitur Cm1, del. m2 14 partiebantur] diuidebant Lm1R 15
diuidebant] parciebantur R 16 ut] si CH, in ros. N, recte?;
cf.p. 208, 22 20 confirmet C (et in ras. m2 )
HLm2N 22 substantiam Em1 23 demonstrantur] idem
monstratur HN idem (super ras. Cm2, s. l. Pm2)
demonstrantur Cm1Pm1, alt . n del. Cm2Pm2 euenire
HNPm2, add. s. l . differentiae Lm2 diuisae Em1Pm1
sunt EHm1 animatum atque inanimatum, sensibile atque
insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt
substantiam ani- matam atque sensibilem, quod est animal, iure igitur dictum
est, quae diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse con- stitutiuas
specierum. Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem accep- tae fiunt
constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his
maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae
secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his quae sunt
separabiles. Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo
procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad
posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt,
eaedem igitur sunt constitutiuae specierum, eaedem diuisibiles generum,
alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in
contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero
iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita
sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectis- sime diuisiuae
nominantur - quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt
speciem hae differentiae quae 6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36,
15—19). 4 post constitutiuas add . et
completiuas C completinasque HNP (ex p.
258,10) 6 ergo] igitur P needem uel heedem
hic et 15. 16. p. 261, 1 codd. quidam alio P ( ras. ex
aliquo,) Γ (o in ras .) quidem] ΓΔΛΙIΨ , om.
cett.; Porph. p. 10, 18 μεν 7 aliquo—inseparabiles sunt
(10) ] Ω , om. cett . alio ras. ex aliquo ut uid
. Γ autem modo Φ autem add . 5 m2 10
sunt inseparabiles Γ his om . Γ 12 post
Omnes add . enim R 13 quo] quibus EGR
procedent Em1 15 post sub- stantias s. l .
earum L eas substantiasque (quae N ) HNR sunt
igitur HL 16 post eaedem add . sunt LR
19 sint CHPRm1 21 diui- siuae] specificae Lm2
nominantur] nuncupantur HΡΝ enim om. C post
speciem add . eaedem speciem faciunt, quae uero speciem faciunt
CHN sunt generis diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu-
tiuae. quare iure quae generum diuisiuae sunt et quae spe- cierum
constitutiuae, specificae nuncupantur, has igitur in diuisione generis et in
definitione specierum accipi oportere manifestum est. quoniam enim
diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus, quoniam autem constitutiuae, per
eas species definiri; quibus enim unum quodque constituitur, isdem etiam
definitur, constituitur autem species per differentias generis diuisiuas, quae
sunt specificae, iure igitur specificae solae et in generis diuisione et
in specierum definitione ponuntur, et de specificis quidem haec ratio est, de
his autem quae uel separabilia uel inseparabilia continent accidentia, nihil in
generum diuisione uel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam
quae diuisibiles sunt, substantiam generis diuidunt, et quae
constitutiuae sunt, substantiam speciei con- stituunt. quae uero sunt
inseparabilia accidentia, nullius sub- stantiam informant, unde fit ut multo
minus separabilia acci- dentia ad diuisiones generum uel specierum definitiones
accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus differentiis,
nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc
est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut
nec specificae differentiae, separabilia autem accidentia ne hoc quidem;
sepa- 1 diuisae Gm1 eaedemque] H (hee-)
NP eaedem C igitur eaedem (eaedem s. l. Lm2 ) quae
(que E ) sunt EGLR constitutiuae specie- rum C 2
quare—constitutiuae om. EGLR quare iure] iure igitur P
4 diuisionem HLm2P et] uel R definitionem (uel
diff-) HL ( s. l . ał constitutione] P diuisione
Em1 6 eius Em1 7 post definiri add .
oportet CN, s. l . (scil. add. E ) EL quibus—definitur
om. EGLR, in mg. Pm2 hisdem CHN 9 solae s. l. Em2
10 post , in om. HN 12 continent] concedunt EG, s. l .
uel faciunt Gm1? 13 post uel add . in
L 16 sub- stantiam] HN, om. Em1 , speciem CGLm1R (post
informant) s. l. Em2 , speciei substantiam Lm2P edd . 17
formant H multo om. C 18 ad diuisiones—accidentia
(20) in inf. mg. Gm2 definitiones] diuisiones Em1G 19
ante substantialibus add . a HN, recte? 22 ante
quod add. id H (linea del., sed linea er. uid.) N ad
quod aeque s. l. ał quod hae similiter L sic
G (ut er .) L (ut del. m2) 23 ne] nec LN
rari enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione, sed
actus etiam praesentia, et omnino ueniendi uel discedendi uarietatibus
permutantur. Quas etiam determinantes dicunt : differentia est qua
abundat species a genere, homo enim ab animali plus habet rationale et
mortale : animal enim neque ipsum nihil horum est nam unde habebunt species
differentias? neque enim omnes oppositas habet - nam in eodem simul habebunt
opposita —. sed, quemadmodum probant, potestate quidem omnes habet sub se
differentias, actu uero nullam, ac sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit
neque opposita circa idem sunt. Specificas differentias
definitione concludit dicens substan- p. 87 tiales differentias a
quibusdam tali descriptionis ratione finiri : differentia specifica est
qua abundat species a genere, sit enim genus animal, species homo : habet
igitur homo dif- ferentias in se, quae eum constituunt, rationale atque
mortale; omnis enim species constitutiuas formae suae differentias in se
retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione perfecta est.
si igitur animal quidem solum genus est, homo uero est animal rationale
mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale, quo
igitur abundat species 4—13] Porph. p. 10, 22—11, 6 (Boeth. p. 36, 20—37,
5). 1 nec] non brm 4 Quae h m1
dicuntur A m1 est add . \ m2 5 que
Em1 quae Ga.c . abundant (ha- G ) Em1G a
om. N ho- mo—-nullam (11) ] R Q , om. cett . ab om
. ΓΦ 6 enim] enim tamen R autem A 7 horum
nihil Γ 8 enim om . Φ , add . & m2 ,
autem er . T : Porph. p. 11, 3 ούτε ίί ;
enim pro autem; cf. ad p. 16, 15; an autem ( cf.
T ) Boethius scripsit ? opposita R habet]
habent cett . codd. et edd . 9 nam] nec R
habebit Φ ( post opposita), non habe- bunt Δ 11 habet]
P p.c . Φ*Γ habent cett . ac sic om. N sic
ex si Em2G 12 hiis Φ sint Sa.c . opposita]
ex oppositis quae R h m1 13 circa idem sunt] Porph. p. 11, 6
&pa περί τό αΰτο εσται 15 diffiniri Pm2R 19
constitutiuae Em1GLp.c.Rm1 in se om. C 22 est
uero E 23 id] id est EGP a genere, id est quo
superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia, sed
huic definitioni quae- dam quaestio uidetur occurrere habens principium ex
duabus per se propositionibus notis, una quidem, quoniam duo con- traria
in eodem esse non possunt, alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque
contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri
potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari,
quae pro- positiones talem faciunt quaestionem, dictum est differentiam
esse id qua plus haberet species a genere, quid igitur? dicen- dum est genus
eas differentias quas habent species, non habere? et unde habebit species
differentias quas genus non habet? nisi enim sit unde ueniant, differentiae in
speciem uenire non possunt, quodsi genus quidem has differentias non
habet, species autem habet, uidentur ex nihilo differentiae in speciem
conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius
dicta propositio monstrauit. quod si differentias omnes genus continet,
differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut rationabilitatem atque
inrationabilitatem, mor- talitatem atque inmortalitatem simul habeat
animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non
potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita
fieri in genere potest; genus enim per se conside- ratum partes non habet, nisi
ad species referatur, quicquid igitur habet, non partibus, sed tota sui
magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in partibus suis genus
habeat 1 post , quo] quod Em1 (quid m2 )
GHm1R a om. H 2 hoc—dif- ferentia om. C huic]
hunc Em1N 4 per se ante notis brm
unam GHa.r. 5 aliam C (sic) Ha.r. post quoniam
add . quidem C 6 sit C nec N 10 id
om. R qua] quod GHLm1P; cf. p. 270, 12 dicen- dumne
Lm2 11 genus ante non habere HNP habent] habet
Lm2 12 habet] habebit CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1) 13
ueniunt R 15 uidetur GLm1P differentia EGL
( ex -tiasj P 16 esse] est CLP aliquando Em1 18
contrarium HLm2NPm1 contrario R 19 mortali- tatem atque
inmortalitatem] CNP, s. l. Lm2, om. cett . 22 esse post
alba N, post alia P 25 detinebit N 26
in] HNP, s. l. Lm2, om. cett . contrarietates, ut animal in
homine rationabilitatem, in boue contrarium. sed nunc non de speciebus
quaerimus, de quibus constat, sed an ipsum per se genus eas differentias quas
habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere,
hanc igitur quaestionem tali ratione dis- soluimus. potest quaelibet illa
res id quod est non esse, sed alio modo esse, alio uero non esse, ut Socrates
cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem potestate, actu uero non sedet.
cum enim stat, manifestum est eum non agere sessi- onem, sed potius standi
inmobilitatem. sed rursus cum stat, sedet, non quia iam sedet, sed quia
sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate uero sedet. et ouum animal
est et non est animal. non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad
animalis processit uiuificationem, sed idem tamen est animal potestate, quia
potest effici animal, cum formam ac spiritum uiuificationis acceperit.
ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu,
sed habet potestate. si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non
habebit, si autem ad species reducatur, habere potest, sed distributim atque ut
eius speciebus separarim nihil possit euenire contrarium. ita ipsum genus
si per se consi- 1 post homine s. l . habet E,
post rationabilitatem Lm2 2 nunc om. EGR, s. l.
Lm2 4 suae intra C 6 quaelibet illa res] HLm2NPm1
quaelibet res ( res s. l. E) CEPm2 quidlibet Lm1R
quodlibet G 7 alio uero non esse om. Hm1, s. l . alio non
esse m2 8 secund . sedet om. CEGR 9 enim
om. CEGLPm1 (s. l . autem m2) R sessione G 10 mobilita-
tem CEGLm1P mobilitate N cum stat in
constat mut . ERm2 13 actu om. EG 14 neque
CL ad om. E animal G animalis quidem
L 16 spiritum] speciem CHR genus et] ELm2NP et
genus et H genus CGLm1R 17 non habet quidem—potestate]
habet quidem potestate sed non habet ( habet om. C)
actu CEm2P habet quidem actu sed non habet potestate
Em1G 18 consideretur] quis (s. l.) consideret E
19 autem] enim R reducat E 20 distributim]
HLm2PRm2 distri- butum CN distribute EGLm1
distributam Rm1 atque—contrarium] atque in species separatum
( separatim H) ut nihil possit esse ( euenire H)
contrarium CHN, add. locum atque ut eius—contrarium C
nihil] et nihil G 21 si ipsum genus HN deretur,
differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species uel
in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo uenerunt
differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt,
cum contrarias differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet,
inpos- sibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non
posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt, nam
potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit, quae uero nos
contraria diximus, Porphyrius opposita nuncupauit. est enim genus
contrarii oppositum : omnia enim contraria, si sibimet ipsis considerantur,
opposita sunt. Definiunt autem eam et hoc modo : differentia est
quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale sit
praedicatur; rationale enim et mortale de homine | praedicatum in eo quod quale
quiddam est p. 88 homo dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est
enim homo interrogatis nobis conueniens est dicere animal, quale autem animal
inquisiti, quoniam ratio- nale et mortale est, conuenienter adsignabimus.
Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium
atque accidens respondetur, haec autem sunt : quid 13—20] Porph. p. 11,
7—12 (Boeth. p. 37, 6-12). 1 species] differentias H 2
uel om. Lm1 uelut HLm2 sin eo] id HN
quot E 7 actu ante contraria H, post
eodem CLN in eodem esse—in eodem om. EG 8
post non possunt add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad
species actu et potestate Rm2 9 nil L contraria
nos C 11 si om. HN, s. l. Cm2 si in semet
Lm2P considerentur CLm2 12 sunt om. HN 13
autem om. H enim C et om. CEGHNP 2 ,
ante eam 4 ; Porph. p. 11, 7 xo; όντως 14
quae EP de om. C et om. CEGLIR; Porph.
xat ; cf. infra p. 267, 1 15 ra- tionale—animal (19)
] R Q , om. cett . 16 praedicatur T a.c. m1
quid- dam om. ΓΦ 18 homo om. R ΔΦ , s. l .
scil, homo \ m2 ; Porph. p. 11, 10 6 άνθρωπος
19 post post , animal add . sit C, ante EG
inquisiti] Porph. p. 11, 11 πυνθανομενων 20 et
om. CEGLR; Porph. p. 11, 12 xac est om. HNR, s. l
. 2 m2 assignauimus E assignamus G 22 hae
Hp.r.LR edd . heede m P sit, quale sit, quomodo se habeat,
nam si quis interroget : quid est Socrates? responderi per genus ac speciem
conuenit aut animal aut homo, si quis quomodo se habeat Socrates interroget,
iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut cetera, si quis
uero qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut
accidens respondebitur, id est uel rationalis uel risibilis uel caluus. sed in
proprio quidem illa est obseruatio, quod illud proprium dici potest quod de una
specie praedicatur, accidens uero tale est quod qualitatem designet quae non
substantiam significet, differentia uero talis est quae substantiam
demonstret, interrogati igitur qualis una quaeque res sit, si uolumus reddere
substantiae qualitatem, differentiam praedicamus, quae differentia numquam de
una tantum specie praedicatur, ut mortale uel rationale, sed de pluribus, quod
igitur de pluribus speciebus inter se differen- tibus praedicatur ad eam
interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est
differentia cuius talem posuit definitionem : differentia est quod de
pluribus 1 se om. G, s. l. E habet CEGLR 2 per
om. H ac N 3 pr . aut] ut CHm1N post , aut]
ut Hm1N habet R, post habeat del . se habet
G 4 iure—legit] differentia aut legit G aut
differentiam * ut (a er.) legit E differentia respondetur
(respondetur etiam R ) id est aut sedet aut legit Lm1 5 aut]
et HLm1NP quale H 6 proprio aut accidenti
EGR respondebitur] CLm2P respondebit EGR
respondetur HLm1N 7 pr . uel om. LN uel risibilis
uel caluus] Lm1 edd . uel mortalis uel caluus CHLmSN uel
mortalis uel alicuius EGR uel mor- talis uel saluus uel
caluus Pm1 uel mortalis uel risibilis uel caluus m2 10 quae
non—demonstret] Differentia uero talis est (haec om. L) quae
(que ELm1 atque m2 ) non substantiam significet (-cat
Lm1, add. m1 Differentia uero talis est quae substantiam significat,
del. m2 ). Differentia uero talis est quae (non add., sed del. E )
substantiam demonstret (at Lm1 ) EGL post significet in
mg. Proprium uero est quod non sub- standam significat H 11
quae] quia R demonstrat CLm1 inter- roganti
R ( ex -tis] quale R 12 constantiae G 13
numquam] non C tantum de una C 14 sed om. EG, s.
l. Lm2 15 quod] quod- si R 16 ad
praedicatur in mg . respondetur E 18 pluribus—differen-
tibus] cf. p. 265, 14 specie differentibus in eo quod quale
sit praltdicatur; cuius definitionis causam rationemque pertractans ait;
Rebus enim ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem
rtfateriae et formae constituti- onem habentibus, quemadmodum statua ex
materia est aeris, forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex
materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum
autem hoc animal rationale mortale homo est, quemadmodum illic
statua. Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei
praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qua- litas differentia
sit. omnes, inquit, res uel ex materia formaque consistunt uel ad similitudinem
materiae atque formae sub- stantiam sortiuntur, ex materia quidem
formaque subsistunt 3—10] Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17).
1 post quale add . quid Lm2(in ras.) E (sed er.)
Rm1, del. m2, add . quid post sit s. l. Hm2 4
post similitudinem add . proportionemque LNRQ ( in mg . nempe
communionem Γ ); om. Porph. p. 11, 13 et) ac ΓΔΙΙΨ-
, om . L Α2Φ formae] A m2 HI!1- speciei
CEGHNPR h m1 specieique L Λ2Φ formae speciei er. uid .
Γ ; cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia (8)
] LR Q , om. cett. post materia add . quidem
edd., recte ut uid.; Porph. p. 11, 14 μέν 6 aeris] et (s.
l. m2) aere (in ras. m2) Ψ forma] ex ( in al.
litt. xV m2 ) forma L xV brm Busse;
Porph . εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim Φ )
dicitur (est Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet Σ
) id est communionem omnium partium uel (et T ) specierum quae diuidi
(diui- dendo Rhm1 diuidendae Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo ΣΣ )
contingunt (con- tingant R ) per (del. Σ ) differentiam
figuras ΓΠ m2 diffe- rentiam figuras \ ) add . LR
T m1 h m1 ΑΠΣΦ , om . Ψ , del . T m2 \ m2 7 simi-
liter] Busse similiter proportionaliter LR ll m1
similiter proportionaliterquc ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ proportionaliter 2
brm; cf. Porph. p. 11, 15 8 ante genere add . in Γ m2
(ex m1 ) L Σ toto Ga.c . 9 ratione E ante
mortale add . et CEGHLPR, om . N Q cum Porph. p.
11, 16 homo est om. N , ex homine Δ m2 11
differentiam HN 12 praedicaretur HN causis Em1
post cur add . autem Hm1, del. m2 qualitas
speciei H 13 omnis ELm2N uel om. EGR 14
consistit Ea.c.HLm2 subsistit N 15 sortitur
HLm2N ex om. CEGR formaque] et forma P
omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod
suscipiat formam, nihil omnino esse potest, si enim lapides non fuissent, muri
parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex
ligni materia est, esse potuisset, igitur supposita materia ac prae-
iacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia
formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis
figura perficitur, atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex
materia for- maque subsistere, ea uero quae sunt incorporalia, ad simili-
tudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas,
super quas differentiae uenientes effi- ciunt aliquid quod eodem modo sicut
corpus tamquam ex materia ac figura consistere uideatur, ut in genere ac specie
additis generi differentiis species effecta est. ut igitur est in
Achillis statua aes quidem materia, forma uero Achillis qua- litas et quaedam
figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur,
ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est
animal, cui superueniens qualitas rationalis animal rationale, id est
speciem fecit, igitur speciei materia quaedam est genus, forma uero et
quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua aes, hoc est in specie
genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in
statua ipsa statua, quae ex aere 2 potest] putem G putemus
R 4 nec om. Gm1 ne EGm2L 5 ma- teria est] fit
materia HNP ante igitur add . si E , sed del . 6
in om. R ipsa ER figuram Hm1La.r .
peruenerit HN 9 corpo- ralia HNP ex om. C
11 prioris Em1G 12 antiquiorisque G 13 tamquam
om. CLP, del. Hm2 ex] ea GL (in ras. m2) R 14 materia ac figura]
brm materia (in ras. Lm2) forma ac figura (ac figura
del. Lm2 ) LP forma ac figura CEGHRp figura ac forma
N 15 generi] generis EG 16 aes—statua (17) om. N
materiae G 17 et quae- dam—statua] CH, om. Lm1 ( in mg
. et quaedam figura m2 ) P statua (cet. om.) EGR 18
quod] quae edd . 22 et om. EGR, s. l. Lm2 quali- tatis
R igitur est (est s. l. Pm2 ) HNP 23 figura]
forma N 24 post quod add . est igitur
Pm2 figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex
genere differentiaque coniungitur. quodsi materia quidem speciei genus est,
forma autem differentia, omnis uero forma qualitas est, iure omnis differentia
qualitas appellatur, quae cum ita sint, iure in eo quod quale sit
interrogantibus respondetur. Describunt autem huiusmodi differentias et
hoc modo: differentia est quod) aptum natum est diuidere p. 89 quae
sub eodem sunt genere; rationale enim et in- rationale hominem et equum, quae
sub eodem sunt genere, quod est animal, diuidunt. Haec
quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius
dilucideque declarauit. omnes enim differentiae idcirco differentiae
nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut
homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal
est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant. 6—10]
Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p. 37, 18—38, 1). 1 formatur
CHNP 2 quidem] quaedam CHLm2PR 3 autem] nero N uero]
ergo Lm1 autem N qualitas] HNPm1
qualia CEGLR uel qualis s. l. Pm2 5 ante
respondetur excidisse differentia coni. Brandt 6
post autem add . et L (del.) R; Porph. p. 11, 18 post
8e add . *αί cod. B differentias]
Em2GHPm1 xV differentiam CLPm2 ΓΛΑΙIΣΦ
differentia Em1NR; Porph ,. τάς τοιούτας διαφοράς et]
LPR i , om. cett.; Porph. *a\ οοτως 7 qua CG
actum R natura] HL (del. m2)
ΓΑΛΠΦ om. cett.; Porph. p. 11, 19 πεφοχος;
cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12 8 ante quae add. ea Γ2 ,
s. l. A m2 , del. m. al. , illa s. l. Δ
m2 genere sunt ΣΑΨ rationale—sunt genere om. EG 9
et equum] equnmque C 10 diuidit L 11 cum—oculos
in mg. E sit usitata] sita sit situr (sic) Em1 ita sit
m2 situ sit sita G ante om. HNR, s. l. Lm2 oculis
HN 12 post exposita add. superius R ea GNR
plenius dilucideque declarauit] (claruit Em1Gm1 ) CEm2Gm2
plenius dilucideque declarauit L plenius lucidinsque
declarauit Hm2 plenius dilucidiusque claruit R exempli
insuper luce declarauit ( ex decla- ruit N ) NP plenius
dilucideque exempli insuper luce declarauit Hm1 exempli insuper
luce reserauit edd . 13 species ase differre] specie ( ex
specierum, sequ. rasura ) differentiam E species in aere
differentiam G species ase differentiae Lm1 14 a]
ad R concludit N 15 nam in ras. Lm2
sed EG quae igitur secundum genus minime discrepant, ea
differentiis distribuuntur, additum enim rationale quidem homini, inratio- nale
uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere, distribuuntur et
discrepant, additis scilicet differentiis. Adsignant autem etiam
hoc modo : differentia est qua differunt a se singula; nam secundum genus
non differunt, sumus enim mortalia animalia et nos et inrationabilia, sed
additum rationabile separauit nos ab illis, et rationabiles sumus et nos et
dii, sed mortale adpositum disiunxit nos ab illis. Vitiosa ratione
et non sana quod uult explicat definitio quorundam. id enim esse dicunt
differentiam qua una quaeque res ab alia distet, in qua definitione nihil
interest quod ita dixit an ita concluserit : differentia est id quod est
differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est
5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38, 1—5). 2
describuntur EG 3 post equo distinguunt edd.,
post equus expec- tatur igitur’ Schepps , additum
eqs. nominatiuum absolut . (cf. indicem Meiseri) interpretatur
Brandt qui Lm2P 5 autem om . \, del.
Lm2 A. m2 etiam om. H etiam et Λ eam et Ν Σ
; Porph. p. 11, 21 St καί 6 qua] Porph.
διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα; ‘an quo?’ Busse, sed cf.
infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab illis (9) ] LR Q ,
om. cett. post nam add . homo et equus cum Porph. edd. (cf.
etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra p. 269, 9) , etiam
Bussio homo atque equus addendum uid . 7 enim] autem Γ
8 inrationalia ( uel irr-) R ?ΓΠ (in ras.)
ros. ex -bilia Δ sed—illis (9) om.
R ratio- nabile] p.r rationale \ a.r. et cett .
separauit] disiunxit ΓΦ 9 et] CHP, s. l. er. uid.
Δ , om. cett . rationabiles] L \ m1 2 rationale
CP rationales cett., add . enim ΕGΗ ΑίΙΦΨ ; codd.
Porph. aut λογικοί aut λογικά sumus om.
CEGHP; Porph . έσμέν et nos om. E et om. N
di C dei ut uid . 2 sed—ab illis om.
EG 11 ante Vitiosa in ras. Haec E
ratione] L edd., om. cett. (recte?), in ras . est E et
om. G sane E (in ras.) NP explicans HNP non
(s. l. m2) explicat L 12 id] cf. p. 263, 10 13
aliis R distat HN differt P 14
dixerit Lm2P an] utrum R concluderit L
concludat EGR id quod est om. E ante differentia
add . ipsa ER differentia om. G 15 etenim om. EGR
differentiae nomine] qua differt una res ab alia, id est id quod est
differentia est differentia. Differentiae nomine fid est—nomine in ras.
m2) E in—definitione] usus in eius diffinitione N
definitione dicens : differentia est qua differunt a se singula, quodsi
adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid
sit qui poterimus agnoscere? ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui
differentiae nomine in eiusdem usus est definitione, est autem communis
et uaga nec includens substantiales differentias, sed quaslibet etiam accidentes
hoc modo : differentia est qua a se differunt singula; quae enim genere eadem
sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis
genere, quoniam utraque sunt animalia, differunt tamen differentia
rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt
mortalitate, rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis
ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur, quodsi
Socrates sedeat, Plato uero ambulet, erit differentia ambulatio uel
sessio, quae substantialis non est. namque istam quoque dif- ferentiam
definitio uidetur includere, cum dicit : differentia est qua differunt singula;
quocumque enim Socrates a Platone distiterit nullo autem alio distare nisi
accidentibus potest —, id erit differentia secundum superioris terminum
definitionis, quam rem scilicet uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum
communemque finem reprehendentes certae con- clusionis terminum
subiecerunt. 2 nesciatur Lm2 (non noscitur m1) P
definitione] in definitione N 3 qui] LN quomodo CEGPR
qui * (d er.) H possemus EG possi- mus
R 4 ita om. EGR cognitionem NPm2, post
agnitionem add. a cogitatione Hm1, del. m2, s. l. uel
cognitione m2, del. m. al. set om. EG 7
accidentales Lm2Pm2 9 sunt EGHLm1R in om.
GNR 11 et om. EGR rationabilitate CGLm1
rationale N sunt CEGLm1R 12 positi] post EG post
differunt add. tamen L rationabile L 13
est om. C 15 ambulatio uel om. EG, s. l. Lm2 16
nam HLm1 ista E 18 quo EGHm1 post
differunt add. a se R cumque EG
quoque Rm1 quocumque modo P post enim s. l.
modo Lm2 19 de- stiterit CEm1HPRm2 distauerit m1
post alio s. l. modo Em2 ac- cidentibus] ex
accidentibus P Interius autem perscrutantes de differentia
dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere diuidentium esse
differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars
est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit homi- nis differentia,
etsi proprium sit hominis, dicimus enim ‘animalium haec quidem apta nata sunt
ad naui- gandum, illa uero minime’, diuidentes ab aliis, sed aptum natum esse
ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed aptitudo
quae- dam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae
specificae dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae
quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est acci-
piuntur. — Et de differentiis quidem ista sufficiunt. Sensus
propositionis huiusmodi est. quoniam superius dixit determinasse quosdam
differentiam esse qua a se singula dis- p. 90 creparent, ait alios
diligentius de differentia | perscrutantes non 1—15] Porph. p. 12, 1-11
(Boeth. p. 38, 6—17). 1 perscrutantes] EGHP perscrutantes et
speculantes cett.; Porph. p. 12, 1
προσεξεργοζόμενοι de differentia] CH (linea del., sed lin.
er.) Σ differentiam cett. edd. Busse; Porph. p. 12,
1 τά περί τής διαφοράς 2 non] non solum R , quodlibet]
quod habet ELm1 h m1 X , post quod- libet er.
habet 23 diuidentium esse om. X , s. l.
Lm2 sed quod— dicuntur differentiae (12) ] LR Q , om.
cett. 5 aptum] actu R natum om. LR; Porph. p. 12,
4 τδ πεφοχέναι πλεΐν 6 dicimus] Porph. p. 12,
5 εΐποιμεν γάρ dv , unde dicemus coni. Brandt, cf.
supra p. 230, 18. 19; infra 12 erunt ειεν άν ; p. 234,
16. (erit). 17. 235, 2 (erunt) 7 ani- malia A
acta Rm1 nata om. LR 8 aliis] illis A 9
actum Rm1 natum om. R est R erit h
m2 10 neque Busse 11 est om. R quoniam om.
LR 12 quae om. Φ igitur] ergo L 13
alteram— quaecumque om. H 14 et] ea EG quale in
er. quid ut uid. Hm2 quid EG post est add.
esse EG accipiunt EG 15 Et—sufficiunt om. N
Et om. CEGP; Porph. 12,11 Καί de om. EG A
diffe- rentiis] Porph. περί μίν διαφοράς quidem
om. H sufficiant CL X m2; Porph.
άρχει 18 alios] ilico EGLa.c. ilico alios P
de differentia] differentiam CLm1P fuisse arbitratos recte
esse superius propositam definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem
posita genere dif- ferre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id
est specificae, numerari queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt
species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment,
quia non uidentur esse differentiae speci- ficae nisi illae tantum quae ad id
quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur, hae
autem sunt ut rationale hominis, nam et substantiam hominis conformat et
ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod
est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia
nullo modo poterit nuncupari, quid est autem esse rei? nihil est aliud nisi
definitio, uni cuique enim rei interrogatae ‘quid est?’ si quis quod est
esse monstrare uoluierit, definitionem dicit, ergo si qua definitionis
pars fuerit, eius erit pars quae unius cuiusque rei quid esse sit designet,
definitio est quidem quae quid una quaeque res 1 positam EG 2
posita] posita sunt EGL post genere add. quae Lm1, del.
m2 3 differentiae—id est om. CN hae om. H id
est om. R, er. uid. H, s. l. Lm2 4 nominari HLm2NR 5 earum
H 6 quia] quae CH specificae ante esse H,
post N 7 proficiant R et quae] eaeque G eae quae
Em1, del. m2, etiam proxima in—ponuntur del. m2 8 in del.
Lm2, om. P diffinitiones N definitionibus EGLm1
aliqua N partes EGLP post ponuntur add. ut
mortalis rationalis Em1, del. m2 hae] ea EGLm2P 9
et s. l. Lm2 et ad G con- format—hominis om.
EG 11 conducat EHm2Lm2N et eius—pars sit] N et
eius quod ( add. quid Rm1, del. m2 , quidem ex quid Hm2
, del. m3 ) est esse rei pars sit (est Hm1) HR et eius rei
quod est (est del. Lm2 ) esse pars est (est om. Lm1, s. l.
sit m2) CL et eius quod quidem esse rei pars est P eius
rei quod quidem (aliquid add. E) EG 13 esse om. G, ante
autem H nihil del. Em2 est s. l. Lm2Rm2
esse E (del. m2) G unius cuiusque R 14 interrogatae] ad
inter- rogationem CHN quis] quid Lm2 quod] id
quod CHNP 15 qua] quid CHN 16 post
eius s. l. rei Lm2 quae] quod HLm1N quid]
quod N sit esse L esse fit G est esse
Hm1N 17 designat Lm2P significet Hm1N est quidem] enim
est HN quae quid] quia N sit, ostendit ac
profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis
adsignationem. illae uero differentiae quae non ad substantiam conducunt, sed
quoddam quasi extrin- secus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet
sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis
atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus
est ad nauigandum, equus uero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem
genere animalis, addita differentia ‘aptum esse ad nauigandum’ equum distinxit
ab homine, sed aptum esse ad nauigandum non est huiusmodi, quale quod
possit hominis formare substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem
monstrat et ad faciendum aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo
speci- fica differentia esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia
quae sub eodem genere positas species distribuit, spe- cifica esse
possit, sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte
definitionis accipitur, concludit igitur esse specificas differentias quae
alteras a se species faciunt per differentias substantiales, nam si uni cuique
id est esse quodcumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae
substantialiter diuersae sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia
faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in defini- tionis parte sumuntur,
nam si definitio substantiam monstrat 1 ostendit om. E
ostenditur N ac er. E, om. N profert om. N
demonstratque CLm1 quid] quod Lm1Pm1R quidem quid
N 2 per om. EGR, in mg. Lm2 assignatione EG 3 ad
om. EΡ quasi om. EGPR 5 faciant om. EG
facient CLm1Rm1 7 homo enim (autem LR )—equus]
HLNR hominem equum (cet, om.) CEGP 10 esse ad—sed
tantum (11) om. EG 11 quale om. EGR, del. Lm2 ante quod
(quid P ) add. per L (del. m2), s. l. Pm2
post substantiam add. sicut rationale quae est substantialis
qualitas C 12 habitudinem Hm1 13 opportunitatem
CR differentia specifica C 18 ante esse
add. eas HΝΡ, s. l. Lm2 quae—differentias om. EGR
ad faciunt s. l. 1 informant Lm2 19
differentias ex distantias Lm2 idem est ( in ras.
m2 ) esse H idem esse est R 21 sint Hm1
omnes EGP 22 substantias P substantiae Hm1
substantiae ratione N et substantiales differentiae species
efficiunt, substantiales dif- ferentiae erunt partes definitionum.
Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et id quod soli alicui
speciei accidit, etsi non omni, ut ho- mini medicum esse uel geometrem, et quod
omni accidit, etsi non soli, quemadmodum homini esse bipedem, et quod soli et
omni et aliquando, ut homini in senectute canescere, quartum uero, in quo
concur- rit et soli et omni et semper, quemadmodum homini esse risibile,
nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile dicitur, non quod iam rideat, sed quod
aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale et equo hinnibile, haec autem
proprie propria perhibent esse, 3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22 (Boeth.
p. 38, 18—39, 9). 1 et om. EG, s. l. Pm2 2 erunt
post partes Lm2 sunt m1 sunt post
definitionum CGR, s. l. Em2 3 DE PROPRIO om. H, add.
Lm2 EXPLICIT DE DIFFEREN. (DIFFERENTIIS Ψ ) INCIPIT DE PRO-
PRIO 2<F 4 et s. l. C 5 hominem R h m1 A
6 uelut H geo- metram CEm1G edd. Busse et quod—perhibent
esse (14) ] LR ( locum hic om., p. 277, 7
post adest inserit ) Ω , om. cett. omni]
Porph. p. 12, 14 παντί—τφ εϊδει 7 etsij et
R T m1 ante homini add. et R 8
homini] Porph. p. 12, 16 όνΟ-ρώπψ παντί , unde
homini omni coni. Busse 9 post uero add.
est Φ in quo concurrit et del., in mg. conuenit T
m2 10 hominem R Σ 11 risibilem R ΓΣΦ ; Porph. p.
12, 17 ώς τψ άνθρώπψ τό γελαστιχόν non semper rideat] L
Σ non rideat ΓΑ non ridet ( hic ut uid. s. l.
semper add., sed er. \ ) R AIIΨΨ semper non rideat
Busse non rideat semper edd.; Porph. p. 12, 18 χαν γάρ μή
γελά αεί risibile tamen L Λ edd. Busse; Porph.
άλλα γελαστιχο'ν 12 iam] semper Σ edd.; Porph. p.
12, 19 άεί , cod. Mm2 ί)Bη rideat—natus
sit om. Φ 13 sit natus R, add. ad
ridendum R ΓΑ ridere Σ , ante sed
add. ridendum Φ ; om. Porph. semper ei est
naturale L semper est ei naturale Γ ei semper naturale
est Σ ante et add. ut (om. etiam B Bussii)
edd. Busse ; Porph. p. 12, 20 ώς , om. cod. A 14
autem] Porph. 81 xai , om. xai
cod. A proprie—esse] L Λ (esse s. l. m2 )
Σ (esse om. ), proprie domi- nanterque (nominantur T m2 )
propria perhibentur (perhibentur del. Γ m2 ) ΓΦ
proprie nominantur (nominant Π ) propria R ΔΙΙ uere dicuntur
propria Ψ ; Porph. χυρίως ΐßιά φασιν
quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid
hinnibile, equus. Superius dictum est omnia propria ex accidentium
genere descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam
informat aut secundum accidens inest. nihil uero est quod cuiuslibet rei
substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et
differentia speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in
accidentium numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam
differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore p. 91 atque
antiquiore nomine accidentia nun|cupantur. et de acci- dentibus paulo post,
nunc de propriis, quae quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod
proprium in quattuor species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait
diuidunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret ‘nuncupant’, id est
propria quadrifariam dicunt, cuius quadrifariae appellationis significationes
enumerat, ut quae sit conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat,
dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo
coaequetur ei, sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur pro-
prium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse ani- 3 superius
eqs.] fort. p. 186, 12—187, 1. 1 enim equus om. N
equus—equus] CEGHNP U ( sed add. et si homo, risibile, si
risibile, homo est] cum Porph. p. 12, 21, post pr. equus
add. et R A est et L est etiam est et
(sic) Φ equus est et hinnibile est (est s. l.
F\ m2 ) et quicquid hinnibile equus est ΓΔ est equus est
hinni- bile et quicquid est hinnibile est equus ( quattuor est s.
l. m2 ) Ψ equus est hinnibile et quicquid hinnibile est equus est
et si homo est risibile est et risibile homo est 2 4 alio
N 6 ante species add. et Lm1, del. m2
7 et om. R genus—diiferentia om. EGR, s. l. Hm2
11 ante antiquiore add. in ER 12 nunc
ex nam Hm2 quadrifarie N in quadrifariam
(-um GP ) EGP diuidunt H (ur er. )
P (ur del. m2 ) 13 aliquid CPm1 14 ait om.
E ( in mg. dicitur m2 ) G est R
diuiduntur EG 15 nuncu- pantur EGR 16 proprie
CEm1G propriam ut uid. Pm1 propriam m2
dicuntur EGHm1La.c.NR quadrifariam C 18 proprietas
Ea.c. (proprii p.c. ) G dicitur CEHLa.c. (corr.
m1 et 2) P ergo om. C proprium s. l. Cm2
primum m1 20 ei ante nullo HN ac] et
HNP dicimus HN malium potest, nec illud adtendimus, an hoc de
omni homine praedicari possit, sed illud tantum, quod de nullo alio nisi de
homine dici potest medicum esse, et haec quidem signifi- catio proprii dicitur
inesse soli, etsi non omni; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur,
ut medicina soli quidem inest homini, sed non omnibus hominibus ad scientiam
ad- est. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli;
quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat, et
quoniam quidem nihil est sublectae speciei quod illo proprio non utatur,
dicimus omni, quoniam uero transcendit in alias, dicimus non soli : hoc
huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim homini esse bipedem,
omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes sunt, geminae
igitur significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid
minus, prima quidem quia non omni, secunda uero quia non soli, quas si
iungimus, facimus omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si ei
adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli, sed
aliquando’, ut est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere;
omni enim homini adest in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli,
pubescere enim solius hominis est, sed ali- 1 hoc om. EG
homini EN 2 quod] quia HN nisi de homine
post esse N 3 medicus Hm1N 4 inesse] CP, s.
l. Hm2Lm2, om. EGR inest N etiamsi
Em2 (et m1 ) Hm1LR 5 etiamsi EHm1L ( repet,
post inest) PR coaequetur Em2Hm1 ante medicina
add. homini H (del. m2) LNR 6 homini
om. NR, s. l. Hm2 adest] adesse potest CLN potest
esse H; de R cf. ad p. 275, 6 7 est ante aliud
HN, post CG, om. E 8 etiamsi HLNR quid
HN 10 quod illo—non soli in inf. mg. Em2 post
dicimus add. enim C 11 aliis Em2G 12 hoc]
id N post quale add. est s. l. Hm2,
post homini CG 13 hominis R, post homini
add. proprium Em2 enim in mg. Em2 14
etiamsi—geminae om. EGR 17 sed Hm2 si
m1 demimus] HN deminus Cm1 i demimus
ί deest minus m2 dempsimus R dedimus
Em1 (addimus m2 ) G deest minus LP 18
eis HLP ei post adiciatur N 19 omni et
soli] et soli et omni C sed] si G 21 post. in] et
in HN 22 est hominis HN quando, neque enim omni
tempore, sed in sola tantum iuuen- tute. haec igitur determinatio proprii in eo
quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est, sed ex eo minuit aliquid uel
contrahit, cum dicimus aliquando, quod si auferamus, fit pro- prii integra
simplexque significatio hoc modo : proprium est quod omni et soli et
semper adest, omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut homini
risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper.
neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non
enim ridere est proprium hominis, sed esse risibile, quod non in actu,
sed in potestate consistit, ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse
soli et omni homini semper adesse dicitur, conuenienter proprium nuncupatur,
nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur.
Quattuor igitur significationes proprii dixit, nam prima quidem,
quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non
omni, ut homini medicina; secunda uero, 1 in om. EGR, s. l. L,
post tantnm P tamen L post iunentnte add.
pubescit N 2 post proprii add. integra
simplexque significatio GHP (del. m1? ex 5) in eo—fit proprii
(4) om. R modo om. N, del. Lm2 3 inest om.
EG est Lm1 minus La.c. minui N
minuens P aliquid uel] atque significationem in ras.
Em2 uel] CNP et GL, om. ΕH 4 quod] quam
N 5 simplexque] et simplex HLNR proprii R 6 soli
et omni N secund. et om. GLR, s. l. Pm2
omni autem—intellegendum est om. Rbrm 7 et semper om. EGR,
del. Lm2, s. l. Hm2Pm2 intellegendum est del. et s. l.
adest scr. Hm2, in mg. quod soli et omni adest m. al. 8
post. et om. EGPR post semper add.
similiter et equus hinnibile brm 9 illud Hm2 enim
Hm1N 10 proprium est NPR sed] si est R esse
del. Lm2 est R 11 sed] si R 12 si non rideat
etiam C quia om. N, s. l. Hm2 tamen om. R
autem HN possit La.c.N potest Em2 post
omni add. adsit H (del. m2) adest N
13 ante semper s. l. et Hm2 semper om. R
ante conuenienter add. et H (er.) L (del. m2) NP
14 si] etsi Hm1Lm1N separetur Em2 a C 15
proprii om. EG nam prima] unam CHm1 (primam m2) N
nam (s. l.) primam P 17 homini medicina] hominem esse
medicum C secundam CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni
accidit etsi non soli ut homini esse bipedem add. L uero]
autem CL (in mg.) cum soli quidem non adest, omni uero semper
adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali-
quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et
semper adest, ut esse risibile, atque ideo cetera quidem conuerti non
possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species
quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est,
potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita
est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie
praedicari potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine
potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli,
sed aliquando adsit, quoniam de tem- pore habet aliquid deminutum nec
simpliciter semper adest, reciprocari non poterit, possumus enim dicere
‘omnis qui pubescit homo est’, non ‘omnis homo pubescit’: potest enim minime ad
iuuentutem uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere
hominis proprium, sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in
iuuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc
fieri possit, cum praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute
consistit, atque ideo hoc 1 cum] quae N soli—adiungitur
del. Hm2 omni accidit etsi non soli CHm2L semper s. l.
Hm2 2 hominem C tertiam CHN soli et omni
N 3 omnio m. LNR homini om. N quartam CG
(sic) HN 4 post. et om. EG, add. Pm2 inest
CHm1N ideo om. E adeo HLR 5 coaequantur
HN 6 quodj quia cum Hm1N non omni sed soli N sed]
si R 7 qui enim—dici homo om. EGR 8 homo dici
C 9 ad alii s. l. a t illud L, post
add. una pars R 11 de homine praedicari C 13 adest
ex est Em2 distat Hm1 assit ex
sit Hm2 14 diminutum EN nec] et Hm1 16 non]
non tamen dicimus L homo] qui est homo L qui homo est
(qui et est s. l. m2) H 18 ante sed
add. solummodo Hm2, ante in CN, post post.
pubescere L aut] Hm2La.c.Pm2 ut
EGHm1Lp.c.Pm1R autem CN 19 cum] Hm1NR quod
CEGHm2LP etiam s. l. Hm2 iam Em1 20 sit] adsit
CHN ei om. G fieri om. C, in ras. Lm2 fieri
possit del., est s. l. scr. Hm2 potest
L (in ras. m2) P est C 21 post
quale add. tunc fieri potest (posset CHLm1N) CH (s. l. m2)
LNP quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut
omni p. 92 speciei adsit, quod ta|men in tempus aliquod differatur,
integrum atque absolutum proprium esse non dicitur, quartum est quod ita alicui
adest, ut et solam teneat speciem et omni adsit et absolutum sit a temporis
condicione, ut risibile quod a supe- riore plurimum distat; nam qui
risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest in iuuentute pubescere,
cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper ut in iuuentute pubescat,
haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione
constringitur, absoluta est atque ideo etiam conuertitur et de se inuicem
proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile
homo. Accidens uero est quod adest et abest praeter sub-
iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa- bile et in
inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur
autem sic quoque; accidens est 13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8
(Boeth. p. 39, 10—21). 1 quod] quia HN 2 speciei]
tempori EGR aliquid C 4 alicui om. EG, del.
Hm2 ali R alii Lm1 pr. et om. EGLR
post. et] ut La.c.R 5 post. a s. l.
Hm2 6 qui ex quod Lm2 7 ante
cum add. sed CH (del. m2) NP, s. l. Lm2 8 adest]
est EGR in iuuentute deleri uult Hilgard 9 quoniam]
quam EGLm2P 10 definitio ( uel difd–) EGLm2R
constringit EG 11 et de se] et ideo de se P de se
om. R De specie EG 12 risibile C et om.
EGHR 13 inscript. om. HL K ACCIDENTE ΝR ΔΣ
14 uero om. A 15 diuiditur—sub- sistens (p. 281,
3) ] LR Q , om. cett. duobus L 16 in om.
Φ nam A Busse 19 amittens colorem] A
m1 T" nitens colore c ett. edd. Busse; Porph. p. 13,
2 άποβαλών τήν χροιάν; cf. supra p. 101, 13
corruptionem subiecti LR ϋίΓΦ ; codd. Porph. φθοράς
aut ante τοΰ υποκειμένου aut post;
cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8 20 definitur] Porph. p. 13,
3 ορίζονται quod contingit eidem esse et non esse, uel
quod neque genus neque differentia neque species neque pro- prium, semper autem
est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis quae
proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio, acci-
denti, dicendum est quae eis communia adsint et quae propria. Quouiam, ut
superius dictum est, quae de aliquo praedi- cantur, uel substantialiter uel
accidentaliter dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius
de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora
atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae
substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur
quorum naturam substantiamque formabant, quae cum ita sint, necesse est
ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et
abesse possint praeter subiecti corruptionem, ea enim tan- tum cum absunt
subiectum corrumpere poterunt, quae effi- ciunt atque conformant quae sunt
substantialia, quae uero 8 superius] p. 276, 4. 1 contigit -
R A ante pr. esse add. et R, s. l. \ m2; om.
Porph. p. 13, 4 post. et] uel L ( post
uel littera er. ) edd.; Porph. η , codd. CM
nat 2 post genus s. l. est A m2 neque
species neque differentia ΔΔΣ edd. Busse; Porph.
οοτε διαφορά οϋτε είδος post proprium add.
sit LR 3 consistens Λ 4 praeposita Δ m1 5
dico—accidenti om. Γ propria Φ proprio et L
ΔΑΣ accidente H et accidenti L A m2 (et
accidente m1 ) ΛΣ de accidenti EG 6 eis]
his CHP hiis Φ uel his R , om. EG;
Porph. p. 13, 7 αΰτοϊς adsint] sint R
sunt L Λ m1 ηιΙΧΣ ; Porph. πρδσεοτιν et om.
G 7 post propria add. EXPLICIT DE GENERE SPECIE
DIF- FERENTIA PROPRIO ACCIDENTE Σ 8 ut om. EG
alio CEGR 9 accidentialiter CP accidenter HR
dicuntur] praedicantur R cum EG 11 definitione
EG maiora atque antiquiora C 12 quod] quia R
substantialiter CN efficitur CHm2LN 13 cumque N
, post cum s. l. accidenter E
intireunt P 15 an informabant? acci- dentaliter
Lm2 16 et om. EGR, s. l. Lm2 abesse et adesse H
17 possunt N tantum enim C 18 perrumpere E
potuerunt LR 19 informant HN non efficiunt
substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt uel absunt, nec informant substantiam
nec corrumpunt, est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti
corruptionem, id autem diuiditur in duas partes, accidentis enim aliud est
separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire, sedere,
inseparabile uero ut Aethiopi atque coruo color niger. in qua re talis oritur
dubitatio. ita enim est definitum : accidens est quod adesse et abesse possit praeter
subiecti corruptionem. idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod
si inseparabile est, abesse non poterit, frustra igitur positum est
accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a
subiecto non ualeant separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant,
mente et cogitatione sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a
subiectis non ea perimunt, sed in sua substantia permanent atque per-
durant, accidentes esse intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger
auferri non potest, animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color
albus Aethiopi, num idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus,
si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen auis nec interit
species, ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo
intellegendum est. alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non
possunt, si animo et cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine
rationabilitatem auferamus 1 cum—absunt] uel cum adsunt uel cum
absunt H uel cum absunt uel cum adsunt N cum uel
(uel s. l. m2 ) absunt uel adsunt L; ante assunt (sic)
add. uel P 3 ante adest add. et
P 4 dinidunt EGLR accidens edd. aliud est
enim H 5 ante dormire add. ut
brm 6 ut om. HR edd. 7 dubietas CEG (recte?)
post. est add. Hm2 8 et] uel N potest
CL 9 dicit EG 11 abesse-et adesse E 12 ab
CRm1 14 animi] hac C 15 eas EGN permaneant
G ac R 16 acciden- ter CG intellegantur Em1
igitur] enim HN 17 eum om. G, ante separemus C ,
uero E atque] et HLNPR 18 num ex non
Rm2 19 consumptae (consumpta R ) sunt EGLR edd.
ita CEP 20 imagine EGR 21 interiit Lm1PR pr. et
om. EGR, s. l. Lm2 22 et om. CEG 23 si] saepe
Hm1LNP 2t rationalitatem P — quam licet actu separare
non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus —, statim perit hominis
species, quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione
species manet. Est alia quoque accidentis defi- ni|tio ceterorum omnium
priuatione, ut id dicatur esse acci- p. 93 dens quod neque genus
sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga
est ualdeque communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species
neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species ac
differentia et proprium, cum autem eadem simili- tudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam
aliarum rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id
est genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum
terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac-
tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de
quibus superius disputatum est, quas uero com- muniones, mediocri
consideratione demonstret, ut non solum 1 separari EG
possimus EL post tamen add. si L, s. l.
Hm2Pm2 2 imaginatione] cogitatione N statimque C
(q. er. ) H (q. del. m2) N periit PR
3 item CHm1 sit EN (ut uid.) sublata EGR
enim s. l. Cm2 accidenti om. EGR, post cogitatione
N 4 ante cogitatione er. et C
quoque om. EGP (sic) accidentis om. C, post definitio
R 5 ad priuatione s. l. quae fit per
priuantiam Em2 id om. EG dicat EGR 6 fit
C neque differentia neque proprium LNR 8 enim om. NR
nec ( ante differentia) CH 9 neque NR sit om.
L, post accidens R neque N 10
proprio HPm1 11 plurima L queunt EGLm1R
termino Ep.c.R et om. EGR 12 ab LR ac
G 13 negatione rerum E 14 demonstret N 15
post genere add. quidem CP 16 ante
proprio add. et H ante quantum add.
et PR, s. l. Lm2 17 post breuitas repet.
expeditis PR, s. l. Em2 pertractanda om. C
retractanda HNP 18 ante quas s. l.
quia Em2 19 de quibus om. E disputandum G
quas nero] quasue CL quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum
inter se compa- rentur, appareat. 1 quid] H, m2 in CLP
quod NPm1 quae Cm1EGLm1R compa- rantur E 2
ANICII MALLII SEVERINI BOETII ( BOETI E) V. C.ET I LL .
(EXINI sic E ) EXCONS. ORDINAR. PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII (
Y ex I Gm2) ID EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE
TRANSLA. (sic EG) EDITIONIS SECVNDAE LIBER IIII. EXPL. (
EXPLICIT’ E) . INCIPIT LIBER V. EG ; EXPLICIT LIBER (
LIBER om. C) QVARTVS. INCIPIT LIBER ( LIBER om.
HN) QVINTVS CHLNP, add. DE COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC.
ACCID. ET PROPI N ; EXPLICIT LIBER QVARTVS R
Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius cuiusque
consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc iam non de
singulorum natura, id est uel generis uel differentiae uel speciei uel
proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione pertractat, nam qui
communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae
considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel
similitudine, dum communitates sectatur, uel dissimilitudine, dum
differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter
planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his
communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et
accidenti. Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-
15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16). 3
cuiuscumqne C considerationem Ea.r.G 4 id est om.
N, add. Rm2 5 pr . uel om. P secund. uel]
et P 6 nam quia R namque Hm1N 7 sunt. om.
C 8 ille GLNP, post illae s. l. sint Cm2
ut om. R ad s. l. LRm2 post alias add. qualiter
CHPR, s. l. Lm2 comparantur EGHm2, recte? cf.p. 284, 1 post
autem s. l. fit Cm2L, in mg. Em2, post
duplici s. l. Pm2 9 dum—dum om. EG sectatur]
retractat R retractantur L (n del., s. l. a
i sectatur] P 10 differentiae La.c.P uel
differentia EG 11 ad adhuc s. l. id est
(uel G ) hac tenus EGm2 12 his] his omnibus R
communibus EGR 13 utrumque et om.
EGLR uel om. R et NP 14 et] uel EGL
atque R 15 ante Commune add. inscriptionem
DE COMMVNIBVS GENERIS (ET add. ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE
PROPRII ET ACCIDENTIS ΛΠ Busse, N in subscript.
libri IV cum alio ordine uerborum, DE HIS (HIIS Φ ) COMMVNIBVS QVAE
ASSVNT (sunt A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI om. T )
ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et
differentiae A ) ΓΑ (litt. minusc.) Φ ,
INCIP. DE EORV COMVNIBVS 2 DE COMMVNITATIB; OMNIVM. *i'
, inscript. om. CEGHLPR cari, sed genus quidem de
speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae
sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et
de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de
indi- uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur,
quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua,
inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par-
ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares
praedicatur, proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt
particu- lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt
particulares, quod est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo,
quod est accidens separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis,
secundum posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua.
Antequam singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius
respicit quam omnes ad se inuicem habere uide- 1 sed—separabile
(16) om. HNP post. de om. R 2 autem] quidem Δ
hiis Φ , item 4 3 post indiuiduis s.
l. praedicatur Em2 at uero —separabile (16) om.
CEG at uero—indiuiduis (5) om. Σ · 4 de his
om.R 5 post. de om. R 6 bubus Lm1 A
bobis R, ante add. de L T de bobus Busse et
canibus cum Porph. p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio 7
praedicatur post species R pr. (sic) de om. R 8
inrationabile L et om. Porph. p. 13, 15; ante et
add. similiter R 9 de om. R bubus RLm1
A praedicatur s. l. \ m2 (dicitur m1
), post particulares Λ2 quae L TA 10
quae R ΓΑ 11 particularia R, add. homines L 4ΛΦ
; om. Porph. p. 13, 16 proprium—particulares (12)
om. R quod est] otov Porph. p. 13, 17
12 pr. et om. L ΆΣ Busse (casu ut
uid., cf. eius adnot. ad Porph. p. 13, 17 v-ai ),
add. \ m2 13 pr. et om. Busse; Porph. p.
13, 18 τοΰ τε εΐδοος 14 qui] quae R 15 de
homine—equo post separabile R 16 sed om.
Π Σ post principaliter add. accidens
praedicatur Φ , s. l. accidens Lm2 17
secundum—rationem] secundo uero (cet. om.) N ΛΣΦ ;
secundo etiam T m1 ; uero post secundum
C posteriore E ratione E orationem Λ
ante de add. et edd. cum Porph. p. 13, 21
18 post indiuidua add. speciebus N Σ 20
uidentur RG antur. haec est autem una communio quae
pro|positarum p. 94 quinque rerum numerum pluralitate praedicationis
includit; omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta
communicant, nam et genus de pluribus praedicatur, itemque species ac
differentia et proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque
indiscreta communio de pluribus praedicari, disgregat autem ipsam de pluribus
praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum
de quibus pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus quidem de
pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal
praedicatur de homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt
atque sub equo, item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure.
quoniam enim species differentiae informant, cum genus de speciebus
praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam
formamque efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non
de una, sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et
rursus quod inrationabile est, esse animal, ita genus de spe- ciebus ac
differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia
uero de speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et
de equo praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis
sunt indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali praedicatur,
praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur,
praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum HN
5 post. et] atque R 7 autem] ut est E 8
quod] ut Em2P et quod La.c. et ut p.c.,
ante quod s. l. in eo Hm2 praepositorum
HN 9 ostendat ELm2P 10 id est om. HNR, er. G 11 atque]
et CL equo ac de om. EG ac] atque CL
et R 12 de om. L, s. l. Cm2 qui EGP post.
sub om. LNP 14 enim del. E 15 praedicatur
HN 16 perliciunt HNP 18 rationale EGHNP 19 quod
om. R, in ras. E, quoniam GLm1 inrationale HNP
est om. R 21 differentiae... dicuntur R 22 inrationale (
uel irr-) Em2 (rationabile m1) HLm2NP 23 bouej de
boue N et de] deque EG 25 et ante
praedicatur C 26 praedicatur C etiam om. EN
iectis. species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim
fieri potest, ut quae species est ultima quaeque uere species ac magis species
nuncupatur, haec alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem
indiuidua restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur,
ut homo de Socrate, Platone, Cicerone et ceteris, proprium item de specie
praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio
diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur,
eiusdem pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie
dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de
indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero
risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum
specierum indi- uiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic
cor- uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis
qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo
magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui —
uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue
indiuidua, moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore Por-
phyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in
quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum
referuntur, atque ita praedicatio 1 praedicabitur CLP 3
uero C 5 praedicatur Cm1EGLRm2 7 esse E 8
nisi HPR, ex si CLm2 aliquo CHP ante
diceretur add. non R, s. l. Lm2 9 pr.
et om. EGHN secund. et om. G tert. et om. EG,
del. Lm2, s. l. Pm2; ad et—semper cf. p. 275,10 12 etiam]
autem HPm1 13 Plato] et piato N et om. CEG
risibiles CH et om. EGLP 14 pluribus om. CN
dicitur om. H, post indiuiduis s. l. scil,
praedicatur m2 specierum om. HN 15 dicuntur in
ras. Hm2 dicitur GNR niger NR
et om. EGHN 16 et om. EG post nigri
add. autem R, s. l. Lm2 19 et om. EG 20 et
om. CEGP 21 mouere Ea.c.Gm2 actore
Ea.c.R 23 post dicuntur add. nam non subsistunt praeter
haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis R
24 post uniuersalia add. ad speciem G
superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur
adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis
inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam
speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum uideri potest, cur
genus de proprio praedicari non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec
differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis,
differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis,
proprium de specie atque indiuiduis, accidens de speciebus atque
indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de
cunctis minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur,
eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci-
dentibus praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est, animal est’,
genus de differentia, ‘quod homo est, animal est’, genus de specie, ‘quod
risibile est, animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum
uel Aethiopem demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus,
rursus ‘quod homo est, rationale est’, differentia de specie, 1
superiorum] E ( s. l. id est specierum) GP
superioribus cett. sub- teriorura superioribus brm
ut—dicitur om. EG 2 post coruo s. l.
speciali Lm2 3 nigredinis accidentis C infecit
HLm1 eam] eamdem Lm2Pm2 (it eadem m1 ) eadem EG
eo Rm1 ea m2 de om. P 4 ipsum specie
EGPRm2 post ipsam add. scilicet C nigram
C 5 omnibus s. l. Cm2 6 utroque loco neque
R 7 differentias R 8 atque Rbrm et de
p differentiis] indiuiduis pr cum p. 286, 1, differentiis <atque
indiuiduis> coni. Brandt; cf. p. 287,12—21 differentias
HLPR 9 proprium de specie atque indiuiduis om. H 11 maiores
praedicationes EGR sunt Ca.c. (ras. i ex
u) Pm2R ea s. l. L eadem C eaedem (
om. de G ) eae Pm1 hae ER cunctis]
dictis EGR 12 et om. EG conuertuntur ]
Em1GLm1Rm2 (conuertentur m1 ) conuertantur CEm2HL
m2NP ad eoque s. l. i ideo G
fit] quale sit EG 13 pr. de] et de HNP
secund. de om. R et de HLNP tert. de
om. E et HNPR et de L quart. de]
et NP et de HL atque R 14 praedicatur
EG rationabile CEGLm1NR 15 animal est] sit animal E (
ad sit s. l. pro est) GLR de s. l. EGm2L
post differentia add. praedicatur GP (del. m1?),
s. l. Lm2, s. l. praedicari Em2 16 eat genus om.
G 18 accidente R 19 rationabile Em1G post specie
add. praedicatur G ‘quod risibile est, rationale est,’
differentia de proprio, ‘quod nigrum est, rationale est’, si Aethiopem
demonstremus, dif- ferentia de accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’,
spe- p. 95 cies de proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si
Aethiopem designemus, species de accidenti, qua in re etiam ‘quod nigrum
est, risibile est’ in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti
praedicatur. conuerti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in indiuiduis
singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam
Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in
Socrate sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de
animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis
praedicetur. sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est
temporis, hoc tantum ingredi- entium intellegentia expectet, quod alia quidem
recto ordine praedicantur, alia uero obliquo, quoniam moueri hominem
rectum est, id quod mouetur hominem esse conuersa locutione proponitur, quocirca
rectam Porphyrius in omnibus propositi- onem sumpsit, quodsi quis uim
praedicationis et solutionis adtenderit in singulis praedicationibus comparans,
eas quidem 1 differentiam HR 3 accidentia G post
item add. quod rationale est homo est species de differentia Hm1,
del. m2 speciem ELm2PR, item 5 6 ut om. R,
del. ELm2 post proprium s. l. etiam Pm2,
post accidenti N, s. l. Cm2 7 praedicetur
CHLm1NPm2 ad om. N, s. l. Cm2 8 ut ex
et Hm2 in] N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur
Ca.c.EGHLNR 9 praedicatur CHLNR ante animal add.
et HN 10 ante rationalis add. et HNP,
s. l. Cm1? rationabile Lm1 ante risibilis add. et
HNPR, s. l. Cm1? Lm2 risibile Cm1EGLm1 et (s. l. m1?)
homo est post rationalis est C et om.
EG 11 praedicatur CHLm2NP 12 secund. de om.
CEGR tert. de om. R quart. de om. C ut] et
CHN 13 praedicatur CHN 14 dis- soluendum N 15
expectet idem quod spectet 16 quoniam] nam HLm2NP
moueri post hominem Cm2Pm2 17 moneatur N 18
ante proponitur s.l. non Hm2 proportionem
EL 19 uim quis EGLR uim om. Hm1, ante
adtenderit s. l. m2 praedicatae H praedictae
Lm2Pm2 et solutionis] CN solutionisque L
solutionis Gm1Hm2 (locutionis m1 ), s. l. add.
Pm2 so- lutione Gm2R solue (sic) E 20
attenderit in ras. Em2 ostenderit R prolationes
quae rectae sunt, inueniet a Porphyrio esse enu- meratas, eas uero quae
conuerso ordine praedicantur, fuisse sepositas. Commune est
autem generi et differentiae con- tinentia specierum. continet enim et
differentia species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non
continet ea quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet
homi- nem et deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de
genere ut genera, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae-
cumque de differentia praedicantur ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est
specie praedicabun- tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo
praedicantur ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub
animali speciebus 4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40,
17—41, 12). 1 esse om. GN, add. Hm2 enumeratas] N
numeratas cett. 2 prae- dicantur] proferuntur HN 3
positas Gm1Hm1 suppositas Pm2 4 de
Porph. cf. ad p. 103, 7 5 Communis Σ , m1 in EH \
est om. E Porph. (p. 13, 33) Busse, post autem N
6 continet—sunt (p. 292, 8)] LR Q , om. cett. 7 etiamsi
ΔΣ quod i m1 quas A m2R 8 enim om. R,
8. l. Δ inrationalia 2Φ , add. ut
genus codd. praeter R Σ , om. etiam Porph. p. 14,2,
delend. uid. Bussio 9 sed] tamen brm 10 deum] angelum R
angelum et deum L; Porph. cod. A θεόν , cett.
άγγελον 11 genera] Σ genus cett. Busse (sed
genera probare uid.); cf. ut genera 16. p. 293, 20 , ut
differentiae 13; Porph. p. 14,3 όσα τε ν,ατηγορεΐται
του γένους ώς γένους et] eadem in ras. A m2 12
et] Z p, s. l. A m2, om. cett.
(aliter er. T ) Busse item brm; cf. ad
13 quaecumque] Lm2R Z quaeque cett. 13 de
differentia] differentiae Lm1 A differentia R ΓΦ ;
cf. ut differentiae p. 294, 1; Porph. p. 14,4 όσα τε
τής διαφοράς ώς διαφοράς 14 ex] sub L \ et
R; Porph. έξ praedicantur Γ 15 genus sit
ΔΛΣ 16 praedicatur R ut om. edd. genera] L
Z Busse genus cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5;
Porph. p. 14,5 γένους... ώς γένους αατηγορεΐται ή
ουσία 17 sunt om. L animalis Δ omnibus
praedicantur haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis,
praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo
quod est rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus
praedicabitur ratione uti. commune autem est et perempto ge- nere uel
differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit
animal, non est equus neque homo, ita si non sit rationale, nullum erit animal
quod utatur ratione. Post eam quae cunctis adesse uisa est
communitatem, sin- gulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit, et
quoniam inter quinque proposita genus ac differentia uniuer- salioris
praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias,
differentiae uero species continent neque ab his ullo modo continentur,
primum generis ac differentiarum similitudines colligit, ac primam quidem ponit
hanc, dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species
claudant; 1 praedicatur LR ante haec add.
et s. l. Lm2, in mg. Γ , post haec Λ
haec del. \ m2 2 rationalis] codd. (etiam Bussii
LQ rational, in P uox paene tota euanuit ) rationale edd.
Busse; Porph. p. 14,7 διαφοράς τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ; cf.
infra p. 293, 14 rationalis diffe- rentia; 295, 11 sub
rationali differentia, unde rationalis nominatiuum
potius intellegas quam cum Porph. genetiuum praedicantur Φ 3
eo coni. Busse non] et non L *l> 4 autem] ΓΦ
, s. l. Km2, om. cett.; Porph. p. 14, 8 δε
5 ante sunt s. l. sub ipsa \ m2 sub
rationabili- bus h m1, del. m2 post rationali add.
animali ΠΦ , s. l. Lm2 praedi- catur ΓΔΛΣΦ
a.c.; Porph. p. 14, 9 χατηγορηθήσετοι 6 ante
ratione add. id quod est s. l. & m2 W m2
Busse id quod potest LR post com- mune s. l. illis
Γ est autem Φ ante perempto add. hoc
Λ genere] Porph. p. 14, 10 ή τοΰ γένους ,
om. η cod. Μ 8 enim] Σ , s. l.
Ψ m2 , om. cett.; Porph. p. 14,11 γάρ sit]
est CEGHP 9 ita] sic L ac b m1 \ 12 ad se]
ad esse EGP et om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2 13 generis
ac differentiae CN uniuersaliores praedicationes CEGNP
14 ante species add. et LR 15 nec
N 16 ac] et N 17 primum LNP hanc] hanc
communionem H 18 commune] hoc commune H
communionem LR ac] et CGLP concludant HN
nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia, tametsi non
tantas quot habet genus, etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non
unam tantum sub se diffe- rentiam cohercet ac retinet, plures necesse est
habeat sub se species, quam quaelibet una earum differentiarum quas
claudit, ut animal praedicatur de rationabili et inrationabili. quodsi ita est,
praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his
quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est generi et
differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam
rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non in tantum
haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal enim non de
deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae rationalis
differentia non peruenit. sed quandocumque deum supponimus animali,
secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum mundum
animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est,
appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam
quaecumque praedicantur de | genere ut genera, eadem de his quae
sub p. 96 ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem
15 quandocumque — 18 appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34.
376. 18 saepe] p. 208, 22. 259, 19. 1 habeat Lm2
differentiae EGR 2 post. genus om. EGR, post
quoniam Cm1, corr. m2 3 differentias CHm1L etiam
del. Lm2, om. N et om. EG, s. l. Lm2 tantum om. H, s. l.
Lm2 4 ante plures add. sed EGL
adhibeat R ut habeat L 5 quas om. L quam
EGHPm1R 6 rationali CHLN inrationali ( uel irt-)
HLN 7 ra- tionabili Cm1EGm2P 8 inrationabili ( uel
irr-,) CEGNP commune est, post s. l. ergo C ;
ergo om. EG, add. Pm2 10 et de deo om. EG
rationabile CEGR 11 in om. LN 12 haec om.
EG 14 rationabilis R 16 opinionem] CHNPm2
Abaelard. propositionem EGLPm1R qua EGLm1P solem]
coelum Abaelard. 17 confirmant EGLm1 confirmet
N 20 de genere praedicantur C post eadem add.
et L 21 ipso] genere H ad hanc similitudinem om.
EGR; ante ad s. l. et Pm2 quaecumque de differentia
praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut
differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura
quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum,
dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et de
his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et
substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis
quaedam differentiae inueniun- tur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut
de rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur
ratione uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere
rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et
dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime
utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed
sub ratio- nabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine
ratione uti ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo,
quia ratione utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere
praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia
praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium
commune est quod 1 ante quaecumque add. et
EGL(del. m2), er. uid. C quaeque GPR praedicantur om.
EGR, post ut differentiae H ut differentiae om. EG post
differentiae add. eadem quoque L, post de his P
(om. et), eadem s. l. Nm2 2 post sub
add. ipsa NR sunt ante sub H ut
differentiae om. H, s. l. Nm2 ut differentia EG 4
post. dicitur om. L 5 ante substantia add.
et LPm2 6 rursus ante ut GR, post L 7 antea
fuerat H ante fuerant (n s. l. m2) L fuerant ante
R 8 quae- dam s. l. Cm2 9 praedicentur Cm2
ut om. HN 11 autem habere rationem aliud uti ratione
NR. 12 ut om. H sicut N est om. H 13 sed
minime utitur om. N sed—dormiens om. EGPE, del. Lm2
ita—rationem in sup. mg. Nm2 15 sed om. EG, s. l. Pm2
16 positus est homo R esse ( om. est EGP est
ex esse Lm2 esse del. Pm2 ) praedicatur. Igitur
EGLP 17 ut om. EG, s. l. Cm2 post diffe- rentia
add. est EGP a] L, om. cett. 18 homo
ante ceteris H est igitur HLN quia] quod
CL 19 post. generum EGLm2P 20 post
his add. quoque HN 21 post Tertium
add. uero P, s. l. Lm2 quod] quia C sicut
absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de
quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium
in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit
genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc
igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species
perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum
differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem
atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas
rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia
collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae
dissimilitudine perpendit. Proprium autem generis est de
pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens;
animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis
quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin- nibile
de equo et de his qui sunt particulares, et 14—297, 2] Porph. p. 14,
13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14). 1 sicut—ita om. EG
consumptis ( post ita) Pm2 6 igitur] qui- dem E
sicut] sic GHm2LN 7 species etiam HNP 10 quae]
quia H qui ex quia Nm2 12 collocati
HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18 Et om. CEGP, del. Lm2 13
perpendet G 14 PROPRIO C PRO- PRIIS post
DIFFERENTIAE L GENERI R DE PROPRIIS EORVM
(EORVNDEM Ψ ) Ρ Ψ ; de Porph. cf. ad p. 105, 16 15
autem om ·. ΓΦ generi LNR A ; cf. infra p. 297,
15. 16 s. 299, 17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11 est ante
generis s. l. A , om . Σ , om. Porph. p.
14,14 16 ante quam add . magis L (er.)
A (del. m2) differentiae EGHLPm1R ; Porph.
p. 14, 15 ή διαφορά et species—differentia (p. 296, 21)
] LR ii , om. cett . et proprium] propriumque A 17 de
equo et (de add. \ ) homine ΔΑ 18
post uero add . uidetur ΓΦ , m1 in L ΔΑ , del.
m2; om. Porph. p. 14, 17 solis om. R 20 ante
equo add . solo edd. cum Porph. p. 14, 18 μόνον ,
fort. recte post , de om. R, s. l. Lm2 accidens similiter de
paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non
eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam
potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-
nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae
differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe-
runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae
uero non auferunt genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia
animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo
quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum
dictum est, praedicatur, amplius genus quidem unum est secundum unam
quamque speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae,
ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis
differt, et genus quidem consimile est materiae, formae uero differentia,
cum autem sint et alia communia 1 autem om . Σ
enim Lm1 4 continet genus LR; Porph. p. 14, 20 τό
γένος περιέχει 5 enim om. 2 uero A m1 est
in mq. Lm2 6 quidem genera Lm1R priora om. L 7
sub se ante sunt L, post positae R positis
ΓΛΦ , m1 in L Λ2 8 quidem om. L, ante simul
R auferunt] h m1 V aufert cett.; Porph. p. 14, 22 ( τα
γέν-r ) σοναναιρεΐ οΰτός aufe- runtur] A m1 W aufertur
cett.; Porph. p. 14, 23 σοναναιρεϊται 9 aufertur
rationale—aufernnt genus om. R 11 si] etiamsi brm cum Porph.
p. 15, 1 καν ; fort. etsi scribendum tamen om
. Σ , s. l. A m2 A m2 12 sensi- bili R
subintellegitur] Φ subintellegitur potest R
subintellegi potest cett.; Porph. p. 15, 2
επινοείται quod Δ Busse; Porph . οϋσια...ήτις ήν
τό ζψον 14 uero om. L quiddam om. R quid
edd . est om. LR TΛΦ 15 quemadmodum] sicut
LR est dictum Λ Busse 16 quidem genus hA m1
Z est unum LR 17 ante hominis add.
est edd. Busse; om. Porph. p. 15, 4 18 plures brm cum
Porph. p. 15, 5 πλείοος ; cf. infra p. 301, 21; post
plurimae add . sunt ΑΣ Busse; om. Porph. p. 15, 5
mentis 5 m2 risus m1 20 cum simile R 21
autem Cp.c . haec a.c . et om. G et propria
generis et differentiae, nunc ista suf- ficiant. | Proprium quidem
quid sit, conuenienti atque integro uoca- p. 97 bulo definitum est. sed
per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae in una quaque
re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per
se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut
risibilitas, per usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis
rationabilitas dicitur non per se proprium, quippe quod ei cum deorum est
natura commune, sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem
pecudis, quod rationale non est; id uero propter hanc causam, quoniam id
proprium unius cuiusque dicitur quod habet suum, quo igitur quis ab alio
differt, proprium eius non absurda usurpatione praedicatur, sed nunc quod
dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam cetera quattuor, id
ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod
semper <et> omni et soli adsit generi, generi enim soli adest, ut
differentia, specie, proprio, accidenti überius atque affluentius
praedicetur, sed de his differentiis, speciebus, pro- priis atque accidentibus
id dici potest quae sub quolibet 1 proprii P et] ac
EGP nunc om. Porph. p. 15, 8 suf- ficiunt Λ m1 2
; Porph . άρκείτω ταϋτα , cod. B apxet
τοααδτα 3 quidem] autem C quod R 5 in una quaque
re] CLP re om. N una quaque E una
quaeque G unam quamque HR 6 differenda
EGLm1 7 omni et soli] et soli et omni C pr.
et s. l. Lm2 post , et om. EG 10 post ei
add . quoque HNP 12 rationabile HR post uero add.
fit L , s. l. Pm2 14 aliquo Lm2 differat
Cm2Hm1N 15 nunc om. EG , post quod C 17
tale ante quale P est proprium LP post , est om.
CN 18 et add. brm adest C generi enim in
mg. Hm2 enim] uero C autem L 19 post
ut add . et H (del. m2) N et specie
HLN et proprio HLR et (atque R ) accidente
HLm1 (-ti m2 ) NR 20 affluentius] CHNPm2
fluentius Lm1 , s. l . ł lucidius m2 cluentius E
( s. l . habundantius] Pm1 licentius G
luculentius R de] e R speciebus post
differentiis pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm et propriis
CHLN 21 atque om. P genere sunt, id est differentiae
quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis
differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere
est quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis
quae sub ea specie sunt quam designatum genus includit, hoc facilius
exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub
animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere
constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero
uel bellator accidentia quae his indiuiduis accidunt quae sub speciebus
equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et
de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non
dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur
praedicatur genus quam differentia, rursus homo de Platone ac Socrate
praedicatur, animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de
ceteris inratio- nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species
praedicatur, sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cum- 1
differentiae] CNp differentias EG, m1 in HLP de (om.
HPR) dif- ferentiis m2 in HLP, Rbrm quidem om. B, ante
add . sunt C, post N genus diuidunt HN 2 speciebus
Hm2Lm2 specie Pm2brm diuisi- bilis Hm1Pm1R ( add
. est), dissimilis E ( add . est) G, ad
diuisibilibus in mg. ał quae diuisiuis Lm2, sed cf. p. 254,
12 ante generis add est ERm2, add . sunt, post
et (del. m2) P informantur CLm2 3 pro- prio m2 in
HLP (ante s. l. de add.) brm post autem add . quod est EGP
(del. m2) illi Lm1 4 diuisiuum Lm1 diuiditur ( om
. est; N accidentiaque] CEGHm1Lm1 accidentia
quoque Pm1 (de accidentibus quoque m2 ) accidentia
Rp accidensque N accidentibusque Hm2Lm2brm quae]
quod N hereat N haerent Pm2 edd . 5 sint
G 10 uelox— bellator] HNP (uel om. , et s. l. m2
), uelox uero dux uel bellator C uelox uero uel bellator dux
L uelox uero bellator dux EG ferax uerox (sic) (
s. l . equus m2 ) bellator dux R 11 accidant H
accidencia Pm1 12 et om. EGP 13 et bipede] HNP,
om. R bipede C de bipede EGLm1 et de bipede
m2 quadrupedes G 14 his om. GR, s. l. Cm2Lm2 16
ac] et P post praedicatur add . et ceteris HNP 17
hominis C (s in er. b.? m2 ) GHm1N 19
sed—praedicetur om. EG hinnibile ante proprium N,
om. LR simile H equi om. H que genus quam
species überius praedicetur, praedicatio quo- que generis proprii supergreditur
praedicationem, accidens quoque etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere
con- tractius inuenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur, ut
uelocitas in paucis animalibus inuenitur. quo fit, ut genus differentia,
specie, proprio et accidentibus amplius praedice- tur. Atque haec est una proprietas
generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet, oportet autem,
inquit, nunc eas differentias intellegere quibus diuiditur genus, non
quibus informatur, illae enim quibus informatur genus, plus quam ipsum
genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corpo- reum ultra animal tenditur,
cum sint differentiae animalis, sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae;
omnia enim superiora de inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus
praedi- cantur neque conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt
amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo
ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus
continet differentias potestate, differentia uero genus non potest
continere, animal enim rationale atque inra- tionale continet potestate; neque
enim inrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere, potestate
autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, 23
superius] p. 264, 16. 1 praedicatur Cm1R 3 inesse]
inest C ante saepe add . semper uel Hm1, del. m2
contractius genere H inneniri C 5 pr.
ut er. uid. C, om. HPm1 et LN, s. l. Pm2 6
ante differentia add . et Hm2LN ante specie add .
et HL et de N ante proprio add. et HL et
de N et om. E accidente R 8 inquit
om. N, del. Hm2 10 post informatur add . genus
C illae—informatur om. EGLR, post praedicantur (11) add .
Ipsae enim diffe- rentiae a quibus informatur genus Lm1, ante plus
quam transpos. m2 illae enim] nam illae P ante
plus add . nam GR 11 sine dubio om. HN et
om. EG 12 tendit EG ? tenduntur R sunt H 15
ab om. H 18 eodem] eo HN eodem genere C
segregetur HN 20 rationabile ELm2P atque om. EGR,
s. l. Pm2 inrationale om. EGPm1R inrationabile Lm2, s. l.
Pm2 21 inrationalitas neque rationalitas HN 22 poterunt
CHLP 23 post differentias add . proprias CL (del.
m2), ante HNP genus quidem omnes sub se habet differentias
potestate, actu uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato
enim genere perit differentia, ueluti sublato animali interimitur
rationabilitas, quod est differentia, at si rationale interimas, inrationale
animal manet, sed obici potest : quid? si utrasque differentias simul
abstulero, num poterit remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non
ex his de quibus praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam
sumit, itaque fit ut genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit,
dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam substantiamque
constituunt, quoniam enim animal animata p. 98 atque sensibilis
differentiae constijtuunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non
potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque
inrationale. unum quodque enim, ut dictum est, ex his substantiae
proprietatem sumit ex quibus efficitur, non ab his de quibus praedicatur,
amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram
earum intra se positam collocatamque con- cludit. quodsi actu quidem eas non
continet, sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim,
potestate eas continere, id erat actu non continere, genus uero, quod
quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur.
Kursus aliud est proprium generis, quod ex pro- 1 omne GR 2
alia ut EGP 4 rationalitas HN at om. EGR
rationabile CLm1R 5 inrationale om. EG
inrationabile Lm1R quod CEGLP qui R 6
post abstulero add. rationales et inrationales E num] non
EGLm1P 7 dicimus] sed dici EP de quibus—his in
mg. Hm2 8 post , ex] de P 9 itaque]
atque GR atque ita C atque ideo EP 10
post tamen add . earum P illa C ( a. in er
. ae m2 ) N quod E 11 quoniam—constituunt
in mg. inf. Em2 animati Cm2LR 12 differentia HN
differendis Pm1 haec C (c er.) EGHN
manent E 15 dictam est] diximus C 17 ante
ipsum s. l. tunc Hm2 18 neutra G neutrum
R positum collocatumque LPm1R 20 etiam] quidem E post
poterit add . genus EG post enim add . quod
est R, s. l. Pm2 21 erit Lm2R quod] quae E
23 eat om. ENR prietate praedicationis agnoscitur, omne enim genus
ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’ responderi conuenit, ut animal in
eo quod quid est de homine praedicatur, differentia uero minime, sed in eo quod
quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit, sed hoc
proprium tale est quale supe- rius diximus, non per se, sed secundum alicuius
differentiam dictum, alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod
quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam
differentia quidem in eo quod quale est, genus uero in eo quod quid est
praedicatur, generis proprium dicitur non per se, sed ad differentiae
comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem conueniet speculari;
quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune, sed
tantum hoc habeat genus ut omne genus et semper, id secundum se proprium
nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est, id non per se, sed ad
alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et diffe- rentiae
separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum
plura - enim possunt esse superiora, uelut hominis animal atque
substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —, differentiae uero
plures uni speciei 5 superius] p. 297, 9. 1 post
agnoscitur add . Omne enim genus ei proprietate cognoscitur
praedicationis P, in inf. mg. Lm2 generis E 2 quid est]
quidem E quidem quid est HN unum om. E
respondere CLR 4 sit] est HN 7 hoc ex
huic Em2 8 ac G 9 est] sit N 11 et om. EG
12 conuenit CHNP 13 generis Pm2 alii sit C
14 tamen E habeat—semper] Cm2Hm1N habeat genus et omne
genus et (et om . Lm2R ) semper Cm1Hm2Lm2R habeat omne
genus semper EG habeat genus omne semper Lm1 genus
hoc (del. m2) haheat omne genus (genus omne m2 ) et (s.
l. m2) semper P 15 se om. CN , illud Cm2
(s. l.) id H post proprium add . dicitur quod per se
proprium CHN 16 ad om. C, in mg. Hm2 17 pr .
differentia C 18 est om. HNR , s. l. E uni
R 19 proximum Cp. c . proprium a. c . ad plura in
mg. genera Lm2 , enim genera P 20 ante
animal s. l . sed genus Cm2 21 post speciei
add. semper adsunt E adesse poterunt, ut rationale
atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem genere, sed pluribus
differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est,
quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia uero formae, ita ut
illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec uero sit forma
quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque perficiat. Idcirco uero
pluribus diffe- rentiis a genere differentiam segregauit, quia haec maxime
generis quandam similitudinem contineat, quia est uniuersalis et praeter genus
inter ceteras maxima, sed cum alia plura communia pluraque propria
generis inter se ac differentiae ualeant inueniri, nunc, inquit, ista
sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere,
etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur. Genus
autem et species commune quidem ha- bent de pluribus, quemadmodum dictum est,
prae- dicari. sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit
idem et species et genus. 15—303, 3] Porph. p. 15, 9—13 (Boeth. p. 42,
15—20). 1 adesse—mortale om. EGR ut om. HN
ut homini C Hominis itaque C hominis, itaque
P 2 ante pluribus add . de Lm2 3 post
rationale add. atque edd . est om. HNR 4
quidem om. C 5 ita ut om. EGLm1 ut m2
quaedam om. EG, s. l. Lm2, ante materia P quae
om. R, s. 1. Cm1? quod Em1 6 suscipiens Lm1R 7
uero om. EGLR 8 differentias CEGHm1Pm1 9 continet
EGLPR 10 et om. N praeter] post HPm1 maxima inter
ceteras H in N cetera Lm1Pm2 edd . maximi G
maximae Pm1 12 nunc—sufficiant] HLNR (recte? an
ex p. 297, 1?) ista inquit sufficiunt GP sufficiunt inquit
ista C ista quidem sufficiunt E 14 non post
omnia E (s. l.) p, ante brm colliguntur Hm1R 15 ET
SPECIEI] SPECIEIQVE C; de Porph. cf. ad p. 102, 7 17 de
pluribus om. G 18 sumatur—prae- dicantur (p. 303, 2)] LR Q
, om. cett . autem] autem et L ΛΛΦ ; Porph. p. 15, 11
11 et om . ΓΔ sed RΣ 19 ut add
. \ m2 pr . et] L cum Porph. p. 15,12, om. codd. cett. edd.
Busse genus et species Ε Σ commune autem his est et
priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum
que. Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,
de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed
genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa
specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed
ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse
potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus
praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere
commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species,
ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra- que priora
sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si
recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus
praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum
sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent; omnium enim
specierum totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim
genus et species aduna- p. 99 tiua sunt plurimorum, quod uero
multorum adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte
dicitur totum. 16 superius] p. 290, 15 ss. 1 est
om. L priora] propria La.c. Tk a.c A m1 2 esse] est
C 5 ante genus add. et H (er.) N 6
post genus add . quidem L 8 est, sed] est ut est
H ut est N 12 secum] H (cum in ras. m2
) LR secundo CEGNPm2 (-da m1 ) de
pluribus—commune (14) post praedicantur (15) E 13
quod E 14 his commune HN 15 omne—-praedicatur
(16) in mg. Hm2 17 dicatur] praedicatur CN his] de his
G 18 etiam hoc N eorum sunt C 20 genus est
NR et] ut Hm1 21 ante species add. est CNP,
post E (in ras.) H 23 quod E re- ducuntur Ca.c.N
Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se,
species uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam
species est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis
differentiis perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul
interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est
et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem
uniuoce de speciebus praedi- cantur, species uero de generibus minime,
amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia,
species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque species
fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum. Expeditis
communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. differre
enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet species, ut animal hominem,
species 1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p. 42, 21—43, 10). 1
PROPRIO H DIFFERENTIIS C; de Porph. cf. ad p. 105, 16 2
Differunt ENR edd.; Porph. p. 15, 15 διαφέρει
post autem add . genus a specie Φ continet
quidem N 3 sub se er. uid . 5 , s. l. 2 m2,
ante species (2) ΓΦ ; Porph. p. 15, 15
περιέχει τά είδη species s. l. Gm2 continetur C A
continetur a genere Γ ; Porph . τα δέ είδη περιέχεται
et om. EG continet C ΑΦ 4 in
pluribus—differentiis (14) ] LR Q , om. cett . enim]
quidem S ; Porph. p. 15, 16 ετι τά γένη 5
ante oportet s. l . et 5 m2 et s. l . 5 m2
, hic om., sed ante perficere pos. LR h m1 (del.
m2) A ; Porph. p. 15, 17 ν.α'ι διαμορφωθ-έντα 7 sed]
si R 9 est] Porph. p. 15, 19 πάντως εστι;
exciditne omnino ? pr . et om . LR I
, s. l . A m2 ; Porph. p. 15, 19 εστι και
γένος post . et] A (del. m2) Φ
cum Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse 10 uniuoce quidem
AAS ; Porph. τά μέν γένη de speciebus] Porph. p.
15, 21 των δφ’ έοοτά ειδών 12 quidem genera L s m2 i\Y
. Busse; Porph. τά μέν γένη sunt (s. l. L)
sub ipsis LR; Porph. p. 15, 22 των όπ’ αΰτά ειδών 13
a om . ΓΦ ab A m1 , del. m2 14 fiet
post umquam C fit HN 15 neque genus
specialissimum om. H post genus add . fiet
CEGR fiet umquam ΑΑΣ fiet species L; Porph. 15,
24 ούτε τδ γένος ειδικάιτατον 16 ac] et CE 17
differt GR a HLNR 18 pr . speciem HN
uero non continet genera; neque enim homo de animali prae- dicatur.
itaque fit ut species quidem contineantur a generibus, numquam uero contineant
genera, omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus
dicitur, quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut
spe- cies quidem contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu
praedicationis includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper
suscipiens differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam
praedicationem, coartatum differentia et contractum speciem facit; omnino
enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque
latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim,
cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis
differentiam, si etiam mortalis, deminuit atque contrahit in unum hominis
speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti-
neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim
totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum
animal sustuleris, interi- mitur etiam homo, si hominem auferas, animal
restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut
species suscipiat definitionem generis et nomen, sed 1 continent HN
enim om. C 6 contineantur NR speciei om. R
specie Cm1 in specie Lp.c . species N post
nullo add . modo EGHPR, s. l. Lm2 7 includitur
EGLm1P includat N post autem s. l.
rei Cm2 8 semper om. HN species N
hoc—facit (10) om. EG 9 est s. l. C, om. HN, del. Pm2
habet Lm2Pm2 coartatum ex coapta- tum Lm2, in mg
. ał coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit m1
coaptata Hm2P apta Cm1 (aptata m2 )
Hm1N 10 et] LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2
omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add.
generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia C (
ras. ex -ã) R etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2,
et R 15 diminuit EHLPR ; diminuitur atque contrahitur
N unam C (am in ras. m2 ) Hm2NR 16
continentur sed non continent N 17 et om. EGR 19
remanet C cum] si P 21 est causa C 22
generis et nomen] et generis nomen E et nomen generis N generis
nomen R non e conuerso. definitionem quippe speciei genus
suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si enim
definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si
praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de
homine praedicaueris dicasque hominem esse substantiam animatam atque
sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem
reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod
animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut
species generis nomen suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut
genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed
cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur
generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce
dicitur, quoniam uero speciei de genere. neque nomen neque definitio
praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab>
speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum
continentia specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal
enim, quod est genus, superuadit hominem, quod est species, quia non
hominem solum continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae
spatio praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut
animal, multitudine differentiarum, nam quod actu genus 1 e conuerso]
est (om. R) conuersio EGLPR 2 non er. H sub-
stantiae EGLm2 (-tia m1 ) PR enim priorum] enim
proprium EGP diffinitionem ( om . en. pr .) R 3
et om. CHNP 4 aut] brm at CHLNP, om. EGR 5
definitione E 7 nil C fuerat Cm1 fueris
HN falsi] mentitus HN sed] quod CHN hominis
definitionem om. EGR hominis rationem L 8 addas
EGR, post si ( om . reddas,) add. P , reddas addas L pr .
animali Ea.c.LR animal est G conuenit CNPa.c. 9
ante quod add. id HNPR, s. l. Lm2 id dici] EGLa.r.P
dici Lp.r.R idcirco dici HN id circo id dici
C 11 et om. EG 12 defini- tionem ( uel diff-) monstret
EGR 14 pr . et om. CEG, s. l. Lm2 15 praedicatur
E uniuoce de specie C 17 a add. brm , ab Brandt
18 modo om. NR 19 continentia aliarum C 21 quod]
quae N non s. l Cm2 22 equum bouem HN 24 namque
quod Lp.c . non habet rationale uel mortale — nullas quippe
actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae
inhae- p .100 rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est
atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale est per
se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero
species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem
continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate.
Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum est,
numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae
cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat;
numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex
his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab specie
propriae coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie,
uerum etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum
differentiae quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si
proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. 1 uel om.
R 4 mortale] rationale CHN 5 rationale] R
inratio- nale CHN per se rationale EGLP unam continet
speciem] EG (unam s. l. m2 ) Lm1 quam unam
continet speciem Lm2R una continet (continet una C )
specie CHNP 6 species uero ( om . at) C informa-
tur Lm1Pm1 7 species G 9 quoniam] quod Hm2
11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere LNR 12
nec... nec] et... et Hm1N et... nec C, pr . nec om.
P 14 ex his om. EG, s. l. Lm2 sunt om. E
differentiarum CN differentiis R genus s. l.
Cm2 a R 15 proprie coniuncteque ( ras. ex -teque
Η ) HΝR (recte?) propriaeque G coniunctaeque om.
EG 16 ab] a R diducunt] Em2R deducunt cett.
distinguunt ac deducunt ( om . disterminant] HN 17 neque (et quae
non CHN, s. l . ał quae L ) in his tantum differentiis quae sunt
dictae ( L quae sunt dicta G quae dictae sunt CHNP quid
sint in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque HLm1N, del.
Lm2 ) considerentur oportet CEGHLNP neque in his tantum oportet
considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet R
; differentiae scr. Brandt ; neque enim in (de bm ) his tantum oportet
(oportet om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris
considerare (considerari oportet p ) edd. 18 propriae
CEGLP 19 discretionis quaerimus HR Generis autem
et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo est, animal est, et
si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus de specie- bus et
proprium de his quae illo participant; aequaliter enim et homo et bos
animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce praedicari genus de
pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium. Tria interim
generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud est, - quoniam ita
genus sequitur species ut proprium, posita enim specie necesse est
intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit, nam si
homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemad- modum genus, sic
proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod
aequalis est generis partici- patio, sicut etiam proprii, omne enim genus
aequaliter specie- bus participatur, proprium uero indiuiduis omnibus
aequaliter adhaerescit, manifestum uero est participationem e?se generis
aequalem; neque enim plus homo animal est quam equos 1—8] Porph. p. 16,
1-7 (Boeth. p. 43, 11—17). 1 COMMVNITATIBVS Ψ ; de
Porph. cf. ad p. 102, 7 2 Genus Em1Gm1 consequi Pm1 3
nam—risibile (6) ] LR Q , om. cett. pr . est s.
l. h m2 5 illo] sub illo R participant]
continentur R , add. indiuiduis edd. cum plerisque
codd. Porph. p. 16, 4 6 post animal add. est ΓΦ , om.
Porph. p. 16, 5 et Cato et Cicero] Porph . xat Άνοτος και
Μέληχος post risibile add. est Φ 7 autem et] autem
CEGP autem est (est s. l . h m2 ) et (om. R)
R h autem his Ψ autem hiis et Φ his
(s. l. m2) autem et Γ ; Porph. p. 16, 6 δέ
καί speciebus propriis R 8 post pr . proprium add
. de his Ν Σ , s. l. de propriis Gm2 10 illud est
primum R 11 post proprium add. quoque CH
(del. m2) N ac] et C 13 si] et si
HN risibilis EGHNP 15 post quoque add. est
commune R, s. l. Lm2 , s. l . scil, commune est Hm2 a
genere (generis Hm2 ) participatio est HN 16 proprii] a
proprio Hm1N ante speciebus add . a H
ab L (del. m2) NB, post add . suis R 17 parti- cipat **
(ur er .) E 18 adheret N participatione
EGR generi E ( ex genere m2 ) R 19
aequale EG aequale proprium R, post aequa- lem
add. s. l . et proprii Lm2, in mg . et proprium Pm2
atque bos, sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est
generis ad se uocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles
sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt,
dici risibiles possunt, non quod iam rideant, aequaliter ergo ea quae sub
genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud,
quod sicut genus de speciebus propriis uniuoce praedi- catur, ita etiam
proprium de sua specie uniuoce dicitur, genus enim quoniam substantiam speciei
continet, non modo eius nomen de specie, uerum etiam definitio
praedicatur, pro- prium uero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur
nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, defi- nitionem quoque
propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum conuenit speciei cui
coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei
conueniat. quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie
uniuoce praedicetur. Differt autem, quoniam genus quidem prius
est, posterius uero proprium; oportet enim esse animal, dehinc diuidi
differentiis et propriis, et genus qui- 18—p. 310, 13] Porph. p. 16, 8—18
(Boeth. p. 43, 18—44, 11). 1 eo] eodem HLm2NR 2 ad
se om. EGR, s. l. Lm2 etiam om. H et om. R
3 pr . aequaliter om. C 6 suscipiant Em1Lm1
genera EGLPm2 gen. ante suscipiunt HNP 7
illud] illud commune est G quid Cm1 9 enim om. E
nomen eius C 11 quia om. EGLP derelinquit
Lm2P eamque] eique HN ei quae R ea quae
Pm1 ae- quatur Pm2 12 definitio (diff-) ELm2
(diffinitione m1 ) Pm1 definitio enim R 13
proprium Ea.r.R proprii Ep.r.L ( ras. ex
propriis,) P traditur EGLm2Pm1 14 cui] uel ei C
eique HNPm2 (cuique m1 ), et (del. m2) cui
L aequatur L 18 De proprietatibus Δ ; de Porph.
cf. ad p. 105, 16 GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII] SPECIEI
L 19 Differunt C edd . autem om. N autem genus et proprium LR
Δ2 ; Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος quidem om.
HNR est om. H 20 oportet—interimunt genera (p. 310, 10)
] LR Q , om. cett . 21 pr . et om. L dem de
pluribus speciebus praedicatur, proprium uero de una sola specie cuius est
proprium, et proprium qui- dem conuersim praedicatur de eo cuius est proprium,
genus uero de nullo conuersim praedicatur, nam neque si animal est, homo est,
neque si animal est, risi- bile est; sin uero homo est, risibile est, et
e conuerso amplius proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et
semper, genus uero omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem
soli, amplius species quidem interemptae non simul inter- p.101 imunt|genera,
propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria, et bis
quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Rursus tale
proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit enim
proprium esse generis prius esse quam propria, oportet enim prius esse
genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque differentiis
fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius est 1
praedicatur] R A m2 n edd . praedicari cett. codd.
Busse (propriis, et genus distinguit, sed cf. 16
oportet et p. 311, 9 Rursus differt); Porph- p. 16, 11
κατηγορεΐται 2 una sola] Porph. ενός , cod. C add
. μόνοο est om. Φ 6 si R homo
est] homo et ΔΑΠΨ (et er .), homo, et Busse homo
est (est s. l. m2 ) et L; Porph. p. 16, 13 et δέ
άνθρωπος et e conuerso] et conuerso L h m1 et conuersim si
risibile est homo est R si risibile est homo est 2 ;
Porph. p. 16, 14 καί εμπαλιν , add. ei γελαστικόν,
άνθρωπος cod. C 8 et soli] TA m2 et uni Δ
m1 ΑΣ et uni et soli LR ΠΦΨ ; Porph. p. 16, 15
καί μόνψ speciei quidem 2 9 post speciei
add . inest LR TA ( s. l .) ΠΦΦ- (in mg. m2) edd.
Busse, om . Δ2 cum Porph . soli] Porph. p. 16,16
και μόνω 10 species s. l. L propria brm cum Porph
. interempta Φ interimuntur HL 11 post
genera add. quorum sunt species A propria] genera
brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17 interimuntur HΡ 12 ea
om . Η ΤΦ species brm cum Porph . quarum brm et
his— interemptis om. EG et] quare edd., Porph. p. 16,
18 ώστε καί 13 in- teremptis ante et his
CP et ipsa] et ipsa etiam propria Φ ipsa propria
2 interimuntur simul CGLR ad 10—13 cf. p. 312, 13 ss . 14
Rursus om. EG, s. l. Pm2 , sed R ad om. H, s. l.
Pm2 comparatione HPm1 15 nuncupatur Cm2Em2Ga.c.N
16 pr . esse om. N, s. l. Pm2 uelut N 18
species Lm2 nascantur N genus quam differentiae,
prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est
dubium quin pro- pria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est,
proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc generi cum
differentia, differentiae enim species conformantes priores considerantur esse
quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione
determinant, sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii
intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est.
Rursus differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur
speciebus, proprium uero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species
proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune, fit
igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem
atque equum, proprium uero unam tantum, sicut risibile hominem. Quo fit ut illa
quoque differentia nascatur : genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum
uero in nulla praedicatione supponitur, proprium uero et species alterna
praedicatione mutantur, fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora
aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur, quod maius est, de speciebus
omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores sunt, de generibus non
dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de animali nullo modo praedi-
catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque 1 etiam]
enim Lm2 2et om. EG et si H 4 est
hoc] HL (hoc del. m2 ) N est et hoc C
esse Pm1 et hoc est m2 est EGR 5 diffe-
rentia] differentiis CHN differentiae om. EG enim
s. l. Cm2, post species EG informantes prius N 6
considerentur Hm1R esse s. l . Cm2 7 quam G
8 hoc om. EGR 10 a om. NR quod] quo- niam L
de] a C 12 proferet Lm2 14 species sub se C
16 quoque del. Em2, post add . proprietas (s. l. Lm2) ex GL,
s. l. Pm2 nascan- tur Ep.c . 17 de speeiebus quidem C
ipsis CN in om. CN 19 mutuantur La.c.Pm2
praedicatio om. EGR, s. l. Lm2 20 quod] quoniam E (in ros.)
Gm2 21 est s. l. Em2 praedicabitur N 22
minora CEGLm2P praedicatur atque supponitur, ut risibile de
homine dicitur - omnis enim homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo;
omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni
et omni et semper speciei adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno
uero diuersum est. nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non
uero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent,
hoc generibus, quod plures. igitur propria quidem singulas optinent species,
genera uero non singulas, adest igitur proprium uni soli speciei et semper et
omni, genus uero omni quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini
soli, ani- mal uero eidem homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae
inrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatur genus, species interimuntur
nam si non sit animal, non erit homo —, si auferas species, non interimitur
genus; nam si non sit homo, animal non peribit, species uero et propria
quoniam sunt aequalia, alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile,
homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera
sub se positas species, non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et
proprium inuicem perimuntur et perimunt. 1 supponitur]
(sub- HP ) CHm2Lp.c.P praeponitur cett., recte? 2
enim om. C locus risibilis est—quidem speciebus (p. 315, 7)
bis in E scriptus, pag. 229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II
) 3 etiam om. R, del. Lm1 , enim m2 autem etiam
H a genere pro- prium C a om. R 4 speciei
s. l. Hm2 5 uero] quidem E I qui- dem duo CNB , om .
quidem E I 7 haeret propriis] E III GL
haeret (ł inerit m2 ) tantum propriis P erat (erit R )
tantum propriis (proprii N ) esse CNR heret propriis uel
aliter hoc enim erat tantum H; ad haeret cf. p. 298, 4
tantum species—quidem singulas om. E I tan- tum del. Lm2, s.
l. Pm2 , post species NR 8 continerent CHm2
con- tineret N contineant Pm2 10 soli///// E
I solius E II G 11 sed] et HN soli homini
NP 13 inrationalia H auferamus EGLPR 14 interi-
mantur L erit] est N 19 sub se positas] sibi (om.
H) suppositas HN 21 perimuntur] consumuntur Lm2
perimunt] perimuntur Lm2 pereunt HNPm2
Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum
est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri
de pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et
aliquibus inanimatis. Nihil est quod inter cetera ita sit a generis
ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub-
stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens
uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra- tionabili
coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj p. 102 et
marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt
separabilis accidentis exempla. 1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2
(Boeth. p. 44, 12—16). 1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS E I
E II m1 ACCIDENTI R de Porph. cf. ad p. 102,
7 2 Commune uero est generis et accidentis 2 Generi
N Generibus E I accidentibus E I m1 3
praedicari ante quemadmodum L siue—pluribus et] LR Q , om.
cett . separabile 2 m1 4 sit] sit accidens 2
inseparabile 2 m1 5 post et om. R de
om . E II HNR ΑΦ , recte? homine E III
omnibus L A ( ras. ex hominibus) hominibus om. brm, delend.
uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2 homine Aethiope; Porph. p.
17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de G, del. m2 )
aethiopibus GPm2 T2 6 ante aliquibus add. de Gm2 in
animis E I , ante inanimatis add . naturis H
(del. m2), post CN , praedicari Γ ( in mg . praedicatur) Φ
; Porph. καί tivmv άψΰχων 7 in ceteris E
III GLm1P 9 a om. R 10 uere GR uero
ha- bere potest C 11 enim] uero C 14 rationabile
E III a. c. Gm1 rationali HNP post homine
add . et N irrationali HNP 15 ebeno E III 16
marmore] de marmore P post homine add . et
N 17 sagitta] CHLm1NPm1 (sagittis m2 ) agitatis E
III GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus
Lm2 Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante
species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam
inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam
accidens, et genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant, accidenti
uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium
participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi- uiduis
principaliter subsistunt, genera uero et species naturaliter priora sunt
indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur de
bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel
quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus
dices ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel
ambulat. 1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).
1 PROPRIIS] DIFFERENTIA C; de Porph. cf. ad p. 105, 16 QVID
INTER GENVS ET ACCIDENS SIT Φ (ex p. 116, 10) 2 genus
s. l. Hm2 ab om . HRE III Δ
accidenti] Δ accidente cett . 3 speciem ΧΦ
posteriora ante speciebus C inferiora XA m1 AS 4
nam—unum quodque (14) ] LR Q , om. cett . si etiam] etsi
etiam ΓΦ sed om . Γ si Σ 5 prius]
plus S 6 genere] A m2 Busse genera
cett. codd. edd . quae] quibus A m1 aeque Δ 7
accidenti] p Busse accidentia codd. brm; ad 5 et— 7 cf.
Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14 enim om. L in mg: figuram
quandam habet Δ , aliam (cf. ad p. 320,17)
Γ 9 uero om. R in om . Γ Busse,
s. l . Rm2 A m2 K ; cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9 έπΐ
τών άτομων 10 nero om . Δ 11 post
naturaliter add. non principaliter LR AΑΦ ; om. Porph.
p. 17, 9 12 sit] est LR A ante de
add. et, sed del. ΓΔ 13 hiis Φ
14 ante quale add. et R sit] cod. Q
Bussii edd . est cett. codd . quomodo om. R quodammodo
A m2 se s. l. A m2 habet A m1 15
eat ante aethiops ΔΑ , post HΝ ΤΣΦ enim om.
L interrogatur Φ dices] LRT dicis cett.
codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15 respondebimus; Porph. p. 17, 12
έρεΐς 16 quo- modo Δ habeat ante socrates
A habet ΗR Φ dices] K m2 dicis cett. codd.
edd. Busse, cf. p. 317, 16 dicemus; Porph . έρείς 17
ambulet La.c.N Differentiam generis et accidentis hanc primam
proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod materiae loco est et
differentiis informatum species gignit, at uero accidens post species
inuenitur. oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post uero ipsum
accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse
non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse
species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci- dentia uero esse non
possunt, nisi eis species supponantur. manifestum est genus quidem esse
ante species, accidentia uero post species. Rursus alia differentia, quoniam
genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest, quo fit ut quae
participant genere, aequaliter eius nomen defini- tionemque suscipiant; omnes
enim homines aequaliter animalia sunt eodemque modo equi, nec non inter
se homo atque equus et cetera animalia comparata aeque animalia praedicantur,
accidentis uero participatio et intenditur et remittitur, inuenies enim
quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus
considerabis omnes non aeque nigro colore obductos. Alia quoque
differentia est, quoniam omne accidens in indiuiduis principaliter subsistit,
genera uero et species indiuiduis priora sunt; nisi enim singuli corui 1
et accidentis] ab accidentibus HN ponit C 2
pr. quod] quid C quoniam (del. m2) quod E
II 4 post esse add . aliquid P, s. l. Lm2 5
si—sit] nisi sit subiectum HN nisi subiectum sit R 6
quid Cm1 potest H 7 speciei HN est] sit
N nec] non CEGLP 8 uelut CEGLP uel R
supponitur C 9 supponatur ( uel subp-) EGH 10
ante manifestum add . nam EGLP 11 post
Rursus add . uero C post alia add . est CGP
13 generi CEGP 15 eodem EHLR 18 paulo amplius nigrum
paulo diutius ambulantem HN post ambulantem add . et LR
19 et] et si (si s. l, Lm2 ) LR si EGP
omnis GLm2R aequa nigredine coloris (coloris del. Lm2 )
HLNP 20 obductus EGLm1R , post obd. add .
esse C est EGLR est om. HN 21 in om.
CG genera—priora sunt] C species uero et genera indiuiduis
priora sunt HLm1N genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt
GP genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt Lm2
genera indiuiduis priora sunt E et indiuiduis posteriora sunt
R 22 singulariter EGPR nigredine infecti essent, comi species
nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse
uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop
est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et
species supra indiuidua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his
omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt,
sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri;
nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse
non possunt, et nisi singulae species sint, eorum genus animal esse non
poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere
substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con-
stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem
diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed manet in his quae
eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque
differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species
conformant atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus
speciebus possit in propria manere substantia, idem de spe- ciebus dictum
sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis
informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt,
accidentia uero nisi sint 12 superius] p. 300, 7—16. 1
essent in ras. Lm2 , sunt N sint R 2 esse
om. EGR 4 indiui- duum CHN 5 super CN 8 genera]
de genere R quoque om. R quaeque EGP
ipsa om. EGPR et species] atque species (specie R )
LR specieaque N 9 nam nisi] nisi enim EGR nara
nisi enim (enim del. m2 ) C homines—nisi singulae (10)
in mg. Em2 homi- nes EN 10 et om. EG
singulis E singuli G singulares Lm2R 11
eorumque Lm2 earum brm 12 ex del ., his om.
E 13 de eo] eo Hm1N ex eis Hm2 de eis
Lm2 quod del. Hm2, er. L , quo GPR 14 eorum om.
Lm1 eius R edd . quae eius Hm2 de quibus eius Lm2
substantiam formamque perficiunt Hm2 normaque N 15
diuisiuae ( post differentiae N ) differentiae interemptae non
perimunt HLN 16 eius- que] quae eius C quaeque
eius EGP 17 speciebus generis LNR 20 permanere
Lm2R 23 quaeque EG quibus accidant, esse non possunt,
nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et
corru|ptioni sup- p, 103· posita uariis semper accidentibus permutantur.
Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus
quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est
dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet
res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est
coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut
‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta
diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum,
facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione
ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si
interrogemur qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’,
si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut
superiorum aliquid accidentium. Genus uero quo ab aliis quattuor
differat, dictum 4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14]
Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9). 1 pr.
accidunt Lm1 accident N prius post accidunt
C 2 post indi- uiduis add. quia indiuidna prima sunt quantum
ad praedicationem P, in mg. Lm2 4 adnumera ( ann- G)
EG annumerant Hm1 dicta est superius R est sepius
(corr. m2) dicta C sepius (corr. Hm2) dicta
est HN 5 quidem om. EGR 6 dicitur om. N, s. l.
Hm2 post uero add. aut P 7se H post habet
add. res CLm1, del. m2 9se EGHN habet
Clm1 aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus C aut
uolat aut sedet HLN 10 croccit Hm1 groccitat N,
post add . egrotat P nam] at EGLm1 ac (ut uid.)
R 12 quanto Em1 quan- tum G situm habitum
quando C post omnia add. id est VIIII Hm1, del.
m2 13 habeant Ep.c. Lm2P interrogationem EGR 14 inter-
rogemur] C edd. (cf.p. 314, 15) interrogemus cett., recte?
cf.p. 58, ss. 99, 23 15 respondemus HNR 16 dicimus
EHLRbrm 17 aliquod ELa.c.N 18 uero] uerus Pa.c.
ergo CHL (in ras. m2) R Φ enim A ; Porph.
p. 17, 14 uiv ουν quod EGPm1Rm1 T<l>
ab] ΔΣΨ , s. l. Il m2, om. cett. quattuor
om. G, s. l. Δ m2 est. contingit autem etiam unum
quodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum
quodque autem ab aliis quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes
differentiae, sed semper posterioribus enumeratis et secundis quidem una
differentia superatis, prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus,
quartis uero tribus, quintis uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres,
duae, una. genus enim differt a differentia et specie et pro- prio et
accidenti; quattuor igitur sunt omnes diffe- rentiae. differentia uero quo
differat a genere dictum est, quando quo differret genus ab ea dicebatur;
relinquitur igitur quo differat ab specie et proprio et accidenti dicere, et
fiunt tres. rursus species quo 1 contingit—ad accidens (p. 319,12)
] LR Q , om. cett. contigit R A m1 Y m1 2 aliis om.
Porph. p. 17, 15 quidem om. L K Busse; Porph.
μεν 3 post sint add. res L unum
quodque autem] il m2 xP p Busse unum autem Β ΤΜΙ m1
Σ una autem L ΑΦ et unumquodque brm; Porph. p. 17,
16 ίνος ϊέ εκάοτοο aliis om. Porph. differt
Δ 4 uiginti del. A , pos t XX add.
uel quinquies quattuor Rm1 quater V. XX uel del. et
post fiant add. uiginti m2 fient ΑΑ m1 Φ
fuerint Γ post differentiae add. sed non
sic se res ( res om. p) habet edd. cum Porph. p. 17,
17 άλλ’ οοχ οδτως εχει set om. Γ 6
superatis] subtractis ΓΦ (ex substr- ) quia]
quoniam L A Busse sumpta] subtracta Γ 7 uero]
autem LR T<l' duobus R 8 omnes om. L post
fiunt add. differentiae Γ (s. l.) Π
m2 edd. Busse (sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20 9 enim]
autem Γ a om. Σ , s. l. A m2 et specie et
proprio] a specie a pro- prio R specie proprio Σ 10
et om. Σ accidente R Σ igitur quatuor
R differentiae omnes La.c. generis differentiae R;
Porph. p. 17, 22 at διοφοραί 11 quo om. R
differat] La.c. ( a del.) Σ differret R
differt cett. a om. R 12 quo] quid L A
Busse quod m1, om. A ; ubi quo est
(hic et 11. 13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius π-j
scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4)
differret] LR Ψ (alt. r s. l.) differre Λ
differt ΓΙIΣΦ 13 igitur] ergo 2 quod R A
differt A a.c. ab Brandt a LR il , s. l. A
m2, om. cett. et om. Β ΤΑΣ a L 14 accidente
R ΓΔ2Φ post tres add. differentiae Λ ( ei
fiunt tres differentiae. rursus in mg. m2) 11 m2 ( species
m1) Γ ( rursus differentiae pos.) Busse (cum
duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem quo ΓΔ2Φ
; Porph. π-jj έν quidem differat a differentia
dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur; quo autem
differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab specie
dicebatur; reliquum est igitur, ut quo differat a proprio et accidenti
dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem quo differat
ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et genere differat,
praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor igitur sumptis
generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae, duabus autem speciei,
una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum quattuor, quae erant
generis ad reliqua, superius demonstraui- mus. Quoniam
differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad speciem, ad
proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras facere
contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se
comparatis com- 1 differt R A quo] quid A
Russe quod Lm1 \ 2 differret] Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl
p.c. differet Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c. differt Δ2
differtur Γ differentia ab specie] ΓΦΨ ( sed
a, scr. ab Brandt), a (s. l. A m2)
specie (s. l. et add. Δ m2) differentia ΔΔΣ
edd. Busse species a ( et Ώ ) differen- tia
L H differentia ab ea R; Porph. p. 17, 26 ή διαφορά τού
είδους quod A m1 3 differat] L differt
cett. (ex differet V ) a om. R ϋϊ quo] quid
Δ Busse quod A 4 differret] L yAIW
differet R Φ differt ΓΑ2 4 ab specie] Γ a
specie L ΔIΙΔΦΦ specie 2 ab ea R 5 differt
R, add. species ΓΑΠΨΨ , s. l. Lm2; om. Porph. p. 18, 2
a om. 2 accidenti] L acci- dente
cett. dicitur R 6 igitur om. 2 7
autem om. R, s. l. h m2 ab om. Σ
accidenti] edd. accidente codd. fort.
relinquetur; cf. Porph. p. 18, 3 χαταλειφθήσεται 8
ab Brandt a ΓΦ , om. cett. pr. et om.
R differet Λ m1 differret m2 differt A m1 2
, s. l. proprium add. Lm2 dic- tum Σ 9
differentia ante ad ipsum Σ differentiis Β ΓΑΦ ;
Porph. p. 18, 5 ... διαφορά 11 pr. autem] uero A
ad accidens] et accidentis ΓΔ«ι7ΠΦ ; Porph. p. 18, 7
πρός τδ σορβεβηχος 13 erant] erunt N reliqua] N
Λm1ίΣΦΨ reliquas cett. (in mg. ad aliquas T m2); Porph.
p. 18, 8 πρός τά άλλα 16 utrumque ad om. NR 17
idem quoque] idemque Lm1NR ad cetera C de ceteris
HLN praedicit om. R nunc dicit H 18 possunt
CHLm1N commissisque N mixtisque rebus his quae supra
propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una
quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti
differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint
quinque res ueluti quinque litterae A B C D E. differat igitur A quidem
ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B
differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae
superioribus iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt
quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae supe- rioribus
octo copulatae duodecim reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur
differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae
superioribus duodecim ap- positae sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis
quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae;
quae compositae prioribus uiginti perficiunt. et sit quidem p.104]
huiusmodi descriptio : | 1 positae EHLNP
efficiuntur HN 2 ante una add. et
HLNPR res om. HN 3 si om. HN a om. R
uiginti om. E 4 fiant Rm2 5 uel E 6 aliis]
reliquis HN 7 fiant R differt Ha.c.LN
aliis] reliquis L 8 id est om. HN 9 ab] codd.
reliquis] aliis L 11 ante reliquis add.
si L, s. l. Pm2 12 differatque] differat aeque EGP (
differt m2) R eis GHNPm1R 13 fiunt N
fiant R igitur om. HN post quattuor add.
differentiae HN 15 fiant R faciat L
faciet HN aliae om. H alias LN
differentias HLN 16 superi- oribus C et sit
quidem] CGP et quidem sit R et sic (ex si
) quidem est E quarum ( quorum LN) quidem
sit HLN 17 discriptio C figu- ram om. G (duae lineae uacuae)
Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie exornatam habent R (post
uerba quattuor differentiae supra 7) Γ (in
mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis lineis Quae cum
ita sint, in generibus quoque et speciebus et ceteris idem considerabitur.
erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio
accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a
genere, specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor spe-
ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quat- tuor etiam
proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens; quattuor insuper
accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium. quae coniunctae
omnes uiginti explicant diflferentias. sed hoc, si ad numeri referatur
naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum
naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inueniet sumptas.
quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo
differentia distat ab specie, eodem species a differentia disgregatur, et
in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione differentiarum, quam supra
disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si differentiarum similitudines
detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad prae- sentem tractatum
uelut diuersas atque dissimiles oportet assu- mere. age enim differat
genus a differentia, specie, proprio in mg. sup. add. Hm2, quaternas
litteras ( B C D E cett.) infra singulis litteris A cett.
positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg. (litt. minusc.) hae duae
figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20 ss. 323, 9 ss:
in P figura est per quinque ob- longa deorsum continuata, quorum primum
hic proponitur : 3 ab CEGHP accidentique] atque
accidenti ( -te N) HN 4 dif- ferentiae G ab
CEGHNP 6 ac om. N ad LP 10 post
hoc add. fiet E (s. l. m2) fit H (s. l. m2)
niget L (in mg.) R 13 adsumptas R differat
C 14 ab] a R 17 saepius om. EGPR, s. l. Cm2, post
ad- numeraui L adnumerauit Cm2GP atque) EGP
at CR itaque HLN si om. N
multitudines, s. l. ał similitudines L 18 fient
edd. atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam
diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab
specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum
est, cum diceremus quo genus a differentia discreparet. detracta igitur
hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae
quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae
cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc species si
sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae secundum numeri
diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens comparatur,
sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species differat a
genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid uero
species a differentia distet commemo- ratum est, cum differentiae ab
specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae supersunt integrae
atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae
cum septem nouem differentias copulant. proprii uero si ad numerum differentiae
considerentur, quattuor erunt, scilicet ad genus, differentiam, speciem
atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae
sunt. nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a
proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in
colligenda distantia differentiae propriique superius 1 accidente
N 3 ab] HN a cett. accidente HN
quod L dis- crepet] distet HN 5 hac igitur
C 6 distantiae] differentiae L 7 a LN
accidenti C accidenteque H disiungitur ante
ab specie C 8 reddunt differentiae C 9 sumatur]
mutatur E 11 ante differentiam add. et HLNP
ante proprium add. et P cõpararetur C
cõparantur N 12 differat post genere EN 13
a om. EGHNP differret] GLm2Pm2R differet
ΕLm1 differat HNPm1 differt C ad speciem
R ad specie C 15 ab specie] CG a specie
EHLm2NP ad speciem Lm1R 17 post speciei
add. id est EGP 18 differentias copulant] complent differen-
tias C 20 comparatae Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum
EGLm1R 21 quod C 22 proprium—cum quid om. EGR
distaret a pro- prio H demonstratum est, quid uero proprium
distet ab specie, tunc expositura est, cum quid species distaret a proprio
dicebatur. restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superio-
ribus iuncta decem differentias claudit. accidentis nero ad cetera
possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam
quid differat uel genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab
accidenti, supra mon- stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad
cetera quam ceterorum ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque rerum
numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres,
uincanturque secundae rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una
tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia
uero si sumatur, duas habebit differentias, quae uincantur a primis
quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam,
quae uincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam
omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis
superatur. atque hoc nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum
tenditur : quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe-
rentiae uero tres, speciei duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105
sit. et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias,
secundae uero differentiae comparationes 1 uero om. EGR
a EGLR 2 cum] quando R 5 cetera] extera Cm1
6 differret H differet N 7 accidente CHN
monstrauimus H 8 ante diuersae add.
plus R, s. l. Lm2 10 ad prima s. l. ł una
res Hm2 sumatur HN fient C 11
uincanturque] C (pr. n om.) Lm1 (iungantur m2) N,
m2 in HPR ( iungenturque Rm1) , uincantur EGHm1Pm1 12 primis
L 13 habuerat C habeat Lm2NP retineat
Lm2 14 diffe- rentias habebit C uincuntur Lm1R 15
duabus (s. l. E) differentiis EHN post duabus
add. distantiis GR post quarta add. nero R, s.
l. autem Pm2 16 post tribus add.
subdistantiis E distantiis G 17 habet HL 18
primis brm hoc] ex hoc HLN numeri HN 19
gradus HLm1N quidam HN 20 post post.
quattuor add. sint CHm2L (del. m2) P sunt Hm1N 22
sit] Rbrm est CEGLP, om. HN et om. EGR
quidem s. l. Em2L, post generis C 23 teneant
HLm1NR tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est,
uincitur autem a primis quattuor nouis differentiis una tantum. speciei uero
tertia comparatio duas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius
adnumeratas agnoscimus, et uincitur a quattuor primis duabus tantum
differentiis nouis. proprium uero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius
ad- numeratas, uincaturque a prima nouis tribus differentiis, quinti uero
accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis
quattuor a primis generis transcendantur. atque ad hunc modum ex uiginti
differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut
tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum
numero, uerum in ceteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae
plenam differentiarum dissimilitudinem in qualibet numeri pluralitate
reperiat. propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto
uno relin- quitur, in totam summam numeri multiplicaueris, eius quod ex
multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei plura- litati quam
propositarum rerum differentiae continebunt. sint igitur res quattuor A B
C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim;
horum dimidium 1 teneant HLm1NR ten. post
nouas CR adnumera (tamen eat ) C uincitur autem]
et uincatur HLm1 ( et del., uincitur m2) N 2
nouis quattuor primis HN 4 adnumeratas om., in mg.
enumeratas G uin- catur Lm1 uincantur HN
uincuntur C 6 ante unam add. tantum
L, post EGPR retinet Lm2Pm2 edd. 7 uincanturque N
uincatur qua re EG uincitur haec R uinciturque
edd. quinta N 8 comparatio Lm2N retinet HLN,
post nouam HN 9 primis] CLPH a.r. primi
EGHp.r.NR transcendentur Lm2 transcendatur N
transgrediantur C transcenduntur edd. 11 tamen
er. uid. E non G (etiam post diffe- rentias est non
) 13 uerum] uerum etiam C ceteris quoque brm
notas] Lm1N notis CEGHm2 ( totas m1) Lm2PR 15
reperiat] pariat Cm2Hm1N 17 post numeri
add. si CHP simul EG 18 ei om. EGN 19
sunt Lm1R 20 igitur] ergo CEN fiant LR 21
hos EGLPR post igitur add. si N tres
H per totam summam R multiplica C multipli-
cato E fiunt HN fiant R post horum
add. si L teneo, sex erunt. tot igitur erunt
differentiae inter se rebus quattuor comparatis : A quippe ad B et C et D tres
retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae
senarium numerum complent. atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine
demonstratione nunc dedisse suffi- ciat, in Praedicamentorum uero expositione
ratio quoque cur ita sit explicabitur. Commune ergo
differentiae et speciei est aequaliter participari; homine enim
aequaliter participant par- ticulares homines et rationali differentia. commune
uero est et semper adesse his quae participant; sem- per enim Socrates
rationalis et semper Socrates homo. Dictum est saepius ea quae
substantiam formant, nec remissione contrahi nec intentione produci; uni
cuique enim id quod est, unum atque idem est. quodsi differentia spe- cierum
substantiam monstret, species uero indiuiduorum, aequa- liter utraque ab
intentione et remissione seiuncta sunt; quo 6 in Praedicamentorum
expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18, 10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14
saepius] cf. infra. 1 teneo] sumo N sumo tenens (
tenens del. m2) H si (ex sumo m2)
teneo L pr. erunt ante sex N, s. l. Hm2
post. erunt ante igitur ( ergo H) HL 2
detinet HN 4 complent numerum H 5 dedisse nunc
HN 8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI] plerique codd. fort. ex 9 sumptum,
om. Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE Γ2Φ , r ecte ut aid.; Porph.
p. 18, 10 Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ είδοος ,
cod. Μ Περί κοινών είδους καί διαφοράς 9 est add.
Hm2 10 homine—parti- cipant (12) ] LR Q , om. cett.
homini R T a.c. hominem L \ 11 ratio- nalem differentiam
L \ , post differentia add. nam omnes homines aequa- liter homines
sunt et aequaliter rationales Σ 12 et del. uid. Δ ,
om. Ψ his adesse LR <t> post quae
add. eorum ΓΔΠΦ 13 enim om. R rationabilis
CEGPR U Busse, add. est ΓΔΦ , s. l. A m2 14
saepius i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss. ; saepe de duobus locis
etiam p. 293, 18 dictum; superius P, fort. recte, cf. ad p. 317, 4.
337, 8 17 monstrat HLNP 18 utraeque CP
seiunctae CGPR fit ut aequaliter participentur. omnes enim
indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. nam si idem est
‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes homines aeque sint homines,
necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam
ita differentiae sui partici- pantia non relinquunt ut species. semper
enim Socrates rationalis est—Socrates enim rationabilitate participat —, semper
homo est, quia scilicet humanitate participat. ut igitur differentiae sui
participantia non relinquunt, ita species his quae ea parti- cipant, semper
adiuncta est. Proprium autem differentiae quidem est in eo
quod quale sit praedicari, speciei uero in eo quod quid est : nam et si homo
uelut qualitas accipiatur, non sim- 11— p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19,
3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11). 1 mortales—sicut homines] (
sunt ex sint Lm2, add. homines Lm1, del.
m2, sunt del. Pm2; atque Lm1Pm2 et HLm2Pm1;
sicut del. et sunt scr. Pm2) HLP aeque mortales atque
rationabiles sunt ut homines C aeque (s. l. m2)
mortales (ex -lis m2) sunt atque rationabilis
(sic) sunt (part. ras. ex sicut m2) homines
E mortales sunt atque ( atque sint N) rationales sicut
homines NR mortalis atque rationabilis sicut homines G
2 nam—homines (4) om. N idem est] E ( est in mg.)
HR idẽ CL id est ( ẽ G) GP est del.
Lm2 3 esse post ration. EL, repetit. post ration.
P, om. CH rationali R rationalis Lm1
rationabile G rationa- bili E rationabilis Lm2P
5 ante commune add. est H habent om.
HR, s. l. EL ( n del. m2) differentia R 6
relinquit R relinquent Pm1 derelinquunt Lm1
rationabilis EG 7 rationabilitati CGP
rationalitate HN post semper add. enim G 8
quia ex qua Em2 humanitati EGLP
differentia HLNR 9 relinquit HLNR par- ticipent
E 11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE ( DIFFERENTIIS E) ΕG ΤΖΦ , recte
ut uid. , DE PROPRIIS EORVM ( EORYNDEM Ψ ) Ρ Ψ ; Porph. p.
18, 15 Περί τής διαφοράς τού εϊδοος και τής διαφοράς , cod.
Μ Περί τών ιδίων ειδοος και διαφοράς 12 autem om. Η
uero C Q quod ex quid C 13 species
EGHNP uero om. H autem Busse eo quod] quo
Γ est] sit R 14 nam—generationem (p. 327, 15) ]
LR Q , om. cett. accipitur A m1 non] R ΓΔΈ
cum Porph. p. 18, 17 hic non L non hic A m2 H
Busse non sic Λ m1 Σ non homo Φ pliciter
erit qualitas, sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam
constituerunt. amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus con-
sideratur, quemadmodum quadrupes in pluribus ani- malibus specie
differentibus, species uero in solis his quae sub specie sunt indiuiduis est.
amplius diffe- rentia prima eat ab ea specie quae est secundum ipsam; simul
enim ablatura rationale interimit homi- nem, homo uero interemptus non aufert
rationale, cum sit deus. amplius differentia quidem componitur cum alia
differentia — rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis —,
species uero speciei non componitur, ut gignat aliam aliquam speciem; qui- dam
enim | equus cuidam asino permiscetur ad muli p. 106
generationem, equus autem simpliciter asino num- quam conueniens
perficiet mulum. Expositis communitatibus quantum ad institutionem per-
tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens
quoniam differunt, quod species in eo quod quid sit praedicatur,
differentia uero in eo quod quale sit. huic differentiae poterat occurri. nam
si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species
in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae 1 sed]
id (del.) R 3 considerantur Δ 4 pluribus] Porph.
p. 18, 20 πλείστων , cod. B πλειόνων 6
specie] una specie R Γ ( sunt ante specie ) ΛΨ ;
Porph. p. 18, 21 άκο το είδος 7 prima ante
differentia Δ prior edd.fort· recte cum Porph.
κροτέρα; cf. p. 328, 32 superioris ab ea] et
Γ ab ea—ipsam] ab ea quae est secundum se specie 2 8
post ipsam add. differentiam Δ (del.
m2) Λ 10 deus] angelus LR ponitur Δ
12 sub- stantiam edd. cum Porph. p. 19, 1 εις οπδστοσιν
speciei] specie R 13 aliquam ante aliam T\A
, post speciem 2 14 equus] asinus Σ
asinae Φ equae Σ 15 equus] asinus 2
autem om. N enim C ΔΛ2 asinae Pm2 conueniens
numquam 2 16 mulum perficiet CEG perfici ad mulum
R 17 Positis N instructionem H 18 eorum L
earundem edd.; cf. indicem Meiseri s. neutrum 20 differentiae
C uero om. CGP autem R post sit add.
qua inter se differunt differentia et species Hm1, del. m2 21 huic]
nunc G differentia G 22 dicitur CLm2
praedicatur GR proprietatem quaedam qualitas esse uideatur?
huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est
solum qualitas, sed tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens
generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut
procederet in speciem, species uero ipsa, qualis quidem est, secundum
differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur
et conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex
qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac
simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus
respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam
qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque
differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero
tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem claudit et
deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos.
atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque
secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in
eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae
sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat
differentiam, speciem 1 respondebimus G 3 tantum om.
EG solum, s. l. ał tantum L 4 facit
CLN 5 formatum est s. l. Gm2 6 ad qualis s.
l. ł quali- tas Hm2 post quidem add. non
EGP (del. m2), in mg. Hm2 9 post sed s. l.
hec L iure itaque C 11 species—quid sit in mg.
Gm2 12 sit] est HN, add. iure respondetur CG (in mg.
m2) LP 13 rursum E, add. differentiae et speciei
C illa om. E ipsa CGP post quoque
add. his HN differentia est] differunt in ras. E est
om. P in hoc a specie distat G 15 uero om. CEGP
rationalitas HΝ 16 post quadrupes add.
enim P, s. l. Lm2 canem om. C camelum R 17
sola indiuidua Lm2R 19 pr. in] de Pm2 20
praedicetur HLN species—praedicatur om. E 21 praedicatur]
dicatur GHLPm1 22 post differentiae add.
quam species CLP speciebus N post quoniam
add. enim HLN 23 sunt ( erunt L) post
specierum EGL, ante conti- nentes R nam om. LR,
post quis s. l. enim Lm2 quoque sustulerit,
ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero
hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est
igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species
con- tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia,
quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus
speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis
mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam
species infor- matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus
asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis
iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter,
id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque
aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt, constat igitur
differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species
uero in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.
Differentia uero et proprium commune quidem habent aequaliter
participari ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia rationalia
sunt et risibilia risibilia. et semper et omni adesse com- 18—p. 330, 4]
Porph. p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19). 1 rationalitatem
HN 2 aero] quis R rationalitas HLa.c.N 3
est om. CEGP 4 specieqne R et species C
distant C distantia est EGP species]
significationes Em1 5 differentia est C 6 saepe
om. EGR post pluribus add. uero R 8 enim]
etiam Lm1 igitur Lm2Pm1 10 asinae HLm2 11
perficit GP 12 perficiant Lm1R 14 nec.. nec
C neque permisceri possunt om. EGR neque aliquid] non
aliquid EGR cogi- tatione si HN 18 COMMVNIBVS] d e
Porph. cf. ad p. 102, 7 20 par- ticipari] praedicari L ab
his—dicitur (p. 330, 2) ] LR Q , om. cett. ab om.
Σ , del. A m2 21 post enim s. l. quae T m2
rationalia rationalia] Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia
rationabilia Π rationalia A2<V m1 rationabilia
LR & m1 rationabilia rationabilia Busse sunt om. R,
s. l. h m2 22 et er. uid. Δ post.
risibilia om. LR \2 , post add. sunt codd., om. L cum Porph.
p. 19, 6 mune utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad
id quod natum est semper dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id
quod est semper, sed non in eo quod semper rideat. Nunc
differentiae propriique communia continua ratione per- -sequitur. commune
enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur — aeque
enim omnes homines rationa- biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia
substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam
speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit : aequa- liter
enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines
rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. sed obici poterat non semper
esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione
curtetur. quam tali modo soluimus quaestionem. propria et differentiae
non in eo quod semper habeantur, sed in eo quod semper naturaliter haberi
possunt, semper dicuntur adesse subiectis. 1 utrisque ΓΛΣΦ
si] sine R ΓΦ qui est] quies R quidem L A
post bipes add. non substantiam ( substantia ΑΦ )
perimit ( perimitur Ψ ) L ΑΨ Busse (in adn. deleri mauult) ,
non substantia perit ( peribit Σ ) ΓΠΣΦ p , om.
Rbrm, Porph. p. 19, 8, Boeth. in comment. 2 sed] ta- men R ad
id quod] ad quod L AΠ (post est repet. ad id
) Σ Busse ad id ad quod Ψ , ad id
post est h m1 post est add. habet et id quod est
L A (del. m2) 2 , ‘fortasse id quod est recipiendum’
Russe : Porph. p. 19, 8 αλλά πρός το πεοοχένοι το (
το om. Μ) άει λέγεται nam -om. R 3 in eo]
eo EGLR A m1 ad C 72 id Ρ Π ad id
*F aliquod N habet id quod est semper] C ( id s.
l. m1?) L hA ( "habet—est del. m2), pro id
exhib. hoc H et id Σ , est om. N habet
semper Ρ Π habet EG semper dicitur ΓΦΨ , om.
R 4 sed—rideat] in om. C, in mg. Hm2, in quod semper
rideat EG non quod semper rideat R Ψ ; Porph. έπε'ι ναι
τό γελαστικόν τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει 6 enim]
autem Lm2P dicitur CEGR proprii C 7
rationales Cm2ELm2P 8 atque NR 9 istud] illud
EGHN (add. risibilis ) P aequum om. H aeque EG,
recte? propriae EGLPR et om. EG ac N
subiectam om. C subiectum EGPm1 10 reliquit
ELa.c. etiam his] hic etiam HN 11 subiectis s. l.
Gm2 12 rationales Cm2HN 15 ante propria
add. et HNP (del. m2), s. l. Lm2 propriae CEGPm2
proprii R et om. CE, del. Pm2 16 post in]
ex HN si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam,
sicut nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in
eo quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse |
dicuntur. ipsum enim semper; p. 107 non actu esse dicimus,
sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non
semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si
deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed
nascenti indiuiduo derogatur. Proprium autem differentiae
est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de
homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et
differentia quidem illis est consequens quorum est differentia, sed non
con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco
quoniam conuertuntur. Distat a proprio differentia, quia
differentia plurimas species 10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48,
1—7). 1 curtetur quis N nil C attinet
s. l. Lm2, post naturam R 2 ad om. EG ualet
om. EGR 3 pr. in om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab Gm1,
del. m2 post. in om. EGNP, s. l. Lm2 4 possunt HN
dicuntur semper adesse R 5 actum... naturam E
umquam Ea.c.G 7 potest om. EG, post fieri L ,
postea (om. fieri ut ) HN pede] HLm1N ambo
pede Em1GR utroque pede Em2Lm2P; ambobus curtetur pedi-
bus C ante etiam (om. C) add. uel CL (s. l. m2)
R diminuto CEGLPR 8 pede om. C sit natus]
nascatur C 10 de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105,
16 11 autem] uero Δ quoniam] quod ΓΦ 12 saepe—
conuertitur (15) ] LR Q , om. cett. saepe om. Lm1R,
ante dicitur Lm22 ; Porph. p. 19, 11 λέγεται
πολλά*ις rationabile R 13 post , de] A ,
om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3 deo] ii
angelo R deo et angelo L; cf. Porph. p. 19, 12 adn.
ante proprium add. et Δ uero om. R de
una] L 4 m2 4' in una R ΓΔ m1 ΠΣ una Φ ;
Porph. έφ’ ένός post specie add.
dicitur Δ 16 post praedicantur add. de
his Δ (s. l. m2) edd. ex his Σ hiis Φ
, om. Porph. p. 19, 14 18 post. diffe- rentia om.
C plurimis R plures L pluribus EG
speciebus Em2GR claudit ac de his omnibus praedicatur,
proprium uero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de
homine atque de deo, quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero
unam tantum tenet speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper
speciem consequatur, species uero differentiam minime. proprium uero ac
species alternis sese uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero
dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum conuenit
nuncupari, ut si dicam ‘omnis homo rationabilis est’, prius hominem, posterius
apposui differentiam; sequitur ergo dif- ferentia speciem. at si
conuertam nomina dicamque ‘omne rationabile homo est’, propositio non tenet
ueritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. proprium uero
et species quia conuerti possunt, mutuo se secuntur : omnis homo risibilis est
et omne risibile homo est. Differentiae autem et accidenti
commune quidem est de pluribus dici, commune uero ad ea quae sunt 16—p.
333, 3] Porph. p. 19, 16—19 (Boeth. p. 48, 8—12). 1 clauditur
EGRm2 claude his (sic) ml 2 cui iungitur] coniungitur
Lm1N, add. et L rationabile CGLPR 3
pr. de om. CH, er. L post deo add.
praedicatur R, s. l. Lm2 post quadrupes add. uero
R et ceteris] ceteris E ceterisqne GP 6 ac]
et E 7 aeque G R ( -(??)e ) comitentur HN
comitatur ex commitetur Rm2 sequi] si quid EGPm1
8 quotiens om. EG, s. 1. Pm2 qualibet re ( re s. l.
Pm2) prius nominata HLNPm2R reliquam HLm2NPm2
reliqua Lm1Rm2 uero qua m1 9 rationalis
Cm2HN est om. N 10 posterius ex prius
Em2 opposui EG posui Lm1R ergo] enim
E 11 at] et Hm1 nomina] ut (in ras. Lm2) prius
differentiam nominem HNP, in mg. Lm2 12 rationale HN
propositi CG proposita oratio in ras. E 13 nulla ratione
differentiam C proprium—secantur in mg. sup. Hm2 14
sequuntur PRm2 sequntur E ante omnis add.
ut L, post add. enim HNP 15 et om. EG, s. l.
Lm2 est om. R 16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE E
ΕΤ] uel P ACCIDENTI C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p.
102, 7 17 accidentis Cm2 il commune— adesse om. N
18 post uero add. est Ρ ΑΠ Busse, om. Porph. p.
19, 18 inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes
enim semper adest omnibus coruis et nigrum esse similiter. Duo
quidem differentiae et accidentis communia proponit, quorum unum
separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab
altero uero separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo
communi concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus
de pluribus praedicari; nam et separabilia et inse- parabilia accidentia
sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de
coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt,
nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt
inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel stare, dormire
ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero
communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia.
nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam
inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum. ut enim
bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec
nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit
subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero
huiusmodi, 1 post semper add. in eodem
genere P omni R; Porph. p. 19, 18 παντί
post omnibus add. hominibus et L hominibus
Λ (del. m2) 2 nigrum esse] ΓΛ»ηίΨ nigris (
nigros Hm2) esse EGHm1 nigredo esse L
nigrum adest \A m2 nigrum CNΡR ΙΙΣΦ Russe; Porph. p.
19, 19 τότε μέλαν είναι (sic Μ, μέλασιν
είναι Βm2 μέλαν eett.) 4 quaedam HΝ et]
atque ΗΝ 5 sepa- rabilibus om. G, s. l. Em2 6 uero]
autem E 7 uero] enim R, recte? post inseparabile
add. accidens L accidens cum inseparabilibus differentiis in
mg. Hm2 secunda communione HLP 10 differentiae CEGLm2P
11 et de his—cygno om. H, —cygno sunt om. EGR 12
nuncupantur G praedicatur uel nuncupatur C 14
praedicantur—separabilia (16) om. N enim s. l. C
etiam H 15 isdem CPm2 hisdem ER dicitur
LP 17 post inseparabilia add. accidentia
C 19 accidentia inseparabilia HN de- serere uidentur
C 20 corui N 21 est inseparabile C 22 subiectum
non relinquit C derelinquit Lm1 23 post
huiusmodi add. est edd. quia non potest separari;
neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando
relinquit. Differunt autem quoniam differentia quidem con-
tinet et non continetur — continet enim rationabi- litas hominem —,
accidentia uero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam
uero modo continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt
subiecta, sed plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et
inremissibilis, acci- dentia uero magis et minus recipiunt. et
inpermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mixta uero con- traria
accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif-
ferentiae et ceterorum sunt, species uero quo quidem p. 108 differat a
genere et differen|tia, dictum est in eo quod dicebamus, quo genus differret a
ceteris et quo dif- ferentia differret a ceteris. Post
differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis
tractat. ac primum quidem talem proponit. 3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10
(Boeth. p. 48, 13—49, 4). 1 post. posset
Lm1 potest HLm2NPR post accidens repet. esse G ,
3 uel 4 litt. er. L 2 reliquerit H relinqueret
N 3 ACCIDENTIS ET DIFFERENTIAE Γ EARVNDEM C
EORYNDEM E de inscript. ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16 4
Different Cm1 Differt L ΣΐΑηιΐ m1 Φ post autem
add. differentia ab accidenti Γ 5 et om. GHP
continet— sunt (15) ] LR il , om. cett. enim] autem
L rationalitas ΓΑ a.c. Π2ΦΨ 6 quidem om.
Δ2 7 sint L ΓΔΛΠΦ»ιί m1 | ·uero post modo Ψ
, del. ΓΦ (ut uid.) 9 sint A 10
intentibilis ΓΣ Busse inintensibilis edd.; Porph. p.
20, 4 άνεπίτατος; ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12
post uero add. sunt ΛΦ 14 Huiuscemodi
Δ 15 quod EGR quidem om. 2
quidam Em2G 16 a om. EGH 2 differentiae E est
om. C 17 quo] quod R A m1 differet R
differt CEGP 2 a om. ΕGΗΡR ΤΠ,ΣΦ quod EGR is m1
18 differet R differat L A differt G 2
a om. EGHR TWZ 19 reddit has E communicantes Rm1
communiones m2 20 primam HN quidem om. HN
tale C differentia, inquit, omnis speciem continet.
rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species,
id est homo, praedicatur : supergressa enim substantiam hominis in deum usque
diffunditur. accidentia uero aliquando quidem continent, aliquando
continentur. continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse
pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi, nigrum coruo, Aethiopi atque
hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut
uideatur illa species plurima accidentia continere. cum enim Aethiopi
accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt
accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima
accidentia uidetur includere. huic occurri potest : quoniam differentiae quoque
aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas
continet hominem—plus enim quam de homine praedicatur —, continetur quoque ab
homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, uerum etiam mortalem.
re- spondebimus : omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab
his de quibus dicuntur non poterunt conti- neri; quo fit ut differentiae
quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem
forment. accidentia uero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam
nulla praedicatione constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur 1
omnis speciem] species R rationalitas HNP 2
rationalitas HNP 3 substantia N 4 aliquando—aliquando]
aliquo modo quid N 7 ante lapidi s. l.
pario Em2 post nigrum add. ut CEGLP, ante edd.
ante Aethiopi add. et E 8 continentur uero]
HLm2NP continentur- que cett. 9 plura HN 10 enim]
etenim N ad simus s. l. naribus pressis E
12 ex quod part. ras. quae Cm2 quod est] quidẽ
G ante intra add. et E plurima om. EGH 13
occurri] opponi HN 14 pr. aliquo modo] aliquando
EGLm2P post. aliquo modo om. N aliquando Em2Lm2P 15
rationalitas H 17 homo] nomen hominis HN mortale
edd. respondemus HN respondebimus contra haec
GLPR 18 praedicantur de pluribus C 20 a R 21
sunt H differentiae om. HN speciem forment]
CEGP speciem formant Lm(??) ( informent m2 hrm) N
formant speciem H informant speciem R 22 con-
tineantur HN 23 ad constituunt in mg. ał
subsistunt Hm2 accidentia, cum de speciebus pluribus
dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea
neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit
ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant —
una enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest —, at
uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur,
intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif-
ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non
queunt, accidentia uero contraria miscentur et quaedam medietas ex
alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil
in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius
color. Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat
de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle- gimus,
cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias
ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines
monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere,
tum differentia segregare. Speciei autem et proprii commune
est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et si risi-
21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10). 1 pluribus
speciebus HN 2 maximae EH, add. dicuntur uniuersalia
et ( et om. R) proprie Lm2 (in mg.) R 4 ut om.
CG, s. l. Lm2 5 una quaeque enim HNR 6 quoniam] quia
E 7 profitentur] monstrant R ante intentione add.
et HN 9 his] se C 10 misceantur N
permiscen- tur R et] ut C 11 coniunguntur
LN fiat C 12 rationali C ( bi s. l. er.) HN
inrationali HN in unum] L in om. cett.; cf.
indicem Meiseri s. unus 13 post color s. l. ut uenetns
Pm2 15 ad genus— differentias om. EG 16 dicebamus]
diximus EGP 17 diximus] dice- bamus C 19 proprio
HLm1NP accidenti Lm1 accidenti tum HPm2
accidentique (om. et ) N communione HLm1NP
tunc R 20 disgre- gare N 21 de inscript. ap.
Porph. cf. ad p. 102, 7 23 nam—dictum est (p. 337, 4) ] LR Q
, om. cett. post homo add. est ΔΣ , s. l. A
m2 et si] ΔΕΈ et L ΓΛΠΦ ita et R post
risibile add. est ΔΣΨ bile, homo est – risibile
uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe iam dictum est —;
aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et propria quorum
sunt propria. Commune, inquit, habent propria atque species ad se
ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de proprio, ita
proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis, ita risibile
homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius communitatis rationem
subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species indiuiduis participantur,
sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae ratio non uidetur ad
conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam aliam similitudinem,
quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur, ita etiam propria;
aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam risibiles. itaque
tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum : aequaliter enim
sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum sunt propria. an
magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret ‘aequalia enim sunt
species et propria’? nam quia species eorum sunt species quae spe- ciebus
ipsis participant, et propria eorum propria quae|pro- p.109 priis
participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque
species superuadit ea quae specie parti- 8 saepius] cf. infra.
1 est om. R ante secundum add. et A
(s. l.) Busse, om. Porph. p. 20, 13 id om. J!
2 natum] Porph. p. 20, 14 κατά τό πεοοχέναι γελάν sumi
oportet] LR dicitur Q ; Porph. ληπτεον 3
sunt om. Φ , post spe- cies P
earum R, ex eorum ut uid. 5 m2 7 ita—est
homo in mg. Hm2 praedicamus EGHm2P p.c.R namque om.
N nam R 8 ita homo risibile est E ita est
risibile homo R iam] etiam C saepius] HN
superius cett. (recte?); cf. saepe 2, et ad p. 317, 4. 325,
14 10 qua CGLP eadem] eodem modo E 11 ratio] puto
Em2 12 accommo- data edd. 13 qua CGEm1P ante indiuiduis
add. ab HNR, s. l. Lm2 14 participatur H 18
ac Lp,c.Pm2 est om. C 19 aequa- liter N 20
post propria add. quorum sunt propria C 21 et
propria— atque species] atque proprium species N 23
post. speciei EGLP cipant, neque propria superuadunt ea
quae propriis participant. cumque haec propria specierum sint. propria, species
ac pro- pria aequalia esse necesse est atque inuicem praedicari.
Differt autem species a proprio, quoniam species quidem potest et aliis
genus esse, proprium uero et aliarum specierum esse inpossibile est. et species
quidem ante subsistit quam proprium, proprium uero postea fit in specie;
oportet enim hominem esse, ut sit risibile. amplius species quidem semper actu
adest subiecto, proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu
est Socrates, non uero semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis.
amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei
quidem sub genere esse et de plu- 4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3
(Boeth. p. 49, 11—50, 2). 14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad
theolog. p. 94; Theo- log. christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58
Stoelzle. 1 nec CELN 2 haec om. LN, del. uid.
E sunt EHa.c.N, add. et CE (del.) GH (del.) P (del.
m2) propriis (post sint ) E (del.) G proprii
Ha.c. 4 DE PROPRIETATIBVS Δ DE DIFFERENTIA C; de Porph.
cf. ad p. 105, 16 5 a om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2 6 et
om R SΣ ; Porph. p. 20, 17 cod. BM χαί
proprium—praedicari (p. 339, 2) ] LR Q , om. cett. et
om. Porph. 9 post R Σ post enim add.
ante L ut] Porph. p. 20, 20 Ινα xai ( Voti
om. cod. M) ut sit s. l. \ m2 11 potestate]
Porph. p. 20, 21 xol δονάμε: 12 enim] uero L est
om. R non uero semper] ΔΛΠΨ edd. Busse non semper
autem Γ2Φ semper autem non LR; Porph. p. 20, 22
γελά δέ oix αεί ; cf. infra p. 340, 4 13 quamquam
(uel quan- ) L ΓΦ natura in ras. A m2
14 termini] definitiones (uel diff- ) LR ΓΦ , ad
termini s. l. ł diffinitiones \ m2 differentes]
ΓΑ differentes sunt Δ»ιίΠ2Φ differunt LR s m2 ii} ;
Porph. p. 20, 23 ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est
diffinitiones ( id est diff. om. p. 94) sunt
differentes ( sunt differentiae p. 488) , ipsa quoque sunt
differentia Abaelard. 15 spe- cies R, post
speciei s. l. diffinicio A m2 quidem] R T\ m2 (in
ras.) Ψ brm Busse in adn., semper \ m1 (ut uid.) All/ p
Busse in contextu , esse semper L quidam terminus Σ ; quidem
sub genere semper esse Φ ante sub add. et L
A Busse; Porph. εατιν δέ ειδοος uev το οπδ τό γένος
είνα: ribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari
et cetera huiusmodi, proprii uero quod est soli et semper et omni adesse.
Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species
potest aliquando in alias species deriuari, id est potest esse genus, ut
animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. sed nunc non de his
speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundere uidetur
errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent
ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis
optineant disserit. propria uero nullo modo esse genera possunt, quoniam
specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria
quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur. Rursus species semper ante
subsistit quam proprium—nisi enim sit homo, risibile esse non poterit —,
et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem.
omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo uero differt ab
accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem uim propriae
praedicationis continet. quodsi pviores sunt substantiae quam accidentia,
species uero substantia est, proprium uero accidens, non est dubium quin prior
sit species, proprium uero posterius. Dis- 1 est] sit 2 edd.;
cf. p. 340, 13. 341, 22 2 praedicari] Porph. p. 21, 2
■κατηγορούμενον είναι post huiusmodi add. praedicari
I m1, del. m2 pro- prium R quod est om. ΓΦΨ
, del. \ m2;Porph. τό μονω προοείνα;. 3 soli et omni et
semper Λ semper et soli et omni 2 scilicet semper et
omni Gm1, ante scilicet in mg. sali et semper
m2 4 ad dicit s. l. dicunt Έ 5
diriuari EGNPR 7 specialissimae sunt H 8 hunc s.
l. L nunc N hinc C hic Em2 uidetur
confundere C 9 essent] sunt L 11 genera s. l.
Lm2, ante esse HRS 13 non queunt] nequeunt L non
pos- sunt NR 14 permiitunt C ( ur er.) N
species—subsistit] species est semper ante C 15 homo sit
LPR 16 ista] ita CLa.c. 18 uero] Brandt
enim codd. edd. accidente CNR quia] quod L
19 speciem om. H propriae del. Lm2 20 post
continet add. accidens autem quando continet, ad multas species
potest diffundi EL. (in mg. inf. m2) Pbrm 21 accidens—proprium
uero om. R 22 uero om. EG, s. l. Pm2 Decernuntur
GHLP Disterminantur E cernuntur etiam species a
propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper indiuiduis adest,
propria uero ali- quotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato
actu sunt homines, non uero semper actu rident, sed risibiles esse dicuntur,
quia tametsi non rideant, ridere tamen poterunt. natura itaque species et
proprium semper subiectis adest, sed actu species, proprium uero non semper
actu, uelut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat,
quorum diuersae sunt definitiones, diuersas necesse est esse substantias;
speciei uero et proprii diuersae sunt definitio- nes, diuersae sunt
igitur substantiae. est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter
expositam nunc iterare non opus est. proprium uero non ita : definitur :
proprium est quod uni et omni et semper speciei adest. quodsi
definitiones diuersae sunt, non est dubium spe- ciem ac proprium secundum
naturae suae terminos discrepare. Speciei uero et
accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae uero aliae sunt
communi-20 18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth. p. 50, 3—6).
1 species om. EHP, s. l. Lm2, ante etiam G a
propriis in ras. Lm2, a (om. R) proprio
Pm2R actu CHLm1N 2 post uero add. non
semper ( actu s. l. add. Lm2) sed EGLPR 3
actu om. EG, del. R, s. l. Lm2 autem semper om. EGR
4 ante sunt add. semper N 5 quia om.
HN, s. l. Lm2 tametsi] etiamsi C potuerunt N pos-
sunt R non (del. E) poterunt EG 6
ante species add. e(??) R, ras. L ad- est]
adsunt H 7 uelut] ut NR 9 diuersas—definitiones
(10) om. N 11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem
H substantiae— de pluribus in mg. inf. Gm2 speciei definitio]
diffinitio speciei spe- cies C 12 sub genere esse HΝ 14
opus non H ita definitur, om. non Hbrm, er.
E; ita, <sed> definitur Brandt, cf. p. 347, 4 15 spe-
ciei om. H 18 de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7
19 uero] autem H est quidem C 20 sunt aliae
HRT tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et
id cui accidit. Speciei atque accidentis similitudinem communem
dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et
accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe
diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est
atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis
naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens
praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et
eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt
speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis
— aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia p.
110 accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut
spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia
indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque
album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.
Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est
praedicari de his quorum est species, 20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19
(Boeth. p. 50, 7—20). 1 quam om. ΗL ΣΑΛ'Ψ (recte?), s.
l. Π m2 , quem R qui (ut uid.) N; Porph. p. 21,
6 itXststov distant ante a se Δ
(s. l. m2) A , a se om. N 2 ante
accidens add. et Γ id om. 12 , s. l.
Pm2 , hoc Σ ; Porph. p. 21, 7 *a\ το m οομβέβηχβν
accidunt Em1P 3 atque] et HL accidens Έ
dicit om. E, s. l. Lm2Pm2 de s. l. Lm2 5 dicit
alias, post er. esse uid. C 7 atque] et H 8
est om. EGHP adueniens EPm1 accidentis N 11
et eius] eius est E 12 possunt) sunt E insepa-
rabiles Cm1GP 13 subiectis semper adesse HN post
adesse add. possunt E 15 sicut] L (s. l. m2)
Rbrm, om. cett. codd. p 16 conti- nent H ante
accidentia add. ut CH 17 praedicatur G
et om. EGHPR 20 ET om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p.
105, 16 21 in] et C 22 est] sunt Hm1 sit Σ
praedicare EGm1P , praedi- catur 2 de his om.
Σ hiis Φ quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum
est species Φ accidentis autem in eo quod quale quiddam est
uel aliquo modo se habens; et unam quamque substantiam una quidem specie
participare, pluribus autem acci- dentibus et separabilibus et inseparabilibus;
et spe- cies quidem ante subintellegi quam accidentia, uel si sint
inseparabilia — oportet enim esse subiectum, ut illi aliquid accidat —,
accidentia uero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. et speciei
quidem participatio aequaliter est, accidentis uero, uel si inseparabile sit,
non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit colorem uel intentum
amplius uel remissum secundum nigredinem. Restat igitur de proprio
et accidenti dicere; quo enim proprium ab specie et differentia et genere
differt, dictum est. Quod nunc proprium speciei et accidentis se
exequi polli- cetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum
est, ad comparationem dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid
est praedicatur, accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab
accidentibus solis species 2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns
II, Introduci. ad theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297,
9. 301, 5. 1 quale] quale est N quidem CEm1
quidam m2 uel—habens om. CEGHN 2 aliquo modo]
quomodo ΓΦ ; Porph. p. 21, 10 πώς ; cf. supra
p.128, 10 adn. et—nigredinem (12) ] LR Q , om. cett. 3
unam R qui- dem om. Abaelard. participari L ΓΔΣ
a.c. Φ praedicari \ m1 autem] uero L Abaelard. 4
tert. et om. Γ 5 post quidem add.
sane L ΓΛ (s. l. m2) ΙIΣΦ Busse, om. R ΛΨ cum
Porph. p. 21, 12 post subintel- legi add. potest
Lpr possunt bm; Porph. w\ τά piv είδη
προεπινοεΐται uel om. Φ ad uel
si s. l. etiamsi K m2 6 inseparabilibus R 8
generis om. R aduentiuae R 9 aequalis Λ accidens
L T m1 A m1 10 alio Aethiope] Porph. p. 21, 16
ΑίίΚοπος 13 accidente HNR ΔΣ , ante er. de
P 14 enim] etiam H a] cod. Q Bussii (om. cett.) edd.
(cf.p. 344, 9), ab scr. Brandt speciei Ca.r.EGR
et om. CEGHPR differen- tiae GR 15 differt om. L
differat ΦΣ distat R est dictum H, add. in
illorum differentiis ad ipsum 2 18 dicatur R 20
est om. GP, post add. praedicatur H discernitur,
uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum
etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens
uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;
genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat
praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species
continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est
species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima,
itemque in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at
uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim
substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus,
quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis
de numero accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia
species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse
non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi,
accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte
igitur prius species, accidentia uero posterius intelleguntur;
posterioris enim sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae
substantiam non informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et
posterioris generis; his enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis
informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam 1 decernitur
Rm2 ac s. l. Lm2 a EGH et a P 3
praedicatur post species H quod om. E, s. l.
Gm2 4 se EP habet LR id—habeat (6) om.
R est commune H post est add. speciei
L (s. l. m2) brm 5 accidenti] edd.
accidente codd. quod om. E 8 propinquitate
EPm1 propinqua L species est LR 9 est equi
H item H 10 una—substantiae in mg. Hm2 13 quod simus
om. C 15 accidentium ex accommodantium Hm2 post
conuenit add. dicere R ante om. C 16
accidit CHLNPR, recte? 18 autem del. Lm2 enim
P 20 uero om. R, in mg. Lm2 posterius] postremo R
enim] uero CE 21 generis ut ait CR nam quae] nam
Rm1 namque EG nam quia CN 22 ante
recte add. ideo EGL (s. l. m2) P (del. m2) esse
om. H monstrat, substantia uero, ut dictum est, intentione ac
remis- sione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non
suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest inten- tionis
remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum inseparabile accidens
quod Aethiopibus inest, nigredo. potest enim quibusdam talis adesse, ut
sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit nigerrima. Restat
nunc proprii communiones ac differentias persequi. sed quo proprium differat a
genere uel specie uel differentia. superius demonstratum est, cum quid genus
uel species uel differentia a proprio distaret ostendimus. nunc reliqua
ad com- munitatem uel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus
aut iungat aut segreget. Commune autem proprii et
inseparabilis accidentis est quod praeter ea numquam constant illa in
quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita
nec praeter nigredinem sub- 14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth.
p, 51. 1—6). 1 demonstrat H ac] et H 2
remissionemque] ac remissionem H 3 si s. l. CLm2 4
in (del. m2) incremento H decremento R edd.
uti R ita E 5 ante nigredo add.
ut Hm1N id est s. l. Hm2 6 fu- scis] La.c.
edd. fuscus Lp.c. et cett. aliis uero] edd. uero
aliis codd. ( uero s. l. Lm2) 8 post
proprii add. et accidentis N ac] ad EGLm1 9
quo] Cm2 (part. ras. corr.) quod Cm1EGLm1NPR quid
HLm2; cf. p. 342, 13 10 quid] quod N quicquid E
uel differentia uel species H 11 a s. l. Lm2 12 uel]
et N quod E quae Hm2LR 13 iungit
EGHm1LPm1R segregat LPR separet N 14 ACCIDEN-
TIS] Porph. p. 21, 20 cod. Μ σομβεβηχοτος , cett.
τοδ άχωρίστοο σομβεβη- αότος ; de Porph. cf. etiam ad p. 102,
7 16 est post commune L, ante accidentis AA
m1 accidentis inseparabilis est m2 praeter ea] prop- terea
Φ constant] CH Busse (coll. p. 159, 7) consistant EGNPR
h m1 A p.c. W edd. consistunt L A a. c.
112Φ consistent r\ m2 illa post
quibus N 17 quemadmodum—Aethiops (p. 345, 1) ] LR Q
, om. cett. 18 ita om. 2 , s. l.
A m2 subsistit] non subsistit A m2; Porph. p. 22, 1
ΰποσταίη dv sistit Aethiops, et quemadmodum semper et omni
adest proprium, sic et inseparabile accidens. Quoniam proprium
semper adest speciebus nec eas ullo p. 111 modo relinquit
quoniamque inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc
illis inter se uidetur esse commune, quod ea in quibus insunt, praeter propria
uel inseparabilia accidentia esse non possint. inseparabilia uero accidentia
com- parat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque
accidentis similitudines. quocirca multo magis proprii atque accidentis
communitates difficile reperiuntur. accidens enim in contrarium diuidi solet,
in separabile accidens atque in inseparabile, quae uero sub genere in
contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant.
quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili accidenti
plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separa- bilis accidentis
similitudines quaerit. sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab
inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inueniri possunt et
inter se differentiae. quarum una quidem ea est quam superius exposuimus,
secunda uero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest, ita
etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest,
ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. 8 ut in
specie dictum est] p, 340. 20. 1 et omni om. H et
om. R; Porph. p. 22, 2 παντι και άεί 2 sic om. P sicut
C et om. R 3 semper om. H 4 quodque
Hm1 5 inter se post commune H 6 ea in] eam
(m del. m2) H insunt] sunt R, add. ipsa propria et
inseparabilia accidentia sunt E (del. et s. l. glosa est scr.
m2) L (in mg. m2, om. sunt) P (om. sunt) uel] et
LNR 7 possunt EHLm2NP uero s. l. Cm2 ante
comparat s. l. proprio Cm2, post s. l. scil.
proprio L 8 sunt post accidentis H 10
ante accidens add. scilicet E 11 enim] uero
R 12 sub genere om HΝΡ, del. Lm2 14 quiddam CL
quoddam post est H 16 simili-
tudines—accidentibus in mg. Em2 17 causis om. EG
rationibus Lm2PR 18 differentiae] dissentiae uel differentiae
H 19 est ea H 21 post accidens add.
est H 22 et semper om. H et semper adest s. l.
Gm2 post. et] N edd., om. cett. Differt autem
quoniam proprium uni soli speciei adest, quemadmodum risibile homini,
inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi, sed etiam coruo
adest et carboni et hebeno et quibusdam aliis. quare proprium conuersim
praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile autem
accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum quidem aequaliter est
participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa uero minus.
Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie- tates eorum quae dicta
sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque
traditionem. Proprii atque accidentis prima quidem differentia est
quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens uero minime,
sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub- stantias speciesque
diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum
uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae
diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt generi- bus,
non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis quidem 1—13] Porph.
p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17). 1 PROPRII ET ACCIDENTIS] CP
W , item Porph. p. 22, 4 cod. M ( των αυτών plerique
cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII cett., nisi quod EORV II
EORVNDEM Ψ ; de Porph. cf. etiam ad p. 105, 16 2 Dif-
ferunt CG ΔΣΦ ; Porph. p. 22, 5 διενήνοχεν
proprium om. Σ 3 risi- bili N
inseparabile—minus (10) ] LR Q , om. cett. 4 soli
L A‘l> 5 etiam] aeque R hebeno plerique codd., item
20. p. 347, 7 6 proprium est ΓΦ 7 post.
est] ΓΔ (del. uid.) ΙΙΣΦΨ cum Porph.
p. 22, 8, om. LR A Busse 8 autem] uero ΔΛ Busse
conuersim non] nec conuersim A proprii R A m2 2
proprium uero Φ 9 aequaliter] R 2 , coni. Busse ,
aequalis cett.; Porph. p. 22, 9 και τών μέν ιδίων έπίτης ή
μετοχή 10 hae Δ 11 uel] Porph. p. 22, 11 τέ
καί 12 earum C dictae CEGHP hae N
et R 13 traditionem ex distractionem E
contradictionem Gm1 14 est om. H 16 praedicatio
eius H 17 species Cm1 19 diuersae HLNPm2
diuisae m1 20 speciei H (ante sunt) N
tunc R nec non Lm1 sed tum m2 21 tantum
specie] uni tantum speciei P conuersio aequa seruetur, in
accidentibus uero minime. quoniam enim propria in singulis esse possunt atque
omnes continent, species conuerso ordine praedicantur; nam quod risibile est.
homo est, et quod homo, risibile. nigrum uero non ita, sed ipsum quidem
de his praedicari potest quibus inest, illa uero ad huius praedicationem
conuerti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque
coruo prae- dicatur, haec uero de nigro minime, nam quae plurima con- tinent,
de his quae continent praedicari possunt, ea uero quae continentur, de
sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter
participatur, accidens remis- sionibus atque intentionibus permutatur. omnis
enim homo aeque risibilis est, Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut
dictum est. alius quidem paulo minus alius uero taeterrimus
inuenitur. Et de proprii quidem atque accidentis differentiis
satis dictum est. restabat uero accidentis ad cetera communiones proprie-
tatesque explicare, sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis,
differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines ac differentias
adsignauimus. fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias
praeter eas quas nunc diximus com- munitates uel differentias quinque rerum
quae superius sunt positae reperiet, sed ad discretionem atque eorum
similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. nos etiam,
quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab
rhetore Victorino, post uero a nobis 1 conseruetur (con s. l. m2 )
aequa conuersio H 2 esse presunt (pre- sunt del. m2) H
esse Lm1 esse habent Lm2R 4 post post.
homo add. est CLR post risibile add.
est LPR 5 quibus] in quibus R 7 ante
hebeno add. de H, er. uid. L 9 continentur HN 11
proprium post quidem H (s. l. m2) quidem om.
G 12 permittatur E 15 deter- rimus CLN 16 proprii
* (s er.) HL differentiis om. G proprietate
E 17 accidens G 18 replicare EGLPR iam]
etiam EG enumeratae La.c. 19 speciei] et speciei
NR ad accidens] et accidentis Em1La.c.R 20 his om.
NR 23 ante eorum add. ad EGLPR 24
sufficiant HR 26 ab in a mut. ut uid. C Latina
oratione conuersam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus
operi continenti quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta
seruanti. 1 conuersa ELm1 2 continenti om.
C quinque] V L (in ras. m1?) edd., om. cett. 3 et om.
C seruienti brm ANICII MALLII SEVERINI BOETII LIBER QVINTVS
EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS COMMENTI P ; FINIT. EXPLICIT EDITIONIS
SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER QVINTVS FELICITER. AMEN (er. uid.) DEO
GRATIAS C ; ANICII MANLII SEVERINI POETII (sic) ILLV- STRIS
CONSVLIS EXPLICIT LIBER L ; ANICII. MANLII. SEVERINI. BOETII. (A. M. S.
B. N ) V. C. ET ILL. (I LL S. N ) EXCONS. (EXCS N ) ORD.
PATRICII. (ΈΧC.—PATR. om. G) IN ISAGOGAS (YS- EG)
PORPHYRII (I pro Y N) IDE. INTRODVCTIONES (-NE
E) IN CATE- GORIAS (KATH- N) A SE (om. N)
TRANSLATAS. (-TĘ E , IDE— TRANSL. om. G) EDITIONIS
(EDΙCΤ- E , AED- N) SCDĘ LIBER V (QVINTVS N)
EXPLICIT EGN, add. TIBI PAX. AMEN. E ; QVINQVAE (sic) FIT
OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV R; subscriptione caret H, item e codd.
Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’ (nisi
quod in Φ recens quaedam est); post
traditionem p. 346, 13 habent EXPLIC. LIB. HISAGOGARV
PORPHIRII Δ , EXPLICIT Π. gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio ne,contra
ionesfoliorumhonoraresolem,quamhominesgenarumgestu,moru labiorum.No folumuero'inplantis,quæueftigiumhabentuitæ,fedetiaminlapidibusaspicerelicet,imitations,
&
participationemquandamluminumsupernorum,quemadmodumhelicislapisradijsaureisso
laresradiosimitatur.lapisautem ,quiuocaturcælioculus,uelsolisoculus,figuram
habetfimilēpu
pillæoculi,atqsexmediapupillaemicatradius.lapisquoqueselenitus,idestlunaris,figuralung
cornicularisimilis,quadamsuimutationelunaremfequiturmotum.Lapisdeindeheliofelenus,id
estsolaris,lunarisózimitaturquodãmodocongreffum folis,&lunæ,figuratcscolore.Sicdiuinornm
omniaplenafunt, terrenaquidemcælestium, cæleftiauerosupercælestium
p,roceditæquilibetor d o r e r u m u s o a d u l t i m u m . Q u æ e n i m s u
p e r o r d i n e m r e r ü c o l l i g ū c u r i n u n o , h æ c d e i n c e p
s dilatan turindescendendo,ubialiæanimæsubnuminibusalñsordinantur.Deinde&
animaliafuntsolana multa,uelutleones,& galli, numiniscuiusdamsolarisprofuanaturaparticipes,
undemirum est,quantum inferioraineodem
ordinecedantsuperioribus,quamuismagnitudine,potentias n o n c e d a n t. h i n
c f e r u n t g a l l u m t i m e r i å l e o n e q u a m p l u r i m u m ,
& q u a f i c o l i . c u i u s r e i c a u s a m a m a tería, sensuueassignarenonpossumus,sedsolumabordinissupernicontemplatione.
quoni amuidelicetpræsentiafolarisuirtutisconuenitgaltomagisquamleoni:quod&
indeappare 1928 Marfil. Ficin.in InterpreteMarsilioFicinoFlorentino.
Vemadmodum amatoresabipsapulchritudine,quæcircasensumapparet,addiuinam
paulatimpulchritudinemrationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli,
derarentinrebusnaturalibuscognacionemquandamcompassionemç;aliorumadalia
&manifestorum aduiresoccultas,&
omniainomnibusinuenirent,facrameorumscien quicquidest,pulchrumeft,&bonum
eft.etiamsiindecorporissequaturincommodum.Corpus enim nonparshominis, fedinftrumentum:instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem.
Quomododifferantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum.
Ietioneseiusmodi,fcilicetsecundum feipsum,& quaipsum
,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n t u r . Q u o d e n i m s e c u n d u m
s e i p s u m a l i c u i c o m p e t i t , p o t e s t e i n o n c o m p e t e
r e p r i m o.
Quodautemquaipsumconuenispræterid,quodconuenit,secundumseipfumeciam primo
competitei,atqueadæquatur.Pulchrumigitur,ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc
ipsumdiciturpulchrum,efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,&
animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens,fedquarationepul.
chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft& bonum.Bonãenim estmensura
cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua turpe,malum est.N
a m qua curpe eft,informe est qui 1
quiagallus,quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,&
quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando
nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi p r æ d i c i , a r c f, c u m i
p f i i n s e f i n e f o r m a e s s e n t, n o b i s t a m e n , q u i f o r
m a t i s u m u s , o c c u r r e r e f o r m a t i. N o nunquam tione.
Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt
eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià,quatenusuidelicetnaturaliteradea
uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum
nonadfintlocaliaconditionecorporibus,habitudine quadam
eisadfunt.Quæfecundumsesuntincorporea,certenonpersubstantiam,&peressentiam
corporibusadsunt.Non enim corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo
mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam
propinquacorporibus.Ipsanamqinclinatiose.
cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta
&ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido,&
tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens,
nonutunturpropinquirate.Animacorporialligaturconuersionequadam
adpassionesprouenien resacorpore.Rursum foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa
naturasoluit.Rursusquodconciliauitanima,hoc& animadirimit.Naturaquidem
corpusinanimadeuincit,animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab anima
separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat, saclia usmodi .Qui 1 Proc.De
Sacrif.& Magia. 1929 ICOR bada mler : in: no.N enlos ur,but aliano compiz
quider Locum siuecausisadintelligibilianosducentibus. MARSILIO FICINO
INTERPRETE. Denatura,e alligatione,o solutioneanime.
Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam indiuiduam,arqueessentiamueracorpora A
diuisibilem.Intellectusautem essentiaest,indiuiduafolum
.Sedqualitates,materialesqfor lael,ea 703 ncense garia 1,fiu ucent oxd zateni
XOM etiam dæmones nisisuntsolares leoninafronte.quibuscum
gallusoböceretur,repente disparuerunt.Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem
ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum
plerişintuentesuirorumimaginesdiuinorum,hocipsoas.
pe&uuererisolentturpealiquidperpretare.Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis
correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan
tur, utpalma,dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam
uideresanelicetpro
prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet
angelis,dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque
lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum
uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,aliapurifi c a r e n t. M i s c e b
a n t a u t e m p l u r a i n u i c e m , q u i a u i d e b a n t f i m p l i c
i a n o n n u l l a m h a b e r e n u m i n i s p r o
prieratem,nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem
ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul
tisconficiebant,assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuasexmaterñismul
tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum
diuinafymbola,reddentesísun um tale,qualediuinumexiftitsecundum
effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum
quidemdiuisiounamquamg debilitauit,mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non
nunquam
ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus.SufficicenimCnebison,ideftcar
duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem ,ad custodiam uerò laurus.Raccinum
,ideftgenus uirgultispinosum,cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio.
nem uerosulfur,&atosmarina.Ergosacerdotespermutuam
rerumcognationem,compassionem'. conducebant inunum,perrepugnantiam
expellebantpurificantes,cum oportebat,sulfure,atque asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa
cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum
cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter.Quamobrem
abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num ,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus
naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus
propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires
actiones&processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim
ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam
deorumintelligentiamascendentes, a c d e n i q p o f t h a b i t i s n a t u r
a l i b u s r e b u s, a c t i o n i b u s q u e , a c m a g n a e x p a r t e
d æ m o n i b u s in d e o r u m feconfortium receperunt. PORPHYRIVS DE OCCASIONIBVS,
Denaturacorporeorum,atqueincorporeorum. Mnecorpuseftinloco,nullumuerocorum
,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid tale, estinloco.Quæ
secundumsesuntincorporea,eoipso, quodpræstantiusestomni
corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam condi USCE
inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto 10,p Omnia
MMM $ Omniaquodammodosuntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt.
On fimiliteromniainomnibusintelligimus,sedpropriesehabetadomniauniuscuíused
sentia:intellectuquidem
intelle&ualiter,inanimauero'rationaliter:inplantisseminarie,in
corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper
intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe
rioris,aliaanimæ,aliaintele&ualis:uiuuntenim&
ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur.
aliaueropartimquidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem
folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. p e r , e d u c e r
e. A n i m a q u i d é h a b e t o m n i u m r a t i o n e s . A g i t a u t ē
s e c u n d ã e a s ,u e l a b a l i o a d e x
peditionemeiusmodiprouocata,uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,& cum
abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum
uero'ingredicurinseipsam,adintel
ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence
quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis.
ANimaeftessenciainextensa,immaterialis,immortalis,in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese
fimiliterpossidente. Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa.
Liudestpaticorpora,aliudincorporea.passioenim corporụm cum
transmutationecötingit
passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo
modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans
mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia.Quæ enim
a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus
propinquant,ipsaqui d e m n o ns u n t p a s s i u a , s e d i l l a , i n q u
i b u s h æ c a p p a r e n t , p a t i u n t u r , q u á d o e n i m a n i m a
l s e n d t , a n i m a quidam fimilis esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex
seipsam chordas mouenti cötemperatas Corpusaữrsimileharmonię,quæ
inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal
proptereaquodfitanimatū, quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum
,corporaueros
quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim
ibinonhar m o n i c a q u i d é s e p a r a t a p a t i t u r , f e d c h o r d
a . & m o u e t f a n e m u f i c u s p i p f a m , q u æ s i b i i n e f t
,h a r m o n i ā: newtamenchordarationemusicamouereturetiam
,fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora,sed
fecundum nudam ad corporapriuationem .Quãobrenihil
prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:&
aliarursusantecorpora,alia
ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun
dum sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse
adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo
permutata,nempefecundumnegatione corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum
assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur.
PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino.
Ateriaepropriaapudantiquoshæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus,
prætereauitæexpers,negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum
seuiuens.Itêin, formis,permutabilis,infinita,impotens.Quapropternec
ens,feduerum nõens,imagomol lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum
impotens,itéappetitio fubfiftentia.& ftansno
instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus,tūmagis,tūdeficiens,cī
excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere
potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd
pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo
uũ,quafienimludusquidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis,
Quamobren M 1930 Marsil. Ficin.in
infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate.
Ncorporeæfubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul
tiplicantur, adscendentesautemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis.
Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè.
Mne,quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina O
curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas
Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio
quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata,
sedeftipfaspropofitiones,fiueproductionesina&um
corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium
passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon
abfqimaginatione,nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse quensquiddam
estadanimalsensuale,ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima
intelligentisinanimali. 1 N Despeciebusuite. On
solumincorporib.æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur
eftenimuitaplantæ,animalisalia:aliarursusintellectualis Alia IN N > M
Dedifferentijsincorporeorum. Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.
quamobremquæineasuntimagines,insuntindeteriorirursusimagine,quemadmodüinspeculo
idquodalibilitumeft,apparetalibi,&ipsumspeculumplenumeseuidetur,nihilqzhabet,dumom
nia uidetur habere. funt,autnonfunt,quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere,
fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus
eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas fionem.Eiñamos
quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum
feipfam qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe,
untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim
incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá
o b r e m e a q u o r u um i u e r e e f t a b e x t e r n i s , n e c a s c i
p l i s , n i m i r u m & u i u e r e , & n o n u i u e r e p a t i p o
f l u n t. S e d e a , q u o r u m e s s e i n u i t a c o n f i f t i t, p a s
s i o n i s e x p e r t e , n e c e f f a r i u m e f t p e r m a n e r e s e c
u n d u um i t a m , quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac,quarenus&
uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma
côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere, areinterire,patiofecundumhocipfum
incompofitum exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam
animanoneftaliquidexuita,& nonuitaconflatum,seduicafolum
constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ ratiofitnaturaipfasemouens.
Omnisintellectuseftomniformis.
Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut&
inparticulariquolibetintelle&u,uniuer
soosintelle&ufintentia:fedintele&u quidem uniuerfaliendaeciam
particulariauniuersalifint ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa
dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis.
Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos
pmutantadsubstantiâinferiorib.exhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi
tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc
qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą
particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta.
Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum
cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque f i m i l e c o g n o s c i f o l e
t, q u o n i ã o m n i s c o g n i t i o , a s s i m i l a t i o q u æ d á e f
t a d h o c i p f u m, q d c o g n o f c i t u r. ens
uelutfalsamconcipimuspassionecă, ingentemuidelicetili,quidigrediturextraseipsum,ipfeenimquisquequemadmodumexistenter
deftuere,atokperseipfumpoteftreduciadipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres
diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia.
Substantiaincorporeaestubicunqueuult.
Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum
eft,ficubicung,&quò
modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers, nihilą
adip Porphyr de Occasionib. 1931 Quidpatiatur,quidnon.
Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim
adinteritãeftadmissiopas
fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur
Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur.
yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,& cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum&
morg
inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita
est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. .
Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur
D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum
dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria.
Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin
telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine
telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N
sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum &
quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc
discurritlocusenim cum mole simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in
angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag
nitudine
prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper
manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo.
cointereatumubique,tumnusquam simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione
uelsupercælum ,uelinpartemundiquadam
apprehenditur:quandoueroinaliquamundipàřecte n e t u r ,n o n o c u l i s q u i
d e m a f p i c i t u r, s e d e x o p e r i b u s e i u s p r æ s e n c i a s
u a fit h o m i n i b u s m a n i f e s t a s
Substantiaincorporeinullocorporecohibetur,fedproducitescamincorporeperquamse
corporiapplicát. Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur,
Q quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco
-hibere,nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,&
cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite
Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l
a s u b s t a n t i a r u m , q u æ u n i u e r f æ s u n t, a t æ p e r f e c
t æ a d f u a m c o n u e r t i t u r g e n i c u r ă . O m n e s
autéperfe&tæsubftantiæadgenerantiarediguntur, & idquidemadcorpusufo
mundanum. 1. Quomododifferenterestubiq;DeusintelleĀus,animas Euseftubiq
,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam anima.deníqueubiqet EX
PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. . quinetiamcognoscitipsum,quod in
feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/ num,quohicopprimitur,deprehendit.
Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus consentancã,tūhuius locinaturæ
,tum suiipsiuscognitioni conuenientem,
Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina.
Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad
Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim
iracomponitur,nequeproquantitaterationūac quare
perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa, defectusautempri
oraetiam adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim
differentia 1932 Marsil. Ficin -in
substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co
pulaitaßeiusad
corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud adem
ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum
corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum
pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio
Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam
inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio
Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus
facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą
perducta:quæ quidēautexpropinquo,autex.lon
ginquoeficifolet.HæcitasnonsolumappetereDeūdicipossunt,sedetiam
prouiribusafequizin
lubstancijsueroparticularibus,&admultalabipotentibusineftprocliuitasdeflectēsadgenicuras:
ideoiginhisdeli&um dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata.Hasigiturcontaminatiplama
teria,proptereaquodadhácdefledipossint,cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse:
quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ
funtpoft ipsum.Suiueròipfiuseftfolum,ficutest,atqueuult.Intelle&usautem
inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum ,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor
Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá.Corpusaūt&
inanima,& inintels lectu , & in D e o , omnia profe & o cūentia,t u
m non entia ex D e o sunt,& ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum
nonentia,necexistitineis.Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in o m n
i b u s e s s e t. A t q u o n i a m e f t , & n u s q u ã , o m n i a s a
n e p e r i p s u m f i u n c f i u n t á ž r u r s u s i n i p f o , q n i a m
ipfeexistitubios:diuersarursusabipfo,quoniãipsenusqua.Similiterintele&usubicexistens,atqs
n u s q u ã , c a u s a e f t a n i m a r ã , a n i m a s æ s e q u e n t i ū
:n e q s i p s e a n i m a e f t , n e g q u æ p o f t a n i m a m , n e q u e
i n cisexistic:quoniamuidelicetnon folum ubiqueest,eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã.
Rursusanimanequecorpuseft,nequeestincorpore,fedcausacorporis,quoniam dum ubiq
eftper corpussimuleft,&incorporenusquam
,processusdeniquniuersiinilluddefinit,quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet,sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps.
Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se
stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino
Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino Padre della Chiesa e
martire NascitaFlavia Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato
daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario
principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica di Roma (VT) Ricorrenza1º
giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributipalma, libro Patrono difilosofi
Giustino, conosciuto come Giustino martire o Giustino filosofo (Flavia
Neapolis, 100 – Roma, 163/167), è stato un martire cristiano, filosofo e apologeta
di lingua greca e latina, autore del Dialogo con Trifone, della Prima apologia
dei cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui dobbiamo anche la
più antica descrizione del rito eucaristico. Iustini Philosophi et
martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi cristiani, e venerato come santo
e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli ortodossi. La memoria si celebra il
1º giugno. La Chiesa Cattolica lo considera anche santo patronodei
filosofi insieme a Caterina d'Alessandria, pur non essendo nessuno dei due nel
novero dei Dottori della Chiesa. BiografiaModifica Giustino, che spesso
si dichiarava in verità samaritano, visto il suo nome e il nome di suo padre -
Bacheio - sembra piuttosto di origini latine o greche. La sua famiglia
probabilmente si era stabilita da poco in Palestina, al seguito degli eserciti
romani che qualche anno prima avevano sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio
di Gerusalemme. Come riferisce Giustino stesso nel Dialogo con
Trifone, venne educato nel paganesimo ed ebbe un'ottima educazione che lo portò
ad approfondire i problemi che gli stavano più a cuore, quelli riguardanti la
filosofia. Racconta che la sua smania di verità lo portò a frequentare molte
scuole filosofiche. Presso gli stoicinon trovò giovamento, in quanto il problema
di Dio, per questa filosofia, non era essenziale. Poi frequentò la scuola
peripatetica, ma anche presso questi filosofi non trovò quanto cercava. Si recò
presso un filosofo pitagorico che lo sollecitò dunque ad approfondire le arti
della musica, dell'astronomia e della geometria. Ma Giustino, troppo
concentrato nel voler raggiungere la "verità" e la "conoscenza
di Dio", reputava tempo sprecato il soffermarsi su tali materie.
Approdo al platonismoModifica Da ultimo frequentò una scuola platonica;
un maestro di questa filosofia era da poco giunto nel suo paese e presso questa
corrente filosofica trovò quanto credeva di cercare. «Le conoscenze delle
realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente...», dice
Giustino. Si convinse che questo lo avrebbe portato presto alla "visione
di Dio", che considerava essere lo scopo della filosofia. Decise di
ritirarsi in solitudine lontano dalla città, ma in questo luogo appartato,
secondo quanto racconta nel prologo del Dialogo con Trifone, incontra un
anziano, con cui inizia un serrato dialogo, incentrato su Dio e su cosa fare
della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano la sua idea di Dio «Ciò
che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre
realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a ragionare su di un aspetto che
forse a Giustino era sfuggito: come possono i filosofi elaborare da soli un
pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto né udito? E porta il giovane a
meditare sulle persone considerate "gradite a Dio" e dallo stesso
"illuminate", i Profeti, che nel tempo avevano parlato di Dio e
"profetizzato in Suo nome", in particolare la "venuta del Figlio
nel mondo" e la possibilità "attraverso di Lui" di avere una
"vera conoscenza del divino".[1] Conversione al
cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si converte al
Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i discepoli,
utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche. Oltre a
questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino indica anche
un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso, che mi
ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano
accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti
ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel
vizio e nella concupiscenza». Giustino viaggiò molto, andò a Roma
una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta
cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della
fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò
numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi,
specialmente con Crescenzio il cinico. La sua fede lo porterà a
subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era
prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167,
con queste parole: «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare
agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e
condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.» Di
questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI.
Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua
sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte
imperiale), Peone e Liberiano. Le sue reliquie furono traslate da
Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore
della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di
Viterbo.[2] Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che
intravide in Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori
precristiani, precursori del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito
Santo è identificato con Dio stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu
introdotta già dal platonismo.[4] A Giustino si deve la più antica
descrizione della liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la terminologia
filosofica nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede e ragione. Si
schierò duramente contro la religione pagana ed i suoi miti mentre privilegiò
l'incontro con il pensiero filosofico. La figura di Giustino
attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al santo cristiano
una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].
OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due
apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum
Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo
con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei
cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a Parigi.[6]
La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di Prisco, figlio di
Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto
questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe
ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro.» (Apologia
Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è indirizzata all'imperatore
Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un tema che sarà ampiamente
sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica della prassi diffusa
presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di appartenere alla
religione cristiana era motivo sufficiente di condanna. Giustino
inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni interne alla
società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani sono condannati
a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini sostengono
apertamente l'ateismo senza conseguenze. Interessante, poi, è il
fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli sinottici per
esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i tentativi
dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo
attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e
Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a
brani dei vangeli o dell'Antico Testamento. «Sia la Sibilla sia
Istaspe profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è
corruttibile. I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio
stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una
trasformazione, risorgerà. [...] Se dunque noi sosteniamo alcune
teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo
ingiustamente odiati più di tutti? Quando diciamo che tutto è stato
ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone;
quando parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo
che le anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la
morte, e che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo
sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...] Quando noi
diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro
Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto
e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli
che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus. Voi sapete infatti
di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos
[...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle,
che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con
il cavallo Pegaso. Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi
affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo
speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla
vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus. Se
poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è
comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti
a sofferenze. [...] Se poi diciamo che è stato generato da una
vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.
Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici
dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni
appariremo concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad
Asclepio.» (Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una
petizione che contiene una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a
Giustino per mostrare come anche un'autorità imperiale era del parere di
giudicare i cristiani in base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi;
ed una lettera dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della
pioggia" durante le guerre marcomanniche.[9] Il Dialogo con
TrifoneModifica «La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più
prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e
sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l'animo alla filosofia
[...]» (Dialogo con Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei
cristiani (grecoἈπολογία πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ;
latino Apologia prima pro Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei
cristiani(greco Ἀπολογία δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων
σύγκλητον, latino Apologia secunda pro Christianis ad Senatum Romanum),
Giustino scrisse il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος,
latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), opera dedicata a un certo Marco Pompeo.
Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in
comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un
dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti
Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la
personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è
mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni
mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il
culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie
descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il
dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era
consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo
del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se
effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo
fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che
quest'opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del
tempo nutrivano verso la loro fede. L'opera presenta anche un
prologo, in cui Giustino racconta di un suo incontro con un vecchio saggio che
lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino lo interroga tra l'altro sulla
dottrina, da lui professata, della trasmigrazione delle anime anche dentro
corpi animali, esposta nel Timeo platonico. L'interlocutore gli risponde che
una tale possibilità non avrebbe senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza
delle colpe passate e quindi neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo
luogo, il vegliardo passa a confutare la dottrina dell'immortalità
dell'anima.[13] NoteModifica ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine
du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin
Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez
(dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del
cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378 online ^ La reliquia di San
Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it. ^ Étienne Gilson, La
filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^ Giuseppe Girgenti,
Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in appendice "Atti
del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del Centro di Ricerche di
Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7, Milano, Vita e pensiero,
1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19 novembre 2020. ^ Lev
Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire». In: Lev Tolstòj, Tutti
i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. I, pp. 808-810,
Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN 88-04-34454-7 ^ Philippe
Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit de Londres (Musei
Britannici Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris (Parisinus Graecus
450)", Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online ^ Francesco
Barbaro, Apologia seconda di S. Giustino filosofo e martire in favor de'
Cristiani al Senato romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata in
occasione che mette fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814.,
Treviso, Tipografia Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020.
Citazione. Essendo manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben
sapeva e confessava l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di
Adriano. ^ ( EN ) Lettera di Marco Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques
Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei
Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^
Giuseppe Visonà, introduzione a Saint Justin, Dialogo con Trifone, Paoline,
1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª
edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo 2019, pp. 14,12, OCLC 1088865057. ^
Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico, Vita e
Pensiero, 1995, p. 124. BibliografiaModifica Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.
Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings
of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec
Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I:
Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices,
Indices Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques
a la fin du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci
1997). Johannes Quasten. Patrologia, Marietti, 1987, vol. I, pagine 175-194.
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Taziano il Siro teologo e filosofo siro Filosofia cristiana WikipediaGiuseppe
Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena, Giustino martire,
la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio, traduzione di Marsilio
Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio, henologia platonica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Girotti – la curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo. Grice: “I like
Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should,
but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello e Berti. Pubblica
“Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica
della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società
Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris,
Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui
metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere,
Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa
multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino
dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna;
Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; Giovanni Gentile;
Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione
del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi
dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità
di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani, La collana si chiama Briciole di Filosofia “una
storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’;
infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter
abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione,
quella che Girotti definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti
distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come
oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo
sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso
mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe
l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.” È su questo “fatto spirituale” che Girotti
refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico”
della “storia storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione
bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of
philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great
and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La
distillazione filosofica” GENTILE , Giovanni. - Nacque a
Castelvetrano, provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci
fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre,
che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti,
maestra elementare. Da quel poco, o non molto, di autobiografico che,
sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli
scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja
e Alessandro D'Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso,
nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa
soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure
professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico
convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era
proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria
emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la
farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina
Castelvetrano, quindi di riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella
si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di
sottostare alle nuove regole. È probabile che nell'animo sensibile, e più
impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del
giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei
confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da
dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che
involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o
anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece
guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio,
nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento,
nelle cui battaglie era stato protagonista. Ma nei confronti della
piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti
misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in
quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che,
quando era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo
maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918).
Libro singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne
un "tramonto" atteso e auspicato di "cose" che,
profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano,
a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più
ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia
"moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non
materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente
romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel
segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le
difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla
vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia
della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento
che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo
attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che
nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito
consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai
quali la Sicilia era rimasta ferma. Nell'isola il G. non rimase se non il
tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando,
finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la
licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il
relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno
studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava
alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il
positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di
materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non
era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e
se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega
l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla
scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni
possibile traccia. Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo
con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità
che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione
risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra,
antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V.
Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura
italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche
oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che
il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto";
che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza,
trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel
risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella
prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello,
l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma,
oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel
processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza
che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia
nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione". Non s'insisterà
mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola
normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in
primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo
siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora
v'incontrò, G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo
Radice. Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse
che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria
positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe
stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in
Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori
civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei
fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche
qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja
corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano
dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve
sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con
il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana
Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la
regola. La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios,
che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a
non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente
scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura,
da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il
giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso dal D'Ancona e
dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione
accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca,
pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XII [1897]). Le
cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo
pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898), discussa con
Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La
filosofia di Marx (1899). Di questi due libri, il primo costituisce il
documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di
Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra
il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una
parte, I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento
della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a
lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di
entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la
"crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero
nella cultura dell'Europa contemporanea. Lo studio dedicato a Rosmini e
Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in
filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897 con il massimo dei voti e il
diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di
abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette
la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso
l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo
di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e
che, fra gli altri, si chiamavano P. Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi
era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i
rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un
nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da
A. Genovesi va fino a P. Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato,
nelle edizioni de La Critica, da Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi:
ricerche storiche, Napoli 1903). Fu, anche quello trascorso a Firenze, un
periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e
incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant
diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja;
se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il
primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato
ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del
secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più
insigni della vecchia scuola del metodo storico. Con l'anno trascorso a
Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che
seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per
lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio,
era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non
interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa
notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza
di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso
implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana
provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale,
dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu
allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola
dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la
sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté
dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto
Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al
liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in
contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano
dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo,
costretto. Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si
protrasse nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore,
perché il G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di
Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i
legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in
quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al
termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era
tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima
sistemazione. A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è
stato detto che, se senza Croce non s'intende il G., altrettanto è vero per
l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse
dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si
stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista
siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene
(secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata
dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre
nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile
decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro
nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male,
perché, se è vero che dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero
che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle
nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata
dal giovane studioso alla formazione della "filosofia dello spirito"
non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con
le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con
il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi "bilanci"
del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e
conviene perciò, dalle parole "generali", passare di volta in volta
ai "fatti" determinati. Sta comunque di fatto che, mentre il
carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può
dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a proporre osservazioni,
suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre l'amicizia si
approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due ingegni ne
riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E, come si è
detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i contrasti,
anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme. Se, per esempio, nella
questione concernente il materialismo storico (una filosofia, per il G., e non,
come per Croce, un semplice "canone empirico": una filosofia della
storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il
dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse
per lettera, su "forma" e "contenuto" nell'estetica
condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non
solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere
al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto il G., o se invece fosse
Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero territorio
dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento. Intanto,
nel 1903, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria, storica e
filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio),
dette a Croce, e al G., lo strumento attraverso il quale la loro collaborazione
potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici, attraendo altresì
su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e
non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita la prima edizione
dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro, andato al di là di
ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la
sua positività. La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di
ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il
diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale
collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere
l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura
positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua
battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non
si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al
contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi
pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare materialismo
e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il positivismo
aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto prodotto
alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità nella cultura
e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese. E
"positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì,
malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o
minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi
Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i
primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica,
esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da
altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo
giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso"
che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità.
E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere,
che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo
si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri
del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli
angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse
il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò
le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri
d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel
libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono
(1922). Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non
poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di renderlo
sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il che,
trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la parte
più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che toccava
il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e persino le
identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo rovesciamento
nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio conoscere a
entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i due ne
uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista,
rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò
privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva
già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura
portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo
consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di
vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S.
Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito. L'amicizia per allora rimase
salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e
la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella
battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché
nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di
ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al
margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso
in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della
filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che
perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali
dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non
risentì e non mostrò il segno. La collaborazione che essi vi svolgevano e
realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due
fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il
rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si
aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della
Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che,
per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i
progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei
primi anni la tendenza a restare in disparte. Avvertiva, e in una lettera
del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse
dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce
sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di
sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe
dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando
dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità
filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per
allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti
copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del
G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non
potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non
dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne già
nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo
corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli. Da Napoli,
dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9 maggio 1901 aveva sposato
Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero
consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva ottenuto la libera docenza che
esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal
1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto
superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica,
allo studio, nel 1906 il G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un
primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per
l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane
da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva
vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza
averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e
meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una
consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo
essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario
modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui. Il
timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e
l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura,
una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono
tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo
ambiente il G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da
protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la
forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua
posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca
filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura
principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale
definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che
parziale con il breve saggio che nel 1909 il G. dedicò a Le forme assolute
dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il
modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) come sua ideale
premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione
nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica nel dicembre del 1911, su
L'atto del pensare come atto puro (Palermo 1912), quindi nell'altra su Il
metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della
dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando Spaventa che l'aveva avviata, nonché
nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume (1913)
contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie
pedagogica. Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò
con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con
nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la
"distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta
maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione
aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza
della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che,
implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come
una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il
senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli
allievi siciliani del G.: V. Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F.
Albeggiani; e anche G. De Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non
era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come
aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario
della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta
(1913). La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie
manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una
"scuola" che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa
e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce.
Il quale aveva bensì, fra il 1908 e il 1909, fatto il possibile perché il G.
tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la
collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni
provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in
effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe,
com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che
l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta.
E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del
suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette
il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo
chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio"
filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di G.
Prezzolini, un articolo in forma di lettera (ottobre 1913), nel quale i termini
del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce
significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava
LaCritica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per
così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro
dissenso ferì in modo particolare il G.: anche se, decisa nella sostanza e
orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la
replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta
amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era
comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto
più che, replicando a sua volta (dicembre 1913), con fermezza, Croce prese atto
di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro
filosofie. Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E
oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e
approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e
scrisse di G. Bruno, di Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la
collaborazione alla Criticacontinuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta
teoretica del 1913, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi
dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione
per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non
possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non
desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti, nel 1913, a Napoli e a
Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché
vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la
seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. Il G. riteneva infatti
che l'opposizione di G. Barzellotti, titolare della cattedra di storia della
filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo
risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo,
esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto
amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai
meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e
alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D.
Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola
normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi. A Pisa tornò
con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era
approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò
con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di
dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e
politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva
conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai
spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che
ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà
contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento,
riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione
letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo
splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a
Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e fervente
patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al Crivellucci.
Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti che lo
caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale
avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti,
abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in
superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che
per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze. A Pisa,
per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava
all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia,
dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a
quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco. Ma,
a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li
caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati
filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo
averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle
memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della
Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e
pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero
in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali, espressione
suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella sua
dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra potesse
operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i distinti. Ma
a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica come teoria del
conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della quale scrisse il
primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce nel 1917 e dovette
attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato
alla logica del concreto. Agli anni di Pisa appartiene anche, con
sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già
avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della
cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu,
illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale,
nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a
pieno titolo nella civiltà moderna. Gli anni pisani furono quelli del
primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui
conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione,
fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua
condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento
che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di
entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli Imperi
centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del destino
risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che mai era
disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente
irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi
concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo,
così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto
italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono
rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che
all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e
attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico
e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui,
allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò
e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a
oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o,
peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova
terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì
in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era
ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di
sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie. Di qui, anche in
questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni,
delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi",
la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si
venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario
alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di G. Giolitti e di
quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque
rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato
che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso
i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla
parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei
confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli
che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto
per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E
Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della
natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che
sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la
logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e
dell'arte. Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò
si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce diceva,
"l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande
occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una
tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno
sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse
conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei
rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si
placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non
era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione
nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni,
si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra
parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli
credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo
strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia. Il sistema
filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali
qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la
filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser
tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un
concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e
della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e
cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che
per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo
proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non
concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il
concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto
organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi,
caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità,
l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non
potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria
che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma
astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a
fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un
verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e
criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse
perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque
come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e
concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume
del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere
al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la
questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì
celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli
si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il
suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure
dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente
passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non,
come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una
sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde
l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi", e cioè come
"diversi" o "distinti": nell'essere insomma una teoria
dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che,
proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si
rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità. Verità
del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo
attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale
all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma
come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a
sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come
logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione
e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere? A Pisa,
negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica
che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era
più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa
conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che
si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in
effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel
tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a
collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che
intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso,
il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello
che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò
gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico
dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G.
cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea
natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e
sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo
splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora
essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e
tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a
dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo
quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei
metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle
decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il
Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in
precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che
fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei
cieli della grande politica. Furono, questi, mesi drammatici, che egli
visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza
soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo.
Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti a
ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la
sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato,
sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per
parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando,
giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante
manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di
pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato
un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo
a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e
dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma
dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario
dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel
1921, nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294). A
Croce, del resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e
incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che
occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano
senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse
costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di
Croce se non per il "modo" e per la diversa posizione che alla
religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che,
come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa
attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della
religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una
sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla
filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le
religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale
prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per
il G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal
cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica,
un'idea che il G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo
vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo
riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo
accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul
"metodo". Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che
presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo,
il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una
delle dimensioni della sua "eticità", Croce non vi vedeva se non uno
strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità. La
cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il
legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro
dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello
politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu
bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non
vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G. riteneva gli fossero
intrinseche e immanenti. Del resto, nel 1920, dopo due anni che era
salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la direzione, il
Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che
anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica,
ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che
subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole
della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si
sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.
Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del
Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli
uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe
modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare
sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre
nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da
molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava
così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti,
nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a
guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con
politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua
azione. I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una
congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto,
riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella
questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del
paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico
diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a
tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e
nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri
egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso,
aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata
meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è
un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un
Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che
fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo. Come
che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si
erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di
formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto
da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica
Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel
governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma
tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto
accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione.
Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al
fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che
quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non
gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali
nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti
contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso
a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità
poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli
si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era
andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era
deciso. Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse
e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E
basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma
tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere
critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello
della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola
elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione
nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e
costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non
sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza.
Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e,
comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva
quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano,
corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì
prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata,
per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale
e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso
proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste
professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero
universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e
filosofia. Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente
descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore,
statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro
l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici.
E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il
ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue
classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e,
nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta
alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte
all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della
matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche
abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto
da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere
filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la
riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva
a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che
la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani
cittadini dello Stato italiano. Accanto alle molte critiche, occorre
tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da
una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che
altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di
diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito
deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non
infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il
"nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni
ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche
più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento
di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di
spirito ritenga che la difficile questione si risolva col
"democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne
il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato) cercava di
realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici
inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura"
significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo
che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci
si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici,
filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi
tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto
dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non
insistere. Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione improvvisa,
che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della
quale nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva al Partito
nazionale fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a
compiere questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto
discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione,
che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece
alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti,
persuasioni. La prima, che quello fosse l'esito necessario non
tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in
comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni
sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani
di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica
imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra,
immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa,
e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era
considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione
mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle
critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato. In
ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G. era compiuto. Ed è
quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze
che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse
veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di G. Matteotti,
avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni
dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le
quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli
inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il
sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro
rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non
glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le
dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal
fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua
politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità
politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva:
ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era
da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o
avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui
che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente
molto difficile. Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il
responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era allora non solo
in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la
spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote
precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e
alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché
sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private,
a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e
naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile
sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele
dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti. Al
fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto
lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che,
delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida
effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane
drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi,
a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si
contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli
davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma,
decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo
"nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che
allora gli scrissero G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno,
e A. Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono
giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce,
che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la
cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora,
finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura
che in sostanza si consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati
gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle
cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non
fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità,
potuto avere un esito diverso. Sulle ragioni profonde che la
determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose
si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco
cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio.
E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno
dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per
quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo autunno
del 1924, essa risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si
scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa
meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti
avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro
sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al
dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di
natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso
necessario, fino alle estreme conseguenze. Le dimissioni che il G.
presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande
amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante.
Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti
e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni
rimasero quelli che nel 1923 lo avevano indotto a chiedere la tessera del
partito fascista. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita
pubblica e politica, sì. Al governo infatti il G. non tornò più. E alla
politica del paese partecipò bensì, nei primi tempi, come presidente della
Commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di
svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato.
Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica
istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare
sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a
intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla
politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del
regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio,
l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali
ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche
alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere
su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre
culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della
sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano. Almeno su
due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo
discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e
culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli
aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia,
rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura
politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo
e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E
il G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche
perché sulla via concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e
l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse
seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse
rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta
la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli
ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre
A. Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue
battaglie culturali e filosofiche. L'altro episodio è costituito dalla
battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il
giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e
attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica
che, per iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali,
Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte
le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che
innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai
dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato.
E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era
accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti
(e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale),
anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se l'opposizione resa
evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e
quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime,
l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto
alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più
tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava
di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio
politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma
addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che
fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui
tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale
lo spirito costituisce sé stesso. Quella dell'Enciclopedia Italiana fu
l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte più viva
della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche
la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo
"tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero;
perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro
grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa,
della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che nella
sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi di
Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935), gli
mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936). Il
provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G., nella
controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo
posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di
ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e
migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto
negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di
antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani
professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai
vivo di opposizione al regime fascista. Il consenso del quale questo
aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo
quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe
netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe
avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E,
ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e
penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non
poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche
orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento
incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise
durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso
tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di
ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di
"sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano
dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N.
Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per
gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi
razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e
comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu
debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E
se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano
non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò. Ma si
diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla,
nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede
romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in
profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della
scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore
ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi
che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano
antifascisti o non fascisti. Si pensi, per fare qualche nome, a G. De
Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non
aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto
rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La
Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente
ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono,
per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi. A
proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se
il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al
fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era
convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento
dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se
l'Enciclopedia, quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza
della chiusura e dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco
disposta a concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio
che queste avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve
rispondersi che, certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo,
l'Enciclopedia appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma
"fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G.
sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico.
E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere
"scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano
avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da
studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e
mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra
questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu
"idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice
"idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla
scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero
che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale
le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a
studiosi di provato e, spesso, di grande valore. Il lavoro svolto nelle
Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di
Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di
studi manzoniani (di cui il G. era stato nominato commissario nel 1937, e che
fu affidato alle cure sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F.
Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo,
dopo il 1920-21, venne meno nel G. la possibilità e, con questa, anche
l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva
assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di
un corso tenuto nel 1927-28 nell'Università di Roma, dove (come già si è
ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il
G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana,
ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto
di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord,
presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita
spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta
di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia,
studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E
senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione,
che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita
culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai
poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto
VI del Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato,
e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della
critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928;
Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi,
Firenze 1939). Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve
periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il
concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle
università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente
all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le
luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto
nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione che il
personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante
presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale
egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.
L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche
deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o
provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza
attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici,
nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo
animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli
stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica"
di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di
stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal
suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte,
ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al
limite dello "scandalo" (filosofico). Da qualche altro indizio
documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al fascismo non
venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia
in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro
che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza
discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel settembre 1939, coinvolse
tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche l'Italia. Nei tre anni
successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in quei tre anni così gravi
di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari,
mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la
difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della
libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni il G. scelse il silenzio; che
fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942, quando esaltò in un articolo il
Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli
Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24
giugno 1943. È difficile dire come, dentro di sé, il G. valutasse il
dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non
poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente
contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione,
del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano
creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di
fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì,
piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi. Fu questa, come si sa, la
ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del
partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si
rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che,
da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato
nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui,
avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che
alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale
aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono
e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito
essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale
non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso,
così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero
il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa
consapevolezza, si dibatteva. Poi vennero il 25 luglio, la caduta di
Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo
antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a
sua volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria
ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente
indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola
normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte
dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi
governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo
caso, da un non diverso giudizio. Poi venne l'8 settembre, la cui notizia
il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni
prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi
chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione
sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi,
occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro,
estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le
settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con
la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò,
egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione
nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo,
il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere
quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia
d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori.
E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio
amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene
in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il
lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che
vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di
riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e
autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe
qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in
parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a
collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la
penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si
aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far
di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità. Era un suo
vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che
era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio
di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori
universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano
la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più
tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista,
forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come
soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui,
in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di
Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si
comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico
inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una
volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso
sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità
dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal
fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica
sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.
Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro
contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione
tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta
usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò
contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con
torture, uccisioni, gravi violenze. La sua morte, avvenuta per mano di un
commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al
Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda
mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al
lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò
molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano
perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta
fascista, cui era rimasto fedele. Due domande, semplici, ovvie e
altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua
ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di
ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto
semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il
G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di
scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta
fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in
crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto
puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore,
niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi
documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono
di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà
fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo
legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni
politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono
il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in
Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua
sepoltura. Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la
vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e
Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la
morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al
quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste
tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze.
L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal
G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle
quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste
cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari,
nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile
del manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera,
premessa di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e
inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte
questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono
quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B.
Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i
Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G.
Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M.
Simoncelli. Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo
della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La
filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e
filosofia, Bari 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid.
1913; La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di
pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II,
Didattica, ibid. 1914; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916;
I fondamenti della filosofia del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come
teoria del conoscere, I, La logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del
concreto, Bari 1923; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV,
Messina 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono,
Firenze 1922; La filosofia dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia,
ibid. 1933; Genesi e struttura della società, Firenze 1944. Fra i
carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in
Lettere a B. Croce, I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di
riferimento è B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con
introd. di G. Sasso, Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja,
Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo,
Carteggio, a cura di S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi,
Carteggio, a cura di A. Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor,
Carteggio, a cura di E. Campochiaro, ibid. 1993. Fonti e Bibl.: Tre sono
le biografie fin qui dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975;
S. Romano, G. G.: la filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una
biografia, Firenze 1995. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B.
Gentile: G. G.: dal Discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15
aprile 1944), Firenze 1954; Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione del
G., v. L. Canfora, La sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si
troverà l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina
non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e
l'esperimento, Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia:
per gli scritti del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli
scritti di G. G., a cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero,
III, Firenze 1950, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno
1976-1977, Roma 1977, II, pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si
veda: S. Bonechi, B. Croce - G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico
della filosofia italiana, LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un
primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e
sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la
palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F.
Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli,
G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A. Carlini, ecc. in ciascuna delle loro
opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita
intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può
tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti
appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica"
dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G., I-II, Firenze 1975; cfr. anche A.
Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974). Sono, innanzi tutto, da tener
presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G. G.: la vita e
il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia
contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma 1923;
Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930; V. La Via,
L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F. De Sarlo, G. e Croce. Lettere
filosofiche di un superato, Firenze 1925; G. Calogero, Il neohegelismo nel
pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes,
The idealism of G. G., New York 1937; P. Carabellese, L'idealismo italiano,
Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma 1940; M.
Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale,
Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955;
H.S. Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL, 1960; A. Guzzo,
Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964; U. Spirito, G.
G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978; V.A.
Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983; A. Del Noce, G.
G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna
1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze 1992; G. Sasso,
Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando Girotti. Girotti. Keywords:
la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia
storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione
filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Girotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gitio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri).
Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e
Giudice – l’implicatura di Bruno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the
longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical
minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are
jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s
not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics
had a better philosophical background – into what the Italians called the
lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!”
-- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer
‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if
it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth
the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si
laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la
Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori,
Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno,
Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio
Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di
Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei
Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini
metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la
verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i
matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore). BRUNO,
Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). -
Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di
Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome
Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi,
conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Nel 1562 si recò a Napoli per
studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il
Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra'
Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera
ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da
allora in lui l'interesse per la mnemotecnica. Il 15 luglio 1565, a
diciassette anni compiuti e con una incipiente formazione laica, entrò come chierico
nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano
(forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e
quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal
compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale, tra
il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di
Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora
stracciata dal maestro dei novizi). Con cautela va accolta la notizia da
lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di un invito a Roma per mostrare la
propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e
il 1569):va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver
dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi
italiani, p. 842). Ordinato suddiacono (principio del 1570) e poi diacono
(principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i
ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento
domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del
1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo
Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il
curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte
della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile
con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni
Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel
luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est
quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est
quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc.parigini, II). Tali
studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per
l'opera di s. Tommaso, d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per
"les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie"
(Doc. parigini,II), con il conseguente disinteresse per la problematica
teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in
sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per
opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri
delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo"
(Doc. veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa
il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò
all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con
l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto):
in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di
eresia. Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad
abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello
stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria
sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i
disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali
disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi
credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I):
imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle
successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di
lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di
quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a
Napoli, il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15
aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la
grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc.
veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi
trovato "trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove
si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare
qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui
fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A
Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non
avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato,
per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la
Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali
dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove
fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese
Gian Galeazzo Caracciolo di Vico. A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito,
il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta
tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla
immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un
processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la
Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il B.
venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole
tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso
alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che
avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica
anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra. Recatosi questa
volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo
un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa,
che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò
che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal
tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La
mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli
impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual
lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX),
nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il
posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi
anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de
filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire
che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane.
Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato
mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito. Nell'estate del 1581 si
delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare
Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi
a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di
trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla
prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e
smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali"
(Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per
l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa;
tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come
ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un
giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o
pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e
feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per
scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto
del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du
Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere
enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma
culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente
o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano
ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza
bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione
mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico
dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti. Durante questo primo
soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi
pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera
mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad
Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e
provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei
lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della
Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica
stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri
d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus
negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa
architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B.
all'ambasciatore veneto Giovanni Moro. La prima parte del De umbris rielabora
materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che
presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale;
la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B.
attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa
nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si
inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando
l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione
concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che
sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli
elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico
per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico.
Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione dell'unica sua commedia,
il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De
compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore
si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia
hilaris, in hilaritate tristis. Il Candelaio, scritto in un volgare
popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione
burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della
retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con
l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima
dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio
napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto
napoletana - la cui azione si svolge nel 1576, "vicino al seggio di
Nilo" - investe satiricamente "tre materie principali" e
"l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di
Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio
bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin dalle
pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla base
teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine,
anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo
tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che
non può mutarsi..."). Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due
titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua
viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a'
rapidi fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito,
cui appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte,
raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori. Il 28 marzo 1583
l'ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al
primo segretario del Regno d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo
dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva
l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in
Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio
ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era
affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la
regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a
lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti, IX) - o
più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più
tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti
-; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse
rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente
politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma
non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua
affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a
Tolosa e a Parigi. Al suo arrivo in Inghilterra il B. prese dimora nella
casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che
stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e il 13 giugno 1583
fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto
Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati,
sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il
teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con
le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora
la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae
Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad
alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva
istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri
universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in quella
sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e
quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi
italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta
confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il
futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si
apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della
stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria
copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando
quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati
l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale
corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico
Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ
Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De
vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti
ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza
lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento
antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme
antiumanistica. A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e
speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte,
sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal
pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è
un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum
(preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il
Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile
precisare l'officina tipografica, che è quella di John Charlewood, dalla quale
sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi. L'Ars reminiscendi
è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus.
Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole
di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei "triginta
sigilli" mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni
ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio
appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo
mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B.
nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la
fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi
propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di
preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere
"speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente
della serie dialogica italiana. Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle
Ceneri, il B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della
Terra nella "onorata stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in
compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo
presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere
di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta
invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio
causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si
licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de
le Ceneri (stampata nello stesso anno). Tramite il resoconto della
sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria
cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente
a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti sembra
anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in
Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta
dalla corte elisabettiana (Robert Recorde, John Dee, John Field, Thomas Digges)
aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è in questa
corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese del B., sia per le
istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica),
sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per
trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla
moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester, nei
contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci è
rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della
Cena). Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese,
la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il
geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo
copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito
(non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come
sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in
alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito
effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi
delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.
L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati
della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente
realistica. Il B., pur adottando la forma dialogica della tradizione
speculativa rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica,
accostandosi non di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana:
onde non manca la satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.
Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società
inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini:
reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico
londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede
diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di
quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena
gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a
Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi
speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico"
che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria
polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione
speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi
conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La
pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di
poco quella della Cena. Il primo dialogo della Causa si distingue dai
rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi
"Elitropio" è G. Florio, mentre "Armesso" sembra
identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti
dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson "Arelio" (nativo di Errol),
discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis
et iudicii (1584) ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata
da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i
nomi del B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico
considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo interlocutore,
insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci
considerare la Causa come opera di letteratura militante nell'ambito della
contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va dimenticato che
l'attività del Dicson era in linea con il programma politique). I quattro
dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la definizione dei
tre termini enunciati nel titolo: "causa" e "principio"
sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e la
"materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono
l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei
postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni
di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo a fornire una
originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella
Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito. Il motivo della
satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle
posizioni culturali delle due università inglesi. Il ritmo serrato con
cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel 1584, quella
dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia
trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583 il B.
doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi
cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è
dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la
portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in
Inghilterra. Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica
aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e
ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei
mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra
filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi.
Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine
sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di
"Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a
Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano. La nuova
concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul
piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti
"morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva
un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di
Niccolò Franco. Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica
la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella
cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale
umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica
bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta -
della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera
sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella
Cena. Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con
l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno
parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia
trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con
l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare
all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con
l'aggiunta dell'Asino cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile
con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né
sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data
della bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra. Al di là del
possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per
l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi
(quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale,
risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che
valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano. L'operetta
è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della
stessa famiglia materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore
"Saulino" presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in
seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai
sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra
le superstiti opere a stampa di Bruno. Il soggiorno inglese del B. non
poteva concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi
De gli eroici furori (1585), dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente
esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre
dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira
morale contenuta nei due dialoghi etici. I dieci dialoghi De gli eroici
furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con
l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione
ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico,
Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e
fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella
dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono
son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va
in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo
di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono
"intrinseci" e la "divina luce è sempre presente";
"ogni contrarietà si riduce a l'amicizia", "le cose alte si
fanno basse, e le basse dovegnono alte". Notevole nei Furori l'esposizione
della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali
nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica, approda a una
concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il ripudio della
tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al
gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria
di M. A. Epicuro). Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il
Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico
dell'infanzia, la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia.
Nell'ottobre del 1585 il B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore
Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il
viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a
Parigi il B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III
aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata
la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso
"de ritornar nella religione" (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio
apostolico Girolamo Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese P. Del Bene, abate di
Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus (1586), esposizione
mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli
italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo
Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto, epicuro per la vita"
(cfr. Yates), e dal 6 dic. 1585 prese a frequentare l'abbazia di St. Victor,
dove quel giorno prese a prestito l'edizione di Lucrezio curata da H. van
Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le
notizie fornitegli dal B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum,
del quale nulla sappiamo a parte il titolo lulliano. Due episodi
clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B.
poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una
pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra
salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare
in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della
divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti,
prima del 14 apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope
divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso P. Chevillot: opera
ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B.
rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii
interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno
insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad
attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai
vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal
B. tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux,
sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus
peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J.
Hennequin. Secondo il Cotin il B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che
allo Hennequin ebbe risposto R. Callier, giovane avvocato politique (il B.
venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto,
avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per
paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero
Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa.
Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno 1586;toccata Magonza e
Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all'università di Marburgo come
"theologiae doctor romanensis" (Doc. tedeschi, I). L'insegnamento
bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di
quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente;
a una protesta formale il B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa
estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili e
immatricolato (20 agosto) come "doctor italus" (Doc. tedeschi,II).Per
circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l'altro, l'Organon di
Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana (1587) -
commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità accademiche
mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la pubblicazione
del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di compendio della
Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins, cancelliere dell'università. Allo
stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica adAlexandrum (pubbl.
post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti 1612), come il frammento
delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum,
amplificazione dell'Arsmagna lulliana (post.: negli Opera: 1890, 1891), con cui
si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per i tipi
di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei Centum et
viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con un discorso
apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus.
Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque
libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto libro
Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis
explanati, 1891). L'8 marzo 1588 ilB. si accomiatava dall'università con una
Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto
era morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì
progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a
questo contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di
Bruno. Partito da Wittenberg, il B. giunse a Praga nella primavera del
1588e vi si trattenne fino al principio dell'autunno, attrattovi forse dal
mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il cui cattolicesimo moderato poté
sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque se fu registrato all'università.
A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus, il De lampade combinatoria R.
Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio: nuovo commentario
dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don Guglielmo de Haro; con
dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli Articuli centum et sexaginta
adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in cui riprendeva la
propria polemica contro l'interpretazione meccanica della natura (già
anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De minimo):notevole, nella
dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana, interpretabile come
teoria della tolleranza religiosa e speculativa. Ricevuta in dono
dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc. veneti, IX), al
principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla
"Academia Iulia" (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick),
dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove il 1º luglio lesse l'Oratio
consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca avvenuta il 3
maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta
scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non gli mancarono seri
fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa
luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura privata in una
sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto
giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo
che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si
aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città fino
almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere
poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere "magiche"
stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la
magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel
"codice di Mosca"), De rerum principiis et elementis et
causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione
pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile intervenne a una disputa
tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo riscossi a Wolfenbüttel 50
fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione
di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo
norimberghese Girolamo Besler, di cui si era servito come copista) allo scopo
di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata
fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si recasse direttamente a Francoforte
sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia poetica latina, sua opera di
maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove giunse al più tardi nel
giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter
alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò
alloggio presso il convento dei carmelitani. Il B. attese soprattutto alla
pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De
monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et
infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali
il B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De
minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica
relativa fu composta dal Wechel). Stampati con la data del 1591, ilDe minimo fu
posto in vendita nella primavera; il De monade con il De
immenso,nell'autunno. Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di
Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione
della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la
definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico
assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli
atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante (con tutto che il B.
riconosce l'esigenza di una materia che "agglutina" gli atomi). Se
l'"atomo" è l'elemento materiale insecabile, il "minimo" è
l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la "monade" è
l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche
minimo e monade. Gli atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale
concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le
combinazioni materiali. Nel De monade il B. dà una spiegazione aritmologica
delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi -
come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio
intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo
dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente
l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il
Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della
composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della
propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e
ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.
Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese poco prima del 13
febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica
raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a
Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a
Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo a Francoforte, il B. pubblicò
presso il Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia
inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres (1591), dedicati a J.
H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo
soggiorno francofortese il B. fu raggiunto da lettere del patrizio veneziano
Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché
gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. veneti
VIII). Il B. giunse a Venezia prima della fine d'agosto del 1591. I
motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente
definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere
il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie
nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e
la presenza del mite Gregorio XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le
speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che
dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni
magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi,
inglese e tedesco. Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a
camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B. proseguì per Padova, dove già si
trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni,
per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi",
tra i quali sarà da includere Girolamo Besler, che era allora procuratore degli
studenti tedeschi (il Besler gli trascrisse, tra il 1º settembre e il 21
ottobre, la Lampas triginta statuarum composta nel 1587, il De vinculis in
genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis,
inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones
geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il
B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività
del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse
alla vacante cattedra di matematica, che fu assegnata l'anno seguente a
Galileo. Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio
dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo
1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il
"ridotto" Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di
"civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per
fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida
1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo,
confidò al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di "quetarsi"
e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo
ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura"
(Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale
e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo
di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle
sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa"
(Doc. veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso
dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il
giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B.
e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi
suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B.
Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera
stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S.
Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva
concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma. Gli episodi
principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda
denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente
accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in
Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non
credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi
sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte
divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori
della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato
processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio:
interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30
maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di
eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi
d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre
diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo
riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc.
veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione
del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B.
(ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e
trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in
Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa);
12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre:
consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana
al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio
trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre:
rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593:
comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B.
usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva
ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente
processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo
supplizio. Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così
riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da
Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò
mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè
era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben
meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei
santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di
aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine);
interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia,
Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova
accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste
Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei
mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine
del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero
processo) e conclusione del processo offensivo. Il B. mantenne la linea
difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la
Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno,
Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò
il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria
opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la
metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella
relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando
il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami
ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate
nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi
poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia
da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus);
estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su
quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di
Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi
concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non pervenutaci.
Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata
al papa. Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu raggiunto nel
carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio Stigliola. Il 18
sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare
le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo 1597 il B. fu
ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi; si stabilì
inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione della
tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e
l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi passati),
nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere). Nel corso
del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle censure, otto
delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum
generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere
effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale;
circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della
terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa l'attribuzione di
un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non
è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di K.
Schopp [Doc. romani, XXX], concernono l'identificazione dello Spirito Santo con
l'animamundi, e la credenza nei preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza
di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al B., per la sua dichiarazione di
abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, "de haeresi
Novatiana", e la settima, estratta dal De la causa, "ubi tractat an
anima sit in corpore sicut nauta in navi"). Il 15 febbraio (ventesimo
costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura incondizionata; ma il 24agosto
tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre, in
mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono
in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non fu approvata da
Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò disposto all'abiura (21º
costituto), ma il 16, con un memoriale al papa, rimetteva in discussione le
proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una terza
delazione (dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra) con cui il B. era di
nuovo accusato di irriverenza verso il papa (lo Spaccio) e di aver lasciato
fama di ateo in Inghilterra. Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il
termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre
(ventiduesimo costituto) il B. rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento
del generale e del procuratore dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò
che il B. fosse sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e
consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale del B. al pontefice venne
aperto ma non letto dal tribunale. L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto
dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona,
dove la sentenza gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni
contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la
transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la
pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo,
Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli.
Riconosciuto "eretico impenitente pertinace ed ostinato" (Doc.
romani, XXVI), il B. era condannato alla degradazione dagli ordini,
all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare
per la debita punizione; i suoi libri dovevano essere bruciati in piazza S.
Pietro e le opere tutte incluse nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la
sentenza; quindi, levatosi in piedi, esclamò rivolto ai giudici: "Maiori
forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam" (Doc. romani,
XXX). Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti
da teologi e confortatori, la mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a
Campo di Fiori, dove, "spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo
(Doc. romani, XXIX). La portata speculativa della vicenda bruniana è
implicita nella storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e
biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio
della filologia contemporanea. Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana
le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi.
Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta:
Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und
Florenz,1879-1891. Drei Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da
integrare con le seguenti pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie
Džordano Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im.
V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G.
Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota
triumphans", "De somnii interpretatione", "Mordentiu",
"De Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con
Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e
"Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma
1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma
1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G.
Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi
italiani: "Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali"
nuovamente ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze
1958; Id., Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da
tenere presente R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le
ceneri", in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563).
Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a
cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G.
B. e di T. Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968. I documenti coevi
in V. Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei
sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti
parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da
integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey,
Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr.
Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati,
Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso
di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue
internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un
autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV
[1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid.,
CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News,
XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia,
in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII
[1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La
Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana
Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93). La biografia più
estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di
G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti
sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma
1971, da cui dipende la presente "voce". La bibliografia
bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini,
Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera
monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai
titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata
monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento,
rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E.
Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più
recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana
conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K.
Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice,
del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di
Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici –
rinascimento – scintilla d’infinito” -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice:
implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giudice – l’implicatura di Telesio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera).
Filosofo. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on
Telesio.” Allievo e collaboratore di Gentile,
si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali,
che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica
formarono il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e
l'accuratezza nella scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare
preparazione filosofica. Insegna a Roma. Del Giudice Riccardo Lucera (Foggia)
1900 lug. 16 - Roma 1985 feb. 16 Intestazioni: Del Giudice, Riccardo,
filosofo, sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre
frequenta nell'ateneo romano i corsi di Gentile. Si tessera al Partito
fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. E' appunto
nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i
primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in
provincia di Foggia, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti
dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Giuseppe Caradonna. Espulso dal
partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di
Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo
"sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione
del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del
Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente della
Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività
nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul rapporto tra
sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero
dell'educazione nazionale, allora retto da Giuseppe Bottai. Si occupa
soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro,
seguendo le indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato
il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è
nominato Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del
lavoro (Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato
nel campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie".
Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di
Diritto della navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo
romano. Complessi archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo
(fondo) Bibliografia: G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla
"grande crisi" alla caduta del regime, Roma, Bonacci. 1989 G.
PARLATO, Riccardo Del Giudice: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo
Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato,
Bologna, Il Mulino. Wikipedia Ricerca Sindacalismo fascista Lingua Segui
Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli
argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo
fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della
dottrina fascista del lavoro. StoriaModifica Filippo Corridoni con
Benito Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a Milano. I
primordiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario. Fontana sulla cui lapide marmorea
era scolpito il discorso che Benito Mussolini pronunciò il 20 marzo 1919 presso
lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione operaia. Il
sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale
dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi
riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo
socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito
Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del
sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta
da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui
saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi
antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi,
sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui
parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in
qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3] «In Italia non sarà
possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon
sarà abbattuto.» (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco
prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal
1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro
(UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta
inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento
dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una
prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano,
combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del
popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di
imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e
lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di
Benito Mussolini[7], pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe
per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti
all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL
portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a
concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella
tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata
principalmente da Edmondo Rossoni, e quella "indipendentista" di
Alceste De Ambris.[6][8] Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16
marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la prima occupazionecon autogestione
operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il
fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della
produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il
movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando
sulla fabbrica il tricolore nazionale.[9][10] Due giorni dopo lo stesso
Mussolini fu in visita agli stabilimenti: «Voi oscuri lavoratori del
Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma
idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato
nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione,
perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi
nella patria libera e grande oltre i confini» (Benito Mussolini, Discorso
del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919") In un
primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da
Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con
il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo
d'Italia[11] ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei
Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali
prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa.[12] Il nucleo
iniziale Modifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe
Squadrismo. Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento
autogestito. Dino Grandi. È da questo connubio che, infatti, si
costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui
protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione
sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli
interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e
squadristi.[12] Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo
squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra
gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma,
soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de
"L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di
sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine,
l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la
terra a chi la lavora".[13] Alla fine del 1920 l'armonia tra
sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in
conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini
operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e,
staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922
diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14] La crisi tra i due movimenti si
attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e
politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica
attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti
rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni
libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza
storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe
esclusiva.[16] «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo
decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò
l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali
l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre
forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo
senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale
fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.» (Tullio Masotti[17])
Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali
fascisteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. Edmondo
Rossoni. I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Emilio De
Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo). Il
primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel gennaio 1922 si tenne
il I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni
principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei
sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito
Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione
"autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella
"politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà
vincente la seconda[18]. A Bologna vennero inoltre affermati i principi
basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della
lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale
su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed
anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque
Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel
1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo
rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività
professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica
(...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la
Nazione".[11] «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori
materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e
delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione
si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di
gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei
superiori interessi nazionali.» (Articolo 4 della Carta dei principi
delle corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche
negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia
internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO),
contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e,
quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però
accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza
interruzioni nel rinnovo del mandato.[20] In sede congressuale Rossoni
dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo
rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il
sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune
intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto
della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il
significato di "sopravvento di superiori capacità produttive";
inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario"
(nell'accezione negativa del termine) al rango di "lavoratore"
inserito a pieno titolo nella vita nazionale.[21] «Il sindacalismo deve
essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere
capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di
lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più
intellettuale, più grande.» (Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso
dei Sindacati intellettuali fascisti.[22]) Nei mesi successivi, in concomitanza
con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del
fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico
in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture
del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che,
nell'estate del 1922, la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali
contava 800.000 iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di
Rossoni, che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed
affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo,
dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato
fascista.[24] Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo
fascista fu quasi definitiva[25] e l'inizio della costruzione del nuovo Stato
portò quindi una relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso
che, con il termine degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi
sul proprio sviluppo culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo
Rossoni così ne spiega definizione e scopo principale: «(...) la
salvaguardia della salute spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire:
unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e
tutelare gli interessi omogenei (...) Noi rivendichiamo la concezione italiana
del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che
la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.» (Edmondo Rossoni, La Marcia
su Roma e il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche
principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto
a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e
perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un
determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare,
ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27] Questo clima
non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che
gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino
Lanzillo, Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si
dividevano spesso e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione
era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato propulsore del libero
mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità organica d'intenti,
ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo
limite nel superiore interesse della patria, rigettando il concetto di libero
mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il
più grande sindacato".[30] Le prime forti tensioni con i
conservatori ed il padronatoModifica Roberto Farinacci nel 1925. Renato
Ricci con la sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello
sgombero delle macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice
della Marcia su Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i
settori più conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni
episodi chiave: la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di
Massimo Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da
parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni
di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori
fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la
sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33];
il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad
inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le
rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della
Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione
dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di
trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di diritto
pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra Confederazione
nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel dicembre del 1923 a
Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe[13]. «(Sia il
Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito
all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista
è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che si impuntano e dicono
comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto
degno nella vita della nazione» (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio
di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di tensioni tra industriali e
sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento della collaborazione di
classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori
del sindacalismo fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e
federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati
fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a
prendere di petto gli industriali, accusando il padronato di "spietata
intransigenza antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo
periodo pagarono con la fine della propria carriera politica l'attivismo
sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza forte da poter far
fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata dai molti uomini del
precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero
però il merito di infondere risolutezza in molti sindacalisti di
periferia.[37] La seconda fase del sindacalismo fascistaModifica
Monumento a Luigi Razza. Enrico Corradini. Si entra quindi in quella che
viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista"[38],
durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista
tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Sergio
Panunzio ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria
del fascismo e del recupero del programma del '19[39], esprimendosi per la
creazione di una Camera sindacale e del lavoro e di un Senato
politico.[40] Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura, inglobata dalla
fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in un'unica
corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari
agricoli.[34] Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento
fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un
conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni
reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la
ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista,
dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più
infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo
sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio
Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito
Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del
PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero
si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di
lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il
padronato.[42] Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso
nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la
strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in difesa
dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle corporazioni,
quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il congresso dalla
maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti i sindacati
agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32] «Nei riflessi della
politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere
responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali
garantite dalla legge.» (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso nazionale
delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri casi era
avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e dell'inattivismo
di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed alle operazioni
di consolidamento del potere del fascismo all'interno della formazione statale.
Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di decisioni autonome
da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala movimentista[44][45]
e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava il fascismo
provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo si
scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e
prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo
delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista
(autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro
con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare
all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di
lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e
propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una
corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]
Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende
carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti. L'8 gennaio
il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si
riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per
valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno
titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si
autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica"
contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione"
dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina,
insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini,
l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo
nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente
l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32] Nel marzo del 1925 avviene
quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M.
di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie
di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta,
abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto
Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto,
gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per
non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le
agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove
gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di
contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri
argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il
sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta
minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla
possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe
trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli
industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli
operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i
cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1] «Per ben
tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento
sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu
ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi
volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le
forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo
fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di
azione.» (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli
scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord
Italia[27][49]) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di
Corradini, sindacalista nazionale: «Il superamento del socialismo, non la
dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono
affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra
socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica
(...) Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera
socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera
continua» (Enrico Corradini, su Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione
in organi di diritto pubblicoModifica Edmondo Rossoni in Piazza del
Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro. Ugo
Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli
accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la
reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con
l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.[1] Va
però evidenziata soprattutto la legge del 3 aprile 1926: con questa legge
vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati
fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori
con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a
significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico
dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di
coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa
legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune
tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il
progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato negli anni trenta.[50]
Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro
(1927), testo fondamentale della politica sociale fascista in ottica di
eliminazione della dicotomia tra le classi sociali[51] ma, dall'anno
successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero
sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che
venne smembrata dai circoli conservatori (novembre 1928), capeggiati da
Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto
Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di
sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo,
disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[52] Il secondo
Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica Nel periodo che intercorse da
questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle corporazioni,
si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne
positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi
a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di corporazione
proprietaria proposta da Ugo Spirito[53], nei confronti della quale il
sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un
arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio
dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari
del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il
progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto
reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno
scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali.[54]
L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte dei primi
sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Luigi Razza e Pietro
Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della visione
statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre
stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire Stato
corporativo è come dire Stato sindacale"[54][55] L'esaurimento del
sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo. Sede dell'Opera
Nazionale Dopolavoro. Nel 1934 viene approvata la creazione dello Stato
corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e
l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro
alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti
dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la
facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro.[27][56] In ogni
caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del
lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista
aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:
ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di
malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari;
diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale
Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico,
manifestazioni teatrali, etc).[50] Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a
rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del
sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso,
inserendosi nel solco della Rivoluzione continua: «È nella corporazione
che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di
ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi:
s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua
con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà
assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre
il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul
terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà
privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la
collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione
deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola
a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della
vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé
stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È
solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi
elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè
attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che
la vitalità del sindacalismo è assicurata.» (Benito Mussolini, discorso inaugurale
del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti ed
ispiratori Modifica
Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo
Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli
Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo
Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro
Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro
Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro
d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I
Problemi del Lavoro NoteModifica ^ a b c d e Francesco Perfetti, Il
sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo
(1919-1930), vol. 1, Bonacci, Roma, 1988. ^ Breve storia dell'Usi di Ugo Fedeli
^ Ivano Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De
Donato, Bari, 1981. ^ Curzio Malaparte e Edda Ronchi Suckert, Malaparte, vol.
1, Ponte delle Grazie, 1991. ^ operante tra il 1918 ed il 1925 e senza legami
con la UIL attuale. ^ a b Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati
fascisti, Roma e Bari, 1974; ristampa Firenze, La Nuova Italia, 1990. ISBN
88-221-0774-8 ^ Nel cui sottotitolo cambiava, in questo periodo, la dicitura da
quotidiano socialista in quotidiano dei produttori ^ Francesco Perfetti, Dal
sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. ^ Renzo de
Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ Filippo Corridoni
(a cura di Andrea Benzi), ...come per andare più avanti ancora - gli scritti,
Milano, Seb, 2001 ^ a b Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo,
Rubbettino, Roma, 2003. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario,
Torino, Einaudi, 2005. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La
conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^ Italo Mario Sacco,
Storia del sindacalismo, Torino, 1947. ^ Angelo Olivero Olivetti Dal
sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, op. cit., p. 72-73 ^ Francesco
Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci,
1984. ^ in Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, 1932, pag. 76 ^ Anche per
via del cambiamento di schieramento di Grandi: Renzo De Felice, Mussolini il
fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^
Carmen Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New
York, 1930. ^ R. Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle
corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna,
1973, anno IV, n. 3 ^ Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,
Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale (1870-1925), Feltrinelli,
Milano, 2001 ^ "Il Giornale d'Italia", 19 gennaio 1926; "Il
Mondo", 19 gennaio 1926. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario,
Torino, Einaudi, 2005. ^ Ferdinando Cordova, Uomini e volti del fascismo,
Bulzoni, Roma, 1980. ^ Ancora forti rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e
comunisti soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo
rimarranno fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in
tutto il nord Italia, del 1925. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di
sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Le idee della ricostruzione.
Discorsi sul sindacalismo fascista, Bemporad, Firenze, 1924. ^ a b c Edoardo e
Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. ^ Giuseppe
Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato
corporativo (1930-1943), Bonacci, Roma, 1989. ^ Con l'eccezione di Lanzillo,
che continuò pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il
regime. ^ Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo,
Editrice Rivista Nazionale, Milano, 1919. ^ Deliberazione congiunta del 6
luglio 1922 del PNF e del Gruppo parlamentare del partito ^ a b c d e
Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^
Espressosi esplicitamente, in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del
Fascismo del 15 marzo 1923, occupatasi dell'analisi dei problemi sindacali. In
questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la
"procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il
sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione,
cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni
pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle
organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In
Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ a b
Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. ^ Luca
Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma,
1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV., Uomini e volti del
fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata da un parziale
ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian
Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari,
1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova. Riemerge
ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve immediatamente
tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al programma del '19
(...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo Nazionale,
la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918, prima di Vittorio Veneto".
In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia, 22 giugno 1924
^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. ^ a b
Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ Il
Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo intervento, illustrando le future
battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro. In
Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^
"In questo periodo - fine '24 - continuarono ad affiorare, in seno al
sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la
cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La
politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il
regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo
nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo
squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno Uva, La
nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma,
1974. ^ Gerarchia n° 5, maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone, L'organizzazione
dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965. ^ R. Arata, Decennale della
Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su "L'Italia", Milano, 21
aprile 1937 ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista. Vol. 2: L'organizzazione
dello Stato fascista (1925-1929), Einaudi, 2008. ^ Ugo Spirito, Memorie di un
incosciente, Rusconi, Milano, 1977. ^ a b Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo
di sinistra - La dottrina corporativa di Ugo Spirito, Firenze, in Belfagor,
anno XXVI, 1971 ^ Giuseppe Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista, in
AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. 1, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Roma, 1988. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra,
Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Edoardo e Duilio Susmel Opera Omnia di
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fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, 2008. Giuseppe Parlato, Ugo
Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito,
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vol. 2, Bonacci, Roma, 1989. Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista.
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corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. Italo Mario Sacco, Storia del
sindacalismo, Torino, 1947. Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Vol. 3,
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Milano, 1972. Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica
sociale italiana, Il Mulino, 1986. Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di
Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. Francesca Tacchi, Storia illustrata del
fascismo, Giunti, Firenze, 2000. Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice
Tiber, Roma, 1953. Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo,
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Fascism, Columbia University Press, New York, 1938. (EN) David D. Roberts, The
Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press,
Chapel Hill, 1979. Voci correlateModifica Camera dei fasci e delle corporazioni
Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione
nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani
di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista
Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo
Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Controllo di
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Tytire PAGINE CORRELATE Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico
italiano Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e giornalista
italiano Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali WikipediaRiccardo
Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con
Spirito su la distinzione tra sindacato e corporazione, le corporazione nell
aroma papale, I diritti dello stato pontificio, il diritto della navegazione,
contratto, gentile, la scuola al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” -- – la tesi di telesio – consiglio nazionale
delle corporazioni. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Giudice – corpi ed espressioni – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Antillo). Filosofo italiano. Grice: “Giudice has written an essay that
poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” –
“But do we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written
on more standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver
espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” --
Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore della collana
"Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova Filosofia, Messina,
Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere, “Il
lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura,
Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà
alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme”
Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza,
Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di
filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio
fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno,
Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza,
Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e
altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori,
Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini
tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,, varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo
come impegno morale, in Il contributo, L'Espresso,
Studi etno-antropologici e sociologici,. Fisiologia branca della biologia
che studia il funzionamento degli organismi viventi Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai
cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco
φύσις, physis, 'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei
fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento
degli organismi viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del
funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o
vegetali. L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante
prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica"
lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una
condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in
malattie.[2]. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide,
fra gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia
cellulare, fisiologia microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la
Fisiologia o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle
scienzea coloro che raggiungono risultati significativi in questa
disciplina. StoriaModifica Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio
su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle
antiche civiltà dell'India e all'Egitto,[4][5] dove venivano condotti insieme
agli studi anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della
vivisezione.[6] Lo studio della fisiologia umana come campo medico risale
almeno al 420 a.C. ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.[7]
Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su
quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un
corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla,
rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori,
che Claudio Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi
Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha
segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come
Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in
quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco.[8] Claudio Galeno è
stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del
corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri
umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo.[9] Galeno ha
poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il
flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la
bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è
composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei
pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato
con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è
anche il fondatore della fisiologia sperimentale.[10] Per i successivi 1.400
anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina.[9] Jean Fernel
(1497-1558), un medico francese, ha introdotto per primo il termine
"fisiologia".[11] Nel 1820, il fisiologo francese Henri
Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha
permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero
macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam
Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi,
animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi,
paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni
che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati,
il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui
appareils).[12] Nel 1858, Joseph Lister studia le cause della
coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano
all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione
del tasso di mortalità degli interventi chirurgici.[2][13] Nel XIX
secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in
particolare nel 1838, grazie alla teoria cellulare di Matthias Schleiden e
Theodor Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi
sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Claude Bernard
(1813-1878) hanno portato al concetto di milieu interieur(ambiente interno),
che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano
Walter B. Cannonnel 1929. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento
di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono
regolati."[14] In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare
l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano
ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia. I fisiologi del
XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee
di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza unificata
che studia le cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX
secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri
umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia.[16] Più
di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina
distinta.[17] DescrizioneModifica La fisiologia opera su diversi livelli,
occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di
cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli
organismi complessi. A seconda dell'ambito specialistico, la
fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già
citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica,
biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la
base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la
farmacologia e la tossicologia. Esistono diversi metodi per classificare
la fisiologia[18] In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni
e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale:
studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali.
Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni
degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di
organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al
funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia
molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle
molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a
livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica
Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche:
Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo
sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento,
ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in
seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le
fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli
obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana
d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le
somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia
dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e
sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. NoteModifica ^
Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental
and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley-Liss.pp. 1-12.ISBN
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Early Medicine and Physiology, su webspace.ship.edu. URL consultato il 26
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Fell e F. Griffith Pearson, Historical Perspectives of Thoracic Anatomy, in
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DOI:10.1016/j.thorsurg.2006.12.001. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Wilbur
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fisiologici Estetica a Fin-de-siècle Europa . Seattle: University of Washington
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P.M. Principles of Animal Physiology, second edition. Pearson/Benjamin
Cummings. Boston, MA, 2008. Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
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Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione,
pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia,
fisiologico, natura -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Giuliano – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza – Filosofo
italiano. Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s
lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus;
Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta,
senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa
era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Sometimes
known as ‘the Apostate,’ Giuliano was a Roman emperor, who died in battle at
the early age of 32 exclaiming the infamous “Galileans, ye won!” as the arrow
penetrated in his breast. A naturally gifted scholar, Giuliano stuied
philosophy under Massimo di Efeso and had many philosophical friends and
acquaintances, including Saturnino Secondo Salutio, Prisco, and Imerio.
Although his philosophical outlook was what he described as ‘generally
eclectic,’ he had a special fondness for the Accademia, and a particular
hostily to the Cinargo. Keen to eliminate the Galileans, as he called the sect
originated after the death of Gesu di Nazareth, in fact he left them rather ‘to
their own devices,’ although removing some of their privileges. His letters and
speeches survive – many on deep philosophical issues (‘What is universal about
worshipping a man born in Galilee who claimed to be the son of God – and born
of a virgin?’). Grice: “There are various Griceian problems when approaching
Giuliano from a Griceian perspective. It all reminds me of my father, a
non-Conformist, in a household comprised of my High-Church mother and Catholic
convert aunt! At Oxford, and in fact, before then, at Clifton, I learned that
religion has nothing to do with i. Nobody believes that Giove raped Ganymede –
it’s a tale! Giuliano has been unjustly treated counterfactually. Historians,
seeing that Giuliano’s fight was useless, dismiss it. But this is a weak
argument. I might just as well dismiss Mussolini’s plans because we English bombed
Milano! Giuliano read too much of what the Hebrews call ‘the Holy Writ’ – but
his propositions should be taken separately, one by one. In a way reminiscent
of Arnold (in his Ebraism and Ellenismo), Giuliano proposes to us an
examination of things like ‘Jesus was the son of God, therefore he was God.’
Aeneas was divinized by Virgil, so the Romans shouldn’t count as good critics
here. A nice story involves Giuliano and Arete, a philosopher to whom Giamblico
di Calcide dedicated one of his books. It seems likely that she was one of his
pupils. Her neighbours (presumably Christians) tried to get her thrown out of
her home, but the emperor Giuliano himself went to Phrygia to help her. Giuliano.
Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Giuliano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giuliano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Eclano – Benevento). Filosofo italiano. Giuliano was a follower of (of all
people) Pelagio. As a result he was
prompty deposed from his position as ‘vescovo’ of Eclanum. He appears to have
led an unsettled life thereafter. His works survive in the use made by them by
Agostino in “Against Giuliano, the defender of the Pelgagian heresy, and the
so-called ‘Incomplete work against Giuliano’ – left unfinished by Agostino.
Giuliano strongly opposed Agostino’s convoluted doctrine of the original sins
(he said there were many). By contrast, Giuliano entertained a totally positive
conception of human nature.
Grice e Giulio Cesare – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Giulio Cesare si è voluto collocare tra
gli epicurei Giulio Cesare perchè nell’orazione che secondo Sallustio
avrebbe tenuto in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di
Catilina, nega l'immortalità dell’anima e le pene dell’oltretomba. Però non
sappiamo se e fino a qual punto rispecchi il suo pensiero quell’orazione, che,
in ogni modo, mirava a impedire l'uccisione dei catiliniani. La divinazzione di
Giulio Cesare – La stella raccontata di Ovidio – Ottaviano interpreta la stella
di altro modo.
Giulio – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giulio Giuliano. He was a
philosopher from Rome who was killed during an attack on the city.
Giunco – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was the
author of a philosophical dialogue about the three ages of man. He was the
son-in-law of Tito Vario Ciliano, and took his father in law, himself, and his
own son, as models.
Grice e Giunio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Marco
Giunio Bruto minore -- appartene all'Accademia -- cioè effettivamente
all’eclettismo con tendenze stoiche di Antioco d’Ascalona -- che, appunto,
accetta dottrine derivate dal portico. In Atene MARCO GIUNIO BRUTO IL
MINORE fa studi di filosofia, e in questa ha maestro Aristone. Nella
guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a Farsaglia. Ottenne di
riconciliarsi con Giulio Cesare. Forma stretti rapporti con Cicerone che gli
dedica varie opere ("Brutus", "Paradoxa",
"Orator", "De finibus", "Tusculanae", "De
natura Deorum." A Cicerone Marco Giunio Bruto dedica il "De
virtute." Legato propretore nelle Gallie, pretore urbano, partecipa alla
congiura contro Giulio Cesare e fu uno dei suoi uccisori. Sconfitto a
Filippi da Ottaviano, si uccise. Marco Giunio Bruto uno dei maggiori
rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Marco Giunio Bruto
scrive lettere (8 a Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie
e tre opere morali. Nel "De virtute," MARCO GIUNIO BRUTO difende
la teoria dell’auto-sufficienza della virtù.In "Sui doveri" MARCO
GIUNIO BRUTO da precetti al fratello sulla sua condotta.Nel "De
patientia," tratta di questa.
Grice e Giunio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Giunio Mauricio was a follower of the Porch, and one
of the senators who opposed Nerone.
Grice e Giunior – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Giunior was a philosopher who wrote, or edited, a
short work on geography.
Grice e
Giussani – dell’amicizia – il comune,
fraternita, liberazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio).
Filosofo italiano. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a
no-no, being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!”
Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile;
il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel
seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro
anni di ginnasio. Si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del
seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove
svolse i successivi studi di filosofia. Ebbe come docenti, fra gli altri,
Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Manfredini
e Biffi. Si interessò di Leopardi e delle chiese ortodosse. Il 26 maggio
1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale
Ildefonso Schuster. Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono
come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie
sugli slavofili), della teologia protestante e della motivazione razionale
dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello
nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole
superiori a Milano dove fu suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si
tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fonda insieme a Ricci e
che fece parte dell'Azione Cattolica. Inizia anche un'attività
pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la
voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica. Sotto Colombo continuò gli studi di teologia
protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la
cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano.:Lo Spirito Santo ha suscitato
nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la
bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione
che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Giussani
s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità
e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei
desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto
della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese
il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il
consiglio generale. Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la
Fraternità di Comunione e Liberazione e Giussani ne guidò la Diaconia
Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare.
Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire
dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta
al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in
successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso
religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la
concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo
attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed
occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani,
l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una
critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale
strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo
di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza
religiosa. Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani: Desio:
nel paese natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento
opera di Cristina Mariani a Milano: parcoGiussani, in predenza parco Solari
Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla
chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale
Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo
di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e
Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un
largo presso la rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno:
la scuola primaria e dell'infanzia "Giussani". Portofino: la
piazzetta del faro Kampala (Uganda): la scuola secondaria Giussani Pozzolengo:
il parco comunale adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera
dell'artista riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini:
la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera
dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari:
un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo
Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il
centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state
intitolate a don Giussani a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre,
ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi,
conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi
spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli
ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni aggiornate dotate
spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte
con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi
antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di
fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti
o di riedizioni di testi sono poi usciti
anche per altri editori, tra i quali Marietti,
San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di
conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e
Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores
Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come
fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere
Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella
Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in
volumi antologici. -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e
degli scritti di Giussani. Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di
Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei
testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la
Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga
iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli
scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di Giussani e di Comunione
e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di
«introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota
introduttiva di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e
una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa
cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold
Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno
del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo
cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il
rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione
per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori,
BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano,
Jaca Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina
Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La
coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca, Il senso religioso, PerCorso, Jaca Rizzoli, All'origine
della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un
avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano,
BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?,
BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca Book, Il tempo e il tempio,
BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è
un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere
così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San
Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella
storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino,
Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la
terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?,
San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La
Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità,
Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La
libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità
con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil,
BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana Quasi Tischreden
"Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella carne, BUR
Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo, BUR
Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR
Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia
alla presenza BUR Rizzoli, Certi di
alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR
Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più
caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino
BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR
Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla
carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli, Interviste Comunione e Liberazione.
Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni
sul presente e sul destino, colloqui conFarina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione
e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da
"L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia
S.p.A.Area Internet, Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti, su
chiesa.espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in
ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce
, «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica
» politica » Milano, i funerali di Don Giussani, su repubblica Milano,
profanata la tomba di don Giussani, Corriere della Sera su corriere. Chiesta
l'apertura della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società
Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani,
in Tempi, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi Giussani,
fondatore di CL, nominato monsignore, in Avvenire, Don Giussani: vince il
premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop.
Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi,
La famiglia a scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello
StatutoEdizione Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio,
rinasce il monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il
Cottadino, Il parco Solari sarà dedicato
a Giussani, in Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri,
in La Provincia Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona News, Castronno, intitolata a Don Giussani la
nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano
intitolata una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don Giussani «faro»
di Portofino, in Il Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata
a Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, 1Pozzolengo, raid
vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don Giussani a San Leo,
in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a Don Luigi Giussani, in
Altarimini, Chiavari, lungoporto don Giussani per il fondatore di Cl, in Il
Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona
Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di
Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le opere di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su Giussani
Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione
e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco,
Giussani, Torino, Elledici, Guy Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément;
Antonio Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per
Giussani, Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello
Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La
ripresa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero
sorgivo, Marietti DPerillo, Caro Giussani. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme,
Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello
Balsamo, Edizioni San Paolo, Farina, Giussani. Vita di un amico, Piemme, Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso
della vita, Piemme, Ceglie, Giussani. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli,
AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo Camisasca, Giussani. La
sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Savorana,
Vita di don Giussani, Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che
muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura
originale, Milano, Jaca Book, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un
movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Edizioni
Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di
Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A.
Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli
Eupress FTL. Scritti di Giussani, su Giussani
Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e
Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani.
Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Giusso – gl’eroi – filosofia fascista -- il mistico dell’azione -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Giusso: he has explored
philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole
‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and
especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All
very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e
da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un
terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo
sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei
fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia
a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il
suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di
critica "scenografica", così come fu definita. Le sue
"frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici,
presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata
contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo
di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a
causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova
vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu
criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee
s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per
temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del
quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli,
Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua
composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo
meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò
all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui
molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare)
assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di
vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte
opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler
e Nietzsche. Intelligenza precoce, prima
di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da
Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso
avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi
quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del
Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa ed altri ancora.
Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei
più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali
esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti
dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede
Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano
dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla
tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un
viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una
strada. Saggi: “Le dittature
democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo
e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze,
Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di
Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “Vico fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo”
(Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del
torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue:
saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano,
Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca, “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo
Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,.
Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia",
"La Critica", rist. in Nuove
pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in
Bruno, Napoli Roma,Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di
metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui,
Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e
di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad
indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la
ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero,
1° febbr. 1960; G. Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico
letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degli italiano. L’Illuminismo oscuro Lorenzo Giusso,
autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata
produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal
mondo accademico contemporaneo. Stefano Chemelli 10 articoli
Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui
invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Nato a Napoli il
25 giugno 1900, allievo di Aliotta e Battaglia è precoce critico letterario, si
laurea nel 1924, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma
insegna anche letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e
letteratura spagnola in diversificate sedi europee. “Tafferugli a Montecavallo”
pubblicato da Cappelli nel 1955, uno studio sul barocco romano e il Bernini,
“La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie
conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a
una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.
Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, Giusso
si è occupato a fondo di Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij,
Freud, Dilthey, Simmel, Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler
uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava
anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si
trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per
intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura
che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Nel 1927 dona un’analisi
storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, dal 1876
all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che
ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il
ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di Capri” del 1931, a ruota seguono le
pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su
Leopardi. Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia italiana"Copia
de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” Stendhal e Nietzsche non
escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in tre raccolte che molto
dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella
torre”, “Elegie del torso della saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina
degli universali formali” restituisce in forma autonoma un approfondimento più
volte ripreso da Giusso nel decennio dei trenta che costituisce la decade
dell’approfondimento filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri…) e
preparatorio al grande volume “Filosofia e immagine cosmica” del 1942 dedicato
a Gentile. Due traduzioni spagnole coinvolgeranno gli studi di Giusso rivolte a
Vico ma sarebbe urgente dare attenzione alla tradizione ermetica, magari per
scoprire che Eugenio Garin l’ha sicuramente letta e ripresa molto più
tardi. “Kulturkritiker universale” lo definì il giovane Piero Buscaroli,
allievo devoto a Bologna quando Giusso strabiliava un manipolo di arditi
fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai avrebbero rinunciato
alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater bolognese, fugacemente
ospitati. Un grande romantico della ispecie dei Kleist, degli Hoederlin,
dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che trova negli articoli, nelle
corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite suggestioni, il tono di un
Giusso confidenziale e descrittivo vicino al lettore non specialista ma
disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara e tersa di un
respiro curioso sino al dettaglio minuto. Filosofia ed imagine cosmica
(1942)Filosofia ed immagine cosmica (1942) Pubblicati recentemente i quaderni
spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine tedesche e
austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e cose
sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza della
scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione,
Giusso è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi
italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna.
Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in
Vico e Spengler. Adriano Tilgher, Corrado Alvaro, Giuseppe Toffanin, furono
amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al
contrario era profferta a piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome
di una poetica propensione al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e
incantato nella magia della parola libera, circostanziata, esatta. Una
studiosa di letteratura italiana ha affermato che il più bel libro di Giusso è
il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto
spagnolo coincidono. Alberto Spaini, ma pure Piero Buscaroli che con Maria
Giulia Rispoli del Galdo Giusso sono stati tra i conoscitori più profondi di
Lorenzo Giusso, difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche,
austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una
dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti,
posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato
solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia
necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una
visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo
del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U=Il fascismo di Benedetto
Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da Critica fascista – “Gentile,
mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .
Nacque a Napoli, il 25 giugno 1899, in una famiglia aristocratica, dal
conte Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale
avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva
contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo
Giusso, ne era stato sindaco). Tra il 1917 e il 1924 gli studi del G.
presso l'Università di Napoli (dove fu allievo, fra gli altri, di A. Aliotta),
coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici
direzioni. Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico
della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla
letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso
eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo
portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più
diversi. Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della
Napoli segnata dal cenacolo di B. Croce, da cui molto presto si distaccò (come
A. Tilgher, che egli mostrò di apprezzare) assumendo posizioni
"eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico
che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua
attenzione: in particolare, in una fase iniziale, O. Spengler e F.
Nietzsche. Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento
universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, il G. avviò una copiosa
pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani italiani come
autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura
europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto
scrittori. L'attività giornalistica si sviluppò particolarmente negli
anni Venti, quando il G., ancora molto giovane, iniziò a collaborare con L'Idea
nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico
letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e
tenne un "Diario critico" per Il Resto del Carlino, pubblicando nel
corso degli anni sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale,
Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora),
anche se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello
universitario. Nel 1936 ottenne la libera docenza in filosofia teoretica
a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe
del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di
cui si occupò - furono: Cagliari, dove dal 1938 al 1943 insegnò come professore
incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare,
le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia
delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua
e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si
limitò, comunque, all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a
Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico
d'onore", e a Barcellona. Proprio al ritorno da un viaggio in terra
spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.
Il G. morì a Roma l'11 apr. 1957. Oltre all'attività come giornalista e
saggista, il G. aveva pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in
piazza (Napoli 1930) e Don Giovanni ammalato (ibid. 1932), una rifusione,
accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena 1939;
e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano 1941: d'intonazione
prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la
piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più
libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non
dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione del
G., le ultime due. Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante
e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G.
non si legò ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di
pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo
di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina
unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae
origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale
intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui il G. non smise mai
di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente
antidealista). Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal
crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse del giovane
G. fu per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il
pessimismo cosmico di G. Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli 1929; Leopardi,
Stendhal, Nietzsche, ibid. 1933; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y
Gasset, ibid. 1933; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze 1935); in tempi
diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo
avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura
contemporanea, s. 1, Milano 1929; s. 2, Roma 1942). Nell'ambito di una
ricerca più propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G.
- che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi - furono W. Dilthey (Dilthey
e la filosofia come visione della vita, Napoli 1940; Dilthey, Simmel, Spengler,
Milano 1944); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli 1936), Spengler
(Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli 1935), e J. Ortega y
Gasset. Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento
della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di
fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative,
Filosofia ed imagine cosmica (Roma 1940), in cui, in diretto riferimento a G.
Vico (si veda anche: G.B. Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma 1940; La
filosofia di G.B. Vico e l'età barocca, ibid. 1943), egli delinea una
genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire
dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una
filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché
i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del
mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le
tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo
sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non
specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo. Nel dopoguerra,
approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e
dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua
intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal
Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano.
In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche
alla figura di G. Bruno (Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli-Roma
1955). Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le
dittature democratiche d'Italia, Milano 1927; Idealismo e prospettivismo,
Napoli 1934; Lo storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma 1947; Bergson,
Milano 1948; Vincenzo Gioberti, ibid. 1948; Spagna e antispagna: saggisti e
moralisti spagnoli, Mazara del Vallo 1952; La tradizione ermetica nella
filosofia italiana, Trapani 1955; Tafferugli a Montecavallo, Bologna, 1955;
Origene e il Rinascimento, Roma 1957; postumo: Autoritratto spagnolo, a cura di
A. Spaini, Torino 1959. Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 12
apr. 1957; La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI
(1957), 5, p. 634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi
Carcano, in Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad
indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L.
Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico
napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un
sistema, in Sophia, XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G.,
in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia,
ottobre 1960, pp. 262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in
L'Osservatore politico letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale
del '900, sub voce. Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il
panteismo (πάν (pán) = tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente
"Dio è Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per
cui ogni cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura
sono equivalenti a Dio (Deus sive Natura). Definizioni più dettagliate
tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo
(la somma di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio
teologico di un 'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate
di qualsiasi tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo
dal panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando
elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e
pandeiste. Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una
concezione non-teistica della divinità».[1] In senso lato, con
"panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio
con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di
Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la
quale afferma "Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il
termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo
caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua
parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte
rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto. Storia del
panteismoModifica Il termine "panteista" (dal quale la parola
"panteismo" è derivata) fu usato propriamente per la prima volta dal
filosofo irlandese John Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a
pantheist, del 1705. Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei
filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti
ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto
della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli
"atti di natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono
tutti identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di
personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel
Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica. Nel 1785 sorse una
consistente controversia tra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che
infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il
panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la
natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che
il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe
condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il
panteismo era teistico. Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un
componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è
in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione
porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi
l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore. Il Dio-tutto di Eraclito
ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla
teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile
a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà
sviluppato in seguito dagli Stoici. Il Panteismo degli StoiciModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il
panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove Dio è la
ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi,
non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion
d'essere. Il Panteismo di PlotinoModifica Si è parlato spesso
impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è
solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Giovanni
Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è
superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di
tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra prendere in
contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e
panteiste del suo pensiero. Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione
di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni
caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque
dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della
realtà naturale. Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui
prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto,
illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie». La
materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata:
«come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima
che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco,
poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta
l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in
infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la
materia». Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della
filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Nella sua
concezione, anche la Terra è dotata di anima. Egli in De l'infinito,
universo e mondi scrive: «Io dico Dio tutto infinito, perché da sé
esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio
totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua
parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la
quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi
all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in
quello.» (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni 1985, p. 382)
Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi centrale
del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio,
immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i
temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la
teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia
neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il
pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes. Spinoza
concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:
«Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo
neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la
sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo:
dunque Dio esiste necessariamente.» (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori
Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:
«Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente.
Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi
della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo
contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente
oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo.
Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono
in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono
determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi;
e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente,
che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate
dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad
esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.» (B.
Spinoza, Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma
non meno quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti
essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà
come persona divina tipica dei monoteismi. DescrizioneModifica Tipi di
panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:
panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo,
Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente considerando Dio
come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è
espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle,
relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato
influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il termine
"panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La maggioranza
delle persone che possono identificarsi come "panteiste" appartengono
al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci
della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse come
panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo naturalista.
La divisione tra le tre branche del panteismo non sono completamente chiare in
tutte le situazioni, rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti.
I panteisti classici generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui
ci sarebbe una base spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti
naturalisti generalmente non concordano, piuttosto intendendo il mondo in
termini più naturalistici. La confusione tra i concetti di panteismo e ateismo
è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani si riferivano ai primi
cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno semantico possono
variare. Metodi di spiegazioneModifica Una caratteristica spesso citata
del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte dell'universo o della
natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi dai panteisti è come possa
esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In risposta, qualche volta è
data la seguente analogia (particolarmente dai panteisti classici): "stai
a Dio come una tua singola cellula sta a te". L'analogia sostiene
anche che, sebbene una cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia
persino qualche scelta (libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un
batterio, divenire cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente
una comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro
modo di comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam
asi - "quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa
medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba
essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e
capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal
tutto. Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato
che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti
naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano
suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o
determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi.
Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre
religioni e filosofie. DibattitoModifica Alcuni sostengono che il
panteismo è poco più che una ridefinizione della parola "Dio" per
definire "esistenza", "vita" o "realtà". Molti
panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in cui
pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più
perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio. Forse il più
significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello
riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale,
cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere
religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente
e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso
non tradizionale e non personale. I punti di vista compresi all'interno
della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che
vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura
che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine
comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano
l'esistenza come esistente di per sé. Concetti panteistici nella
religioneModifica InduismoModifica È generalmente riconosciuto che i testi
religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche.[2]
Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e
trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è
anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa
idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e
gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli
Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con
Brahman. Chāndogya Upanishad dice "Tutto in questo Universo in
realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui
respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice:
"Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la
causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il
vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza
perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è
unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come
i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di
un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig
Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro
decimo (10-121). Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli
dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità
siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come
il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso
avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori
dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della
filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente
vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici
manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è
spesso considerata dai non induisti come politeista. Il panteismo è la
componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non
sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola
Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu,
laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.
EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica
ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da
parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo
ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano
fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche da parte del
filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio
stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di
ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in
Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere
occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte, cap. 3.). E così
qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso
più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena,
Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale").
Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo, aveva un senso
mistico del divino che può essere definito come Panenteismo. Secondo
l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah (legge)
della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli scritti di
Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah della natura
equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente
alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con
la scoperta del Big Bang nel 1965]. L'ortodossia rabbinica considerando questa
posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di
sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette
la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio "ha
parlato" nella creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti
biblici. Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla
riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione
dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò
la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo
per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza. CristianesimoModifica Vi
è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del
Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da
rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni
ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a
partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare
alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del
protestantesimo liberale. Altre fonti includono la Teologia del
processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri
ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per
qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo. Alcuni
Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene
insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta
personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che
il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri,
lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per
benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali
si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo.
I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è
rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed
attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno
sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e
della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una
formulazione per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del
Monoteismo). Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la
definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo
richiamo verso questo sistema di credenze. I panteisti cristiani
sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da
fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che consideravano
Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla "esistenza",
pertanto la definizione di "Dio" si riferiva ad un qualcosa "che
non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È proprio questa basilare
definizione neo-platonica di non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono
biasimevole e contraria alle scritture. Agostino rigettò il panteismo per
i seguenti motivi: Ma c'è un motivo che, al di là di ogni passione
polemica, deve indurre uomini intelligenti o comunque siano, perché
all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a fare una riflessione. Se
Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo a questa mente, sicché è
un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è Dio che contiene in se
stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se inoltre dalla sua
anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono derivate la vita e
l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non rimane nulla che non
sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti possono capire l'empietà e
la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una
parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio.
Non voglio dir tutte le cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile
dirle senza vergogna.[4] come pure: Riguardo allo stesso animale
ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che una parte divina
prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un pazzo può
sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e in
definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con coloro
che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo
Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse: Io sono la Luce:
quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il
Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là
mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non
in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza
fenomenica è riflesso della luce divina. informazioni Questa voce o sezione
sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono
insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e
lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto
dai musulmani contenere insegnamenti panteistici. Il Sufismo può essere
suddiviso nelle seguenti categorie: Sufismo originario - Sincretico:
Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche
religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi
non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle
forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente
ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici.
Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto
scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth
come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come
una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico.
Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del
Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth.
Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di
Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto
diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed
individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda
della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente
dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi
Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano
come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata
in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti
è panteista, o per essere più precisi, Panenteista. Gli scritti di Seth e
il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle
credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto
al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come
presentati dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità"
cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa
energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose;
la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio
è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che
è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth
descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno;
inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun
individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato
concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e
quindi si trasforma in un teismo. Altre religioniModifica Molti elementi
panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e
Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia
e la Church of All Worlds. Molti Universalisti si considerano
panteisti. Il filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama
Dio". Egli criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non
nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee.
Carus definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una
visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al
"Deus-sive-Natura" di Spinoza. Concetti connessiModifica PanenteismoModifica
Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono: il
primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio.
Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre per il
panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è
superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello
spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo). Per alcuni tale
distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di
divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero
essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile
per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla
sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo
si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e
Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista. CosmismoModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e
World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento
filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali.
Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di
Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo
piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto
che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio
finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione
sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica. H. G. Wells
diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain ("Cervello
mondiale"), rifacendosi a un saggio da lui pubblicato nel 1937, in cui
viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale
idea venne ripresa nel libro God the Invisible King,[7] in cui l'autore
consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui
dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo
che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi
con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of
History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche
sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo
libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel 1936 Things to
Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra
apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una
utopia collettivista. In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio
da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista
Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore
Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare.
Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo
nell'"invenzione" di questa entità. Nel XX secolo, lo
statunitense William Luther Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel
Partito Nazista Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza
Nazionale, utilizzò il termine "Cosmismo". Per Pierce (così come per
Wells), Dio sarebbe il risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale
(Si veda: Nazismo, Francis Galton e Teosofia). La "Noosfera"
descritta da Vladimir Vernadsky e da Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere
considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la
coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Carl Gustav
Jung. Arthur C. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista
nel suo libro del 1953 Childhood's End (tradotto in italiano con il titolo Le
guide del tramonto), riferendosi ad essa come la "Overmind", una
mente alveare interstellare. PandeismoModifica Il Pandeismo è una
specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo
è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e
senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando
l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione
(e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le
credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo.
EticaModifica Secondo Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo,
nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e
quindi non avrebbe risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo
è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è
da considerarsi parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più
censurabile e più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è
etica. (Il mondo come volontà e rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII)
Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto
più etico, evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se
stessi, perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è
bene e ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il
risultato di come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si
deve basare sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire
da un reciproco di tutti verso tutto. Le forme tradizionali e le varie
definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro
maestri per le definizioni di ordine etico. NoteModifica ^ ( EN ) Michael
P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York,
Routledge, 1994. Trad. italiana Il Panteismo. Una concezione non-teistica della
divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN 88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre,
General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol.
1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città
di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del
Vangelo secondo Tommaso ^ God the Invisible King Voci correlateModifica Dio
Monismo Monoteismo Teismo Deismo Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia)
Panpsichismo Panteismo naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica
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panteismo Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN )
Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica
su Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N.
Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Giuseppe
Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede,
su disf.org. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 29848 · LCCN( EN ) sh85097492
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PAGINE CORRELATE Monismo (religione) Panenteismo scuola filosofica Panteismo
naturalistico Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di
giusso, la tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo,
bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Giusso” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giustino – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Giustino is cited by Ippolito di Roma as the originator of
what Ippolito describes as a pagan form of gnosticism in which a wide variety
of disparate elements are brought together.
Grice e Giustino – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Giustino studied various schools of philosophy with his
friend Trifone, but couldn’t decide. He showed his scepticism in a letter to
Antonino Pio. He irated Crescente, who had a mob killed him.
Grice e
Givone – fanes – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone
(Buronzo). Filosofo italiano. Grice: “I
like Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more
controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato
a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e
l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua
ricerca sulla “Storia naturale del nulla” -- e sulle implicazioni sullo tragico. In sua
estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi:
“La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia:
Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione,
Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la
filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del
mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore, La questione romantica, Roma, Laterza, Storia
del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos,
Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi, Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il
bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi, Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica
della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi
dell'amore ferito, Firenze, Olschki, Sull'infinito,
il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on
‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love;
instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on
Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes
to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His
ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi. Futurismo
movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici
puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e
musicale italiano dell'inizio del XX secolo[1], nonché una delle prime
avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in
altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in
Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la
scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la
danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del
movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].
Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art,
New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio
1909 (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di
notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era
stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione
sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte
tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli
aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare
completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando"
fra loro i continenti, creando nuove connessioni. Il XX secolo era quindi
invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I
futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche"
in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul
dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene
di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni
giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva
questa nuova sensazione di futuro[1] e velocità sia nel tempo impiegato per
produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere
percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.[2] Gino
Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se
aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe
voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:
«Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo
fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi
in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre
ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura […]» (Gino
Severini, Vita di un pittore) Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che
il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti
tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi
liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…» (dal Manifesto
dei pittori futuristi, febbraio 1910) Una scazzottata futurista A seguito di
una serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione
violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a
Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse"
in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un
grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella,
quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e
Alberto Spaini, volle rendere la contropartita. «Fu una vera
spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici.
I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove
sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori
della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»;
sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa
un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una
scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri
rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in
un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che
Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò
tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie,
andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva
riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non
erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione.
Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro
violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero
in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti.» (Gino
Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato
inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la
Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e,
definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20
febbraio 1909[3], Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento.
Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo
Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei
pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della
pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una
fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie
(bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il
Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei
teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria,
il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come
"sola igiene del mondo". Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni
e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912 La prima
importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria
Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All'inaugurazione della mostra erano
presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale
fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo
interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da
favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come
Berlino[5]. La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie
alla mediazione dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini
uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il
movimento futurista[6]. Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e
Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di
conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da
Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo
Futurismo". Secondo FuturismoIn prima fila Depero, Marinetti e
Cangiullo nel 1924 con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu
sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava dal 1918, due anni dopo la
morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con
la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, dal 1929 al 1939,
fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si
concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche
all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia
(Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Filiberto Sbardella[7], Nicolay
Diulgheroff, Wladimiro Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone
Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8] Se la prima fase
del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in
pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda
stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che
abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di
speciali favori. I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel
panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del
Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al
bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi
ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo. Anche se la gerarchia
fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante,
l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del
Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che
alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia
fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica). Altri ancora, come
il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero costantemente un
approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con l'estetica
fascista, anche nelle successive esperienze di pittura informale.[9]
Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo russo, San
Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San
Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni 1911 e
1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in patria
verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i concreti
iniziatori del movimento in Russia. Nel 1913 il pittore Kazimir
Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej
Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo.
Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono
personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič
Majakovskij. Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal
movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti
la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il
Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico
dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte
dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita
di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il
temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma
Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i
futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič,
Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte]
L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado. In
Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei
futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica
idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del
mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al
bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel
cubismo e nell'astrattismo. Futurismo francese In Francia il Futurismo
non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota:
Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point. Apollinaire scrisse il
manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo
il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi
Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista
sul poeta francese. Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine,
scrisse il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta
a F. T. Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a
Milano. Del 1913 è il Manifesto futurista della lussuria. Orientamenti
artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del
dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio,
per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la
simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi;
lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto,
testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento. Per
rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione,
il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle
“linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con
significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua
essenza di semplice segmento e diventa “forza” centrifuga e centripeta, mentre
oggetti, colori e piani si sospingono in una catena di “contrasti simultanei”,
determinando la resa del “dinamismo universale”. PitturaJoseph Stella
Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, 1913-14 Yale University Art Gallery
Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti
sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo
plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo
studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica
del moto[10]. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime
opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica
Ricordi. Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche
legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e
teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità
espressiva. Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo
nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella
Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà
dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione
dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle
fabbriche. Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare
quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad
adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di
simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo
che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti
come La città che sale. Opera futurista di Emma Marpillero Corradi
Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi
cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di
essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la
superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa
prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende
possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione
esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone
ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione
temporale, il movimento. Altrettanto interessanti sono i rapporti
stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert
Delaunay. Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i
più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11]
Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista,
come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è
vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il
nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante
luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi
opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma
il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto
emozionale. Come conseguenza dell'"estetica della velocità",
nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge
infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni,
degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle
azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona,
della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e
pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La
costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche
da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso. Tra
gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e
del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei
due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912. Due tra i principali
esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono
presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita
"simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una
chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere
edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza
del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se
Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi
cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per
rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è
il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912). SculturaUmberto
Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of
Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto
Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella
plastica. Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico
della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere
considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l'immagine,
applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo
spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo
in sé stessa. Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente
precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella
continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di
plasticità derivanti da influssi naturalistici. MosaicLa tecnica del
mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata
molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.
Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle
Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia
(1933). Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le
Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici
futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni quaranta).
ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio:
Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema
di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove
marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole
con cariatidi, mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova,
costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»
(Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo
Nuove Tendenze del 1914) Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della
Città Nuova. 1914 Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914
Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929 Giuseppe
Pettazzi Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel
1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del
movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel
movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera
attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande
influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici
del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di
Varese[12]. All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto
dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al
centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e
della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città
del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come
inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come
caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I
futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti
avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di
questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia
futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte,
un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è
impregnata di dinamicità. Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique
simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei
progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa. Le teorie
futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione
di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e
tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e
della città che saranno proprie del Movimento Moderno[13]. A causa della
guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia
perse il suo slancio. Dopo il 1919 l'originaria proposta futurista dei primi
tempi fu raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista
italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie
futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un
monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione
Sovietica con il sopravvento del regime totalitario. Tra i grandi
esponenti dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con
Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando
straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e
abbandonare la militanza. E infine Virgilio Marchi, che operò anche come
scenografo. Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Angiolo
Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi
validamente in funzione in diverse città italiane. CeramicaPer le sue possibilità
espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare
i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il
7 settembre 1938 sulla Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e
di Tullio d'Albisola viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e
Aereoceramica. Fin dal 1925 il centro propulsore della ceramica futurista
italiana fu Albissola Marina. Musica Modifica In campo musicale gli unici
rappresentanti di rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo,
pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato
nel 1916. L'arte dei rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più
importanti e influenti nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si
deve l'invenzione dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in
pratica la sua teoria del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni
dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni
acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.
Letteratura Modifica Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni
Papini, Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo
Tommaso Marinetti. A fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il
Manifesto del Futurismo ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione
su Le Figaro il 20 febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla
rivista fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico
della letteratura futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb,
miglior esempio delle futuriste Parole in libertà. Poesia. I poeti
futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche
anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e
delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più
noti, oltre al Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica
L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E
lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici,
autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi,
autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù,
al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un
successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.
TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio:
Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso
di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico,
simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al
pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi
della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si
rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e
del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso
di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel
vuoto della creazione totale». I futuristi, infatti, possedettero una
«invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori,
sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di
ispirazioni». «Tutto è teatrale quando ha valore» (Il teatro
futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista
promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma
borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico
adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca
riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli
spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto
futurista del teatro di varietà. CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il
Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno
Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che
sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie
alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema
narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di
"viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo
"antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico,
parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di
un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come
un retaggio vecchio. I futuristi, per allontanare il cinema dal passato,
ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e
bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che
verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della
perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori
forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante
la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini
disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di
Firenze. Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la
tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del
comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta
tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi
rintracciabili su YouTube). Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di
questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco
francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di
nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio
fondamento". Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e
salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e
gelatinadi fragola. Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto
della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava
eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti
tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e
profumi. Scrive Marinetti: «(...) vi annuncio il prossimo
lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema
alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi
sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata
dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi
principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita
al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude
sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra
parte patriottico favorire in sostituzione il riso.» Nel suo tempo È
normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto
molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato
dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e
D'Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e
alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi
suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse
rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale. Secondo i futuristi, questi poeti
devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro
ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire: la poesia
morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la
passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la
corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il
Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita
completamente diversa: i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari
sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono
prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici
e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i
crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto",
gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi
verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano al passato e
alle piccole cose quotidiane. Scultura futurista esposta a Milano
in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece
si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada,
Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e
propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per
alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte
l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione
della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di
non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o
la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni
suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione
futurista dell'universo" di Balla e Depero). Tra i contemporanei dei
futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che nel 1929, a
Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò
apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve
affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato
movimento artistico"[20]. Nella critica del dopoguerra Il Futurismo
ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi
che sopravvissero alla morte di Marinetti (21 dicembre del 1944) e alla seconda
guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di
aver fiancheggiato il fascismo. Nel secondo Novecento nuovi studi di
Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia
Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di
collusione fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il
futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti
anarchici, e persino comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia
futurista italiana era stata troppo sommariamente giudicata. Nel corso
del tempo diverse sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia
rilevanza è stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il
centenario del movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009
Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il Futurismo italiano, con una grande
esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura
di Vivien Greene[22], è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del
Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle
artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento. Nel 2018
è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura
e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè
seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto
anatroccolo. Ma che Wow!!" di Claudio S. Gnoffo, a significare
l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare
nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali.[23] Principali esponenti
del futurisModifica Futuristi italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico
Allimandi Adone Asinari Franco Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras
Baldessari Giacomo Balla Enzo Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto
Bonetti Oswaldo Bot, pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia
Alessandro Bruschetti Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario
Carli Enrico Carmassi Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe
Caselli Riccardo Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo
Conti Vittorio Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio
Crali Auro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici
Mino Delle Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba
Julius Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo
di Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi
Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni
Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni
Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic
Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi
Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata
Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio
Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo
Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi
Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi
Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo
Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano
Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini
Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni
Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo
di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero
Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich
Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova
Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr
Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk
Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules
Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková
Futuristi ungheresi Béla Kádár Lajos
Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del
movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917)
Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista
(1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de
Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali
manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20
febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti
Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo,
Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910),
Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27
aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi
futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11
gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911),
Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de
Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni
Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti
L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi.
L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti
L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura
dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º
ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi
Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura
futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra,
Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla,
Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema
futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza
futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929)
Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di
Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista,
(1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938),
Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto
Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale
(1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni,
La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo
Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia
(1912); Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla,
Dinamismo di un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco
(1911); Umberto Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause
(1912); Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà,
Cavaliere rosso (1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913).
Gino Severini, Ballerina in blu (1913); Fortunato Depero, I Cavalieri. ^ a b c Futurismo, in Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14
novembre 2014. ^ Il pensiero futurista si richiama evidentemente a varie
ideologie dell'azione e della violenza: il "vitalismo" del
"superuomo" (oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max
Stirner, la "violenza" di Georges Sorel (Considerazioni sulla
violenza), lo slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo"
nell'Enciclopedia "Il Sapere", De Agostini editore). ^ arengario.it,
http://www.arengario.it/futurismo/_pdf/specimen-2011-tonini-manifesti.pdf. ^ In
Archivi del futurismo regesti raccolti e ordinati da Maria Drudi Gambillo e
Teresa Fiori, Roma 1958, p. 63. ^ Il Futurismo: le Edizioni Elettriche, su
InternetCulturale.it. URL consultato il 14 novembre 2014. ^ Davide Mauro,
Elapsus - Gino Severini, frammenti di vita parigina, su www.elapsus.it. URL
consultato il 10 gennaio 2017. ^ di Forlipedia, TULLO MORGAGNI, su Forlipedia,
11 aprile 2021. URL consultato il 12 settembre 2021. ^ Futuristi, su
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pp. 68-69, per le tavole del Fumetto Futurista di Claudio S. Gnoffo si vedano
le pp. 70-71. Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle
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su Wikidata Il portale sul Futurismo, futurismo.org LA VERA STORIA DEL
FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini Il "Discorso contro i
Veneziani" di Marinetti, su paginadelleidee.net. URL consultato l'8 aprile
2009(archiviato dall' url originale il 7 ottobre 2007). Il Cerchio:
Rivista di Cultura con particolari approfondimenti sul Futurismo, su
cerchionapoli.it. "Luigi Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La
rivoluzione musicale futurista": monografia sul sito Sentireascoltare
Recensioni delle mostre del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie
russe, su chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e
artistica per il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. Principi e
filosofia del Futurismo in arte, poesia e politica, su
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Il futurismo e le arti applicate, sul portale RAI Arte, su arte.rai.it.
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docente italiano Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista
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Esaminerò i temi principali del mio libro, intitolato “Eros ethos”: la
contraddizione, la violenza, la domanda di salvezza, che è poi la domanda di
senso, il silenzio di Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo,
perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda
piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la
domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che
cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice,
in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio
era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime
con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze
che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è
il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con
voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la
domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non
filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E
che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre,
interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo.
“Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a questa domanda
sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come risponde il
pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se
non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo
perché? Perché alla domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove
veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che
possono essere accertate scientificamente governano questo caos, del caos noi
siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo
figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma
c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene
la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco
esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità
naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo sub umano, questa
brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte
intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice la scienza che
veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di
natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli
esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente, producendo la
violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà di vivere che
abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande parola della
filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e
proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a
partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire
da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle
origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia
cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione
ultima di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o
meglio non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza
sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di
natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo
orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile.
Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di
natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1 stato
di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui
contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è
dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra
Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose
completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non
è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il
regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa.
Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non
possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia
uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel
quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa,
perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo
affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e
guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati
qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è
possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo,
quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo
anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come
qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che
controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo
l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di
controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente
sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni
violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul
fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade
dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere.
E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro
strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono:
l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale
proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte.
Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e
nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe
difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che
veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non
teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei
delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile?
Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita
ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing
tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo
se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in
questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo
stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo
in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di
Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si
elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere
sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece
teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo
ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille
sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della
intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola
obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è
che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto,
che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa
violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che
espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che
cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente
assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone
feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in
un animale 2 è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano
in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante,
anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa
violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un
segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti
che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli
entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza
umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza
dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la
violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza
dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello
che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve
farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una
situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso
che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto
il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace,
la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé
stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o
non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha
questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di
sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è
nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri.
Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di
straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel
di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente
umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico
vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice
espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco,
c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore
simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità
di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora,
se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se
questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua
irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato
di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi
sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta
dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un
altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula
filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere
trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella
pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali,
bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia
provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia,
che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta
riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia
pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto,
come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare
il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi
filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità
dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità
i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che
l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con
le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire
dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo
trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere
cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è
confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e
non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli
spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile
3 caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere
atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi
del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che
fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi
ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta
al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se
non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più
grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è
quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo
intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è
sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è
comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare.
Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio,
sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel
quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di
natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal:
l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità
dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale
maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto,
il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi
constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia
giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”.
Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora
maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci
dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di
natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come
inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la
contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire:
“l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da
dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di
una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede
di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che
aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da
quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia
religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le
fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è
profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta
che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una
filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché
c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli
apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e
ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in
entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da
Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella
dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente
religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava,
attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico,
che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo,
ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e
la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia
l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli
parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva
antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non
è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una
epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può
trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e
non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di
cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una
menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4 sulla
base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le
istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero?
E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello
stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere
ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione,
l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da
dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono
ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo
moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?”
C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo
cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati
ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del
nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci
troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che
è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso
di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con
questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di
quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere
precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa
eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros
ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la
contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si
oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza,
diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette
ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci,
e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza,
eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata,
vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti,
tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il
bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è
il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il
dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei
confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore
che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera
e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita
immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia
il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei
confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano
dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la
contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima
opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi
separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica,
che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e
capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”,
così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e
che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità.
Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è
opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione
di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è
trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale:
no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione
nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso
a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia
che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare
il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa
c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo
dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di
fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5
sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che
l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice,
come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé,
bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La
filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da
tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto,
molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci?
Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose
che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a
dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma
non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante
altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes
Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che
viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di
figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa
accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes
Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale
profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa accensione
si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente sorgiva,
che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è assolutamente
iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico punto, per
così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e questa
esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a
partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di
ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a
seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes
Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore,
che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro
questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros.
Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura
forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé,
nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono
infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie
forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo
che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in
due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore,
che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a
personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea
della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della
felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea
al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma
Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero
che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di
più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più
innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un
atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido
seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite
che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco?
Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé
stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là
del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente
è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei
teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai
tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci
si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la
liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche
cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul
rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a
6 questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come
hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno
cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della
donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema
iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della
donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e
questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di
una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi,
raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della
trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso,
che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che
cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto
contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come
eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in
sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono
questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo,
che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos
( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un
modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri
esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta,
e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire
un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se
scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che
cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da
cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe
cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo
modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati
accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei
comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a
essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos
come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me
stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così
via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che
appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi
dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è
accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi
importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un
sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio
carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se
fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe
cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da
medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos
fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro:
abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla
quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a
dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere
deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica
della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il
diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di
rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è
giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto
quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni
erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente,
bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa
della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere
un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a
stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far
stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le
leggi 7 della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce
del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione,
la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con
la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio
alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che
è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è
quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo,
che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e
abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui
c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che
la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia
feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente
diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non
trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta
come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che
io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger.
Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come
gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono
gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta
all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile
questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo
valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura
caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio
mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e
l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente,
di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e
l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è
stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la
religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la
contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo
potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a
qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di
prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che
cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti
fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros
e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa
intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “
Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi
con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in
cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire
scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è
assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza,
la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed
ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria
perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma
dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di
parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a
me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a
trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos;
phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla,
unelongated history of negation; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Glauco – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Tito Flavio Glauco – He was a poet and philosopher. The nephew of
Tito Flavio Callescro. He was probably a member of the Accademia, like his
uncle.
Grice e Glauco – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo
italiano. Glauco was a historian, used as a source by Diogene Laerzio, who
attributes to him the claim that Democrito was taught by a Pythagorian like
himself!
Grice e Glicino – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide.
Grice e
Gobetti – il partito liberale italiano – il partito socialista italiano –
filosofi contro il regime -- (Torino). Filosofo. Grice: “Italian philosophy
is political in a way pinko Oxonian one ain’t: Gobetti is the exception that
DISproves the rule!” -- “Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione
politica.” (La Rivoluzione Liberale.) Considerato un degno erede della
tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato
molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo
prima, purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del
socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e
diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando
fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue
condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la
morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini
«Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a
stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi
gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di
Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela
Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia
non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di
strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di
Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale
via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio.
Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero
dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e
permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare
un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi
elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Cesare
Balbo: scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava
un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini
fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del
domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che
s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi
poi presso il liceo classicoVincenzo Gioberti, dove conosce Prospero, sua
futura moglie, ha per professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora
alla rivista L'Unità Salvemini. Questi
gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che
sono propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di
maturità per poter così andare, libero da impegni, volontario nella prima
guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino,
la stessa che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni
corsi di filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il
suo primitivo, spontaneo anti-statalismo, in cui s'incontrano liberalismo,
liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale --, Farinelli,
Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà la tesi di laurea, “La
filosofia politica di VAlfieri. Non solo: a settembre aveva scritto
all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico che s'occuperà di filosofia,
questioni sociali è fatto di soli giovani si tratta di opera di intensificazione
di cultura e di azione e tutti i giovani devono aiutarla. Esce il primo numero
del quindicinale “Energie Nove” nel quale scrive di voler «ortare una fresca
onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi non c'è mai momento inopportuno
per lavorare seriamente. Ispirata alle
idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta,
nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto.
Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue
tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto
assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia
un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata. L'altra «guerra più lunga e
spietata è quella della riforma del Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue
intenzioni Gobetti, innanzi tutto culturale e morale, e per la quale occorre
serietà e intensità al lavoro secondo i motivi di quellidealismo militante che
ha animato La Voce di Prezzolini, altro nume ispiratorei. Era doveroso
partecipare in prima persona al dibattito politico e intellettuale
contemporaneo. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti. Sospende
la pubblicazione della rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso
degli Unitari, i sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è
fondatore e rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di
persona l'intellettuale pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un
genio.” “Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che sviscerale questioni, che la
fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti,
definitive.” “Un'altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice,
pratico.” “Editore propriamente come lo pensavo io.” “L'editore più
intelligente d'Italia.” A seguito del Congresso, gli Unitari fondano la Lega
democratica per il rinnovamento della politica nazionale, una formazione
politica che non riuscirà nemmeno a presentarsi alle elezioni e avrà vita
breve. Alle elezioni politiche dell'anno seguente, Salvemini si candiderà con
successoin una formazione di ex-combattenti. Salvemini deve aver compreso
le qualità di Gobetti se arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta
che però, lascia cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel
suo diario: “Com'è vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta
conquistare il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che
si può creare. Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al
camino, a mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima
persona. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un
piano di studi. “Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò
lo studio del Marxismo. Per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea
generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra
parte studio il bolscevismo, minutamente». Un suo grande ispiratore fu
certamente il socialista Jaurès. Il primo numero di Energie Nove
Queste note sembrano riflettere anche la polemica che, appena riprese le
pubblicazioni, Energie Nove aveva avuto con L'Ordine Nuovo al tempo
sprezzantemente definito dallo stesso Gobetti un «giornaletto torinese di
propaganda» di Togliatti, che aveva accusato Gobetti di idealismo astratto, e
di Gramsci, che aveva definito velleitaria la Lega democratica, un ricettario
per cucinare la lepre alla cacciatora senza la leper. Ora ivi è il segno di
un'inquietudine nuova, provocatagli dall'esperienza della rivoluzione russa e
dallo sviluppo del movimento operaio, molto attivo a Torino. Pubblica due
numeri unici sul socialismo, conosce personalmente Gramsci, stimandolo e
venendone apprezzato, del quale pubblica un articolo, studia il russo con la
fidanzata Ada insieme curano “Il figlio dell'uomo” di Andreev, pubblicato
dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando la politica sviluppata da d'Annunzio
in forma di retorica, che la politica oggi deve essere realizzata come forma di
educazione. La simpatia che io provo per Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto
che essi in un certo modo sono riusciti a realizzare questo valore. Sebbene
restio a sposarla (emblematica fu la risposta «Grazie, non fumo…»), nella
considerazione del rapporto con la fidanzata si rivela anche la sua profonda
maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della
vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son
fatto pensando a lei, gliene sarò grato sempre. Una fanciulla come io la
sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e
la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. La rivista Energie Nove cessa
le pubblicazioni. Sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo una
elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto
nel settembre al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Devo la mia
rinnovazione dell'esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi
da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall'altra agli studi sul
Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo»,
e in giugno si consuma anche il distacco con la Lega democratica degli amici di
Salvemini. Continua le traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese
dei modernisti Blondel e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di
quest'ultimo gli è suggerito da Solarie cerca di rintracciare le radici del
Risorgimento italiano studiando la cultura piemontese del
Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che
realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di seguirli
nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si
chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto
sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio. (Piero
Gobetti, lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le
altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: Qui
siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che
realmente costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe necessariamente
dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si
pone oggi in tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un vero e proprio
grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del
lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi
gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non
rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo
Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se
la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente
da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di
espansione». La presa di distanza dall'azione politica di Salveminila sua
ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque intattaè ora piena:
gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione politica
unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo
solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle
sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di illuminismo
e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di cultura, non a un
partito». Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e sulla Russia,
terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di comprendere
funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è sempre il
problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e dei suoi
rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può
considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici
che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla
rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e
Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno
destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione
dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in
quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di
liberalismo» Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su
L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale
individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla
Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il
popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la
visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono
fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte
le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che
s'instaura». Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti
dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e Gobetti
diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere
gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi
e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si
riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il
primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in
cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come
indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di
formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle
esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato.
E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale
intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si
avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La
Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e
rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei
falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro
relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le
formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma
una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più
sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi
pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio
dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo
consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente
colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è
uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a
Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho
espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della
devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe
Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale,
Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò
non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i
problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà
autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo,
capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò
nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo
condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo
e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito
dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo
procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa
venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive
L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che
la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la
ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le
frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder
chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri
ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».
Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60,
che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la Gobetti
editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In
qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e
degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi
ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose
raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle
fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in
molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui
esistono pochissime copie. Tutti i suoi libri riportano in copertina un
motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita
testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero
si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui
intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che
complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo
arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo
risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale;
la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni
e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far
operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine
pubblico». Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua
funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue
edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le
distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo,
rinnega anche il suo originario gentilismo. Gentile è incapace di dar ragione
di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana
mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le
tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione
in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto
maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è
divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in
Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle
stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le
parti marginali. Così succede che "L'eredità del Risorgimento"
venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia:
l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per
la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica
moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto,
che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le
istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a
qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito
Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei
due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non
basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta
sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali,
ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino
astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda
parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta
politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure
di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio
Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La
terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare
politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti
strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare.
Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica
ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come
necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi).
Per la discussione sulle modalità d'elezione, è convinto fautore della proporzionale. Il
collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno. Solo
con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga
elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al
problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato.
Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana.
L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste
condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono
contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità
economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire
nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione
sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o
semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di
maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper
insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via). La questione
non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che
fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione
all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta
un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di
ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima
parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al
fascismo. Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in
Parlamento e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini
invece fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni
altra cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di
questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel
tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica
nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel
qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del
potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore”
ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante.
Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la
"rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte
avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il
risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una
condanna della vecchia classe dirigente liberale. Il fascismo nasce
dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo
come autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi
dei mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale
italiana re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo,
anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era
stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su
di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso
ogni funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è
adagiata e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di
rinnovamento. La funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le
considerazioni politiche di risentono della sua opinione sulla storia italiana,
in “Risorgimento senza eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea
patriottarda di cui simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al
Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo. Ci sono due eroi
nel Risorgimento e sono Cattaneo e Cavour, due figure assai distanti tra loro
ma accomunabili per il loro pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua
volontà di operare, per la capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote
di retorica. Cavour è uomo che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire
di lungo periodo. Il Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di
Cavour. Entrambi, però, hanno instillato nella società italiana lo spirito
della competizione e l'ideale di assunzione di responsabilità. La società
italiana si regge su ruoli e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il
proletariato, però, si ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per
costruire una società nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi. La
persecuzione, l'esilio e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo,
per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I
suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al
prefetto di Torino, Palmieri: “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato
recentemente a Parigi e che oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per
rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il
prefetto obbedisce. Viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte
sequestrate. Come scrive a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga
rapporti in Italia e all'estero per organizzare le forze antif-asciste. È
il giorno che precede la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato
solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio
perpetrato da sicari fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni
teoriche: dichiara candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi
filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori
socialisti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo
agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come
medievale crudeltà e torbido oscurantismo Sente che per combattere utilmente il fascismo
nel campo politico occorre opporgli esempi di dignità con resistenza tenace.
Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Auspica,
dalle colonne della sua rivista, la formazione di "Gruppi della
Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti anti-fascisti,
che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo
successo e della sua conservazione dalla creazione di «un esercito di parassiti
dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con
un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di Stato e con una
classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti seri e moderni
a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è questione di
maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in cui accusa
il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di manovre
parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della rivista ed
una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino un
articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione
Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista.
Con Fiore e conDorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto
all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta
un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi
parlamentari italiani. Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale
collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La
Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista
vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a
Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta
letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel
numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia
contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle
frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie». In ossequio alle
direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo
ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato
con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare
le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il
quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai
dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla
libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino
col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro
della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino
Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione
Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che
aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi
pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in
francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare
con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza
chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò
in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule. A metà agosto fanno ritorno a Torino e è
nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere
in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera
passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per
capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi
viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di
coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra
giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei
dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti,
nazionalisti. Poiché i ripetuti
sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di
critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che
vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in
realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni
Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio
nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine
pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla
stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico
La Rivoluzione Liberale, ai sensi e per
gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché
l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione
definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per
attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto
all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete
che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere
sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? Gobetti, che ora soffre anche
di scompensi cardiaci,
provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per
proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che
durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per
l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per
Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è
interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica
spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di
cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da
solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo Montale. Si ammala di una bronchite, che
esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di Neuilly-sur-Seine,
vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È sepolto nel cimitero
parigino di Père-Lachaise. Saggi:“La filosofia politica di Alfieri”
(Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio, Felice Casorati. Pittore,
Torino, Gobetti, “Dal bolscevismo al fascismo: note di cultura politica” (Torino,
Gobetti); Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea, Rosa di Sion, Torino,
Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino, Edizioni di
Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo,
Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
Bologna, Cappelli, Opere edite e
inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino,
Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte,
religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino,
Baretti, Scritti attuali, Roma,
Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere
complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi, Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano,
Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore
ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano,
All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino,
Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N.
Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale, Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada
Gobetti, E. Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova
serie, Einaudi, Con animo di liberale. Gobetti e i popolari. Carteggi Bartolo
Gariglio, Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo
etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing,
Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io
con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti, Il giornalista arido Articoli Collana Classici
idel giornalismo, Torino, Aragno, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino,
Einaudi,, Biografia di Gobetti M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore
ideale, P. Gobetti, L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di
Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove, Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve
esistenza, Diario, L'editore ideale, Carlo
Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della
cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato
e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto
Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti,
Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, Gobetti, La Rivoluzione
liberale, in «Scritti politici», Scritti politici, Nella tua breve esistenza, Manifesto della
Rivoluzione Liberale, Nella tua breve esistenza,
La rivoluzione Liberale, Elogio della Ghigliottina, Dizionario Biografico degli Italiani La Rivoluzione Liberale, I miei conti con
l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica
in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La
Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione
Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI
AND MATTEOTTI, Il Politico, In, La
cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera
ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini,
Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti,
Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida
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Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi, A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il
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del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà. tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia,
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rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese, B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere
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ottimismi. Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo
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Grice eGobbo
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(Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the
conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre
is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto, Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e
diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in
Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre,
Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo
urbano e criminale, a Roma, Sinnos, Il
collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere
Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti,
Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma
TrE-Press, Giustizia e carceri secondo
papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la
tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere
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punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Si laurea a Torino sotto Solari.
Fequenta Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso Nazionale di
Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il Congresso è sciolto
dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera di protesta
indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si "protesta in nome
della libertà degli studi e della tradizione italiana contro un atto di
violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.” Al momento
del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera universitaria
o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della carriera
accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla
"Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato
direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In
prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a
Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi
eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica
" di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti
è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di
Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte. Il Comune di
Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti,
"filosofopatriota". L'animale come soggetto di diritto
Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura
Špir, Bradley, Green), a Goretti si deve il primo intervento che qualifica
l'animale come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del
animale” in cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e
coscienza e, in generale, un animo, come emergeva dagli lo studio dello “atteggiamento, gesto, la
fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e
lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della
coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. Goretti
va oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto*
(“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una
percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della
bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni
assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato
dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo
negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della
causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro
mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione.
Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del
suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione
della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle
costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende
un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve
pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e
scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale
non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione.
Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in
modo osensibile.» (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella
filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel
giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e
concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio
tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione.
Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo:
il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger).
Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco",
Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo”
(Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto
giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista
di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di
filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des
modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf,
Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia", Recensione di R. Smend, Verfassung und
Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La
giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del
Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di
filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di
filosofia", “F. H. Bradley, "Rivista
di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea
di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”,
"Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici
scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della
conoscenza, "Rivista di filosofia", Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista
di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo,
"Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla
norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione
dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione
tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio
della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed
il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia
giuridica” "Annali della Ferrara",
Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara", Il
liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione
in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della
Ferrara", “Equità, "Scritti giuridici
in onore di Carnelutti", Filosofia
e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France,
"Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach,
"Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il
Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La
filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze
dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni
critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche. L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di
Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della
diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di
Sturzo", Zanichelli, Bologna, Isu
luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista
di filosofia", N. Bobbio, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", G. Roccia, Filosofia e
realizzazione spirituale” "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Orecchia, voce “Goretti” della Enciclopedia filosofica, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione
culturale, Goretti, in Orecchia, Maestri italiani di filosofia del diritto, Bulzoni,
Roma, Castignone, I diritti animali: la prospettiva utilitaristica,
"Materiali per una storia della cultura giuridica", D'Agostino, I
diritti degl’animali, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Pocar, Gli animali non umani, Laterza, Roma-Bari, Martinetti,
Pietà verso gl’animali (Alessandro Di Chiara), Il melangolo, Genova, Lucia,
Goretti e la bioetica e l'etologia, "Annuario di itinerari
filosofici", "Piacere, dolore, senso", Mimesis, Milano, Lorini,
Atti giuridici istituzionali, in Lorini, L’atto giuridico, Adriatica, Bari, Paolo
Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina Milano); Colombo, La
filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di Martinetti,
Vita e Pensiero, Milano, C. Galli, Schmitt nella cultura italiana. Storia,
bilancio, prospettive di una presenza problematica, "Storicamente", G.
Lorini, Due a priori del diritto: l'a priori del giuridico”; Fenomenologia del
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animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, Lettera, Martinetti
e Goretti a L. Mangiagalli in Martinetti Lettere Firenze, Massimo Mori, Rivista
di filosofia, -- "Segni e comprensione", Brixia Sacra. Memorie
storiche della Diocesi di Brescia, Solari, Fossati, Necrologio, "Rivista di
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generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, P. Martinetti, La psiche
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di diritto, in Rivista di filosofia, per estratto in P. Di Lucia, Filosofia del
diritto, Raffaello Cortina, Milano, P. Di Lucia, Filosofia del diritto,
Raffaello Cortina editore, Milano, A. Pisanò, Diritti deumanizzati: animali,
ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, “Istitutismo” è un
neologismo coniato da Piovani, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della
lingua e del diritto, Giuffré, Milano, cfr. G. Lorini, Dimensioni giuridiche
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dell'istituzionale, Milani, Padova, Cosa resta dell'istituzionalismo, “L'ircocervo”,
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in ricordo di Tanzi", Giuffré, Milano, M. Brutti, Alcuni usi del concetto
di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come
istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore:
Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di
Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto
giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto
(Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito
speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il
fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua
concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più
importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo
gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di
matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale,
attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero
Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto
storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta
tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato
‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale
si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou
in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con
la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per
l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo
filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre
istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come
‘istitutismo’.160 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 giuramento
di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato l’autonomia dello spirito
rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle
sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma una sistematica
ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il quale La metafisica
della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e l’Introduzione alla sua
Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza necessario per la
successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini, dall’aspetto
gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da uno spunto,
fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich kantiana fornita
da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico. L’esigenza di
ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il noumeno, ha condotto
la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un idealismo monistico. Quello
che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante risoluzione del problema,
la quale, pur non rinunciando al principio monistico, mette al sicuro il
formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si
avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, evitando le sue
derive pessimistiche e avvalorando il principio morale delineato da Green.
Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce l’aspetto poliedrico
del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli autori e i campi della
filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore logico ed espositivo
che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant
a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione
del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936, 97), una sintesi degli
studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to Hume’s Treatise of
Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works (Green 1885-1888).
Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in italiano dallo stesso
Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati come la «concezione
definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso ed erroneamente a
giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di analisi
è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo precedenti. È per
questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo aver tradotto
l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e confutare
alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso
un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a
salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così
ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda
sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di
unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora,
come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è La volontà
formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla
natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di
appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza,
dunque, rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in
essere sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione
kantiana tra prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la
filosofia verso un «Umänderung der Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che
possiamo conoscere è derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò
che è posto al di fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che
equivale ad affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento
inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant
incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone
in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte
della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta
adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni
delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come
sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente rispetto a
quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli permetterebbe di
eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli sostituisce, continua
Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di relations. Per mezzo di
questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere in maniera più marcata
la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di cadere all’interno
delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di Kant, sottolinea
Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera tra natura
formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore non è altro
che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant attraverso
l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft sie nicht»
(Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter spectata,
have such another nature, it will follow [...] that there is no ground for that
conviction of there being some unity and totality in things, from which the
quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and the order of
things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se
si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo prendere in
considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento comprese
nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il
divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si
manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie
l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità
stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161
162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è
molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e
materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata
da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma
rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento
dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione
e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal
tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato
di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si
trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea
Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla
distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i
sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano
sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa
è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste
nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi.
Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale
rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il
centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era
riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste
affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra
giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni
corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant
suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per
il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un
grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72).
La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per
cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la
concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant
confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green,
riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può
scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori
sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà
maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare
all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette
in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali
espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo
una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente
riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di
partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria.
Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre
esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che
Goretti muove nei La volontà formale e il valore della norma giuridica in
Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo
tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in
quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee.
Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa
(Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è
per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza.
Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato
l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in
conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno
superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza
dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno,
della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie
le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale
sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a
provvisorie apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà
intellegibile (Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in
qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer
per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però
rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà
in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la
materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più
famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la
materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che
una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice
materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone
alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel
processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non
rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di
conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale
accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la
definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era
riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi,
che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada
percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo
all’interno dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso
ispirato in Goretti dallo studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e
del suo amico a maestro Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione
tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono
stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti aspetti critici,
rappresentanti. Alessandro Dividus 163 164 Politics. Rivista di
Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia, Goretti diverge dalla definizione di
voluntas fornita da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si
manifesta come impulso, energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche
dalla materia, che sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed
è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano
1923). La sua ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione
fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti, invece, la volontà non è
energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce
alla categoria della finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi
prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo Goretti,
rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la volontà
utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il suo fine.
La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro volere dei
punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere possesso della
realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una realtà trascendente,
ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa limitazione del nostro
egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue degli schemi
prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte della realtà
esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione verso
l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e sostituisce
quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la filosofia di
Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo si allontana
dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere possibile
l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel collegamento
tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il soggetto e
l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e mettendo in
mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è prerogativa di
ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo determinato. Essa,
dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri soggetti. È grazie
al contatto della volontà individuale con la realtà esterna che l’egoismo nasce
e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti all’assoluto tendere
della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i limiti delle differenti
personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è dovuta proprio
all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il prodotto della
volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di giustificare
l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che tende verso
l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta a
percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose
(l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto),
l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà
degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il
Roccia: La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare
Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè
dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o
noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un
possesso immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui
godimento dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7).
L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in grado di
riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire
una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se
per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo
deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga
solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme
nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale
deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre
ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto,
invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia
perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per
lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore.
Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura
empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità
costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità
della nostra limitatezza» (Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la
volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua
azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e limita
l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico.
L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta
altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta,
si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche
dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per
Goretti enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a
priori della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono
trasposte da Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè
delle relazioni umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo
volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il
diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono
possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una
tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché
non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente
alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso
i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo
il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua
capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro
Dividus 165 166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018
dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere
formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica
della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei
due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione
sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad
un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà
deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo
l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna
possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in
grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i
mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è
quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato
da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come
l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere
ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua
totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti,
invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo
scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il
dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a
chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità
di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e
mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro
volere si esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale,
che gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento
diretto tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio
giuridico nel quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti,
avevano intuito la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi
distinguevano le res in mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che
prendere coscienza della distinzione esistente tra diritti reali, diritti di
obbligazione e diritti di asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti
1922). La volontà, d’altronde, non può che realizzarsi attraverso un rapporto
tra il proprio volere e l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio
volere e l’attività di un terzo dal quale si pretende una certa prestazione
(diritto di obbligazione) e, infine, tra il proprio volere e l’asservimento di
tutta, o parte, della personalità esteriore altrui (diritto di asservimento).
Questa triplice ripartizione, continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità
«di sfruttamento e di dominio della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come
per Kant, nella teoria della conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile
unificare le intuizioni sensibili all’interno delle categorie, così per
Goretti, in campo giuridico, esso permette di riconoscere le tappe obbligate
che la realtà empirica La volontà formale e il valore della norma
giuridica in Cesare Goretti fornisce al nostro volere. Si potrebbe obbiettare
una presunta arbitrarietà nella tripartizione schematica effettuata dal
Goretti, chiedendo come mai la volontà si esaurisca solamente attraverso questi
schemi e non altri. Ma al perché questi schemi siano solamente tre, Goretti
risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri modi di sfruttamento della realtà
esteriore; altra prova del valore intuitivo degli schemi. [...] La realtà
intuitiva non me ne fornisce altri allo stato attuale del nostro sviluppo
organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa esperienza e storia degli
istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i concetti di
proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari, intuitivi e
solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà alla quale
l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi, tende ancora a
sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva e ciò non
esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici corrispondenti,
come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (Goretti 1930, 95). Non
bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno
un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e
dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma
Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che
rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è
questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In
questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste
nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a
seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come
l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza
razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici,
condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto
intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato
a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di
unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come
complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la
portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo
passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della
realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà
intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria
condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la
coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di uguaglianza.
Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un
livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della nostra
personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere
di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113).
L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli individui, ma è
l’idea Alessandro Dividus 167 168 Politics. Rivista di Studi Politici n.
10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così,
ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta il complesso
delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che l’umanità
intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il
riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il
conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli
istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la
necessità degli schemi giuridici per la creazione di un ponte tra realtà
spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune
dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia,
non sono che la base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre
l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le
condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il
carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione
di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione
empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche
costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero
di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità
concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di
mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità,
ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non
fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri,
ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi
di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico
rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo
dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi
equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una
finalità presupponga un movente individuale, non esclude la possibilità che la
finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo
equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a
priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma
il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica
la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri
finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare
aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo
schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del
giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale
stessa. Essi La volontà formale e il valore della norma giuridica in
Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà
individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme
schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un
punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un
complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene
Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se
esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due
differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del
compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità
appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile
proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di
comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro.
Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo
del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel
caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un
singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo
oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al
possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di
per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio
che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende
dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio
l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un
accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma
dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del
principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro
originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e
bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è
un fenomeno, dice Goretti, «storicamente accertabile e inoppugnabile» (Goretti
1930, 218). L’egoismo si asserve così, senza negarsi, a un criterio di
uniformità, dando vita a unità sempre più grandi e mostrando all’umanità il
cammino della giustizia. Si potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali
affermazioni, mostrando le derive violente ed ingiuste che molte istituzioni
hanno posto in essere, ma simili mostruosità sono solamente deformazioni
storiche di suddette istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun
concetto di giusto ed ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di
realizzazione della volontà comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi
irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza questa volontà comune,
secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il diritto come tale non
può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella che ad Hegel appare come
la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà individuale, è invece
per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei confronti di
quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a esigenze
razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza
prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus
169 170 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 all’interno
della società civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi
in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più
ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché
anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per
Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante
del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune.
Lo Stato appare come la rappresentazione finale della sovranità, politica e
giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero
di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma
storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra
schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro
che un irrigidimento della volontà comune nel suo percorso fenomenologico.
Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte dell’importantissimo
contributo del Goretti nel campo della filosofia, che tocca aspetti
gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere poliedrico e
critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue intuizioni sono
rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che hanno
accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua
eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli
ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda
all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si
concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che
anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo
di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di
approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda
capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in
altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia,
il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha
saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della
volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo,
quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il
Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano,
segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in
evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi
successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore
tanto grande quanto sfortunato. Bibliografia La volontà formale e il
valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le
sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906.
Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon
Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica
kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato
politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare.
1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4:
348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria
Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e
norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il
valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di
Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista
di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della conoscenza
in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117. Goretti, Cesare.
1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura italiana III, 4:
251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di Piero Martinetti.
Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill. 1925.
Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di inter-azione, o
co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o co-stante di
finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi innumerevoli dimostrano
come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della proprieta del suo padrone e
come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione
della realta esteriore come cosa PROPRIA, che nell’uomo civile U1 arriva alle
costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo pensare che l’animale o l’uomo O2
che rende un servizio al suo padrene che lo mantiene agisca soltanto
istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto oscuramente e in modo
sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI. Naturalmente l’U2 o
l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la proprieta,
l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di questi
principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare Goretti.
Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution of a
decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving buletic
conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His example is
his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is providing me a
service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a ‘subject’ in my
exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is a reciprocity
involved.” Goretti. Keywords: “the institution of decisions” --
l’istituzionale, A. C. Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il
concetto di patria, eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Goretti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gorgiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, possibly Gartida.
Grice e Gorgia – Roma – filosofo italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. a Cinargo.
Gorgia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio).
Filosofo italiano. Pupil of Girgenti. He seems to have written one essay on
philosophy. In it, he argues that nothing exists, or that if anything did
exist, there could be no knowledge of it, or if there could be knowledge of it,
that knowledge could not have passed from one person to another.
Grice e
Gori – la filosofia di cabaret -- l’eroe e la falce – filosofia italiana – filosofia
futurista -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “My favourite Gori are “L’eroe e la
falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be italianita with that!”. Saggi:
“Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze
della Divina Commedia” (Alatri); “Le bellezze della Divina Commedia” (Milano);
“Estetica dell'irrazionale” (Milano); “Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”;
“Filosofia ed estetica”, “Sistema di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe
e la falce” -- Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai
nostri giorni, Cagliostro (Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti
caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca
azzurra (Roma); Il grande amore (Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione
contemporanea (Roma); Il grottesco (Milano).
P.D. Giovanelli, Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U.
Piscopo, Gino Gori, in E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Rassegna
della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale
a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla
riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte
totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima
di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan,
Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo,
di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del
teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o
della Lituania o della Bulgaria), delle forme rudimentarie del teatro presso i
popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta,
drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a
Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. "Nel
gennaio del 1921 Depero è protagonista con una grande mostra personale tenuta a
Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene trasferita da Bragaglia a Roma,
dove nel settembre dello stesso anno, su incarico di Gino Gori, inizia i lavori
di allestimento del Cabaret del Diavolo, una sorta di bolgia dantesca
frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed artisti in genere. Per il
cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a ritroso)
Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le decorazioni
murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il primo
momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e con
esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra
Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi
diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, Il Futurismo
applicato ai cabaret» «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un
improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al
cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in
quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere
scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati
nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro
della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano,
i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati
recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e
lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli
notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve
realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità,
italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il
lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato
da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni
in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel
1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13,
era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani
di proprietà di Gino Gori, il quale intendeva farne il punto di incontro di
scrittori, pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero,
chiamandolo a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate
Inferno, Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e
tipologica: i mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del
Purgatorio verdi e quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era
bianco-rosa-azzurrina con immagini di angeli e cherubini nel Paradiso,
bianco-verde con una coorte di anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli
e dannati avvolti dalle fiamme nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata
degli Indiavolati, composta da poeti e artisti. Nello stesso anno Balla,
che aveva anche decorato la sua celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via
Nicolò Porpora 2 (poi seguita dall’altrettanto celebre abitazione di Via
Oslavia 34 b), realizzava il soffitto luminoso della sala futurista della nuova
sede allestita da Virgilio Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi
da Via Condotti 18 in Via degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei
sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli che conservavano le terme pubbliche
romane di Settimio Severo, nel 1923 Bragaglia affiancava alla galleria anche il
Teatro degli Indipendenti per il quale Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto
e il bar: qui, per otto dense stagioni, Anton Giulio sperimentò la sua ‘riforma
teatrale’ e le sue idee di rinnovamento delle tecnica scenica mediante
l’introduzione di nuovi elementi quali una regia sperimentale, una recitazione
innovativa e una scenografia ‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena
gran parte dei testi d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni
dagli artisti più vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli
Immaginisti: nel 1921, la vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche
la mostra di opere dadaiste facente parte della Grande Stagione Dada Romana che
aveva messo in programma esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche
dadaiste e una conferenza di Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università.
l testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin,
risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per
le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza
relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco
nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello
spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del
grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue
epifanie. GORI GINO. Il teatro contemporaneo e le sue correnti
caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni. Torino, Fratelli
Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura editoriale con titolo in rosso
e nero entro bordura ornamentale anch'essa in bicromia. Gore al dorso. Una
piccola mancanza al margine superiore del piatto posteriore. Bella copia in
barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna della produzione teatrale e
delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire
dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera
lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa
a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro dell'Anima" di
Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo" (D'Annunzio, Wilde,
Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij,
dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro
dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche
del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle "forme
rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma,
1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano
fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo,
realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero,
Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo
Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume primo.
Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume secondo.
L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini
ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm), pp. XI;
182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali.
Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo
importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI,
Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna
Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi
poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo
indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla
filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi
anni del nuovo secolo. Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui
il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio,
L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi
e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama
di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo
ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.
Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e
irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la
cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel
Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia,
Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929
sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò
Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si
trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a
Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.
Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con
particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di
teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò
principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un
clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi
contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie
e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro
contemporaneo. Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva
provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica,
coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata
sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della
narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come
molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e
degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B.
Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua
attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che
dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo. Di questa sua
posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]),
sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui
traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque. Se De
Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico
del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri:
egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo
lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in
Italia. Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima
raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma
1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la
guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G.
pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!,
celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro
settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un
processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi
linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul
nuovo. Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un
profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e
ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi,
che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a
"marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne
distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R.
Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L.
Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse
amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli. Fu soprattutto
l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che
nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di
argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro
rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su
tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C.
Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre
liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie
dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore
(Firenze 1926). In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate,
figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra
una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento
a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico,
era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di
cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra,
L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re,
L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le
due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti
metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi
immediati dintorni. Non altrettanto positivo e più scontato l'esito
raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione
di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de
Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che
rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto
inedita, di novelle. Ma gli interventi più interessanti del G. sono
quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava
con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue
pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A
tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio
un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso"
irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo
sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a
dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel
Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà. Dell'albergo
erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui
Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti
l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero,
da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati
di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni
sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro
realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui
erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come
Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul
cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di
40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo
underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul
rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di
accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso
e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente
orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I,
Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la
falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri
giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro
generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i
fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno,
dell'inquietante, dell'anamorfico. Viceversa il discorso specifico sul
teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue
correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni
(Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del
teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e
la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo
specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e
comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e
come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e
tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro
moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V.
Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro
della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle
macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che
del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G.
Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della
simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella
letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima
della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di
Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista
italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli,
L. Chiarelli, L. Antonelli). Al termine dell'intensa stagione
intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato
dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza
tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti
inediti conservati presso gli eredi. Nel secondo dopoguerra, il G. si
stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24
dic. 1952. Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano:
per la narrativa: Cagliostro(Milano 1925); per la saggistica: Le bruttezze
della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano
s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d. [ma
1921]). Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969,
pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp. 314-317,
339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U. Piscopo,
G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001, sub
voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello, eroe, falce, irrazionale,
mantello dell’arlecchino – bellezza,
futurismo – Refs: Luigi Speranza, “Grice e Gori” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Gracco – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tiberio Sempronio
Gracco. A Roman statesman and reformer, a friend of Blossio di Cum. He may have
followed the Porch himself. He was killed by a mob. He was influenced by
Blossio di Cuma.
Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista
italiano – il comune – l’elite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano. Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci
Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu
tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo
piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi.
In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la
libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni
di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista,
analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri
valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le
classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano
originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in
Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti
d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato
con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del
distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi
sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci
Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del
Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia
di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di
Antonio Gramsci. Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci,
che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma
si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente
questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due
mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi
era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio
Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare
subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del
registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti,
conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune
terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che
consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto
di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza
elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco Gramsci fu
trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il
registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di
Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San
Pietro nasce il giorno dopo, e viene
registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu
trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero
gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott,
una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli
impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza;
i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e
anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute
delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai
medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.
Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità
in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema
miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a
pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia
a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il
massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al
ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo
all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di
Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo
«registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi
doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre
mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in
conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del
catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli
abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel
Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti
professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle
cinque classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì
tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo
classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un
appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio
Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio
di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio
del capoluogo sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si
fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena
la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare
erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto
perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché
l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a
frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato
interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche
perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere
l'interesse per la materia. Nel frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a
seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna
militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario
della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale
propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più
delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi
momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i
romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma
questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che
della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima
alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di
custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini». Alla fine
della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia,
radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle
istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in
una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il
Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato
ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di
giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe
la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque
righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.
In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva,
tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la Rivoluzione
francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha
fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un
grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo
prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua
concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo,
all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con
la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze
sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali
venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli
stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori
salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una
grande città del Nord: il conseguimento
della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in
italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il
Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli
studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio,
ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino.
Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a
Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo
55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100
avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo
posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si
iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano
nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve
pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora
Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce,
della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i
pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone
per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte
sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli Studi di
Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi
Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di
amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Cosmo, contro il quale indirizzò però un
articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in
carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo
pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con
molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si
ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca
contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima
volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse
delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base
elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le
forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico
da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti"
si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di
quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista
torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla
trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse
contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi
per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di
esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino,
andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo
14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua
iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il
rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma
di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi
fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né
passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi
momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu
concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche
lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento
era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e
perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli
scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano
forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di
«superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio
di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di
pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare
nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della
palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che
aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del
movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte
un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito,
fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni
di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo
le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti
risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che
ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in
corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta
sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità
attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di
Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza
però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora
importante e popolare esponente socialista. Sostenne quello che sarà, senza che lo sapesse ancora,
il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente
con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione
torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo
piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso
Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione
giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del
foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca
torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto,
dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di
partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle
recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in
dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti
volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano
morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a
rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da
mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni
erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse
che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii
discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella
loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È
questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie
della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che
osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio
simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è
l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre
considerò Liolà «il prodotto migliore
dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per
partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è
una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica
della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che
si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare è una vita ingenua, rudemente sincera una
efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica». Severo fu invece il giudizio sul Così è (se
vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista,
Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione
viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato
fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità
né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è
nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine
della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il
numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la
sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di
rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa
del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani
«borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di
democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed
essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista i rivoluzionari socialisti non possono essere
giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che
gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in
Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della
consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è
convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi
compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare
il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di
condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i
bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non
evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di
progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del
socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una
riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che
scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.
Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di
morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di
Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a
insofferenze che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea
duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la
città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge
marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma,
indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente
l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla
rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione
della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici
persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore
de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano
preso il potere in Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie
deformate, confuse e censurate, finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì
con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da
Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di
fatti essa è la rivoluzione contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx
era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la
dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una
borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di
tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua
riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti
hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici
entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni
del materialismo storico se i
bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il
pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non
hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni
dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore
mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in
Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In
realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato
potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui
interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica,
dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai
dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo
sviluppo storico in modo meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal
carcere i dirigenti torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente
all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si stampava in via
Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti,
Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani
socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai
esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove
nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione
nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre
riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un
orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando
pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero
dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare",
e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del
pensiero operaio fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta,
con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene
intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei suoi primi numeri». Gramsci
intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo
all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove
forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi:
«Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle
commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna il
problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale,
divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale
della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà"
proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il
giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo perché
negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte
migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi
dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar
liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli
dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano
dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti,
volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti
all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti
ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da
tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto
occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al
problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica,
sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.
La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la
necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per
un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori
industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al
prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle
fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli
operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie
Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli
operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali
metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche
torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino e in alcune province piemontesi, mentre il
governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli
ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei
maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai
furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo
sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in
cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i
lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua
relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza
e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che
desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa
nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari
terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e
contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché
gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non
comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale
e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste
da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da
esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse,
dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il
Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito
parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia
borghese». Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di
omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere
presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III
Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non
ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà
nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono
fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito
per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non
realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un
mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia
istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze
anarchiche ». Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di
educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale,
dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni
dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!.
Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste:
«valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto,
secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e
distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito
del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società
comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni
avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente
commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle
coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche,
nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi
comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato
[.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi
esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la
conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La
risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti
l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista
Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli
ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla
quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del
1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta
politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. In Italia, le
rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non
trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a
seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli
operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le
fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema
iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle
trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano
occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo
rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di
Giovanni Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli
di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande
fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.
Giovanni Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla
decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea
milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del
Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile
situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare
l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte
le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei
rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti
pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.
Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti
socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative
rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In
previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che
«la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e
approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei
chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover
continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli
opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e
criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia
pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo,
all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di
risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì a Milano il gruppo
favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi
Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e
Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista
del Partito Socialista. La fondazione del Partito comunista Il
congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno,
con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana
dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti
(Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia
e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni,
Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi
Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo,
divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste
e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto
deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e
anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti
elettori. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare
il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già
malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca.
Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di
Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva
vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka) che, violinista, aveva abitato diversi anni a
Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è
bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il
primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al
giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada
attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare
tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo
grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi
hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso
cattivo e torbido. E quell'immagine di
lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di
distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco
d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto
a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi
brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così
pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di
quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica
medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La
moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto
inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò
contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato,
Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili
utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che
potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico
di Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero
Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino
al 1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato
borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi
non si riscontrano critiche al regime sovietico. Nel III Congresso dell'Internazionale
comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle
sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la
tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei
dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base
programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. Gramsci vi aderì ma
scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come
una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come
un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno
al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa
concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro
movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al
potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior
forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti,
capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo,
mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso
Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in
settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo
Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a
Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli
ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere
inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di
costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui.
Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come
nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al
partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del
nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del
quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne
giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al
partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno,
unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni
venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto
dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne
un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane:
pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita
turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre,
a parte, discutevano dei problemi del partito. Nel convegno si affrontò
il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era
in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione
politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni
presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente
di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga,
questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando
la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel
Partito. Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato
socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare
per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così;
l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il
Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali
speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano
ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a
tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici»il nucleo
dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale
che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle
opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di
agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per
costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le
divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del
regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è
riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi
medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste
nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime
fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa
commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è
verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale
ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del
livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari,
dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del
regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni
del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona
industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata
democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento
della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare
alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti
riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante
viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il militante
comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista Armando
Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il
20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si
costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e
svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì per la Sardegna,
per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari.
Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato
comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti
e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; il
26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare
l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di Giovanni Amendola Il
Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di
Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è
avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità
del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella
testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il
via a una nuova azione repressiva. In febbraio Gramsci andò a Mosca, per
stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a
maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex
compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno
prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato
organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel
viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato
dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e
oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia.
Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce
impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di
dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del
proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci
quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il
governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di
associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il
pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al
Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge
voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e
contadine». E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente
gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e
socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e
svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e
un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è
qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti
marxisti». Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare
i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma
in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni
obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il
proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso
nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e
alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie
italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a
realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del
Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili,
Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche
Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a
lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules
Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con
Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia
nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e
proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della
maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale
omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha
interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che
per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la
società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga,
l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della
piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il
potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria,
una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due
forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord
e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato,
ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una
"disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità
dell'esistenza delle frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande
maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario
del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo
influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con
una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia
ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto
riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere
considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala
sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa
relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti
al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una
Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve
essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione
centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti.
Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La
centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo
seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito
bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti
socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via
Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e
il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in
un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo
lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione
e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a
Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa
casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre
gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione
Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste,
Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli
assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci. La
moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il
mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio
Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto. Giustino Fortunato
Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò
a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla
quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico
italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898
dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo
Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti,
di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e
degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che
avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi
industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la
conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà
sindacali. Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia,
manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un
accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di
perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza
borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la
classe operaia. La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da
tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente
inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla
quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come
impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e
fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe,
costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono
alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce
e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori
della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per
Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del
sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della
reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione
di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le
due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il
proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui
contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina
meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho
mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e
non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho
dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono
conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci,
Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza
di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata
da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale
favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla
rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un
solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il
dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del
Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in
frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito
comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su
ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti
rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere
che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio
politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del
Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che
potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni,
non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i
principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se
essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a
tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di
essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie
di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi
degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il
partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare
che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli
aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i
vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del
fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente
«dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe
«dominata»Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è
facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando
la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in
quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo
elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei
pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella
pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». Gramsci concludeva
esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A
loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale
situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato
centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e
sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello
di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie
mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere
disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito
unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti,
allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le
ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le
responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità
di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora
in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai
difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per
approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale
comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna
un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione
poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto
per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo
sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8
novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato
nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu
dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo
di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel
carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del
fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià
federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della
cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in
contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà
a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti
provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza
successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto
Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma;
Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un
generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista,
relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in
uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il
pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato
di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e
incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua
requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello
di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni,
quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in
provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era
intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto»
che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047
ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi
Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16
argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora
svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i
giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle
frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un
ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A
fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la
moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso
dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità
di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso
fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij,
eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra
di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo
orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato
esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i
dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte
dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma
con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti,
Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei
"colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette
testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta»
politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un
rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al
Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della
necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già
stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati
diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra
parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni
serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe
operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene
conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di
sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile
comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito
una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo
al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo
attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li
porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità
della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve
improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario.
Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine
della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare
tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come
la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione
proletaria». La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa
politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente
una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è
difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le
discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che
egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni
erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano
apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito
comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del
PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri
politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la
scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le
tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci, oltre al morbo di Pott
di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così
ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed
elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia
le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa
e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, era sofferente di una seria
forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei
motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un
opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di
essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito
il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia
vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato
un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi
sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la
meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà.
Quando la madre morì, i familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda
grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni
sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire,
pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più
così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma
significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna
riserva di forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176,
prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi
condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte,
fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri
detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di
Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in
camera e all'esterno. Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà
condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu
impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero;
solo il poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma,
dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e
all'arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Passò dalla
libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni:
morì di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente
la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello
Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono
trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del
carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e
appunti elaborati durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a
causa della gravità delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza
tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò
all'Ambasciata sovietica a Roma da dove furono inviati a Mosca e,
successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra i
Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti,
furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere
indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i
titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione della
cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”. I Quaderni furono pubblicati Valentino
Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati
raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne
Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza
politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza
sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le
forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.
Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio
della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che
tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente
dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente
già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni
principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere
ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare
ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche
mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non
riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a
risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione
del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare
concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può
diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad
altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova
alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio
dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello
della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale,
morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la
struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica
l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di
produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e
il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un
proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali
di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese
e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma
come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto
assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste
masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza
della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette
nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le
campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle
forze della reazione aristocratica. Il partito politico italiano allora
più avanzato fu il “Partito d'Azione” di Mazzini e Garibaldi, che non seppe
impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la
classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai
contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i
baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal
liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto legarsi alle masse
rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto
economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza
in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali
legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova
formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui
contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali
degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero
mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che
una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati
cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano
proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima
importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo
sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato
come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente
e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio”
e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia”
si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio,
quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura
del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in
Russia. Le classi subalterne Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le
classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte
della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo
quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione
discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati,
subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si
ribellano. Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi
sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri,
classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo
attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e
un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di
interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi
dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di
potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed
è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale
blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra
fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati,
in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non
è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre
stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due
religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta
che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del
clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della
filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono
percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano
"rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche
la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole
filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra
il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se
ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di
costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione
infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e
atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la
filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non
metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non
si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota nel I Quaderno, che il “folklore”
non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola,
una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo
trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso
opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e
diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente
esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la
nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una
situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme
di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a
Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha
fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la
«borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo
sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi
sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà
possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le
grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita
politica. Ciò intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò
fecero i giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da
identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno
fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il
Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto,
ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il
partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà
collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è
l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si
manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un
laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i
rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente
necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un
elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza,
disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo
principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i
principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina
ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non
c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn
si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente
della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista,
un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la
funzione dell’ intellettuale. Storicamente si formano particolari categorie
di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti
e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo
sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per
l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto
più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i
propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il
filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati,
filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre
modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di
intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il
vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e
momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura
con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento.
Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui
si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del
consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della
popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società
politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello
Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del
gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia
sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle
grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal
gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale
che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come
lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali
tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito
politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i propri
componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo
di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma
intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali
organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando
la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova
organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva
di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione
politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è
intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e
dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve
costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi
dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non
si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro
astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai
voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In
molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini
«nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un
significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè
dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione
è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si
è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice
del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi
inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e
di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino
ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In
Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza
di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento
intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.
Fa eccezione, per Gramsci, il melodrama
verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in
Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico
icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana:
è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni
popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può
essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È
questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di
carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani
grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia
straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto
di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza
morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La
insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima
rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato
miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La
religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora
nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione,
tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono
rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più
studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere
elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere,
confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal
compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare
in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto,
Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno
vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni
è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione
di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi
popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di
condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo
tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono
popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in
alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso
in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il
popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista
dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé
che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima
non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto,
nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio
privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è
la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della
vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle
opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire
in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti
morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale,
in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce,
che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro
affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella
serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori
culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra
una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e
la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e
pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria
marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve
fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura
nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia
della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli
scrittori si trovavano a operare. Non a caso, progettava nei suoi
Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà
Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi,
L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia
reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente
confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai
dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo
supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono
-- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile --
teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria
coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo
politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di
gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che
il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in
sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.
La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini,
Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha
neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte,
ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale
dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati
per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una
parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario
mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia
culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio
italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità
nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale
di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di
dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla
comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità
dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per
Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto
al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in
realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria
del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché
allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla
solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come
storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è
necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua
filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di
astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia
concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere
considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno
ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in
discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso
Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco
storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si
identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è
niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti,
ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza
scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri
letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il
paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era
una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per
contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare
la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un
annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si
presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua
Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese
e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo
della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto
d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata
ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma
la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione
operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il
periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal
momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le
forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si
elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro
sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il
momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni
universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e
positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la
quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo
posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza
politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa
per la conquista dell'egemonia. Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj
Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia,
si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di
creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema
filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la
filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare
schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle
scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare
sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da
prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una
ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della
sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla
quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di
uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della
realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la
dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché
essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la
loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le
società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come
nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le
condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha
svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone
il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e
sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano
nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la
prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico
(o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione
superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò
significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità
alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo
assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento
per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La
fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal
momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi
conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire
storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come
potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di
tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste
nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia
e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta,
perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva.
Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere
esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto
la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un
sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene
con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana,
contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della
nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi
dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per
l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano
spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture
in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già
un presupposto unitario». La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia
durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di
Bartoli. Gramsci apprende che la lingua è un prodotto “sociale" e che non
può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che
non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui
mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato
notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche
che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx,
dove Marx afferma che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla
sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione
politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni
linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da
una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni
che hanno reso difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la
poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole
primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci,
perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari
e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di
particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in
maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri
linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua
italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta
questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un
altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli
intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A
tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento
della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua
della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso
e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende
linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi
europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima
volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere
politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di
documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:
«l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare
testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo
partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante
dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il
popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia
nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano,
presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia
nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella
loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della
storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale.
In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per
fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere
antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).» (Quaderni del
carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si
rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di
cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche
come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà
statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si
diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di
documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione
di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della
borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze
esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e
finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del
mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone
colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza
di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza
contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione
della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non
scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non
intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi “vengono
assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi,
ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione
graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa
soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario”
del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione
delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà
dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre la lingua
della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua delle
istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la
frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno
venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali
di tendenze democratiche come Manzoni. Nella sua ricostruzione storica
Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da Manzoni riflette questo problema, il problema
della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato
nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver
compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e
sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante
il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di
confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.”
Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello
fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di
origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto
di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo Ascoli
l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro
irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui
provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo,
stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici,
ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico
e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza,
il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non
deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la
Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica
di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia
attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo
in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal
vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa
civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la
Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha
naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è
necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci
ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di
formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale
linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili
alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali.
Terzo, gli scrittori d'arte e quelli
popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto,
le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti
di ‘conversazione’ tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti.
Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così
il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la
Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione,
a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua
attraverso la grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa
come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e
totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con
le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in
materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola
realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto
idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle
classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva
o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una
disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo
apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista”
o elitist, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono
avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli
scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare
realizzata esclusivamente in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa
si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo
a tutti la conoscenza della lingua della nazione. Secondo Gramsci la
conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è
fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono”
non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di
crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali
tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di
comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al
suo sistema, «la comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’,
caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci
prestò attenzione anche alla lingua dell’impero romano. Espresse in più
occasioni che lo studio del latino fosse particolarmente utile nella formazione
filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare
storicamente. Contesta il “nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente
gli intellettuali che, durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero
messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da
autori tedeschi! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e
ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno
strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è
necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a
questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue
morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento
difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di
intellettuale.Scrisse nel Quaderno 12: Bisognerà sostituire il latino e
il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà
agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine
didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale
della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta
professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello
studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè
scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se
«istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. Machiavelli influenzò
fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico
dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin,
Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale
caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la
storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio
dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo
italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria
sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale italiano, filosofo
anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica
attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo.
Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio
Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon
Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky
Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni
Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D.
Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman
David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob
Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira,
Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato
Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe
Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric
Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti,
regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci,
regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci
nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla
Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio
Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita,
Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente
Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il
teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica,
che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il
melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico,
svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale.
Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove
si esercitava parte del conflitto politico. Una frase quasi ironica di
Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia:
“siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto
d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle
sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli
sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e
aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione
meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio
Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli
intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento,
Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno,
Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e
presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili.
Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo.
L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino,
Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo,
Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R.
Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci,
Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla
situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di
Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano,
Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione
dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La
guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma,
Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del
Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia
e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti
Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La
nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa
pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla
produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito
comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori
Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo,
Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano,
Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano,
Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino,
Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, 1975. Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato
critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e
folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e
dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi
politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla
fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, Scritti
sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,
I consigli di fabbrica, Milano, Amici
della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze,
Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino,
Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove
lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori
Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti, Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di
Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro
tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte
inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il
giornalismo, Roma, Editori Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una
preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola
interna di partito, aNapoli, Laboratorio politico, Scritti di economia
politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino,
Einaudi, Disgregazione sociale e
rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro.
Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la
legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino,
Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica,
Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma,
Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione
Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci,
prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro
lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione,
Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione,
NovaEuropa Edizioni,.Note Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco
Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international
gramsci society.org. Genealogia dei
Gramsci (JPG), su albanianews. Luigi Manias,
Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,
Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così
Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata
Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi
unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò,
quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente,
ricordando che alla Madonna dovevo la vita»
«Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla
casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così
ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana
Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue
preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho
conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono
sempre cavata, bene o male» Lettera a
Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre: gli scrive di essere «proprio indecente con
questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono
andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio,
che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni
interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in A. Gramsci, Scritti politici Antonio
Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani
[«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale
della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe
operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le
cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A.
Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola
laboratorio, La Nuova Sardegna A.
Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata,
mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come
«uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore
profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale
era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i
"neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya
Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal
carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing
connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento
fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a
conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto
a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e
patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece
«piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni»,
essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore
era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di
barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in
preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli
avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi
di scuola» Lettera dal carcere a TSchucht
In Fiori, In A. Gramsci, Scritti
politici, I56-59 Davico12. Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera
dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note
sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci, I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva
a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere
salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici:
«Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
«vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il
contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A.
Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem
Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen.
PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine
del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del
proletariato Per un rinnovamento del
Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso
all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista
l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista
corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo
dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo
parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La
sposa mandata da Lenin Lettera, in A.
Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su
channelingstudio.ru. Su alcune note di
uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere
a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte
di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche
la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin
in persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht, Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana,
ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII
legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato
successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne
L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo
svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito
comunista italiano, Spriano, Spriano, Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione,
Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il
prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non
datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su
tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di
questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5
A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di
assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti
e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al
confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni
provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e
altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione,
istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata nel
sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei
carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi
fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei
incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo
coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava
un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una
di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo
Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo
chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi
dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io
gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse
di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò
di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza.
Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva
avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di
due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici.
Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi
versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal
partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato
dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da
Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni
volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre
della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non
fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione
non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che
Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie
proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci
anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono
nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il
direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera
a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,
Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la
quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale
affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva
inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita
l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare
argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta
da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove
testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata
dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica,
Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele,
Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni
del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,
Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere,
cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce,
L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio
Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino,
Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del
carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L.
Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone,
Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a
ed, Carocci,, Fonzo, Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su
scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La
passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma,
Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio
Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire.
L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il
Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19 di «AGON», Rivista Internazionale di Studi
Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma,
Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari,
De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il
Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente,
Roma, Carocci, Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero,
La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una
nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso
di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi", Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i
problemi della lingua italiana, in "Belfagor", Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci,
Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali,
folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di
Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia
Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova
biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze
dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida
pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci,
Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio
Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio
Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci.
Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco
carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il
concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in
Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di
Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma,
Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci.
Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario
Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e
conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della
politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova
Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori
Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte
e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci
e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione
sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il
blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio
Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra
Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a
icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,.
Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida
editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci,
Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I,
Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino,
Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori
Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova,
Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione,
Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo
dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti,
Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma,
Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto
Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When
Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when
Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so
relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’
and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire,
Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday
evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was
particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist!
Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” –
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grecino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
FIlosofo italiano. Giulio Grecino. An amateur philosopher. Seneca describes him
as man of distinction, but with little
serious philosophical ability of interest.
Grice e Gregorio – l’arte grammatica degl’angeli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!” Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A
complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In
The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read
Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad
thing is he lost!” -- Grice takes inspiration on Shropshire’s
argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo, IV). Figlio
di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante
dell'antica Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la
caduta dell'Impero, e di Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana. La
sua "ars grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti
è in linea con quello degli scrittori tardo-antichi. Di questi imita, in
particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto
dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si
centra in Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del
stoicismo. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio
attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del
Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o
"Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione
dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua
spada. La visione (che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i
partecipanti alla processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante
l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i
romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo"
e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di
un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è
conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la
tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si fermò per annunciare
la fine della peste. Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per
la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato,
rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…". Comunque in meno di due anni diecimila Angli,
compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si
convertirono.Obiettò invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare
«soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. Gregorio avrebbe
dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il
monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo
separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi,
assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo
Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti
all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei
cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui
Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A
Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola
più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro
dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San
Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula
Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro
che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma
presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui
memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.» «3
settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere
intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a
Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le
questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si
mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i
bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque
la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il
Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui
pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae,
intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de
proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum
Iesum Christum» La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del
suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua
mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia, Dizionario Biografico degli ItalianiVolume
59, Roma, Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” Gregorio
scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma
poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle
sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu "prefetto
dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe". S. Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi,
Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia
dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Gregorio da Roma – Grice:
“Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered.
Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!”
-- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had
changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede
builds his argument on the Grammar textbooks of Antiquity, he adopts Gregory
the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the
Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY THE GREAT, Moralia in
Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis
oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to
restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). Gregory did
NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – Gregorio does mention the ‘sub
regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi
non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque
studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem
loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare
despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum,
casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut
verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani
divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular
subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito,
situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum
vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati –
Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di
barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle
preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna
coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C.
5 PL LXXXV, 516 B – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle
regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica
di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione
originale, il capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati
verbum – la parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. –
sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole
di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme
grammaticali. Gregorio sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto,
indicare I tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di
coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall
sua esegesi il iicorso ai metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo
mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si
preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un
NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he
see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and
give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels,
should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It
was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about
Greek!” -- Gregorio il Grande, Gregorio
I – Gregorio Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Grandi – il progresso all’infinito della rosa
di Grandi -- implicatura infinita – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo. Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one,
Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his
rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire, ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi
primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio
dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese
di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari
Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di
Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne
membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la
curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il
rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia,
Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis
infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum
problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite
parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica
de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la
controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad
exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas
circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli
contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze);
“Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini);
“Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni
coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze,
Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di
aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze,
Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή,
rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo
onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano,
Venezia, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre
camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I
have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this
– (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or
‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de
facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say,
“Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this
was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love
them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical
gentlemen, too!” -- In geometria è detta rodonea la curva algebrica o
trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti
attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono
figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco
rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido
Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.
Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega
={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif Vari modi per la
costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea
si può considerare un caso particolare di ipocicloide. Equazione della
curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho ,\theta
)}è: {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale
positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli
avvolgimenti, e \omega è un numero reale positivo che determina la forma
della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho
=R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo
pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti. Proprietà Se
\omega è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti,
tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di
"petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali
è pari a: \omega , se \omega è dispari; {\displaystyle 2\omega },
se \omega è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un
numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si
ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata
nell'origine. L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a
{\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi
R^{2}}{4}}} per k dispari. Se \omega è un numero razionale
{\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti,
che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente
sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per
alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega
={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer. In entrambi i casi
precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega è un numero
irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti
che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino
a ogni punto del cerchio di raggio R. Note Giorgio Pietrocola, Curve
storiche, Rose di Grandi, su Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26
aprile 2021. BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of
Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St
Andrews, Scotland. URL consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide
Figura di Lissajous PAGINE CORRELATE Sistema di coordinate polari sistema di
coordinate bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento
idrogeno Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in
italiano «progresso all’infinito») o regressus in infinitum («regresso
all'infinito») [1], è un'espressione della filosofia scolastica che indica un
modo di argomentare logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un
termine, il quale però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo
a un ulteriore termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto
di spiegazione ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato
largamente da Aristotele e dagli scettici, vuole quindi dimostrare
l'insufficienza di un'argomentazione. La differenza tra le due espressioni
consiste nel ricercare la causa prima (ad esempio: causalità ideale platonica)
o spiegazione definitiva di una cosa (ad esempio: causalità naturale
aristotelica) procedendo logicamente in avanti (progressus) o all'indietro
(regressus). Un esempio di un procedimento logico basato sul regressus in
infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo uomo" di
Aristotele. Immanuel Kant (1724-1804) nella settima sezione della sua
Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in indefinitum» questo
"infinito per addizione" che «non ammette nessuna limitazione se non
quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di
procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito irraggiungibile, non
potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali. Per
questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava che «il numero è infinito in
potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se si rappresentano i numeri
naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine
lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due
elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di
elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti
elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così
via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione;
«la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in
infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata:
dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta
evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e
presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad
una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati
durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.
La differenza tra “progressus in infinitum” e “regressus in infinitum”
secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati
al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di
ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.» [4] Note
Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus
in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e l'infinito ^ Mathesis
Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature – Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grassi – D’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e il concetto di stato in
Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the
metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora
inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored
Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach
rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica
platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of
metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il
bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger”
(Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia
dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e
retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della
retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita --
Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare
noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano
Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e
mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia,
logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone
nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della
parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione
metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone
qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche
fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui
ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole
l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate.
Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e
saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi
contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere
rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano
senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla
superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità
dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una
sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi
abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci
appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta
umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta
interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle
diverse tappe del pensiero e della vita. “La risposta (Antwort) del
pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che
cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta
all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere
immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Accostandoci ai lavori di Grassi
possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di
fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non
rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché
concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda
tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in
molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare,
può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone
dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”,
dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la
complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e
non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del
pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema
dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per
comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che
la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita
dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il
coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti
toccati dal filosofo: Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica,
ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro
Internazionale di studi di estetica, 2001; G. Civati, Un dialogo
sull’umanesimo. Hans-Georg Gadamer e Ernesto Grassi, l’Eubage, Aosta 2003; R.
J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003; W.
Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto
Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXXIX, 2010, fasc. I,
pp. 148-176; Id., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und
Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque, Ernesto Grassi
y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora,
2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi,
Vaprio d’Adda, GDS, 2008; Id., La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale,
Vaprio d’Adda, GDS, 2009; M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti
1922-1946, La città del Sole, Napoli 2011. ! 4!
mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia
della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di
Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del
pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su
una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di
evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla
cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova.
La nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia
alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti
resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche
(magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori
e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento grassiano che
vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva grassiana
va interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca
in cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e
non solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il
punto di riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una
“ragione fantastica”. La svolta grassiana è verso la fantasia e la metafora2,
da una teoria del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben
nota espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta
la sua problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento
in modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e
sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica
kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta
quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a
un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della
razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura
si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di Grassi
cfr., S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale,
cit. ! 5! In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti
continui di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è
quella della ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero
moderno. Ma tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per
usare una ben nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione,
di segno opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui
cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza
di una dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi
una rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico
della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro
inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle
immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3,
esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve,
raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e
ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno
della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra
linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica
dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a
ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta
definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa
definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa,
del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora
riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che
l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto
l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che
essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5.
L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al
senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni
qualitative proprie. Husserl ha parlato non Grassi usa il termine immagine
nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. Grassi,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p.
17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17. ! 6! a caso di sintesi passiva
come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di
ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati,
senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La
concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia,
dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del
mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali
e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza
spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali
del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta
di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in
un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola
che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la
trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica,
configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse
trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un
sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una
piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla
realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella
partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza
dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e
teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua
prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro
l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei
suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci
governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà
ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si
limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si
rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà
del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il
senso segreto che in esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica
dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7! A una pars destruens,
a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars
construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del
sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il
pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della
critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione
della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme.
Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come
fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria
del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per
pistis Grassi intende non un’opinione o una forma di persuasione ma “il modo di
realizzarsi in noi dell’originario che comanda”8. La pistis diviene il
fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il
collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa
matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello
dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la
passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel
discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua
immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la
visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi
definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura
come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il
fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale
fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore
individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra
sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra
critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla
matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore
speculativo della proposta di Grassi che resta
7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966,
p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491. ! 8! filosofica proprio
nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione
dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua
prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere
annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900:
quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli
della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma
dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla
riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto
che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista
morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi,
inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al
mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso;
da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la
differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di
quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo
tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di
fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare
in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la
“regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il
disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo
compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella
riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità
di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in
funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in
funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon,
come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come
trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489.
11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem. ! 9! dell’ambiente che solo
così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per Grassi la retorica
occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione
di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un
doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano
e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che
per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel
meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei
segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana
dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo
“dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto
dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente
umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella
antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia
primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili
dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza
tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa
alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il
trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa
vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana
dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che
privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero
immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come
l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività
razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della
parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e Gentile ad essere messa in
discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare
i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli 1997, p. 194. 15
Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli
1988, pp. 17-36. ! 10! ermeneutico che si concreta nella
retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro
la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la
questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione
linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano
nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben
determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la
direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla
pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca,
Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini
della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una
vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello
svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata
verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la
ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori
prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed
aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione
dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il
filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento
edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis
creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica
tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi,
che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora,
stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal
mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale
ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma
anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a
Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più
che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla
natura delle cose, che altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo
inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto
Grassi, La Città del Sole, Napoli 1996, p. 387. 17 Ivi, p. 390. !
11! “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità
XIV), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando
per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione
si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie
del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale
bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione
razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle
categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale
sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione
ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18,
tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non
ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile
leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da
Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla
domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il
problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale
fondamento poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il
nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del
pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo.
Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum20, infatti, Heidegger vede espresso
un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo
diventa subiectum22, il fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e
Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del
pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de
Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È
fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul
metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale
espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non
ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una
certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile,
poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della
filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte
I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori,
Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 21M. Heidegger, Il nichilismo
europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168. ! 12! certezza e
verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si
trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della
via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23.
Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione
heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano
del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos
all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna
Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie
dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24.
Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul
piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e
temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic
et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica
e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente
articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum
del 1709 del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le
tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di
partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità
seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la
catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità
seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a
ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il
metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera
retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana,
ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il
cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico
complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana
alla critica Ivi, p. 169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano
1996, p. 25. 25 Ivi. 26 Cfr. N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico,
Feltrinelli, Milano 1961. ! 13! cartesiana nel contesto della
rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli
argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la
dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”27. Non è la deduzione che
precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile
unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte
“topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui
Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in
Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti
e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia
possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è
ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della
realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare
in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale,
storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla
centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende
la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla
formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non
“penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli studi
del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010,
cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e
inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in
memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e
civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp.
425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A.
Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di
Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp.
447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e
sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di
Vico nel panorama degli studi vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo
con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota
5; Id., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del
neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema;
J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos
in Vico y Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico,
Heidegger, Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E.
Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E.
Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV.,
Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di
Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di
Ernesto Grassi, cit., p. 188. ! 14! quindi agisco”. Proprio
la ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso
capace di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato
all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è
quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma
a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici
che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico33. La
metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività
dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo
significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di
accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il
meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può
comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale
quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della
concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare.
Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il
pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe
fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo
– sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica
immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale
prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la
pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto
razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla
correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente
ontologica, Grassi si misura con una continua operazione di E. Grassi, Retorica
come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo
1990, p. 62. Sul tema della metafora in Grassi cfr., D. Di Cesare, Metafora e
differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un
filosofo europeo: Ernesto Grassi, Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit.,
Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della
retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p.
113. ! 15! storicizzazione delle strutture del mondo storico umano:
il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo
riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di Grassi mette
al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale
umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un
soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il
pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che
scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad
intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale
umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il
reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione
ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo
dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37
– fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli
sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima
co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che:
“l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in
seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e
tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto
dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di
schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale.
Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38.
L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la
trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di
formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla
luce dell’origine del nostro divenire; E. Grassi, I primi scritti, cit., pp.
995-1029, soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates
di Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id., Retorica come
filosofia, cit., p. 192. 38 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., p. 73. ! 16! diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui
si riferisce agli schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39.
L’analisi grassiana mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il
cui pieno sviluppo è obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica.
Grassi sostiene che “il fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di
tutte le capacità dell’uomo, dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la
coeva concezione del sapere si concentra solo sul suo aspetto di utilità
all’uomo, misconoscendo la diversità delle fonti dell’esistenza umana (il vero,
il buono, il bello) per il filosofo occorre svoltare verso una scienza che
“riconosce che ci sono capacità differenti, autonome l’una rispetto all’altra e
nondimeno appartenenti tutte quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e
che dal loro pieno sviluppo sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il
filosofo bisogna ammettere che il sapere, il bello, il buono, non dipendono
dall’applicabilità e che “solo liberando le fonti della vita e rispettando la
loro autonomia, sia può realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella
totalità che era anche l’antico ideale della comunità politica, ossia della
comunità umana”42. L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e
passione – in cui riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage
tedesco degli anni giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio
tra uomo e mondo circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non
trova più il suo fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle
concrete e sempre nuove connessioni che l’uomo istituisce attraverso le
espressioni linguistiche, artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi
grassiani muovono dal rifiuto di assolutizzare un’essenza universale dell’umano
e dal proposito di rendere ragione della condizione umana attraverso l’indagine
dei possibili punti di mediazione di ragione e passione, logos e pathos,
tramite una ricerca che potremmo definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die
Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem. ! 17! fenomenologia
storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli scritti tardi come La
potenza della fantasia, La potenza dell’immagine, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia dell’umanesimo, Vico e
l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della metafora – che fa capo ad un
concetto sintetico-trascendentale della fantasia che si costituisce come
strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza storica e pratica
finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo questo processo
complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi (Freud), della
letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio,
Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner, Hölderlin),
dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner, Gehlen,
Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone, Quintiliano,
Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello slittamento
verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua filosofia. La
ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia
metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la
storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si
tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del
metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale.
Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità,
cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in luce
l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il
mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due
livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione
della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite
pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si
sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale
si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono
nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria
mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel
corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la
sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana
e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della
Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens
sylva, che dice del fondamento il suo ! 18! essere al contempo puro
apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi
dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos
lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte
poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso
all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di
ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre
l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un
pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della
ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si
costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e
distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul
luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della
realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere,
come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza
dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della
praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella
“serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere
immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che
corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con
il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel
silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. E. Grassi, La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di
italianistica”, Vol. IX, N. 1, 1988, p. 19. 44 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178. 45 Jaspers in una lettera
indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, Grassi, di Milano,
desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e
ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti
dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona,
stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere.”
Heidegger risponde: “Grassi mi ha fatto
in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una
particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una
natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto
poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un
filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli
di Guido Calogero, il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il
problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie
all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe
fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece
che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrisse:
“insegnante in Germania, Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre
a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema
non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana,
ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a
italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” M. Heidegger-K.
Jaspers, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano
Cortina. Ivi, pp. 73-74. G. Calogero, Recensione a Grassi, “Il problema della
metafisica platonica”, Bari, in “Giornale critico della filosofia italiana”. B.
Croce, Pagine sparse, Laterza, Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi,
Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente
cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi
dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli. Grassi appare
un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare
al massimo come prova cattiva di un ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le
cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di
approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi consentirà
di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo
aver brevemente assistito ai corsi di Scheler e di Jaspers – andai a Marburgo da
Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza. I
luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il suo ultimo
corso come professore emerito), Heidegger (che assume la cattedra di filosofia), È il 1986 e
Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia
intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta,
infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale
Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica –
come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di Grassi era
stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha
indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a definire quella di Grassi
filosofia del viaggio. Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, Bari, “La Critica”, Ottaviano C., Recensione a E. Grassi,
Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi S.,
Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München, «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,
E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo:
un problema epocale, cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di
viaggio in Grassi come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo
cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del
viaje”de Ernesto Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos
entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta
Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del libro de Grassi
elementos meramente descriptivos o Grassi, nativo di Milano, dopo aver
conseguito la laurea in filosofia con Martinetti discutendo una tesi dal titolo
L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae
orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con Chiocchetti,
uno dei primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i
temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Croce, frutto
di studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del
pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e Vico che affascinano
molto Grassi, i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di
stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al
pensiero del “carissimo ed onorato Chiocchetti” e a valori liberali e
cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume
dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio “alla
ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani”55; Il partito popolare
italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida,
costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una
experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus
movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el
retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en
busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona
voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la
perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza
espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de
naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones
visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”. Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora
de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika -- Grassi,
pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli:
filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016;
Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia
di Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, Proposito della rivista
era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai
settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso:
“Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze
altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni
religiose, morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni
religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa
cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato,
pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci
proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di rispettare i
diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si offendono o
prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna nazionale, I,
1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75 in M. M.
Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam
Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre 1922,
seconda serie, vol. XXXIX, pp. 100-109 ora contenuta in E. Grassi, I Primi
scritti, cit., p. 18. ! 22! I successivi lavori grassiani, a
partire da Il tragico del 1923 – che espone in nuce nodi concettuali che il
filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora
inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia
dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato del 1924, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del
principio di immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto
politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato
della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su Machiavelli
possiamo riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità
ad un’analisi dettagliata del pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti,
primo fra tutti Dante. Ci sembra convincente l’ipotesi di Messori secondo la
quale a partire da questo momento, ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo
diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie
al pensiero politico di Machiavelli, riscopre un altro inizio del pensiero
moderno, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma
unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché
tra gli anni Trenta e Quaranta il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi
concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori
dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo
– che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva
produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli
anni Ottanta, Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e
retorica. Il problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un
problema epocale (1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi
pubblicati singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia,
occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si
pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo R.
Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!
successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di
Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da
noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una
tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo Grassi collabora anche
con l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di
coltura, fondato nel 1872 e sul quale pubblica tra il 1925 e il 1927 una serie
di contributi dai quali traspare uno studio di Croce e dell’attualismo
gentiliano. Conseguita la laurea nel 1925, incomincia per il pensatore
l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e in Germania, alla ricerca di un
proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en Provence,
durante il quale conosce Blondel58, scrive La più recente attività della
filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la filosofia dell’azione è
considerata come filosofia della trascendenza che non nega i valori
dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della
processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di
M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di liberare la
metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si
profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe
coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge Grassi ad
approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve,
con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al partito fascista il 3
maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di Büttemeyer,
l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la quale non era
possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer, Ernesto Grassi.
Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58 Sui rapporti
Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di Ernesto
Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino- P.
Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche.
Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159:
“La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio Chiocchetti,
la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli scritti
dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge
la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua gnoseologia
(1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia che si
concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento (1923-1924).
Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno (1924-1925), per
il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e per la filosofia di
Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche maestro con i suoi
lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece
escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni Gentile: pur avendolo conosciuto
nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente
soltanto a partire dal 1926, dopo aver già presentato una ventina di
pubblicazioni”. ! 24! Dopo aver affannosamente girovagato per la
penisola italiana in cerca di una propria via al filosofare Grassi approda
finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un
punto di partenza per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile,
ancora troppo influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica
numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di filosofia”: Empirismo e naturalismo
nella filosofia tedesca contemporanea del 1929; Sviluppo e significato della
scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea dello stesso anno,
in cui Grassi rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base
storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione
dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da
Spaventa a Gentile, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di aver
trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e naturalista e
storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si era
isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e
quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le
categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo
storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva
portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e
disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di
Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico –
psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che,
tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica:
l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del
pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per Grassi gli
aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per
lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e
dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo
“realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”E.
Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia
tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno
1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi,
p. 187. ! 25! In questo periodo Grassi opera quella collocazione
della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione
intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria
gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del
disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di
destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito
cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger
diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di
Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia
di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato
quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto
immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la
concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e
astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto
appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in
Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della
proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano
del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e
umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso
l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della
latinità, per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana
circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra
l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile.
In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca
contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono
espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il
suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non 62 Id., Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”,
Milano- Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp. 288-314, ora in Id., Primi
scritti, cit., p. 209. ! 26! contraddizione, fondamento di ogni
dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio;
concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come
abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di Grassi fu di carattere
neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la
trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il
filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta
dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto
perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una
“grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo
tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della
sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a
porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa
della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi
come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che
diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello
stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra
essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare
nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non
come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di Grassi il superamento
gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione
dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di
Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie,
vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La
sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol.
XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia
può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64
Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio
caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente
o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del
pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano.
Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste
più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di
ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso
stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico
illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di
tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile.
In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori
del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio
il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una
ricostruzione della presenza di Gentile in Grassi cfr. R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit. ! 27! heideggeriano: quello
dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione
che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65:
l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo
spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di
indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla
nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato.
Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di
pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la
fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica
emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui
abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo
blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e
dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale
heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già
Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile
filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile
attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la
separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano
dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di
Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La
relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera
l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene
tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è
quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di
svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza
appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose.
Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi.
L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si
rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr.,
E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti,
cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e
storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La
visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di
Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente
attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp.
235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia
tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp.
371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp.
419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp.
553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp.
753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero
moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850;
Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom
Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen
italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68
Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271;
Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia
italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp.
851-864; Sul problema ! 28! ritroviamo in alcuni saggi giovanili69
– che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi
dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi
letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione
particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della
metafora. In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura
speculativa del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio
intellettuale della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento
della vita stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi
esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo
dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella
riflessione di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e
fenomenologia70 che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire
dell’originario e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un
aspetto critico paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una
collezione di posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie
dell’ultima moda filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati
all’inizio sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale.
Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema
del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in Vico, ivi,
pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per
l’impostazione del problema neo-umanistico risultano fondamentali le
osservazioni espresse da Grassi nel saggio su Machiavelli del 1924. 70 R.
Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le
due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di
attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in
secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con
un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che
lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il
superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di
quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire.
Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34.
71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a
I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra
inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività
kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la
trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla
nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega
il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento
dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi
dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la
trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini
si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria
di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M.
Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44. !
29! Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della
multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità
che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di
fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di
cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale
e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la
metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la
manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare
all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che
può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che
in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario
non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di
un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un
manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di
manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la
trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che
non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve
quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la
nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione
tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile
originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della
realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che
continuamente si distingue, Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano
dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e
un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr.,
sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo
tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e
costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo
tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né
l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto
infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia
pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai
colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E.
Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI,
aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti,
cit., p. 376. 74 Ibidem. ! 30! si differenzia e si scompone in un
divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del
Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una
domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre l’essere
e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare una
concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che
agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in
Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si
manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere
intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire
immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo
processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui
traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il
primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone
esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo
definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana
e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica
insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una
riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a Gentile e a
Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del
logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica
al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa
dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni
interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma
che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione
complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di
delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla
manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì
tramite una pre- 75 Ivi, pp. 376-377. 76
Nella Recensione all’articolo di Grassi Il problema del logo afferma Ottaviano:
“dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica
del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per
mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del
logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in Ernesto Grassi e
l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit.,
pp. 7-24. ! 31! intelligenza pre-categoriale fortemente radicata
nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un
programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas
e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e
latina in senso lato. Grassi si chiede: “in che senso possiamo affermare che il
logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai
quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e
in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto
un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza
dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione
oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e
approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78.
Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del
logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia
d’Europa e per le vicende personali dello stesso Grassi che, come abbiamo detto
sopra, si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista79 più per motivi di
“opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di generale
espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici
professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito
e dichiarato antifascismo di Croce restava isolato e chiuso nelle mura di
palazzo Filomarino, mentre Gentile raccoglieva intorno a sé il meglio della
cultura storica e filosofica delle nuove generazioni80. In tale contesto
bisogna inquadrare il compito teoretico e culturale che Grassi dava alla sua
ricerca di una rivalutazione della filosofia italiana. Così ritroviamo Grassi a
Berlino, dove dal 1 aprile del 1938 assume il ruolo di professore incaricato di
“filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia tedesca”. Nei saggi
scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana del
1939 fino a Del Vero e del verosimile in Vico E. Grassi, Il Problema del logo,
cit., p. 387. 79 Cfr. la dettagliata ricostruzione di Büttmeyer in op., cit. 80
Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., G. Cacciatore, Croce e
Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, pp.
477-492, in A. d’Orsi-F. Chiarotto (a cura di), Intellettuali. Preistoria,
storia e destino di una categoria, Aragno, Torino 2010. ! 32! del
1943, passando per i contributi sul poetico e sul politico nella riflessione
italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in superficie la questione
della parola, indagata, secondo Grassi, dagli umanisti non con uno spirito
antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di
una lotta per una visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non
è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto una vita activa, in cui i
valori del passato greco, che gli umanisti sostenevano di aver scoperto contro
le interpretazioni medievali, potevano contribuire all’educazione e alla
formazione della civiltà. Come ha sottolineato Cesare Vasoli nell’Introduzione
italiana all’opera grassiana Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi
considera vero problema centrale dell’umanesimo italiano non tanto la
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto piuttosto
l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui
appaiono l’uomo e il suo mondo [...] dalle analisi del Grassi, svolte in un
ampio arco, da Dante al Boccaccio e al Salutati, dal Bruni al Vico, emerge un
tema costante: la poesia come fondazione della comunità umana e della storia,
svelamento luminoso dell’essere, e – soprattutto in Vico – principio e ragione
della stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica”81. L’umanesimo
è, dunque, interpretato alla luce dell’esperienza linguistica che caratterizza
il mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria
che Grassi rielabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto
di Lichtung: si tratta di un neoumanesimo onto- antropo-logico, che, come sarà
esplicitato in seguito, non è un approccio antropologico antropocentrato,
poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo
slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano
gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico- ontologico spinge Grassi ad un
più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna
dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che “ogni umanismo rimane
metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si
pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce
persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende” C. Vasoli,
Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida
1985, pp. 10-11. 82 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, a
cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 275. ! 33! Tale critica
in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai
avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero
che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e
alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in
considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana Grassi ha dato una
caratterizzazione per così dire non umanistica (in senso heideggeriano)
dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con il pensiero di
Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno
decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo
resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma
interpretato solo in riferimento ad altre epoche. Grassi si chiede se sia
plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto
per Cassirer, Kristeller, Spaventa, Hegel e altri, di un errore di
prospettiva83. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore
negli anni Quaranta, Grassi impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante
testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della
collaborazione con W. F. Otto e K. Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno.
Della passione e dell’esperienza dell’originario del 1940, Grassi porta avanti
una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione
a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della
filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una
visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera
opera anche pateticamente e quindi retoricamente”84. A fondamento del pensiero
c’è una necessità esistenziale che non può che rivelarsi e apparire attraverso
l’esperienza della parola poetica e metaforica: unicamente quest’ultima può
rendere conto del polimorfismo ontologico, che non è un fatto85, ma un continuo
divenire, all’appello del quale E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il problema della parola
poetica, pp. 31-36. 84 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., pp. 17-18. 85 “L’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe
essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è
diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi [...] il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è
il divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in
quanto già ! 34! l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e
non univoco. Grassi afferma che “poiché il vedere, la visione, insiti nella
teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso
[...] una metafora. Allora la metafora, che ricorre per lo più alle immagini”
non va considerata un mezzo solo letterario ma “è indispensabile per esprimere
l’Originario?”86. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare
anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la
partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata
anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di affermare la
specificità della Romanitas nei confronti degli ideali del mondo tedesco
privilegiando soprattutto tre ambiti problematici: “in primo luogo l’antichità
nel suo particolare significato per la tradizione italiana. Inoltre il
rinascimento e l’umanesimo [...] infine, una terza questione riguarda il modo
in cui il XIX secolo ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento”87.
Per Grassi fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire
creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella comunità
politico-sociale88. A partire dal 1945 Grassi si reca in Svizzera in cui
progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore
Francke di Berna e l’anno successivo incomincia la sua lunga attività di
insegnamento a Monaco e di direzione del Centro Italiano di Studi Umanistici e
Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee
dell’“emigrante con la vocazione per la filosofia”, basti dire che negli anni
densi e intensi dell’apprendistato filosofico tra il 1922 e il 1946 si gettano
le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la
rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla
questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; la centralità del
linguaggio e della parola poetica, del dire metaforico e della svanito, non più
presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il
dato, bensì una falsa interpretazione del dato”, E. Grassi, Il Problema del logo,
cit., p. 375. 86 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., p. 18. 87 Id., Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des
Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin,
verlag Helmut Küpper, 1942, pp. 19-32, ora in Id., I Primi scritti, cit., p.
949. 88 Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata
con l’appoggio di Helmut Küpper.! ! 35! retorica. La questione è,
ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato
nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale
adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti
della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della
riflessione che lo struttura si intersecano. Il “neoumanesimo della
complessità” offerto da Grassi può essere concepito come un atto di
demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della
ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di
segno opposto, della crisi della ragione; del tramonto della civiltà, in cui
cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto
dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando,
infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli
attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne.
Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del
discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario
onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente
con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo
giovanile nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è
possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo
gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi
costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non
possiamo pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio
filosofico”, come dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo
capitolo sembrava emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a
partire dalle proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. Uno dei risultati più importanti della
indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è
la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica
dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito
cogitativo89. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica
al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli
effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la
ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale
umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto
privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni
teoriche che Grassi rintraccia. Secondo il pensatore milanese il “grande
rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la tradizione ha
obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico, nel quale egli
rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo
fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile esperire una
dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza
di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo
quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa
che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink,
mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a
temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di Petrarca,
Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad
un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre,
nel 1938 Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in maniera analitica
nel terzo capitolo. ! 37! il nostro autore, sotto il patronato
dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia
Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di Enrico Castelli.
Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di ricerca
teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un confronto
serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due
autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti:
Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e
Leopardi. Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana
del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito
che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft.
Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che
secondo Grassi gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il
filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del
filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che
costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico
che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la
Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita
dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano Vico avrebbe
contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in
difesa delle humanae litterae. Lopardi con il concetto di illusione avrebbe
teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le
vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso
il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il
più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua
di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della
riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul
linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del
disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con
Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di
oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento)
e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di
Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della
modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione !
38! soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta
la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo
che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima
volta al tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco
paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col
definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90.
L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi
mette in discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia
nelle riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger
avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del
disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del
Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze
della manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento
della Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca
presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più
che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come
Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile
in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge
quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in
evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere
dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione
aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo
ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che
talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da
Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e
il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo
più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte
ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del
Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o,
almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti
problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il
giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici
loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad
alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante
nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia
originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the
question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early Renaissance
Studies, Binghamton, New York 1983. ! 39! pensiero: non solo la
logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la
retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle
molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione
delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi,
quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in
luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un
significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e
complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della
logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono
infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale
compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione
del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto
(horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed
astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso
la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un
apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali
che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità
del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa
opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di
rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato,
occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della
meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un Id., La filosofia dell’umanesimo un problema
epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D.
Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un
limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si
tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da
Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale
realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la
ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the
Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio
di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia
una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e
l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi
(a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404. !
40! limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli
umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte
da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più
importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno,
che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates
e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo
catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal
problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei
procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna
“rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è
espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione
onto-antropo-logica del pensiero di Grassi, che vede nella indagine linguistica
e poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge
l’uomo a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze
esistenziali. In tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità
di realizzare non cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una
metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva
alle urgenze vissute differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al
problema dal quale siamo partiti: come giunge Grassi alla domanda sull’uomo e
sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli
“anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni
interpreti, è la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema
onto-antropo-logico in Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si
tratta di percorrere un iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente
l’espressione “onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma,
a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non
tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come
l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici
toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi
al E. Grassi, La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico e Ovidio.
Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi
Vichiani”, 1992-1993, XXII-XXIII, p. 174. ! 41! contesto
onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca
storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione
che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione
teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani
già nel 1924 nel saggio Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con
Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi
offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui
concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua
prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria.
L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare
credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità
umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema
concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica
della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di
Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di
immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il
medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come
espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero
antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di
ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno –
di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la
razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur
accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce
tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica
e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non
tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli
intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare
essere !! Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla
prospettiva filosofica di Ernesto Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo
europeo. Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire,
cit., in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99
E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in
Id., Primi Scritti, cit., p. 55. ! 42! un Giano bifronte, proteso
sia verso l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per
essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto
proviene e in funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui
è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà
nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella
concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la
nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci
rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il
ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà
contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione
medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno
nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso
classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con
cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui
troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se
stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di Machiavelli è assunta
come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della
critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti
Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a
tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità
effettuale che, secondo Grassi, riveste un’importanza massima: “l’affermazione
della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente
col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”
Ivi, p. 56. 101 Ivi, p. 58. 102 Ivi, p. 62. 103 Ivi, p. 66. ! 43!
La centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in
correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il
verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio
della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze
giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di Vico,
viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione del
1708. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico:
“pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si
presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì
il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la
facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo
sottolineare che il “vichismo” di Machiavelli individuato da Grassi in questo
saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo
di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere
del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al
Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce,
trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce
Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la
politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei
precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che
la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente
identici”106 è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo
pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore spirituale
della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore
determinazione morale” Per una sintesi ben documentata della storia della
teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto,
Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero e del fatto
prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp.
105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A.
Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica. Economia
ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce
solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a
comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e quindi a
valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle condanne
provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe
curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto
affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere
bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la
virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un
aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”,
giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo
decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica ! 44!
Su questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il
nesso di verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova
visione del mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo
veramente l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum
ipsum factum di Vico”109, significa porre nella realtà l’unico valore,
identificando valore e realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche
l’adozione di un metodo innovativo di indagine del reale. L’importanza di
questo saggio giovanile è degna di nota se consideriamo che proprio qui
emergono alcune dicotomie concettuali che ritroveremo nella produzione
successiva e che sottolineano quanto già a partire dagli anni Venti la
questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione del filosofo. Risulta
evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il problema
dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung
non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con Heidegger
o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora già nelle
riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da
Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva
e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo
abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo e la denuncia della mera
attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie
la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna
alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna
guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il
distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione
riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale
etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – B. Croce,
Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p. 300.
Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli saldando
assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella
sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica (1931)
i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita
Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli,
ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una
precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi
commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato
sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra
politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della
storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito,
che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e
della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B.
Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione
verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N.
Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della
verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al
XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e
contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa
2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato, in Id., Primi scritti 1922-1946, p. 66. ! 45! logico. La
grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del
Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una
razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o
del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi
Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica
possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo
dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori
religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire l’integrità
della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di
una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione
del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione
del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di
individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini
possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione
dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un
dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto
l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità,
sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva
che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella
compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra
l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella
tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale,
quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un
inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e
attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione
del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo,
dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa
emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il
Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che
rende la sua opera una !!! Ivi, p. 73. 111 Ivi, p. 74. 112 Ivi, p. 76. !
46! sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che
nel Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e
unità del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra
il conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è
connotata positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti,
non sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie
e proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria
politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e
all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al
“cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione
kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è
testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul
politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli
consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il
suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma
del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del
politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte,
bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene
espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale
esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché
quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a
costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la
quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei
dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare,
nell’Appello dell’essere e Ibidem. 114
Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008,
in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul
poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare
originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und
Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel
1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben
von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono
due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des
Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen
Tradition. ! 47! del reale, la cui carica di estraneità è
oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura
metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione
onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e
costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal
mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora
è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della
metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo
ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza
un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...]
la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari
campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo
andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro
mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa
immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo
fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare
per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario
fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in
tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del
passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello
della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118,
quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che
“non Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117
Id., Francesco Guicciardini e il concetto della politica nel Rinascimento
italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id.,
Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco
Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance.
Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”,
Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella
tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971.
Il saggio appare nel 1945 con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung
der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni,
1945, Morgenausgabe, Blatt 4. 119 Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due
conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi
scritti, cit., p. 786. ! 48! possiamo sottrarci di fronte
all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere
posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova
sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci
costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e
compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo
“stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un
metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione
con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo
impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto
alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso
anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella
consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che
può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico122. Umanesimo
e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione
sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da
Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel
saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al
1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione
storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della
“tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al
centro della riflessione Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto,
pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco
nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen
Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in
Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto
und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut
Küpper, 1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e
la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore,
Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro
filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il
nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale,
include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale
soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo
può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè
esistenziale sfuggire?”. ! 49! di Grassi, significa innanzitutto
prendere in considerazione un “mito storiografico”123. Inoltre, il concetto
grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come
categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori
precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende
una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco
burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di
Jules Michelet del 1855 Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno
e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del
mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà
italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di
vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della
civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato
i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione
storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali
contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea
di Medioevo come età della sperimentazione125 e dimostrando l’alto grado di
sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del
Medioevo126, contro un atteggiamento che si è consolidato anche
nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e storico-culturale:
quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo (la prospettiva
umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una premessa. Come
ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame, pestilenze,
disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini, superstizioni
del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove
Cfr., per una discussione particolareggiata delle molteplici
interpretazioni dell’umanesimo e del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento
tra mito e realtà storica, pp. 3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento,
a cura di P. C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo
italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit.,
p. 21. 125 Cfr., G. Sergi, L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia
medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp.
7-12, Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle
interpretazioni dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C.
Vasoli, Il rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp.
18-22. ! 50! positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e
fate, cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del
medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo
grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in
discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura
di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul
significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito
dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte
dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi
del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in
Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio
Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di
partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938
durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung
und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro
saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition,
in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der
geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime
per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta
del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo
del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed
efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione
dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo
viator e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5.
128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per
determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi
Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id.,
(a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le
Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza,
Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id.,
(a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12.
! 51! Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così
radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in
tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la
plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e
Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili,
ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate
in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di
trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno
problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel
saggio su Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema
che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o
meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico
al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero
moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide
queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si
radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel
quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non
va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si
attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve
espresse con convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una
prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in
termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il
filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione
contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione
della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e
non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere
anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia,
l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla
realizzazione di un nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il
nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno
indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al
pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero
moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide
queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si
radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale
noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va
essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua
nella rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico
del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti, cit., p.
259. 133 Ivi, p. 781. ! 52! Infatti, per Grassi lo sviluppo
dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel contesto,
nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale soltanto
l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto circostante, può
stare al mondo in una relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di
comprendere e di cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire
che ritroviamo soprattutto nella parola poetica, prima che nella parola logica.
La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo
conto dell’aporia ineludibile che il problema dell’umano ci pone dinanzi e
consentirà di elaborare quel filosofare noetico non metafisico che tenta di
tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte
logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si tratta della coniugazione
“inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso
filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in Dell’apparire e
dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione
patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della
passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e
l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti
sul valore della metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo
dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica determinata e come
proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata dall’esigenza di “un
indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli
enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica
compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola
dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che
lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa e perciò
insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134,
ontologia noetica e non metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente
appare solo nella parola umana che costruisce universi di senso. La critica di
Grassi si appunta innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto
particolare della filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli
elementi della modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia
primitiva. Tale posizione se, da un lato, può sembrare a Id., Il problema della morte: l’Alcesti di
Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo-
Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte,
Congedo Editore, 1991, Galatina, p. 30. ! 53! prima vista
contraddittoria rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924
– in cui la centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della
veste moderna che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova
una spiegazione se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del
moderno viene inserita nel contesto più generale di una messa in questione
della supremazia che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni
storiografiche analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso
concetto di ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca
filosofica – che cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo
– per mettersi sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario,
l’esigenza di costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale
momento patico e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza
individuale e vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi
passa in rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale
misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità
con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare.
Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi
da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto
sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi:
Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy 1980;
Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo
aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse
annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger
offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa
domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da
Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della
polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero
della filosofia analitica di cui, almeno in questo La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera
perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una
raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal
1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene,
Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è
pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism.
Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang publishing, New York,
1990. ! 54! luogo, Grassi non esplicita i rappresentati. Più
chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a
Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di
quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire,
mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la
nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138.
Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione
esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di
formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia
travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel
pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera
della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti
in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...]
al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e
mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della
filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della
formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la
dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e
del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo
il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e
dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la
riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in
considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che
possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di
Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del
Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e
il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un
gioco linguistico a sé. Ciò Cfr., L.
Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L.
Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr.
it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi,
Retorica come filosofia, cit., p. 35. ! 55! vuol dire propriamente:
veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue
la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un
particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con
l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco
linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme
più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è
una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito
della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e
retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio
filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro
bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli
scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate
postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola
cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve
fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi
congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed
evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145.
Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli
Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai
scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza
dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla
riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo
svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono
riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In
questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R.
Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino
1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale,
cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni
compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae
cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la
guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche,
Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21. ! 56! che
pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze
certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I
principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo
consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le
verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i
pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo
accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in
seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per
vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro
intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui
si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio.
Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio
iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei
saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni
della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed
errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non
potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire
che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri
secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo
esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo,
della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema
tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di
impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre
liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio,
che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti –
di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza
del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso
comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I
principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A.
Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr.
it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295,
“Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si
passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio
paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli
passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno
d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 32. ! 57!
Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto
di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile,
tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince
dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla
corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini
di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve
negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la
nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori
discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si
concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe
compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della metafisica,
quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che
si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione
dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede
espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché
l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di ogni certezza e
verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale domanda
guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della
metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è
cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il cogito e
le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico
è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici
storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e
mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno
teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come
riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso
che “Devo richiamare alla mente la
situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui
compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia
grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo
da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi,
Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di
cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi
di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e
averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un
altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori;
allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58! vuole comunicarci la
necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente
era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a
ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è
consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che
noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando
cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che,
in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a
seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione
vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo
costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto
cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica,
e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del
vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella vita.
Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere,
fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo
tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma
anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce
la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo
portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese
afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva
importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con
“cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di
distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui
l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un
atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si
profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme
nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto
all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione
presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione nelle mie azioni mentre la ragione mi
obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere
quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp.
305-306. 154 Id., I principi della filosofia, cit., p. 22. Ivi, p. 25. 156 E. Grassi, Dell’apparire e
dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi. ! 59! e dell’esperienza
dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato
riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà
a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è
concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione
dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito
inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa
di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo
soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in
esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito,
quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di
un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La
posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della
manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale
come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle
vie di accesso, che per Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea
con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un
rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare
un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione
caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico
/Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea
grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva
hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo
sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è
Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia
volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma
si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane,
sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la
filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di
essere Ivi, pp. 286-287. 159 Id.,
L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160
Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 32-33. !
60! volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli
rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un valore
filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia e delle
due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla
filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che congiunge i due
suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento oggettivo in
forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si
occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul mondo [...] però
anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere
gli scritti di Cicerone”162. Lo stesso Cicerone, al quale Montesquieu avrebbe
voluto assomigliare163, recentemente definito come l’esponente dell’umanesimo
universalista164 è al centro anche delle riflessioni dello storico Mommsen –
come ricorda Grassi nel catalogo delle interpretazioni inautentiche
dell’umanesimo165 – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile
giornalistico”166. Altra “vittima” degli strali di Grassi è il romanista
Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica
a mero esempio di “esercitazione stilistica”167. Nell’elenco compaiono anche
Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per
Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre
il pensiero filosofico sotto l’egida del problema della conoscenza non consente
di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione Ivi, p. 32. 162 G. W. F. Hegel, Introduzione
alla storia della filosofia, introduzione di L. Pareyson, tr. it. di A. Plebe,
Laterza, Roma- Bari 1987, p. 132. 163 Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P.
Ciaravolo (a cura di), La personalità filosofica di Marco Tullio Cicerone,
Aracne, Roma 2007, pp. 7-8: “il primo, presso i romani, che ha tolto la
filosofia dalle mani dei dotti e l’abbia liberata dall’intralcio di una lingua
straniera. Egli l’ha resa comune a tutti gli uomini, come la ragione, e nel
plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con la gente
comune. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi
ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria
dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato
e che avesse aiutato a scoprire la verità”. 164 Uso l’espressione di L.
Battaglia contenuta in Le virtù moderne di Cicerone. Appunti sulle Tusculanae
disputationes, pp. 157-169, in P. Ciaravolo, op., cit., p. 157. 165 E. Grassi,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 166 T. Mommsen,
Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze, 1963, p. 1275. 167 E. Grassi,
La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 34. ! 61! significativa168. I
testi citati polemicamente da Grassi sono Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Il filosofo tedesco, di
formazione neokantiana, si occupò intensamente dei problemi matematici e fisici
della modernità, e la predilezione per alcuni autori, quali Galilei, Keplero,
Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere
nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo.
Secondo Grassi per Cassirer “laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si
congiungono, non si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel
metodo”169. Se prendiamo in considerazione il testo Dall’Umanesimo
all’Illuminismo, che fu pubblicato postumo nel 1967 e che raccoglie i
contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo
all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa
lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del Ficino nella
storia del pensiero – recensione al libro di Kristeller La filosofia di
Marsilio Ficino – Cassirer afferma: “alle sue origini e per il suo scopo
principale l’umanesimo non può dirsi un movimento filosofico. Tra gli umanisti
più noti non troviamo grandi pensatori veramente indipendenti. Il loro
interesse era l’erudizione e la letteratura, non la filosofia”170. L’unica
importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento sarebbe la mutazione della dinamica
delle idee171 e lo slittamento dal particolare all’universale172. In questa
fase la riflessione sui principi della conoscenza non ha trovato ancora un
motivo cosciente173 e la filosofia sembra avere una efficacia limitata174. E.
Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia,
Firenze 1963. 169 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale,
cit., p. 34. 170 E. Cassirer, Il Ficino nella storia del pensiero, in Id.,
Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, tr. it. a cura di
f. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 36. 171 Id., L’originalità del
Rinascimento, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., p. 11. 172 Ivi, p.
8. 173 Id., Storia della filosofia moderna, Vol. I, Dall’umanesimo alla scuola
cartesiana, Tomo I, La rinascita del problema della conoscenza, tr. it. di E.
Arnaud, Einaudi, Torino 1978, p. 100. 174 Ivi, pp. 97-98. ! 62!
Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta
al pensatore tedesco: Cassirer “preoccupato di rintracciare nella tradizione
umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il
problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche
tracce”175 nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte
condivisibile poiché Grassi e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune
attenzione rivolta verso il mondo del simbolico. Nonostante questo punto di
contatto Grassi pone una netta differenza tra la sua teoria di una logica della
fantasia e quella cassireriana delle forme simboliche176. Afferma Grassi che
“sarebbe un errore e un fraintendimento molto grave interpretare Vico come se
la logica della fantasia fosse limitata a una pura logica di forme simboliche,
per esempio nel senso di Ernesto Cassirer”177. Il filosofo tedesco, in
particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche (1923-29),
analizza la funzione del mito, inteso come originaria “forma di vita”,
essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni
mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo
non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì
insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante
del mero segno in quanto, secondo il filosofo, l’immagine conterrebbe l’essenza
stessa delle cose: “l’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice
carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di
essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di
demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza”178.
Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che
permetta la rielaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a
partire dalle sue creazioni mitico-simboliche.
E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 176 Id., La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico
oggi, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 56 177 Ivi, pp. 56-57. 178 Cassirer,
Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1967, p.
30. ! 63! Queste strutture non hanno una funzione solamente
comunicativa ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei
loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la
religione, il linguaggio non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme
essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica
costituisce così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo
storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica,
diviene fondamentale strumento di concezione della storia che vuole liberarsi
da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico-
descrittivo. Scrive Cassirer in Saggio sull’uomo: “per semplice che esso possa
sembrare, ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una
preliminare analisi di simboli. La prima e più immediata materia della conoscenza
storica non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e
monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi dati
simbolici si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli
uomini del passato”179. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come
creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più
vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è
creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà [...] Il campo di studio elettivo
dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo
storico, la società civile. Quel che Vico chiede è una filosofia della civiltà:
una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il
corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non
sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce
direttamente dalla penna del Grassi autore di Vico e l’umanesimo. Per entrambi
i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi
moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma
comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una
Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a
cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma 2009, pp. 296-297. 180 Id., Desartes,
Leibniz e Vico, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, tr.
it. di G. Ferrara, Laterza, Roma- Bari 1981, p. 111-112 !
64! rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Il
Cassirer lettore di Vico mostra non pochi punti di contatto con Grassi che del
filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici,
poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a
lungo si è soffermato. Se Grassi esplicitamente menziona la presenza di una
logica della fantasia in Vico – in cui “il concetto fantastico e immaginativo
[...] cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione
diretta di una totalità pittorica”181 –, Cassirer si riferisce a Vico
indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione: “l’umanità,
secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio
razionale. Dovette passare per lo stato del linguaggio simbolico, del mito e
della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini
poetiche [...] in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di
miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere
fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun
oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata”182. La
breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un
interessante confronto Grassi-Cassirer che ha come scopo quello di mettere in
luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del
mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo
milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono
Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica
dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel “sostiene la tesi che gli
umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario
filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni
patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un
nuovo Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, cit., pp.
266-267. 183 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit.,
p. 35; Id., Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p.
209; Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi
scritti, cit., 255- 271; Id., Paideia e neoumanesimo, in Id., Primi scritti,
cit., 357-369. 184 Id., La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. ! 65!
metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca
umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre
una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il
formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni
della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal suo
canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione
degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono
rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo
in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la
manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione
dell’uomo”187. Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che “sin dalle prime
tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli
dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella
plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia
dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate,
Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e
per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine;
infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale
plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un
medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di “manifestazioni di un sentimento
umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che
compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo
antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in grado di enunciare più
precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci [...]. La loro
scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita
coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale
dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo” K. O. Apel, L’idea di
lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna
1963, p. 292. 186 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di
L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2003. La concezione di Jaeger la paideia
ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro
tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto “terzo umanesimo”:
“per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione
consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua
volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo
ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è
sostanzialmente una creazione dei Greci”, ivi, p. 517. La paideia greca ha in
effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento,
in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187
Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 188 Ivi, p. 14. I corsivi
sono nostri. ! 66! Infine, nel catalogo grassiano degli
pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore
italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al
contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce.
Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che
“gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi
argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che
abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione [...] in altre
parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un
determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli
umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di
dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo Grassi Kristeller “al quale
dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...]
valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione
platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo
Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla
filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il
testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente
dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo maestro. Eppure
Heidegger, come ricorda Grassi stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore
alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale
romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di
paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza
dell’uomo”191. P. O. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al
Rinascimento, tr. it. di A. Gargano, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 90. Afferma
Kristeller: “Diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo gli Studia
humanitatis non includevano la logica o il Quadrivium (aritmetica, geometria,
astronomia e musica), e diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia
humanitatis non comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte
dei giardini. Non comprendevano neppure le materie principali che si
insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la
medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la
filosofia naturale o la metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si
è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o
completo del Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato,
per quanto importante. L’umanesimo aveva il suo centro e la sua base negli
Studia humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia (con
l’eccezione della filosofia morale) avevano un loro sviluppo separato, che era
in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente
trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui
anche l’umanesimo ebbe la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e
indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo
significato, tr. it. di A. Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici,
Napoli 2005, p. 16. 190 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit. p. 35. 191
Ivi, pp. 35-36. ! 67! Dedicare un testo sull’umanesimo ad un
anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente
Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che
avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta
riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale: “il presente lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato
il mio maestro: anche il mio primo lavoro scientifico, iniziato negli anni
1929-1930 sotto la sua direzione e pubblicato nel 1932 (Il problema della
metafisica platonica) fu dedicato proprio a lui”192. Il magistero filosofico di
Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo
sollecitano nel giovane Grassi tematiche speculative che renderanno possibile
la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes
(1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy (1980), ma anzitutto in Heidegger
and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo
Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo
pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in
cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica.
Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la
risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende
qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente
[...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment
nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come
in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y
a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come
è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195,
ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193
Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F.
Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Mursia, Milano 1996, p. 40. ! 68! “non pone l’humanitas dell’uomo
ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo, che eleva
l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo
Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il
soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando
all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né
inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è
l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad
accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per
un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste
ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di
Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella
tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La
connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia
l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo
tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come
renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono
rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che
Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso
a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza
dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente,
l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere
[...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la
questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino
che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è
un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento
all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea
di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι);
oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo
dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.
56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.
! 69! al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo
oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico nel 1487,
promosso proprio da Pico della Mirandola199, e che è dominata dalla centralità
dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza
particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è
quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e definita,
chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo
non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema
posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare
indifferente Grassi che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova
in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico
importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo.
Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo
osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una
metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal
rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non
regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale
circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può
fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare
le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre
precisare, secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo
umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico
proprio la chiarificazione del Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p.
135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera
sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di Grassi D. Di Cesare in Metafora e
differenza ontologica. Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo
europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di
riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto con Heidegger, ma anche
nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella
Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore
filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che Grassi chiama
Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e tormentata rottura
con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura costituirà però il
vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua originale interpretazione
dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo
centro la metafora”. Dal nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra
Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non costituisce una svolta. La
prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo
espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la questione
dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del 1924, come
abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che intercorre
tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate fondamentali del suo
itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo centrale
ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70! significato filosofico
dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro
della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben
chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e
non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203.
Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le
questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni
polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono
di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una
visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che
le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad
espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo
crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il
disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile
di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del
reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo
svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le
scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un
interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205.
Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca
filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici,
politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto
originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi
sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso
grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una
serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il
coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti:
esaminate Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV,
Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi
umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205
Ibidem. ! 71! tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione
storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo
attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il
percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di
Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni
friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della
prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di
vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente
avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla
metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della
Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto,
ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare
declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La Lichtung in Heidegger
Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio
di etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus,
il boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso
ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux),
all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci
riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae
all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno
parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze
ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione filosofica della
Lichtung206 si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica:
dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di Resta ancora aperta tra i critici la
questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il
senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e
foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la
traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e
verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni
apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di
Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con
radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di
Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita;
Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici
significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso,
Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una
ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali
di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger,
Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani,
Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in
M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e
politiche”, Giannini, Napoli 2015. ! 72! pubblicazione di Tempo ed
Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e
significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla
problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein,
Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del
filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale,
nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel
plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a
partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una
articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv)
verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in
volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di
Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen
naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o
dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità
propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di
un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente
semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre,
l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione
duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che
contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota
caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di
significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività.
L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che
può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si
tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il
riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale
dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si
dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment
l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo
stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208
L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in
un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la
spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non
chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con
l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso
aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro
ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo,
tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165. ! 73! (ii) La
relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il
termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità
stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del
diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si
evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in
L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la
messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene
declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera
d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera
accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in
opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della
Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come
mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della
coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io
trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale
sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e
di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso,
come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di
manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del
soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha
più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la
condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci
all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica
esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere,
insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio Il termine Offenheit è impiegato soprattutto
in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente
contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come
l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le
quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente
“insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso.
210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M.
Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V.
Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla
Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976. !
74! omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione
dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi,
cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e
Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi
storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e
concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di
Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il
luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o
assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo
paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci,
apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera
innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215.
Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di
Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da
parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente).
La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di
portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa
manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si
pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il
discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella
dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il
Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto
dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco quel
“riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la
spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di
Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla
temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata
dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire
l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e
Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità
compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo
e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925
Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è
morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello
della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali
della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea
dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e
l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il
riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265. !
75! all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea,
con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto
fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla,
di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è
contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung
divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e
il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua
luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono
quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno,
radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano
in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di
questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per
acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica.
Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così
originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un
indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e
a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può
orientarsi? Id., La dottrina platonica
della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano,
Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che
è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è
metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso
sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e
nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit –
l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di
Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte
chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come
tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale
per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia,
cit., pp. 70-71. ! 76! II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la
proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e
che Grassi rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In
quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza
autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la
possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre
bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano
in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del
pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto
– che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della
vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico,
proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e
scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo
ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità
genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il
filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e
la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso
all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo
di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da
Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che
tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella
Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare,
portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto
del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel
quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione,
forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in
quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio
come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro
intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli
antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva
metaforologica originale che coniuga l’analisi
E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77! della
metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno
globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel
contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del
non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e
il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma
che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione
del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il
suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma
piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da
questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea:
si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung
heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base
dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere
al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota
linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della
Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi
rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung:
interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere
la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle
che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il
collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva
risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger
e Ortega di secoli. Id., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono
nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21.
222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune
intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti
importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità
di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932),
in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47,
nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si
sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere,
verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati
rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi
interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi
orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di
Lichtung, ! 78! Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema
della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi
degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer,
Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza
dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa
interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è
insistentemente impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua
di un ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei reso con la metafora della radura nel bosco,
e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento.
Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura
illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene
scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo
stesso significato della parola più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta,
rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset,
Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M.
L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella
metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa
come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia entrare la luce e la fa
giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una natura invisibile – per
questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero [...] il
bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in
cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è
solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63.
Vorremmo sottolineare come l’importanza della metafora in Ortega non sia legata
solo alla sua notevole capacità di espressione letteraria, a quella volontà di
stile mai disgiunta da una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice
filosofica molto forte nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna
guardare tra le pieghe di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de
pròlogo, Las dos grandes metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per
rintracciare un’analisi della metafora che travalichi l’ambito pittorico e
letterario e mostri una componente filosofico-conoscitiva e una costante
preoccupazione antropologica e non solo estetico-ornamentale della metafora.
Questa preoccupazione antropologica si materializza come è noto nella bella
immagine del naufrago a cui la cultura viene in soccorso come una “zattera”:
“la vita è in se stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il
povero essere umano, accorgendosi di affogare negli abissi, agita le braccia
per mantenersi a galla. Questo agitare le braccia, con cui egli reagisce al suo
smarrimento, è la cultura: un movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto
questo, essa compie la sua funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso
abisso”, J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla
felicità, tr. it., di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994,
p. 193. Spostandoci da una “pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria
sulla metafora” sarà possibile constatare che il tema della metafora svolge una
funzione fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in
generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano.
Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un
“tropo” di azione, una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che
si genera nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione
metaforica”. J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S.
Battaglia, Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso
è un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...]
così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve
intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la
metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46.
Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino,
Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi
in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La
vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y
Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e
linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a
cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico-
scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset:
La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2,
2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani,
A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007,
pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida,
Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A
proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di
Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G.
Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e
interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”,
Trieste 2015. ! 79! problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo
bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui
appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove
come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche
coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre
all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una
tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il
linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione
ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi?
Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale,
del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente
antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con
quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più
dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da
Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione
dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel
pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo
anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese
sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si
tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos
è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni
del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a:
“l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti
precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di
una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita.
Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad
una molteplicità [...] E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la
versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen
Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi,
Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo.
Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita
Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84. ! 80! è
radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria
tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque
nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento
alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il
termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos –
“assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere
l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che
costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il
periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo
[...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare
modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che
costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto
il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie
del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte
sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra
logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni:
Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera
univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme
di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio
sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un
logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il
suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo
del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un
nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla
logica del pensare, dell’atto E.
Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id.,
Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The
Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p.
97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 170. ! 81! pensante, che porta a manifestazione.
La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica
coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la
convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein
radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di
porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229.
La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è
quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto
fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade
la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare?
Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da
un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso
strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos
(poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività
dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto
interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la Lichtung
heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più
complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza
del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività.
Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale
per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo
esplicito negli anni della maturità), sia già presente nella produzione
giovanile riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività
e dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come
abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di
riferimento centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per
quanto riguarda il valore della parola poetica Analizzeremo in modo
approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo. ! 82! come
linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le
luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come
metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche
mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche
degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231
latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere
sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema
della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è,
l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il
primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio
razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della
Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con
il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e
significanza filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per
una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della
fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura
dell’“ultimo umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e
dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla
natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung.
Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal
caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione
dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella
foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo
antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola.
Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso
saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad
essa connesso Cfr., L. Amoroso, Vico,
Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di
Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla,
Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y
Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi,
p. 253. ! 83! – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo
umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce
nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi
rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano.
Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del
disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta
la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto
tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci.
Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano:
quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo
attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che
tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa
perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana
della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è
correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236.
Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per
Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica in generale e
non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia occidentale.
Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco delle analogie
tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è stato
ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di
rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa
interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio della grande
distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della metafisica e
di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno consapevole della
contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi
della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di
confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto
autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere.
La metafora che Ivi, p. 251. 236 Id.,
Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la
metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi,
parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp.
99-122. ! 84! Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di
Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella
dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente
la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel
senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De
Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come
quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di
Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il
vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e
pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio
infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e
finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza
di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo
cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione
occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano.
Perché dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico
un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema
che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio
poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al
Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al
ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico
quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza
di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo
Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per
il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung
heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni
rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura
innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime
città, quali tutte si fondarono in campi
G. B. Vico, p. 84, La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento
di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del
raggio di luce della Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura
femminile della metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della
scoperta dei caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per
intendere la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e
civile. Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239
Grassi, Vico e l’umanesimo, p. 194. ! 85! colti, sursero con lo
stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’
boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e,
conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre
bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale
sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di
apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette
in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e
del sacro. Il Vico di Grassi, antropologo delle origini, avrebbe attribuito una
centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo
comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto
originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche
linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e
sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana
secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei
primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo
alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della
storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma
diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del
contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica.
Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema
dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno
originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la
possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica
non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla
metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire
non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la
scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse
interpretare G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello,
Bompiani, Milano 2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni
antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem. ! 86! il pensiero del
napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe
poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La
questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del
“disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del
fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni”
che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato
il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria
heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e
l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione
della natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di
origine dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di
questa terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo
all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata
dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano
verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il
significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e
comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus,
il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del
termine vichiano luce Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di
interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e
Heidegger (1983) “nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua
alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella
storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale –
in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della
storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di
partenza per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico.
Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E.
Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 181. ! 87! ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il
significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca
fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla
metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il
concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli
esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui
appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta
(schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e
l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema
dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica
dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che
la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e
dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della
manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il
già citato Dell’apparire e dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si
costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in
cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non
in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di
progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene
per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la
metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti
ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua
filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il
filosofo milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera –
quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a
poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose
sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del
termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 –
Grassi si Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto
interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula.
Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde
dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità.
Dai ! 88! sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine
vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una
prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia
che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si
tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire,
della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle
necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno –
che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui
similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che
deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un
mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è
la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte
nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può
essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel
processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati accoppiamenti degli
eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che offrivano i
boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima origine quella
gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche, introd. Di N.
Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 524. Un’altra
connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e l’occhio di Polifemo.
Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che “abitavano in
spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da
lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di
prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero
quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è
luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove
c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit., p.
830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del
termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al
termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in
Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di
suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco,
venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione
nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno
slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il
senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare,
attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia
trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il
primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De
Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto
semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In
quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per
antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di
qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi
sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si
combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è
che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco
diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p.
203. ! 89! definiscono come problem solving254: si parte da una
condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano
strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero
creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto
la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo
stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua
identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che,
come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità
delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come
universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza
che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto
mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura
razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora.
La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte
“d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo
quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene
che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le
necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259.
Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico,
razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende
come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non
hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi,
semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem solving cfr.
il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed
euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare
arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem.
258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro. ! 90!
significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci
riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la
storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica;
mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si
compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della
ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere
dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività
all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario
– la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei
termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli
“invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione
specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della
comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica
– corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono.
Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit. ! 91! aprioristica scolastica – con la conseguente
attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano
essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo
medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia
aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere
concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del
divenire umano si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella
umanizzazione della natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il
linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto manifestazioni della
storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia dell’evoluzione
dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx,
esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti economico-filosofici,
sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-) il lavoro umano è
distinto da quello degli animali poiché è espressione di una volontà
intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx l’animale
ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che produce è
immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua attività
vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda definizione
del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il superamento
dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del lavoro è un
passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che diviene
realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa l’appropriazione
della natura a favore dell’uomo” E. Grassi, Marxismo, Umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo, cit., p.
83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1976,
Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 84. !
92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere
libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero.
Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in
nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha
una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come fattore di
umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è
rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della
giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il
cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della
fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico
considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due
fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a
costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il
filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime
connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare
un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una
teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269
Ibidem. ! 93! sia concettualmente monca e praticamente
inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il
superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa –
l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo
differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per
il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi
modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento
della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente
che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua
attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa
mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo
ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In
quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il
lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non
si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della
natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di
mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di
lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la
sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il
filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in
vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela
il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di
visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura
implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima
coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella
fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione
grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo
storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium
e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale
nel suo significato
Ivi, p. 93. ! 94! umano facendolo assurgere ad opera;
solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera
dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività
rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il
suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi,
dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta
attiva mediante il lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo,
la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è
altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria
oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la
natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra
progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è
un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae
di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre
immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale
attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di
trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del
pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta
strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato
ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria
che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non
come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione
dell’irreale, come pura facoltà della finzione, E. Grassi, Politica e
religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di
filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano
molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e
come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV
Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di
filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In
relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo
saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà
sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire
– significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e
leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.
! 95! come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo
caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa
e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il
referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La
fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro
è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della
natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce
dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si
ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del
senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il
senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo
ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come
l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista
fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo
umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il
lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della
natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277
Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi,
Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della
fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and
Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52. ! 96! Il
labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di
significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani
vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del
linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si
intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di
pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione
storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove
si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il
significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”,
che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a
“semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286.
Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può
asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo
centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di
Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger
qualche Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284
Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema
dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s
Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland)
1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93. ! 97!
anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero
teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle
origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288.
La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia
per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale.
Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che
Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo
schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur
ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di
radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica
all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile
l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale
identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero
della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per
la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare
oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in
volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori –
in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga
giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung.
Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento
dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il
quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo
come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in
Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands
(New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id.,
Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92.
289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p.
190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle
opere di Vico, cit., p. 86. ! 98! L’uso vichiano dell’universale
fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata
ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o
meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa
impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella
Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario
della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo
“dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione
dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli
universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi
termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto
fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una
visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura
contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia
fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo
coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto
alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli
universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo
di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo.
Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al
genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del
pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose
naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id.,
In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne
danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle
Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e
fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del
Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose,
ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o
universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali
tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G.
B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua
ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale
menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle
città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44
che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi,
dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si
poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’
lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII.
Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G.
Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178,
in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p.
54. ! 99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola
attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano.
L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella
quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di
fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura
afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole
[...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298.
Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima
teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la
fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con
l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il
pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una
nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera
decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo
umano”299. Quale importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo,
che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la
questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla
collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto
a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il
filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla
radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono
possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di
computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del
disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli
umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle
strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è
attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento
G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p.
251. 300 Ibidem. ! 100! della selva primordiale – che si apre
quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose”
dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle precedenti
riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della
Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa
concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana.
Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora
ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della
metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in
Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli
afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia
sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger
Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa
essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire
concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il
suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo
deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche
storicamente”E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi
scritti, cit., p. 258. ! 102! La ricerca grassiana si configura, da
un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi
degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di
quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con
Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce
a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una
meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema
della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico
dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche
successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli
autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come
Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger,
il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema
della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale,
affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti
ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione
due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo
compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata
dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture
dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire
“ontologia Id., Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p.
883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di
pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia
autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione:
“come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con
l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare
italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il
problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola
antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito
umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su
un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato
rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo
l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema
della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si
stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere
dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del
testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza
dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per
lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”,
ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle
moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito
delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della
formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo
sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi
tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e
soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium,
in quanto siamo esseri storici”. ! 103! fenomenologica semantica”
di Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della
manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello
semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel
fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il
valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del
contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda
comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici
su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e
dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione
e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza
della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e
della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare
un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma
rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che
sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico
gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza
ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della
Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come
esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza
della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti
saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza
dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In
quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che
trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata
delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi
cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo
capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della
questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E.
Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. ! 104! esistenziale
che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le
osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico
– l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi
dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana
sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili
dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse
di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività,
dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua
disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture
storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio
idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema
onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella
prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai
polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di
un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un
punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica
è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di
delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di
fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra
attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un
umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là
della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare
il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica
nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la
svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione
copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà
degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in
precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola
come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel
processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento
della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con
Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che
derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della
preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di
un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.
! 105! mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture
fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia
filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 – Max Scheler in La posizione dell’uomo nel
cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza
fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la
dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le
dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per
Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò
che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito
di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano
dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le
opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento,
l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le
funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la
storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura
di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo
“privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle
piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un
comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il
processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e
dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea
ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la
facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra
l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che
rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo
svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di
un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è
organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della
sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con
quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più
legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo”,
ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che
costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi
dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp.
27-28. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto
dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo
rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a
conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica,
passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge
dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante
nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una
natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si
appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso
forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo
utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il
suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun
fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al
perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto
mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio
della caducità”, ivi, p. 363. 311 Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca
scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il
suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze
positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più
semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo
la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua
indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un
indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della
percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola
latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile
proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere
determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un
essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua
sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di
caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua
“incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva
tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad
un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo
persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e
le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea
cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato =
originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico
(arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle
possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande
sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen,
L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp.
127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il
problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser
collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica
non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua
esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo
continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!
elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione
culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese,
sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico
all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata
soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso
l’analisi delle teorie degli esponenti dell’antropologia gehleniana è quella
dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri
del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio
dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve
allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una
distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt,
l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt. ! 107! della biologia
teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315,
Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla
confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 .
Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che 312
Hans Driesch (1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli
presso la stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a
Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a
Colonia e Lipsia. Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria
meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la
valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento
dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata
come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti
ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia dell’organismo (1909), Corpo
e anima (1916), Il problema della libertà (1917), Metafisica (1924). Di Driesch
Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita
organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto dal Driesch in
Philosophie des Organischen. Grassi, in Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane
concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di
fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale
valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge
oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea
che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in
filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto
empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche.
Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi come il Plessner –
che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una
costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des Organischen a mezzo
dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con
osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una
concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei
sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che
accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario
ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi
scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il
primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi
evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano
inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia
fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner,
scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne.
Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro
volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die
philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le
osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una
concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e
affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della
realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e
risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito,
ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente
ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie
filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono
collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea
di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano
di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più
diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del
Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos
Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione
istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. !
108! si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317
Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa
“si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318.
L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano
che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi
del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle
generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il
riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano,
alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica
esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto
appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e
Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione
dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia,
metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch
“presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due
pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio
del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che
senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella
metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza
l’attualismo323? B. Croce, Logica,
Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di
classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di
non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem.
321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli
di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della
scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi
scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del
saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des
menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt,
Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in
forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma
quell’identità di problemi tra attualismo ! 109! La “meditazione
diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di
Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore
milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della
storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui
scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente
storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea
(1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della
distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa
importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione
teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello
spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del
mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei
vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...]
l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella
molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La
psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta
realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si
realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e ontologia immanentistica
heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del
1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea
leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni
metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di
Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero
fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p.
198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle
osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll.,
Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica,
pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003;
Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di
conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico,
Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione
della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del
mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp.
153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp.
249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra
Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e
ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e
relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa
2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi
inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per
alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori
storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più
notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle
indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai
suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande
“Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che
Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in
modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai
suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi,
pp. 172-173. ! 110! passaggio auspicato dal pensatore milanese da
una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane
incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una
volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di
comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce
ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade
nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la
quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme
astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey
pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture
psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle
su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla
filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore
metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee
della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl
fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con
sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità
di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso
è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto
della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni
empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del
reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla
critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della
filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti,
cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di
M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea,
pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem. !
111! giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza
indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e
significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua
rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale
della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il
quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella
scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della
logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da
Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti,
sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea
come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si
isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve
costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze
logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse
a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La
fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame
intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e
pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti
husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè,
riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da
un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia
husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al
naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, Grassi riesce a cogliere in poche battute
tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un
fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di
raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il
nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni
altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere
trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni
giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di
molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così
o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso
come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare
il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315.
335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia,
Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è
caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta luce
sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”.
La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato
empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto
dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste
ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo
storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha
con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno
dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del
pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi
di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di
rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le
varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...]
la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è
sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che
non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione
eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma
si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia
diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica
dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica –
dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei
vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di
Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema
metafisico mostrando una certa affinità con i pensiero segnò un momento
fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con
maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più
varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p.
323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist
Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della
filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p.
223. ! 113! temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in
Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e
posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero
immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano
un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella
originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a
qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta
nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha
in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare
per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla
questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa
posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo
idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo
comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i
temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli
dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane
che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di
Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste
problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano:
ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della
trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica
perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso:
l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da
Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il
piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare
nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità
dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana
Grassi coniuga il problema Ivi, pp.
226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem. ! 114! della trascendenza, così
vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella
fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui
immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni
sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro
non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di
immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema
dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere
l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che
“gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come
una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto
originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come
ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger,
ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen –
che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a
favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della
filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera
autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in
Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento
autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi
umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta
all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso
dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade
la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che
l’analisi del Id., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!
contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la
cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi
problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel
pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica
tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del
linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale
del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada
l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res)
rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si
interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero,
ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione
fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e
non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza
tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta
ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica
astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i
predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il
perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al
contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della
res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite
e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non
esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle
[...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso
l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si
rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore
milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra
l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso
classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in
ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La
delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id.,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348
Ibidem. ! 116! grassiani, della correlazione di verbum e res,
induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della
fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia
un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione
nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la
trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il
reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice
rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere.
Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il
dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo
cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del
significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni
indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per
pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza
dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo
di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura
temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui 349 Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono
nostri. 353 Ivi, p. 15. ! 117! la preminenza della semantica
rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che
“l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein),
poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354;
essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che
appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il
linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio
primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva.
Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che
non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello
dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando
al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come
compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo
fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua
portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla
base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io
vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs)
esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in
questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il
singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto
scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora,
non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie
alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e
dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la
fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla
stregua di “unica espressione delle archai nel loro 354Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id.,
Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494.
358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 202. ! 118! carattere palesante e immediatamente indicativo”359,
profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft
kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non
citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La
potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli
conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di
immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della
metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto
ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua
terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che
“ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che
questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo
umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità
cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in
cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il
raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza
temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in
quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come
espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung),
che in questo modo 359Id., Significare
arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della
metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi, Heidegger e il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le
riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee
della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p.
165. ! 119! acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere
significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e
con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico
dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle
forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso
nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica
grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il
filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in
quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica
dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli
istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene
passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo
arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei
limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che
incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo
il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un
determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura
per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La
filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di
irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore
logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos
che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza
costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza.
Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira
a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter
dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La
messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema
dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e
oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a
quelli di logos, pathos 364Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma
della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id.,
Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203. ! 120! e
manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi
teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano.
III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia
dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere
non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la
contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema
già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema
dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione
originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere –
in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige
il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è
quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere
preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il
campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come
evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la
contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre
soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per
mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto
dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla
questione del logos in pieno clima
368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister
Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di
Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero
di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto
dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora
nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica,
costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una
dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza
quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo,
Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In
effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo
capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato
dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno
del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e
l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo
la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o
ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della
ricostruzione del cammino di pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che
mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la
tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in
riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!
attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica
linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina
storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto-
antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si
identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In
questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma
vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si
caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci
appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il
dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei
dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione
novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito,
ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si
parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare
successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una
radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una
radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione
grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza
dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di
un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle
morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di
coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza
del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del
dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella
dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le
forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale
unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla
caratterizzazione rappresenta non solo
il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il
manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E.
Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit.,
p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita
Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel
pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero
e passione ! 122! complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima
di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e
della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di
mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e
del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto
dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di
Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va
identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato.
L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi
di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione
dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con
Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore
(1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà
soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata
all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio
Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità
dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza
umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora
inaudita e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è
una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi
nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca
appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora
come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp.
89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene
collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione
del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo
importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta
dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di
autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo
confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio
orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore
assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della
Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e
coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la
possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma
la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed
irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del
dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva
dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando
una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta
nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni. !
123! metafora – tanto che Grassi giunge ad affermare che “il dolore è in
realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano
il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà
dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere
completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della
questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo
periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un
avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa
fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni
esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del
trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a
distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore
che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste
più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di
ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso
stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375.
In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal
filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di
Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però
a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del
reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale
importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo
sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per
interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore
si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla
riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i
limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del
dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni
contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni
appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico
Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem. !
124! di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta
nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di
Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria
formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni
germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti
pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un
desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico
non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare
quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il
riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del
pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi
orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è
animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente
dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia
posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere
un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione
onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la
questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della
trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia
heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere,
della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si
intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata
all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie
ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni
in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il
problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra
con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di
guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi
non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione
dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti
heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto
scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995,
pp. 292-293. ! 125! e gentiliane, ma anche la questione
fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana
378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla
Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del
movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a
creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi,
p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di
tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i
concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl
non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità,
nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti,
l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli
vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e
non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger,
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di
intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il
contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra
un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto
che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato.
Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma
non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di
questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in
cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che
l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la
coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo
maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo
dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia
dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come
possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il
nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere?
[...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato
nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito.
Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere
per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova
scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo
passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta
la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in
relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di
riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta
all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione
originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile
rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in
luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è
l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi
dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la
categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6
dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in
primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità
nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo
luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione
quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è
presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è
sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto
“l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p.
62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale
si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di
gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci
permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono
all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come
oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione
categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione
categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura
affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che
l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto
che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori
dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e
ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale
della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione
classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia –
avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”,
ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di
“immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e
nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”,
ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una
semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia
l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come
il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la
relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che
è il mondo. ! 126! Sarebbe un’operazione forzata includere in seno
alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche
Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei
metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di
interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e
dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica
all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il
ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione
ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della
manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero
non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di
un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un
manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse
il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto
[...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É
importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci
permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo
si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana
dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere
è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione.
L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente
correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della
manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una
messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato
inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva
empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa
concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza:
“l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria
verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga
veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza
non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama,
sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. Grassi, Il problema del logo, in
Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374. ! 127! La
contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come
l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe
qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che
si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi,
ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non
può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il
presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che
è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso
naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe
affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...]
l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della
svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è
cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381.
Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica
immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie
l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che
l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è
fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e
trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del
Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò
che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita
nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che
comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto
afferma Grassi che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più
essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul
fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene
originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché
si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda,
cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in
quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui
parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”
Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città
del Sole, Napoli 2002, p. 81. ! 128! III. IV. Metodo statico e
metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale,
quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa
unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo
contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la
verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico,
ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in
Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche”
grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della
manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima
esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema
di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito
della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è
coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo
il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo
sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della
manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il
testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza
ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per
tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il
suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in
polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il
rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una
interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se,
invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo
dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del
dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica
platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della
tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente
Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello
empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa,
quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito
avere alcun dubbio riguardo Id., l problema della metafisica platonica,
Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129! all’affermazione che egli
come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una
teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione
di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva
dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò
che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si
saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la
tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi
che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al
di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo
verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è
anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca,
ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema
del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la Ivi, p. 8.
385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto
tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non
abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle
altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta
quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla
impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano
appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di
qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e
apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F.
Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo
cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che
non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti
imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non
conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai
richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile
ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe
ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – ,
e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà
cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130! contesa, !"*-,
diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno
della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un
“secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos
– che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale
come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della
verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di
retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico
esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella
ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos,
fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo
interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo
oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza
del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un
ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà
storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che
portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo
interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua
capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo
rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una
domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento
dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca
comune Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390
“Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che
vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano
attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha
visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra
gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà
òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr.
it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”,
Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi
scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro. ! 131! positiva”392. La
determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella
nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il
ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la
co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il
pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio
in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà
attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il
fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il
fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni
possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore
metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno
interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi
ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo
anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il
ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la
struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente
aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza
autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di
domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una
)!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica
del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento
caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”
Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86.
394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la
sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere
che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si
può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza
dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica,
né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso
di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del
finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74. ! 132! La
fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di
pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della
filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i
contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta,
sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei
cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un
testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a
carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a
diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la
pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare
riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare
all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il
filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal
colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a
monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un
monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali
sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo
dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come
un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto
di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il
filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in
cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e
la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come
de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un
evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica,
esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità,
ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È
l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al
sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori, L’affettività del
colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I
temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo,
ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61.
Corsivo nostro. ! 133! L’unico metodo per il filosofare nasce
dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte
del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco
della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il
senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel
dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere,
che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso
della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad
espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al
concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si
dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del
colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi
di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali
facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di
Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del
dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione
e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende
possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione
metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da
sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità
teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica
percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento
linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del
linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori
del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo
nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto
metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della
metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, Ivi, p. 71. ! 134! incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma
è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un
sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca,
ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il
valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al
concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di
una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con
Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di
Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza
concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione
teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti,
dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La
determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in
qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di
predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos
originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri –
il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema
del nulla. III. V. La funzione metafisica di nulla e angoscia Grassi, in Il
problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un
processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché
ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal
nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere
determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione
del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377. !
135! determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea
di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta
si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi
e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere,
distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%,
logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in
quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla
logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di
logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come
oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il
logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un
auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il
manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più
originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti
concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso
tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in
questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la
filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di
guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che
riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di
manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un
logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il
nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione
filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a
cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo
significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a
relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede
Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla?
Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla
sia?”407. Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406
Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380. ! 136! L’importanza del nihil
all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente
all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo
svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi
ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica
tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i
motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si
manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere
al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico
– e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al
nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung
dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del
logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo
rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto
dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia
che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e
manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di
logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto
trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno
anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per
Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla
sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente
medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato
dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come
un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi
la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità
di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel
sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta
alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno I
termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli
usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del
1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in
Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia
viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla
nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329. ! 137! stesso
del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere
nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come
il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di
pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare
oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia
nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di
manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione
trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della
co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi
inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento
dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare
come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e
atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che
mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel
senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il
radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza
umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica
che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e
quindi verso la scelta, la decisione. In Grassi più che agire una temporalità
contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione
verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione
con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il
reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in
molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme
dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del
filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e
un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se
si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la
logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano
il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? Ivi, p. 329. ! 138! III. VI.
Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per
entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il
logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo
deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello
ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella
singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero
pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere
nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico.
L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è
sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o
all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della
nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza
ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico
della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno
dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica
il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro
cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza
patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale
manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da
esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come
essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione.
L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità
dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere)
e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella
sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos
dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso
tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti
precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su
cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413
Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in
Id., I primi scritti, cit., p. 329. ! 139! in cui è assente ogni
direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in
quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano
trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi
più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione
del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi
la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza
dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di
fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè,
potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe
come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa
consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei
mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di
Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo
corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di
oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito
gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano
ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro
corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a
ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di
umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al
compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di
fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare:
esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza
della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto
della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un
materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è
emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella
del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos.
Se Id., Assenza di mondo, cit., p. 226.
416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p.
147. I corsivi sono nostri. ! 140! il reale è processo di
manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos
capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività
autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale.
Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico,
tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La
funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti,
come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936
il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi
successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo
un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del
dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di
dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il
sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il
sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del
legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del
patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità
del logos. Qualche anno dopo Grassi sembra cadere in contraddizione affermando
l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del
pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente
non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene
riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del
termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del
pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione
delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una
modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È
possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza
dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene
esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si
chiede: “possiamo dire che il logo sia
Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I
corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi
scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri. ! 141! effettivamente
il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone
esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo
definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come
atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di
questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti
(aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa
come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella
svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal
convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime
sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto
della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe
essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto
l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e
così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto
razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può
venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un
manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va
contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa
logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge
un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria
importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente
altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a
gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di
intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la
superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo
modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente
piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che
però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo
pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo
interpretato all’insegna del concetto di Lichtung. Id., Il problema del logo, in Id., I primi
scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378. ! 142! Si chiede Grassi in
Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere
dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto
come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è
comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza
dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi
più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con
la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto
dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica
heideggeriane423. Qui Grassi individua la possibilità di una corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento
del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un
aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la
questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma
un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con
tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo
originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si
differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente
originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza
è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un
divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme
alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La
co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso
sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul
terreno dell’ontologia e della “Muss nun
diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir
als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom
Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr.,
R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die
Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit
vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm
unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der
Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit
prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines
Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit
Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der
Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang
des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra. ! 143!
manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle
riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und
Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella
seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425.
L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella
riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto,
in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori
dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della
correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento
dell’identità (un’identità Ha
sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit.
(p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di
Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori
del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e
quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo
critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della
distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come
Bollnow in Das Wesen der Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica
sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano,
insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo
Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza
del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è
riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia
il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di
ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di
forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita
significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in
manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica
della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che
converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un
rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle
espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia
teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia,
influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della
Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera
ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in
una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione
attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p.
137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è
connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del
linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza
dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts.
Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue
Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato
in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è
correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione
dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che
permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla
traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P.
Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da
cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra
maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo
dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che
tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio
abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine.
Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce
a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso
il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile
sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo
dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi,
Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I
primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di
pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi
(Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella
diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti
differenze sottolineate da Messori. ! 144! che contenga in sé
l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla
costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività.
Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del
pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un
oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre
aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate
oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte
all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al
nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che
cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un
oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale
stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto
d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il
filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con
la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede
se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la
priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con
l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?
In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che
l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un
oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema
dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che
si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li
trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame
tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in
un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il
dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue
da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade
quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di
pensare la coappartenenza di logos e pathos.
E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi,
pp. 383-384. ! 145! Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto
dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle
analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi
porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in
Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio
vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso
l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una
realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In
quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e
l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito
è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale
solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La
metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si
tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero,
cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma
è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un
momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in
sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come
“apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema
attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il
dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare,
porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale
che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da
sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di
conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un
dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il
vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua
identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione
dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per
il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e
non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp.
289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 818. 431 Ibidem. ! 146! che lo si desidera o lo si vuole. Perché
l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una
urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos
convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se
“solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433
allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale?
In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di
atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico
tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno
nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità
affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere
nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza
dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si
riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante
sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale
traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e
passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella
misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di
codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla
ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è
quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto
delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla
Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La
Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e
riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo
inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo
orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza
come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il
carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e
originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del sublime, pp.
917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio
del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri. ! 147!
dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che
abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio
cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno.
Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il
merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del
dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad
epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano,
invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere
in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo
il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica
del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti.
Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò
che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione:
“l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o
anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione
in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di
ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o
individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo,
all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il
reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso
il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione
istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi
umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la
politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In
ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno,
il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo
Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il
mondo circostante. Ivi, p. 846. 436 Ivi,
p. 847. ! 148! Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non
possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già
sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma
sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437.
Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il
buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in
cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei
distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur
tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse
sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen
del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di
ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non-
indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del
vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo
strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità
dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia
il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come
gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non
latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene
sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli
opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo
sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in
questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una
ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere
costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel
concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime
Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama,
che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico,
bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se
stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così
questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci
lasciano liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p.
1005. ! 149! Possiamo dare per acquisito che in Grassi non c’è un
rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos
si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti
sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al
tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il
problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità
che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto
unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo
si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una
realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla
fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo
l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere,
l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione
logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e
originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica:
in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”,
“uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità
antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà
mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal
filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento
(Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto
concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena,
l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento
è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano
visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena
originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale.
Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si
configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via
primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta
possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena.
La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della
veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento
originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma
dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né
una Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p.
1013. ! 150! molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità
che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la
scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione
filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella
sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà
del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il
Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario
dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile
perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua
automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo
della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica
esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale
umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale
elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del
filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale
nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo:
dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura.
Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività
(1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955),
Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della
manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere
(1933), Il problema del logo (1936), Il problema Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20,
L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119;
Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164;
Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147. !
151! del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del
pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo
visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere,
dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di
recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una
forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico,
ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme
dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema
attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della
differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione
della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come
esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento
dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso
onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che
si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio
sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e
Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di
mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i
maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII.
L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a
Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia
appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile I saggi sono raccolti in E. Grassi, I primi
scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce
gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita
Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra
filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica,
pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti,
cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G.
Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152! a questa affermazione
kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in
giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”.
Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se
si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e
immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere
l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla
multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle
molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame
tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento
neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo
che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni
sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante
di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di
rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà
sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente
un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447.
Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni
emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva
suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla
narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà
nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non
costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma
sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può
avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è
avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in
Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo
territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle
possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il
pensatore ha ragionato una vita intera, ma Le citazioni riportate di seguito
fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi,
Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a
cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto
tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg,
Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika,
Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine
Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982. ! 153! lì, in
Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle
Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce
e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne.
Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie
storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo
in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva
protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi
stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma
noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo,
di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di
impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso
si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico:
oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst
und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui
viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate
“non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte
quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto
con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe
Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América
latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il
testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und
Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e
ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi
pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo
Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia
del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America
latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in
“Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto,
nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento
alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello
studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della
sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello
arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con
le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G.
Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a
cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id.,
Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel
mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione
storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E.
Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici,
Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata
dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V.
Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in
«Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p.
104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154! de Ernesto Grassi,
concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso
mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare
un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico.
Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo
studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano
non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore
della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco
dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli
di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie
dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso
ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen
ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”.
El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales,
orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E
tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter
più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di
prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si
sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo
per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e
la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei
concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e
figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il
mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di),
Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con
Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie
ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in
generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della
biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner,
Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La
filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso
Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo
III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G.
Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155! fondamentali
del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al
concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di
mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci
sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni
processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la
scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che
sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del
terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie
alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo
spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il
filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La
speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai
nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli
spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi
noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di
generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di
mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi
meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce:
“assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo.
La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle
origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e
di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana,
che in realtà Id., Viaggiare ed errare,
cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251.
456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49. ! 156! si rivela
essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di
assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una
svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di
mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non
appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che
le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta
inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi
“la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente
[...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di
confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e
non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui
viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a
ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio
spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo,
come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad
un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo
costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla
natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei
quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione
(tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi
strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno
delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia
volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di
dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda,
e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare”
Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di
mondo, cit., p. 222. ! 157! Nel primo caso si tratta di una
situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo
nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo
è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale
divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita
delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza
della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il
regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni
orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici
nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in
questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è
l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un
richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza
siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra
dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti,
tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per
costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel
viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo
esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il
vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in
aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che
l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la
questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente
metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo
esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche
un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere
coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia
come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma
Grassi che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè,
potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe
! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002,
p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226. ! 158! come
destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La
Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft.
Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano:
teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del
libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e
historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las
relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los
contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento
storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano
forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca
contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale
sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il
suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve
storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con
l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo
paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia
in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder,
Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che
cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il
paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il
piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a
questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione
filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e
fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che
schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini,
a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della
filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se
tutti Id., Il dramma della metafora,
cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p.
80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173. ! 159! credono che
esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non
richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza
riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta
nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e
la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra
incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle
che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come
i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti.
Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il
paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore
significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica
di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con
l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la
cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia
cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que
remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la
confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el
Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales
del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le
sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al
nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale
quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza.
Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella
filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è
l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la
“potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a
Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò
che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica,
che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà
completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81. !
160! che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non
può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta
appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso
l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza
cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso
l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può
avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare
alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto
della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico:
l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra
Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a
mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello
europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con
mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni
che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e
immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –,
bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio
sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello
strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda
all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica
come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra
tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin
mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y
Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano
senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo
più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se
l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il
primitivismo che la contraddistingue,
470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G.
Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una
ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474
E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24. ! 161! non è ancora
stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia,
aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia
non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente
estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente
nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora
riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro
presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è
quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri
orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca
delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi
dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà
notevolmente diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena
montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il
vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza
Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel
momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva
ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove
prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un
essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in
queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il
caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può
essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo
di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la
metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di
possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo
con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione
onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la
natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione
di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della
storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo
percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la
ragione totalitaria, la ragione Ivi, p.
69. 476 Ivi, pp. 80-81. ! 162! frammentaria, inquieta, balbettante,
critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste
del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella
fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione,
e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto
Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo
geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il
Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si
costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica
umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo
itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un
senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un
significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che
possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti,
molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del
reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel
contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo.
Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di
retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il
Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico
e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto
confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano,
assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della
storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti
inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è
la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della
contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene.
Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una
realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel
nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !Cfr., soprattutto
E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il
problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi,
Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.;
Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit. ! 163! in prossimità
del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di
essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse
esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a
se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua
essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza
relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che
emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi
non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I
concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di
cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia,
che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi
“non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei
quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le
tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un
binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa
spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione
per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo
riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La
pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni
spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana
l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma
che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e
si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione
ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico
della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante.
Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si
distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si
precipita nello smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit.,
p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116. ! 164! Entriamo
nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto
rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente
appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità
“ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere
qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine
“di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il
trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta
riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il
Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di
un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto
impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è
possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione,
non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma
come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel
dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della
cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del
pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine:
perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo,
reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere
veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo
carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua –
imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487.
L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos
metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata
unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un
gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id.,
Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro
del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi,
Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem. ! 165! unica
espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente
indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi:
“di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più
luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora
[...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle
“meditazioni sudamericane” di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei
temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica
esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività,
natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto
il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare
sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica
grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario
categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e
il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo
dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di
un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si
carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un
percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in
quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori
nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte
esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei
nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene
allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio
nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della
dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le
altre due idee Ivi, p. 494. 489 G. B.
Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012,
ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
124. ! 166! centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i
concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il
pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è
l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il
terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura
dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di
decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni
sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla
distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di
apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la
techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la
esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del
metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca
della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca
di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere
ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione
in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo-
orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il
disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la
nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato
con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il
tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia
indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua
determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle
quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove
il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di
un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella
nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che
caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria
della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne,
cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem. ! 167!
un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e
circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza
di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che
segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del
tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana
quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung
primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel
quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo
soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta
fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si
identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza
dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma
che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova
con la storia? III. XI. I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due
gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di
partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che
“si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la
necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in
funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci
troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di
esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di
oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della
sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i
caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere
contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da
noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem. ! 168!
-! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato
constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante
ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi)
tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità
molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo
umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura
possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro
determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni
fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501.
Grassi riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può
apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non
dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso
all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo
entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi
come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa
oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la
risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo
ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema.
Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata
dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel
Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è
l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita
anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene
confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura
diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non
è possibile conoscere la natura nella sua interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68.
500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem. ! 169! ma solo
quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste
dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La
natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione
della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa
ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e
definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea
dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea
della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un
progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il
tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello
etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza,
del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento
dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca
di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di
contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore
italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi
primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al
riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma
bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri
progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506.
La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia
esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare
l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria
situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea
del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è
ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 259. 504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra. !
170! passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità
tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale
fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il
filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono
strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in
Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e
l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico
aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e
sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro,
presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione
del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo
dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva Grassi che
una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di
ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le
nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella
dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente
ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio
significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile
nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento
dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di
intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni
in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono
il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la
techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13.
511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14. ! 171! fondamento
del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come
strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo
corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza
umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle
quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto.
La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e
oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone
di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una
“semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario
che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice
segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità
umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento
primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione
tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo
superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale –
il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di
quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della
natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come
archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la
rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica,
filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con
i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può
realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e
se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo
il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518.
Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola
esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che
escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota
distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico
contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo,
cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro
la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p.
12. ! 172! giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza
di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale
ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando,
come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe
“mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche
capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come
realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo
olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande
interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo
umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo
dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice
dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle
origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della
retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica
antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai
problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola,
il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254. ! 173! CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ:
PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli
precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi
seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata
una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a
fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i
temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di
mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di
umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come
dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del
linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie
dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi
del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come
critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e
assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso
diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non
come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo
sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma
dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai
contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad
un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria
in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione,
come E. Raimondi, La retorica d’oggi, il
Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174! compensazione alla struttura
morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo
culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In
tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La
retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al
posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non
soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto
essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo
così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato
continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad
agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca
menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma
dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si
intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo
privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare
come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo
sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi
dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è
la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico
di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento
provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora
costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno
strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della
tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni:
la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come
oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione
retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso,
semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e
del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 242.
524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p.
135. ! 175! di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base
dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”525.
La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del
mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera
da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica
della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero
che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”526 pone in luce
come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è,
né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel
theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione
razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica,
immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi
retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico
Il nucleo singolare dell’opera di Grassi si rivela come una nuova e specifica
prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della
filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come
dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis
(inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il
Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto
dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y
Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194.
526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione:
la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte
nel II capitolo. ! 176! non riduce tutto l’umanesimo al recupero
del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non
platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza
dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola
poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo
studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità
storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la
questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che
riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis.
Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una
concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una
nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e
quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo
italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla
negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della
dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente
alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria
e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica –
fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi
nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché
“conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o
avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel
presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni
tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione,
decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del
presente”532. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma
che il vero umanesimo è quello che incomincia con Dante e Boccaccio. Contro
l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano dell’umanesimo per
Grassi permane attraverso i contributi di Vives, Nozolio, Peregrini, Tesauro,
Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione non-platonica ma retorica,
che resiste a quello Cfr., E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e
platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp.
259-260. 532 Ivi, p. 133. ! 177! spirito razionalista che la relega
nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il
punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto
all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico.
Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico
modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica,
caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et
nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti
universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale
invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare
delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua
funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533.
Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico
all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra
l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei
principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza
si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è
quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi,
alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi
conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non
possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da
qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una
ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta
grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario,
al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e
dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai
che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo
adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di
quella opposizione tra filosofia topica e critica. Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il
dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534
Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p.
97. ! 178! IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia
topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio
ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o
di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al
polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo
con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che
altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova,
Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione
optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e
ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare
critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del
rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico
di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero.
Grassi fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle
Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando
l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res
extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna
possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti
della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo
di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di
retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e
Tempo, cit., §§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e Tempo ai paragrafi
19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un
importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a
quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile
la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio,
nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica
come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della
metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum,
infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova
posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la
misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale
domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio
della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale,
[...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il
cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma
che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno
poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos.
Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse
scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione
umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di
dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico
una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della
retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il
problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica,
viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato
nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce
minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi,
Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. Grassi, Filosofia
critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico
e l’Umanesimo, cit., p. 25. ! 180! e ragione. Le questioni poste
sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo
vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione
del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della
dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di
impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica,
immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo
puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del De
Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè,
come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro
veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544.
Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali
parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà,
limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo
critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la
sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede
l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente
sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia
l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui
già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la
capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da
quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a
disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da
una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli
forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La
radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di
un’esigenza Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B.
Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi,
Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in
Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. !
181! di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che
mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e
scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della
filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto
perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire,
che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento
comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace
di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire
del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli
scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano
che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos
metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale.
Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è
dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma
è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza,
costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di
ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme
come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci
dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della
mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua
espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un
Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi
alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe
che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e
di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come
sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può
essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette
in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella E. Grassi, Filosofia critica o filosofia
topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. ! 182! della
coerenza549. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes,
Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di Grassi, ragione per
la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura
circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550.
Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga
storia della retorica, da Aristotele a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni
e Valla, da Vico a Nietzsche e Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le
ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo
contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire
nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione
pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una
riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico
conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore
conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e
coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere
metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo
predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di
partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue
implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la
dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello
razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e
non Mette in luce l’ipotesi dello
slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in Grassi
M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of
Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and
contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University
of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea
cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric,
Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento
dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr.,
M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica,
ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R.
J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly
Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of
Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through
Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the
circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”,
p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A
comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’
conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to
coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche
di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli
autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria
della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra. !
183! dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli
dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le
cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della
civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas
all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al
procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e
distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei
tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla
pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare
noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la
focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi
epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani
-! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana
in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in
quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come
essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo
dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi
temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta
l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni
drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare
considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo
contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma
scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico
tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la
via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo
logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso
l’individuazione del momento critico del pensiero razionale
nell’indimostrabilità dei principi. Ivi,
p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and
explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra. !
184! IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la
logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo
deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui
è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie
[...] ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A
fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il
filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè
originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può
avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele
– noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si
tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il
soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei
termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di
essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il
filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di
ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il
pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un
sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le
asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso
con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale
del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle
basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi),
pone la definizione di un E. Grassi, La priorità del senso comune e e della
fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and
Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976,
ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare
noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione
come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la
filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97. ! 185! fenomeno
riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di
qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere
provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito –
come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina
topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – ,
sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium
–come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla
phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che
scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo
della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca
nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di
episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo
in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e
l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso
la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria
della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione
deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera
dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni
indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica,
patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non
ha luogo nella sfera Ivi, p. 96. 558
Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id.,
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192.
“La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio
essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema
epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non
causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la
teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso
particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta
all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id.,
Significare arcaico, cit., p. 491.! ! 186! dell’originario”564 –
palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare
che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente
semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous,
dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che
presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo
logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono
tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro
proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope,
visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le
indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di
riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di
Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria
dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica
che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della
retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o
accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di
sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone
è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e
filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a
partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la
contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella
metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le
diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a
funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è
trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi
cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi,
Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto
Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History
Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote
in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock,
Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press,
1995. ! 187! allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità
del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare
significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso
Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla
messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica
di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato
da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale,
“quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più
generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso
autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio
speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della
componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso:
-! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso
retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano
le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è
il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero
discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è
indicativo. ! E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem. ! 188! Tralasciando il
secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra –
vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica
della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo
è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base
del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione
sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga
il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto
della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei
fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria
classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione
tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a
filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti
pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla
non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il
discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può
nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di
chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza
dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente,
nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il
pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è
una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione
fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo
il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai)
un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra
retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo
individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già
soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi
posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere
delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera
retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo. ! 189!
filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa
che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce
dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume
un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero
razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo
procedimento. La genesi della struttura del linguaggio razionale, dialettico,
dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se
il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova,
la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il
linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel
primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare”576. La
retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è
contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione
dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una
situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in
mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg “assioma di ogni
retorica è il principio di ragione insufficiente”577 e ciò vale anche per
Grassi che conosceva bene Blumenberg578 e che asserisce, con una sorprendente
consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero
razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova:
certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi
che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere
messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. E. Grassi,
Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e
filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg,
La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103. 578 Cfr., R. Messori, Le
forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz,
consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach. !
190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica
dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica
come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di
una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una
piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra
in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di
verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama
– l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo
solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in
funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre
carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni
indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale
als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale,
il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare
il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è
evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da
un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia
essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e
filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti
ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale
indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice
biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a
mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla
consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La
proposta retorica e Quella dell’uomo
ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità
e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora
“inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di
italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia,
cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri. ! 191! linguistica
del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno
per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione
abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con
l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione
s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la
soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo
dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui
questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo
dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere
è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte
rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze
che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad
una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a
pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come
verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella
sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa
appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio
dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali,
sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia
che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del
mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione
specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e
verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività
nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione
– quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in
quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non
esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da
adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non
isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione
reciproca e la connessione con C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato
dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E.
Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono
nostri. ! 192! l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e
annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel
linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento
che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587.
Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la
sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico.
Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone
un’intuizione di relazioni”588. L’essenza della parola risposa nella sua
struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il
trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi
sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un
significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica
il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone
un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da
un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto
quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una
riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti
dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di
evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come
certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro
sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di
persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo
asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza
[...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il
risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento
scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della
parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi
dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti
antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne
retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p.
167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora,
cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 165. ! 193! lunga “preistoria” umanistica
dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale
incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione
della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una
tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si
scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie
indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il
discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno
del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità.
L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo
antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione
metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto
di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento
tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un
sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una
Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva
ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come
si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della
logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”1 e per comprendere
questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie
che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione
politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma
paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è
costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso
come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una
retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono
subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi
possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso
di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea
istituzioni. Id., Retorica come
filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri. ! 194! La
radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un
aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico
dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante,
non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per
la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la
stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla
metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione
antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno storico “retorica” sia
privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella
storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della
conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi,
che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a
considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione
sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo
in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di
quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse
antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di
apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè
costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata
a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso
che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un
ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo?
In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come
si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del
logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della
conoscenza?” Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo
nostro. ! 195! Le domande che vengono poste riguardano tre livelli
della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà;
il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema
epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi
problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone
una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto
formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del
passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto
dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il
filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi
senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo
organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli
aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico.
Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri
segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la
realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le
selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale
simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica
“un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il
filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle
analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce
su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp.
180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181. ! 196! Dal punto
di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano
un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di
guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti
del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione.
“Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un
significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento
di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce
la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi
di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco
come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per
l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in
cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene
meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla
genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della
“comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio
si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui
vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi
immediati del mondo olistico e non problematico”604. L’esperienza della
frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico –
mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che
si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice
immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale?
Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o
prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601
Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem. !
197! IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre
rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per
eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola
gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il
loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la
dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos –
un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se
l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e
oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può
essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non
addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da
Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla
voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p.
185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in
Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp.
187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189. ! 198! linguaggio, in La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La
metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al
problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné.
Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II
libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi
del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura
metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio.
“Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce
(phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos
semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di
completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una
metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno
indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce
è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi
che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione
l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo
“è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato
e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la spiegazione
aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non
tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo
è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono
“ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna
considerare la mutevolezza del codice616. Come Id., La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima
II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia
della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43.
615 Ibidem. 616 Ibidem. ! 199! è noto Aristotele definisce il suono
come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in
qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile
che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e
il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre
tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può
produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti
della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo
carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre
risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio
l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce
al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che
manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia
voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un
suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici
schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il
luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito
significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi.
Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale
specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo
di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal
tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di
rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli
afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività
della voce (che traspone un significato al suono) si radica 617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b
10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere
animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza
si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita,
cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die
phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi,
Prolegomena, cit., p. 45. ! 200! originariamente nella
significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia
specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di
formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i
limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è
un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623.
Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una
struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del
reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa
esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste
il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione,
nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa
l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui
è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere
all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano
all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625,
del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo,
ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto,
ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro
agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio,
quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola
nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta,
aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la
spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce
quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi
è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi
!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità.
Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di
estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21. ! 201! della
metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione
della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il
filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di
ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si
chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un
mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628.
La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente
onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il
modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo
circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per
Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che
“alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè
di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione
non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che
appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile
una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa
ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La
metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica
nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale
analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi
della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come
fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora
godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo
una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che
“riconosca Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma
della metafora, cit., p. 14 ! 202! l’importanza dell’esperienza
storica”631. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le
falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale,
storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica,
come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una
metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente
descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della
metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo
a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza
un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare
il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un
fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione
etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua
portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta
alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io
vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) Ivi, p. 15. 632 Id., La
potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem.
Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr.,
sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della
parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del
Novecento, IF Press, 2011. ! 203! esprime in tal caso proprio
questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per
forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della
retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello
storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma
originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre
“la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza
dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno
che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione
delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638,
costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica
immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire
attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna
paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla
metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del
divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile
linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti,
Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione
storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein
La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del
linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio
da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come
trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., Significare arcaico,
cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia. Per una storia del
pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494.
639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204! emerge già a
partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione
del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della
manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione
metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile
dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere
affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che
per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous
“e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e
immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente
salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere
e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero
critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra
essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le
archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali
soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al
filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni
metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse
sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di
storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui
supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di
esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si
configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non
solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente
essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il
mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione
della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va
dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato
linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il
trasferire da un luogo ad un altro luogo e Id., Significare arcaico, cit., p.
494. ! 205! ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte.
L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un
altro”641. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una
modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta
di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità
umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i
congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella
semantica metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del
senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine
metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la
precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più
tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che
riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua
matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che
tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si
trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un
significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da
quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici –
l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo
dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono
contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso
interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale
alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una
filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale
perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico
soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si
mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora
sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla
filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641
Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id.,
Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p.
72. Corsivi nostri.! ! 206! guardare quella che per il pensiero
logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento
distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di
una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di
precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui
carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della
metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano
dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora
[...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di
elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che
si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una
metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una
feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e
va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro
giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica
del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della
riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora
grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo
che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora
un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie
aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la Id.,
Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico
e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora
inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica
dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti,
Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A.
Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385.
“A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso
della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a
quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di
rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè
esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono
sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime
contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime
procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui
il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto
di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice
regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso,
di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste
esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene
lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la
riflessione”. ! 207! funzione del codice. Per il filosofo occorre
“sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e
metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la
realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi
dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta
di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il
codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la
similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica
esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire
con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente in relazione l’eu
metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un
lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis
generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella
scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora
scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto
essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la
differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653
codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene
Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un
codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e
sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che
conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione,
scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654.
Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali !E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele,
Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74.
653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp.
76-77. Corsivi nostri. ! 208! fungono da paradigmi esplicativi dei
comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura
occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di
riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e
i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso,
soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore
attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla
metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi
portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione
tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde
l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede
“come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655
alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o
proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di
“visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione
del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana
indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di
un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o
l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente
l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica
metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e
sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere
calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei
suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi si mostra meno interessato al
percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come
accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta
sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo
della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene
contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del
mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che
traducono queste Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem. ! 209! prestazioni, la cui
funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il
dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di
metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo
strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a
rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica
parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge
laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res –
il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza
della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato,
necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir
sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659.
La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in
volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella
dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti
mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È
questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a
distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni.
Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano
a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale
dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di
Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è
mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche
del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere
verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di
erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la
phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri.
660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80. ! 210! passioni e
delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre
una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a
Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi
vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un
ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi
fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va
respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza
razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia
disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in
considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola,
come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale
all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve
essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663.
Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero
umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola
su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va
inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non
designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal
contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica
stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla
parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare.
IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico
individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella
sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso
esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto
a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su
basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica
intesa come argomentazione debole o Id.,
Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza
dell’immagine, cit., p. 242. ! 211! tecnica del bel parlare –
induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal
nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40,
Del vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo
napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero
grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e
costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In
Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico,
che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium.
Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera
fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come
a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica
vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà
di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il
filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano
in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere,
quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A
riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase
dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo;
è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più
vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A
differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico
il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è
legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e
filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel
senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che
consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale
capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo
umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi
scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di
E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo,
cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit.,
p. 963. ! 212! apparire”667. Conseguentemente la fantasia si
esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei
significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto
interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la
rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua
importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e
ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668.
É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano
linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine
poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico:
quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto
metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel
secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della
fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si
basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una
impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione
integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si
identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere
noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano
nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende
come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un
ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un
compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia
assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali
che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli
eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone
sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane, Id., Retorica come filosofia, cit., pp.
38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica.
La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come
abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla
Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo
e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella
filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p.
18. ! 213! abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle
inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672.
L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è
sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della
fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una
storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a
sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad
attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer
filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi
della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero
mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in
sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e
quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente
dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una
qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione
umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività
metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del
mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario
della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675.
Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a Vico, considerato
l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla
fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un
ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini
dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza
Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al
fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un
accesso che la logica tradizionale, con G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX,
a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La
potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E.
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze, 1967,
p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà
mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche
cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104,
in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina
2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676
Ibidem. ! 214! la sua ricerca rivolta esclusivamente
all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico
siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del
mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la
logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo
della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia
innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la
nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che
liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di
Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale
soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come
tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza
umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di
apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo
delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di
cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica
grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich
Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 –
l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La
questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella
dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo
di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare
non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo
aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia,
Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of
Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la
comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività
razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla
forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto
vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio
Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M.
Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e
della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680
Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono
all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del
mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e
talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto
alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di
produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della
realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e
dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione
del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il
suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio
vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma
pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena
conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo.
Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della
fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo
di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace
di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo
reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui
si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione,
per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare
il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta
l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto,
distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza
acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una
preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli
adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la
razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in
alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare
Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso,
Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 53 e sgg.!! ! 216! quella che è sempre stata considerata
l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei
fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente
fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità
umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli
enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di
minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo,
senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico,
sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase
originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è
fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia
sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte
fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”;
fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno
come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato
precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere
presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce
la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito;
dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della
ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia
all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende
per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici
interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime
analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le
definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento
della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione
dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua
tre significati fondamentali della fantasia
G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico.
Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e
l’umanesimo, p. 89. ! 217! vichiana: -! “nella fantasia e mediante
la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non
soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato
inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere
l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la
terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore
che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo
significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo
senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento
della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione
alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il
proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la
fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno.
Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono
la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza
Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano
attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune
e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano
il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli
elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire
nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane,
comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura
ritroviamo il senso comune Ivi, pp.
88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. ! 218! che è guidato
dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e
basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati
alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce
la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà
che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico
nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da
cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare.
Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso,
fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il
filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e
ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di
definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le
affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo.
L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio
dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale
l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una
rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra
essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della
verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché
usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la
facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto
indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo
intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa
corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua
capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo
“stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della
fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in
un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica
del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694
Ivi, p. 114. ! 219! una forza creativa che aiuta l’immaginazione
dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la
trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica
a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una
vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia
che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece
caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di
interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la
fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione
del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca
al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare
improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli
restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della
storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè
chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune,
o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la
fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia,
l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà
che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito
e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione
della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del
discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo
interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della
relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito
edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di
una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il E. Grassi, La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda
edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m.
Suhrkamp, 1990. ! 220! titolo Mito e arte in “Rivista di
filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento
originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il
lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva
di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella
misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta
allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come
interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi
prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale
atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni
che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche
filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non
originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per
Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello
dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza:
esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della
tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche
l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula.
Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei
fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva,
costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà
ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana
di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la
temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in
cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il
tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta
dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto, individua due significati
fondamentali del mito701: Id., Arte e
mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698
Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150.
Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. !
221! -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come
realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e
creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella
Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua
valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito
come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un
orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto,
mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non
secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce
nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene
infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece
si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702.
L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al
mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della
dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno
strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre
dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo
artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale,
religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente
distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità,
una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non
è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza
confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa
innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte
hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni
sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito
esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p.
159. ! 222! kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando
a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti
dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente
presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante –
l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza
sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà
frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori
del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e
non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come
l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la
metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan,
come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo
mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte
come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una
realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la
necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili
che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata
come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non
in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di
ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo
nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708.
Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria
possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a
chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto
ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di
produzione insito dell’arte. Ivi, p.
150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id.,
Arte e mito, cit., p. 92. ! 223! Se con l’emepeiria siamo di fronte
ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da
Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di
fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci
accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella
necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire
ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei
cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti”710.
La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un
mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il
progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge
per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile
attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la
dimensione poetica in Grassi è una forma della ricezione mitica, una forma
demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del
mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il
mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito
razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un
movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il
mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta
ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione
origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il
mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e
quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore
originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di
movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto
sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in
luce l’aspetto di Ivi, p. 90. 710 Ivi,
p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 224!
secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle
possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata:
l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via
di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare
della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia
dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung
dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e
Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi
due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del
disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte
della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo
orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da
Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è
soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo
umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione
politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso
grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione
civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani
e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos
della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano
le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si
concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica.
Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso
misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la
centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi
è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense
al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli
Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito
di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp.
61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64. ! 225! argomenti del piacere e del
dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè)
poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In
questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con
il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal
Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche
che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella
consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su
Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente
corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo
sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno
dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione
a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta
italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio
leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol
superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e
noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un
atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della
civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle
devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si
iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico
costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica
di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi
può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si
tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta
dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che
la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al
grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante
prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in
considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che
egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti
1922-1946. La lettura dei saggi risalenti
E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226! al
periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e
delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di
riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di
Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono
sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia,
di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione
nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica
esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al
linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della
tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una
questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo
infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a
sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota
come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il
filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma
con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la
parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il
compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò
essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla
scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si
legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e
con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente
filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo
non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì
dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella
parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non
significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì
sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung
mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in
discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo
il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni
rapportarsi Id., Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La
Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!
originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in
quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di
originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720
la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di
filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una
rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non
indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il
valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un
concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella
sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e
della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato
ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente
sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung
e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos
“l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione
abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo
sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi
chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse
sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il
poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si
impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello.
Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso,
ha, rispetto alla terminologia tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721
Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV,
Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma 1988, p.
166. ! 228! che si serve della espressione a-priori, il grande
vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724.
Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si
trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle
“meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi
della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima
volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe
sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria
alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si
mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della
possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge
la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo
possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo
l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di
realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui
l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti.
L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo
fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni
coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di
fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione,
ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi
fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in
mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del
precipizio”727. Ivi, p. 168. 725 Id., Il
problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti,
cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp.
217-247, p. 226 727 Ibidem. ! 229! A caratterizzare maggiormente
l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica:
nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un
significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che
la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire
il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo
concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano
dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il
cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo
(l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta
nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della
parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha
proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla
questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle
modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana
e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in
una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò
che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto
molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito
all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il
comune”732. Id., Il dramma della
metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi
scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem. !
230! L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario
che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce
Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il
trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione
– e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone
come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del
reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945
dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di
noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela
inaspettatamente come passione [...] poiché la vita è sempre nella sua essenza
impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai
sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte
della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è
pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza.
Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi
presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die
Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi,
Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e
illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle
illusioni Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale
come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p.
1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si
tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und
Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da
R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno, cit. ! 231! (1987)736; Der italienische Schopenhauer
(1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il
testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da
Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di
Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce
dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione
umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della
poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio
introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto
in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione
crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739.
Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati
Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico
contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla
scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che
ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo
conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina
antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di
illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del
Leopardi, Id., Passione e illusione. Il
principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in
“Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina”, 5 (1987),
pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma
nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita,
Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138,
in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di
Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le
affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver
asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre
intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma
che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non
sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e
A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal
Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica
marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione. !
232! così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione
nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe
essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto
quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato
sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta
chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi
pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame
tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo
Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non
sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania,
pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo
Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione
e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione
ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se
si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine,
di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco
inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal
momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo
attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come
illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine,
poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione
storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione.
Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed
esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è
al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui
Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico,
che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità
della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come E. Grassi,
Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi
sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?,
cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione
nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6
ottobre 1821. ! 233! illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale
il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della
ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi
alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello
della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli
chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa
con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria,
l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della
realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella
lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il
filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e
illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia
è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il
lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa
di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno
carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria
generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e
dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la
Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello
di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo
stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è
l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è
innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e
dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della
distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo
Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più
profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una
costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla
componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e
sulla E. Grassi, Leopardi e Freud, cit.,
p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160. ! 234!
Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di
patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e
di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la
noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non
possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto
ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si
mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora
anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere
nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato
di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e
dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della
manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di
patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente
scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del
mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e
del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente.
Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del
mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche
la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio
modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli
studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come
una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del
contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si
declina come ricerca sulle strutture del mondo umano. Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26. ! 235! Alla metafora
fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già
Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un
Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali
e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e
accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e
sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né
l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone,
privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature
storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un
accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica
latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e
della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole
per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né
ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità
trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di
donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in
Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi – e al suo maestro
Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757,
rivalutazione della poesia. Temi G.
Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno
originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco
dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come
vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è
significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè
divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i
detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non
si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o
a fare quella tal cosa o azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre
1821 [1745]. 754 Ivi, [1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi,
20 settembre 1821 [1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni
spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come
l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà
delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra
astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla
ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della
immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’
quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul
pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze,
sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto
che fare colla matematica sublime che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276]
! 236! fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo
proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata
come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si
apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica
delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il
pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione,
è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono
trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con
la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di
interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la
questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res.
Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola
(verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo
il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico
tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del
verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia
casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa
dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si
interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea
di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile
per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita
l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica
dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire
la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio
attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate
sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose
separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...]
l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione
umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela
nell’azione, nella e con la praxis”760. E. Grassi, Heidegger e il problema
dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione
della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760 Ibidem. !
237! Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma
esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa
attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e
di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande
spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo
(l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la
fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia
e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di
Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per
Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi
“attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi
dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre
differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità
con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema
lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che
il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione
concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora,
che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale,
universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta italiano abbiamo
una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica
e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca
la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà
fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una
Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di
manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la
trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il
reale. 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit.,
p. 33. 762 Id., La metafora inaudita, cit., pp. 45-46. ! 238! La
metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad
altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come
possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della
metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale
del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è
anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il
kairòs, l’istante giusto”763 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico
dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio
questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’
abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere
silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia
perché vivremo l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le
tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in
cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come
ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale.
“Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene
parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e
dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il
senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un
entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da
queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il
Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una
antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma
Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica
filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza,
“è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di
risolvere il 763 Id., Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli
1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit.,
p. 46. 767 Ibidem. ! 239! problema razionalmente, prenda atto
dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi
dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo
marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il
grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e
quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia
grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore
occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla,
Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua
prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato,
allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico
come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora
una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è
stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter
grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella
illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo
avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura.
Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna
Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza
proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un
pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da
Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene
ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una
epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline
al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al
fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in
cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione
umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b. !
240! Come è noto il plesso disegnato da Grassi di
metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente
poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che
sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo,
l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle
riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium
di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e
connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica
specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica
e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare;
fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di
trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica –
e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione –
concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la
storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si
rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale,
vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura
pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri,
collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il catalizzatore
dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi,
simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla
filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più
metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di
giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da
un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo
l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 –
che ha come oggetto il G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E.
Grassi- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20. ! 241!
reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del
mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è
metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra
un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di
epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può
trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato
da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo
di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo
Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso,
dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e
Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un
ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con
l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento
del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro,
della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è
una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua
Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza
dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta
dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito
contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e
l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano
dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la
natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per
lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di
fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico
come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del
linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile – Ivi, p. 30. 774 G. Leopardi, Zibaldone, 24
marzo 1821. 775 Ibidem. ! 242! l’indicibile non è altro che una
presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si
misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le
circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata
come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò
pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che,
attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così
poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione,
sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle
rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi
può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente
delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a
conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni
mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha
insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia
dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non
con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di
cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine.
E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit.,
p. 172. 777 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 243!
APPENDICE I Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das
Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro
concetto di natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla
radice phy (latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1
racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua
totalità. Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione
latina natura, il cui significato esprime quello della parola greca (nasci,
esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco
ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente;
tuttavia occorre ricordare che per i Greci il crescere naturalmente realizza
sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come
principio del divenire, sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il
concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si
costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei
fenomeni naturali muta e di conseguenza cambia anche la concezione della
natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia (sei secoli prima della nascita
di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è
pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo
con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico,
ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la
Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di
Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in
questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti
hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il
“naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua
contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa
considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una
scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la
sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone
già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza
dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si
arriva al grande progetto ! 244! finale della filosofia della natura
greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di
questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche
come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono
variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito
e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro,
si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo
abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di
entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo
alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come
una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi
Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico
aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si
perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come
creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio
autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura
caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto
quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i
filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della
natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale
partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed
esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova
concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla
natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto
specificamente moderno che per la prima volta con Leonardo Da Vinci assume una
chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura
e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura
tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se
questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di
partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad
essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella
sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e
delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue
capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo
corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale teoria di Bacone.
Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna
conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo
dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della
moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la
sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il
concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a
Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di
Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo
fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal
concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il
nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà
non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa
trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema
del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso
dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo.
Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la
terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno
una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza
di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle.
La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni
pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla
terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine
del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium
coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la
Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al
Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione
anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma
soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere
finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia
tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo
che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine
solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il
problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni
sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246! esperienza della natura, si
riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo;
categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà
necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore
della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua
libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui
oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di
esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra
più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia
post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il
modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale
della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente
una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il
materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga
durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari
passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso
di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un
punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma
in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque
restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua
ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei
fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena
qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del
sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei
nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del
vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo
arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui
scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto
calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della
percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama
l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si
trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina
in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi
permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247!
APPENDICE II Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im
Denken der Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp.
125-138. I. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di
un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una
lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro
autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno
è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un
lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale,
in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i
parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera
strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di
Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento
qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per
questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo
della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si
tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato
filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi
che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui
argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma
per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre
se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava
disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su
Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è
fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente
sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli
umanisti italiani si sono B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B.
Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo
decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di
K. Vossler, Leopardi (1923), tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. !
248! arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino
all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti
fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della
filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro
applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi
gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo
la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla
coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte,
conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma
insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame
concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa
dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo
si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia
umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono
alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo
l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania,
la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata
condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una
pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica
della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e
sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica –
che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e
precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa
discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una
comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta
proprio della relazione Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie,
a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia
della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569].
781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische
Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986
[E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L.
Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question
of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N.
Y. 1983 [E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C.
Vasoli, Guida, Npoli 1985]. ! 249! tra Schopenhauer e Leopardi. Io
farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la
differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di
Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un
metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di
Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha
notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza
filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione
quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente
pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente
con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo
italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia
capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann,
sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il
numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha
sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i
livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer
possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori.
Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra
prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e
l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della
ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle
passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. Grassi si
riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi
che trae origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di
Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista
contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici
(1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id.,
Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr.
454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A.
Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota
220]. ! 250! I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono
dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era
destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo
originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo,
per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa:
consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o
agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve
nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con
il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era
tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si
accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla
traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di
Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura,
criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà
sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i
sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato
filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare
e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un
fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la
ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui
perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace
di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa
saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita
umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e
dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche
l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da
esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non
solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché Grassi fa
riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der
modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem
italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G.
Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251! si manifestano, e
giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali,
delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da
questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza
sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e
spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche
l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari
dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le
possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è
certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una
distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla
ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più
ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e
continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella
rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si
esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è
vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella
cresce”790. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni
passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da
oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di
conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del
giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita
politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo
sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile
concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a
una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che
analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo
occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata
proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è
allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito
della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche
nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei
costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati,
laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle
grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli”791. In un
mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non
anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma
già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto
può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna
opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità
della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa
con calore che si faccia per ragione e non per passione”792. Per Leopardi i
concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto
profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione
è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura”793. “ Qual cosa è
più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né
pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se
anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794. In che cosa risiede la potenza, la capacità
della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi
riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce
l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così
sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita,
che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare,
secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che
mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è
il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma
Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente,
dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di
distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è
meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della
vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti
dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui
odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza
un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire
deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire
l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e
la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello
sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a
riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà
in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto
stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia,
la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti
attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e
senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto
alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione
di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che
non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di
suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né
speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo
stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale.
Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione,
dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere
insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere
della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre
il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita,
anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e
quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta
immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è
sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma
piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi
sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e
nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li
rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il
fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché
credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci
rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore
di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E
dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo
un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva
attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione,
presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun
sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non
davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri,
mettevano I dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli
stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non
dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da
questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale,
non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla
certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo,
dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge
da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre
siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica
la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello
oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone
l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine
esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo
non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare
impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi
sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa
feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica
che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni,
ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su
quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già
spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili,
solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi
passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora
quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è
razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo
sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi
esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono
la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il
significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano
il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor
della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor
dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un
corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle
nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo
l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali
a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le
belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci
tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV. L’Illusione Allora
dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi
la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il
teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione
di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori
accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è
spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere
riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è
generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni
grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai
nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra
nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della
storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al
quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione
irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento
dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per
questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della
legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela
il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca
l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per
interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la
storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la
natura: (seguita però a Ivi, 7 giugno
1820. 801 Ivi, p. 100. ! 257! dovere) essa ci somministra le
illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...]
le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce
pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta:
poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma
di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi
rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria
dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta
in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni,
dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza
(che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie.
Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi
vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto
noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla
cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’
pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel
giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi
diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non Ivi, p. 34.
803 Ivi, p. 96. ! 258! mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804.
“Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le
illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la
natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è
categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena”
della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel
quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che
l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il
ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come
ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la
ragione di ogni Ivi, 24 marzo
1821. ! 259! grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione
storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché
questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei
singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è
generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande
azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene
ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché
l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e
distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione
dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al
contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di
“scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione
della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un
ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei
singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura:
(seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel
loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura
inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è
snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e
dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in
cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella
di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è
portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più
intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa
di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro
del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto
emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un
lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso,
dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da
nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in
quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è
dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò Ivi, p. 34. ! 260! che è sempre
uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi
parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione
quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a
che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal
fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par
veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare,
tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola
infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che
tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo
presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale
circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e
dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che
altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era
allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una
indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò
che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo.
Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della
ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e
sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi
in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia
che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò
non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che
agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di
esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama
illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti
dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando
questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad
equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni
nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi
illusioni, i 806 Ivi, p. 96. !
261! popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno
finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a
perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza
intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro
che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto
è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre
più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non
abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento
smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i
nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno
posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge
una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la
conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è
tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo,
non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure:
la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non
la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire
e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo
riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il
destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo
dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo
verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o
differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di
Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano
radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente
viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere
Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato
della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer
– alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere. Ivi, 24 marzo 1821. 808 Ivi, 18-20 agosto
1820. ! 262! APPENDICE III Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das
Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und
deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La ricerca della verità:
il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43. Oggetto di indagine
filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento
del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos
sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento
successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità
che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un
determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può
presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il
concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica
partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può
che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non
può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di
verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine
filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere
la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si
conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo
dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre
momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del
prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che
presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai
cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai
di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad
accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo
che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una
conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà
ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe
cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin
dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel
dettaglio ci si accorge ! 263! immediatamente che essa in realtà fornisce
già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al
quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come
punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la
verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza
dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è
già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo
sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio
dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito
dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito
in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al
Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e
non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene
identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la
possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità:
la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non
ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad
interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione
di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di
verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il
proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per
analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica
essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come
pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di
Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi
(secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del
pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e
predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò
che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è
doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della
verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto
oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si
trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza
del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del
fondamento della verità ! 264! in una tale concezione deve essere
necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal
fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico.
L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti
realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La
semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più
approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così
come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che
rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come
della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla
sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa
non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di
semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico
o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale
non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con
l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si
richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo
Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento
concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa,
con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere
ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in
questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso
considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e
attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità
di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un
processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della
semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi
in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il
processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la
terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del
dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se
il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta
allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto
non lo lasci ! 265! inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma
bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non
sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo
passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così
com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro
che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre
rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile
escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire
dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero
puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci
trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto
che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a
noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico
della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la
verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un
oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per
un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una
concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per
una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di
un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante”
porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che
riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né
cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo
o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della
verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento
della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266! oggettuale, simile
a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile
un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento
del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di
qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del
concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo
assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di
qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse
su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le
difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del
manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un
avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene
dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi
deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il
processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire,
è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è
un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo
stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per
quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di
scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la
conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della
conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la
prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che
nella logica tradizionale l’essenza della ! 267! verità è stata ricercata
nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue
forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si
mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come
l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa
ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque
evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche
se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità
fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è
oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un
qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare
una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà
fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità
nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa
può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità
oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero
inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita
da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo,
motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di
conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria
della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere
fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo
sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione
del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due
pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e
soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che
mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro.
! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58 Non dobbiamo perdere
di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di
un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso
solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve
essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268! Attraverso ciò siamo
poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del
manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che
non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci
sulla base del significato originario del termine. La questione circa la
preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé
né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del
completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di
svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come
sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal
quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale,
nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger
neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla
mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della
logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico
dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del
pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il
fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se
abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame
originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo
Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per
poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere
manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non
è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa
primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento
determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della
svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente
a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il
dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la
possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale
ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema !
269! innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta
alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta
rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità
è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione
(anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere
dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza
originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità
o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La
stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque
alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa
non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è
stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità
ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui
natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione
dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la
concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un
esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i
principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del
domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un
determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la
conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine
scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle
singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal
momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata
precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi
spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto
all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi
l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza
fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di
riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la
risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che
è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente
ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione
d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente.
! 270! Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del
suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno
dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi
dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e
molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e
per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la
separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza
ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al
manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara
che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della
verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò
si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto
e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più
ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria
dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante
della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza,
che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica
che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo
laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non
inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente
basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione
di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì
come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come
un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro
affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento
della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine
mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una
concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa
di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla
precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava
origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza
ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento
della svelatezza dell’Essere ! 271! rispetto all’Ente non sia che
trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica
lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere,
tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi
atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò
che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine
fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato
separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della
differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla
svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità,
in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è
nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea
Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra
l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui
e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si
manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una
qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò
permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e
disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così
fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne
deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli
Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo.
L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si
realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso
qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa
che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato
ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo.
Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per
mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa
appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché,
terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger.
Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come
processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la
comprensione ! 272! della necessità dei tre modi nei quali è insito il
fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La
possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp.
110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica
dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di
leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di
un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del
relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò
non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa
del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo
atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma
soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di
soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma
esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il
risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa
è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe
portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di
Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad
appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora
modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo
del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il
fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla
verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale
da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe
essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo,
dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno
l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il
processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto
l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa
essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una
condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un
rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273! fondamentale
processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del
pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e
che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione
per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale
pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa
teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque
questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri
sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa
che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma
non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato
generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una
conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità.
Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o
fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione
vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le
opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di
false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e
il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del fondamento
del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In
precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come
tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora
piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire,
il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo
elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della
differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi
del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato
un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento
alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un
qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento
originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione
dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come
momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa !
274! il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo
ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso
l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi
sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos
come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e
dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein
assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova
nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare,
riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può
apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato
ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità
di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità
di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che
esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella
parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa
attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa
necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di
problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una
determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal
pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo
precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del
filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato
che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto
della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella
del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra
interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti
avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme
di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e
l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica
nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente
trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il
carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un
interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella
necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza?
Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275! alla parola, alla lingua unicamente
la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far
notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate
sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel
momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza
ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di
affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del
manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo
quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e
dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero
se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un
tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è
definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad
esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo
sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli
alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si
presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se
il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza
delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare
l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò
Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare
definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra
posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte
nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli
assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il
problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno
solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di
Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo
se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi
dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella
contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano
ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte
hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la
filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio !
276! significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi
dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è
alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone
alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della
filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica
tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e
che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo
quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in
quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento
del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema
ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione
dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a
discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se
il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così
com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del
fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima
accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”;
“Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il
compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di
custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita
unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto
“Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi
dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la
differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola
nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così
come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque
ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta?
Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello
sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo
prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è
innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata
spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto
proprio da questo punto ! 277! di vista. Dal momento che la discussione
heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un
poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto
di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che
l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si
evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base
della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa
riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza
dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua
essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione
non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di
umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve
testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione
risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di
uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere
dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque
inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da
compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione
della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger
l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza
non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e
realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza
“dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin
“intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo
riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene
attraverso la creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e
dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa
coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però
intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo
questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza?
Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo
come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò
ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una
qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si
lega alla parola). Il ! 278! mondo che appartiene all’uomo è solo il
mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si
appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio
mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo
mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi
dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe
sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di
denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del
significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta
l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che
l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto
la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è
lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di
manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola
acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola
pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità
di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente:
parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del
termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e
nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in
termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva
e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non
presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a
posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene
per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere
così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal
presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera
donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria
manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così
come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come
libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul
suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da
intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere,
nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però
solo ! 279! sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale
possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella
propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come
afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e
dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo
nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si
realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica
dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che
deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza
della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo
primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a
riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli
scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi
ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né
argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione
particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi
manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema
determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica
e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si
differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale
importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel
suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia
potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione.
Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza
del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta
essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del
Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso
ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un
certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78),
per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza
ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della
comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento
si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la !
280! sua essenza sia trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque
fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì
lo rende possibile (pag. 81). In questo modo, come abbiamo già fatto notare in
precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di
un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche
sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il
più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di
Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle
parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa
identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in
poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto
consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente”
(pag.7) e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola”
(“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza
ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma
qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata”
(pag.14). Heidegger afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo”
(pag.7) e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente
come “Ente così conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella
sua essenza è comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del
fondamento”, pag.77), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato
all’Esserci e dunque possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della
differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua
essenza creatore di mondo” (pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo,
manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come
fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale)
e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse
alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della
verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora
appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato
ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale
lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il
significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema
relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra !
281! indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o
meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri.
Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti
heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via
sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come
svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del
fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle
diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta
dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si
attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento
ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione
di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone
come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione
circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera
critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la
necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali
questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla scia del
pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince
anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato
essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo
però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si
oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del
manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli
afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto
attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato
ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del
manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo
con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista
empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto
originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del
pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si
rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli
la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282! momento in
cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del
giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di
soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità
(dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la
fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia
dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si
fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che
si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro
il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del
pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione
principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del
manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che
le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione
opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia
possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia
come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il
senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione
metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema
dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e
della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità
separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il
rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento
dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in
cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza
(ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così
come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale.
Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza
come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone
la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio
fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza
dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: ! 283! l’ineluttabile
necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza
che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del
fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche
la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa
conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si
riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla
conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è
fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge
l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo
cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora
a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle
diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si
limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni
differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua
origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il
presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci
se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione
all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si
compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi
di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di
apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone
l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un
mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa
nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il
dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione
poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle
differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal
pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante
essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo
dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non
può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è
altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi
se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla
necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa ! 284! misura
il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti
come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si
manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere
ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta
capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed
esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto
poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per
questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in
un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede
ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che
è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il
processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato
vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e
romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di
manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico.
Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da
qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale
dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il
pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e
mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può
giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità
possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità.
Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità
che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che
si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il
poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore
ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un
momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci
siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere
distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da
Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del
manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e
possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti
chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e !
285! immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle
forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità
della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque
manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento.
Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta
originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben
determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è
solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince
anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una
qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale
di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un
futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire
e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed
errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come
anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza
dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della
fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema
dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia,
Modena, Mucchi, La filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi
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proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in
«Rassegna Nazionale», Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in
«Rassegna Nazionale», Roma, Il Tragico,
in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli
di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna
nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna
Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano
Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della
fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente «Giornale critico della filosofia italiana»,
Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo
«Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di filosofia»,
Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze “Paideia
ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia», Napoli Logo, in
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italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico della
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historia, politica y cultura, Penguin Random House, Bogotà 2016. Ead.,
“Meditazioni sudamericane”: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di
Ernesto Grassi, in “Studi Interculturali”, 1, 2017. Ead., La realtà umana tra
disvelamento e fondazione: l’incidenza di Vico e Leopardi nell’antropologia di
Ernesto Grassi, in cds in ISPF Lab 2017. Ead., Il ruolo di Platone
nell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi, in cds in A. Muni (a cura di),
Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina mentis, 2017. Ead.,
Traduzione di E. Grassi, Der italienische Schopenhauer, in AA. VV.,
Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper, München 1987, Lo Schopenhauer
italiano, in cds in “Archivio di Storia della cultura” 2017. AA. VV., !
Ernesto Grassi in München. Aspekte von Werk und Wirkung, Atti del Convegno
svoltosi a Monaco, il 17 settembre 2014, in cds per l’editore Fink.Ernesto
Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora, Vico, Ovidio -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grassi e Grice: il Vico di Grassi: metafora come implicatura” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grassi – dove fiorisce il limone – filosofia italiana – la giovinezza e il
fascismo – parole ai giovane – al senato -- filosofia fascista – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Mascali). Filosofo. Grice:
“I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il
seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania,
presso il liceo "Nicola Spedalieri".
Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe
Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità. Si laurea a Napoli con “La memoria delle
immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di
"fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si
trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le
prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche
della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le
alte aspirazioni della sua anima. Muta bruscamente
indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la
laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro,
che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna,
era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie
ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano
nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente
influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure
come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo
e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei
fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e
Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti
Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato
Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò. Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri,
anche M. Sgalambro. Altre saggi: “Preludi
a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla
vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della
ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione);
“L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De
Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”,
“Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di
Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;
“La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”; “Il faust e il tramonto dell’occidente o di
una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro
della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Un filosofo
dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi
la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita
psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo
(rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo
(Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.).
Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il
neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal
mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. Il Grassi esamina le teorie
metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il
monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o
all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità
primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di
rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera
indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e
sempre più distinzione.Cosi Grassi si connette a due psicologi italiani
insegnanti nello stesso Ateneo Patavino , ma purtanto dissimili: Bonatelli e Ardigò,
due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia.
Un'osservazione critica. Grassi inserisce molte citazioni originali in tedesco,
il che (oltre a dar luogo a gravi errori di stampa) induce fatica inutile
nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco,
massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust,
il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosa mente. È upa ostentazione
di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche
insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato
di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col
cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No : si citi
pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano: la
chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione.
RENDAA.,Ladissociazionepsicologica. Torino,F.lliBocca,1905. La
dissociazione,dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa
non soltanto associa,ma pur dissocia,poichè «distin gabile competenza una
inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana;tutt'altro!L'argomento ,
ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia ; egli era
stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie
parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, il
Grassi parla anche di alcuni scrittori darii,fra cui Ward,Ebbinghaus secon
giovane , Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche
nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e
forti, al ,e noi pari del presente volume. Va Uu op.in-8.°,di pag.200.
598 RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia” L'opera fu scritta in tre
momenti successivi: l'Urfaust, scritto tra il 1773 e il 1775, influenzato
dalle rappresentazioni del Faust di Christopher Marlowe a cui il giovane Goethe
aveva assistito sotto forma di teatro delle marionette (vedi Dottor Faustper il
personaggio storico). L'Urfaust appartiene culturalmente alla corrente
letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune
aggiunte, nel 1790 sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi
(1808) pubblicò un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria
del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte): viene
aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative
all'Urfaust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un
attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai.
In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama
di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo
sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa
conoscere la giovane Margarete (Margherita) - detta Gretelchen (Margheritina) e
Gretchen (Greta) - la quale si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole
del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro
che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita
sarà tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte, 1832) la scena si
allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico:
Faust seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso
risulta di 12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, trad.
di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino, Le Monnier, Firenze, 1857; Fausto,
trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano 1882-83 e 1905-06; come
Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico,
Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad.
di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima.
Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le
Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni,
Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E.
Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol.
I Versione, pp. 326 + vol. II Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione
critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda,
Mondadori, Milano, 1932-45; Collana I Classici Contemporanei, pp. 774,
Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas
Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana
Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN 978-88-17-06698-3. Volfango Goethe,
Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il
"Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a
cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET,
Torino, 1932-1944 Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma,
1933; come Il primo Faust, BUR nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il
secondo Faust, ivi (BUR n. 339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo
Errante, 2 voll.: vol. I pp. 310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze,
1941-1942 Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro,
1942 [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi,
Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte,
introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana
Straniera, pp. 424, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e
prefazione e note di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino,
1950, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases, Collana NUE n.53, pp. 377,
Einaudi, Torino, 1965, ISBN 88-06-00331-3 Faust, trad. di Giovita Scalvini,
Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi
documenti, pp. 179, 1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe,
a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana,
2012 Faust. Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di
Giovanni Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459,
UTET, Torino, 1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana
UEFn.500-501, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I
Classici n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust.
Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust,
Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte,
pp. 1180, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN
978-88-04-08800-4; Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano,
1980-1987; Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 -
Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5
Faust, a cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M.
Veneziani, pp. 592, Schena Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2
voll., Dedolibri, 1987 Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno,
introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri
della Spiga, pp. 1462, Garzanti Libri, Milano, 1990-1995 ISBN
978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero Chiusano, Collana i grandi
libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012 Faust. Testo tedesco,
traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio
Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V.
Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust, trad. e note di Andrea
Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi,
Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le Lettere, Firenze, 1997 ISBN
978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta,
il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with calling Grassi an Italian
philosopher. For one, his selected essays were published in Sicily in a
collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi.
Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai
giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Grataroli – sulla memoria – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Grataoroli, the Pope called him
‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of
the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do
Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!”
–Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città
di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni
Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei
terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di
Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di
"phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di Grataroli,
fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di Grataroli,
Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni
sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa
fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi
per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo
nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la
fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo
busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della
memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e
veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per
la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il
mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un
saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai
viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda
ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel
peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De
literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque
valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae,
citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero
arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant,
artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis”
(Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano
Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a
Freud M. Meriggi e A.Pastore, Le regole
dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo,
Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo
Grataroli filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e
delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie. del Rinascimento, T. Bottani e W. Taufer,
Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, G. Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica
Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua
& cer- ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt,
aut Jìunt , krevìter, & dare, ordine que alphabetico de scripta
per Gulielmum Gratarohun Medicum P/iy/i- cum y cuni Addinone undcam
fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo . Basilea? apud Jacobum
Pareum in 8. Ibi- dem apud
Nicolaum Episcopium in 8. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum
. V opera indicata , con le altre due » De Memoria reparanda
t e » De Prje- diclione morum » > si trovano unite tiell*
accennata edizione di Argentina alli Trat- tati di Chiromanzia , e di
Astrologia natu- rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto
Certosino del decimoquin- to secolo ? ed al libro » De Sculptura »
di Pompeo Gauricio Matematico Napolita- no . Perchè il Grataroli non
venga taccia- to di superstizione o di puerile credulità a motivo
delle cose da esso scritte parlan- do dei Pronostici naturali e della
Predi- zione dei costumi , credo cosa necessaria fedelmente
trascrivere la Protesta , o sia Avvertimento al Lettore, che si trova nel-
la edizione di Argentina Devi poi » avvertire , che generalmente parlando
le » cose dette si verificano nella gente gros- » solana y vale a
dire di coloro , i quali » non sono rigenerati dallo spirito e
dalla » grazia di Dio , perchè di questi è vero » ciò che dicesi
della depravata natura in » Adamo , che » Naturce fequitur femina
quifque fucc » : Ma air opposto i rigenerati » dallo Spirito Santo
mortificano la pro- « pria carne con i suoi vizj , e con le » sue
concupiscenze , sebbene la concu- » piscenza ed il fomite del peccato vi
re- » stino sempre , e da moltissimi , o Dio , anche pur troppo si
riducano alla pra- » tica », A gloria di Gulielmo riporterò anche
la sua opinione sopra la causa del flusso e riflusso del mare r avendo
preco- 6 A Aizzato più di due secoli prima quasi
in- tieramente il sistema del rinomatissimo Ca- valiere Isacco
Neuton circa lo stesso feno- meno : opinione approvata ed insegnata
da quasi tutti i Filosofi posteriori a quel subitine Geometra » : Il moto
periodico del- ia Luna ha grande predominio sopra li corpi fluidi ,
quindi fa che il mare s in- nalzi e si abbassi ^ singolarmente per
una particolare di lei influenza , e ne segua il flusso , ed il
riflusso secondo i differenti aspetti relativi alla medesima , e
secondo che questi accadono nella maggiore -> o minore forza
della sua influenza : Accade ciò perchè la Luna ha bensì certa in-
fluenza coir Oceano , ma non già coi la- ghi e coi mari di poco estesa
superficie . Per la qual cosa mentre quel Pianeta si muove dall'
Oriente verso il mezzo gior- no , fa che la superficie del mare s'
innal- zi , e che conseguentemente ne segua il riflusso medesimo .
Quando poi si muove dal mezzo giorno verso Y occidente fa che il
mare si abbassi , e però ne nasce il ri- flusso . Similmente allorché la
Luna si muove dall' occidente verso V angolo della notte , o sia da
settentrione verso V o- i icnte , ne segue nuovamente il riflusso r>
II. » Guliclmi Grataroli Bergomatis Artium > & Mediani?
Docloris de Memo- ria reparanda , augenda > fervandaque , Liber
omnimoda Remedia > & Pnzceptio- nes continens cujufivis facultans
jhuliofis apprime utilis «, immo maxime necejjlvius , Tiguri ? apud
Andream Gesneruni in 8. , Basilea apud
Nicolaum Episcopium in 8., Lugduni , apud Gabrielem Coterium in 8.,
Francofurti apud Joannem Vichelium in 12. Ibidem apud Viduam Petri
Fischeri in 12., Argentorati in 8. » Nel frontespi- zio
dell'accennata edizione di Argentina si trovano queste parole : » Omnia
ab An- afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa
Opera » De Memoria re- paranda » è stata stampata unitamente all'
altro libro del Grataroli » De confervanda Valetudine » da Enrico
Rantzovio . De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex
infipeclione par* tìum corporis > tutu aids modis «> Anelare
Gulielmo Gratarolo Medico , & Philojopho B ergo mate • Basilea 1554» in 8.,
Ti- guri apud Andream Gesnerum in 8. , Lugduni apud Gabrielem
Coterium , &* Argentorati 1 6*5 3» Li tre accennati libri De
Memoria reparanda: De Temporum omnimoda mutatìone Prognofìica: De
Prce* diclione morum » furono dati alla luce per la prima vo ? ta
dal Grataroli in Basilea , e dedicati ad Edoardo VI. Re d'Inghilterra;
siccome pure la seconda edizione di tali Opuscoli fatta nella medesima
Città nell* anno 1554. fu consagrata a Massimiliano II. Re di
Boemia lutto questo evidente- mente si rileva dal primo periodo
della Dedicatoria medesima al secondo dei com- mendati Sovrani , la
quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo Re, per le pressanti
istanze degli amici e del- io stampatore > sono stato costretto a
dare alle stampe assai più presto di quello che averei desiderato
tre miei libretti intorno ai quali erano già molti mesi che
affatica- va , e perchè essendo assente , molti er- rori corsero
nello stamparli, però riveduta di nuovo queir opera , non solo ne
cor- ressi i difetti , ma in oltre impiegando ogni possibile
diligenza ed applicazione , e prestandovi , come si suol dire , V
ultima mano , F ho accresciuta di parecchie belle aggiunte a segno,
che la presente edizio- ne è superiore alla prima siccome lo è un
parto di nove mesi a quello di soli sette , *7 o pure
Toro fino ali* argento • Avevo de- dicata la prima ad Edoardo VI. Re d'
In- ghilterra , il quale innanzi anche di aver- ne notizia , non
che di averla potuta ve- dere, fu costretto infelicemente a
cambiare la vita con la morte ». Tale Dedicatoria fu scritta in-
Basilea nel mese di Febbrajo deiranno
Nondimeno non posso accertare in quale città siano stati
stampa- ti li sopradetti Opuscoli la prima volta che dal Grataroli
furono indirizzati alli due già nominati Sovrani . Pejlis Defcrìptio
, Caujjoe > Si- gnu omnigena > & Proefervatio . Anelare
Guliclmo Gratarolo Medico . Basilea? ; per Ludovicum Lucium Anno Salutis
Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud Gabrielem Coterium 1555. • La
prima edizione di tale veramente aureo Trattato fu dedicata ad
Ascanio Marzo Ambascia- tore Cesareo presso i sette Cantoni della
Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e virtù fornito ed amico di
Gulielmo ; e questi appunto furono i motivi , che lo spinsero a
sceglierlo per Mecenate con scrivergli :
La vostra conosciuta virtù , e la non volgare vostra mansue-
tudine , non meno che il vostro amore per tutte le sane dottrine , e per
la pie- tà , mi hanno costretto a dedicarvi quest' opera » . Perchè
si veda quanto amava le massime di pietà e di religione conviene
notare , che dopo di aver egli prescritti neir indicata sua opera li
rimedj fisici con- tro la Peste , raccomanda con fervore li
spirituali con queste parole (81) » Ma per brevemente indicare li remedj
più for- ti , più giovevoli e generali , prima di tutto allontanate
da voi la paura della morte , ma non già il santo timore di Dio .
Non perciò doverete amare il peri- colo , né incorrervi temerariamente ,
se non sarete sforzati o dalla carità cri- stiana del prossimo , o
dalla gloria di no- stro Signore Gesù Cristo > il quale devesi
anteporre a tutte le cose De Litteratorum > & eorurn qui
Magijlratibus funguntur confermando, proe- fervandaque valetudine ,
illorum prcecipue qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab ca ab
funt > curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli
praxi > & experientìa concinnatum . Basilea apud Henricum
Petri in 8., Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ; Ibi- dem apud
Nicolaum Hofmannum \6 17. ($9 in 8. » La stessa opera
è stata tradotta nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P e
stampata in Londra Tanno in 1 2 . Questa dottissima opera è riferita
dal rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave nel suo » Methodus (ludii
Medicorum » . De Confervanda valetudine . Francofurti apud
Henricum Randzov . Questa opera fu stampata unitamente all' ultima
registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium iter agentium . Basilea?
apud Hemicum Petri \66\. Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.
in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum 15/1. in 8. V edizione fatta di
tale uti- lissima opera in Argentina fu dedicata dal Grataroli »
alla vera pietà, (82) e nobil- tà del chiarissimo Egenolfo Barone , e
Si- gnore in Rapolstein Hochen Ack e Ge- rolzeck in Vassichin » e
nel frontispizio della medesima vi si leggono i seguenti la- tini
versi . Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis Aeris ,
& varìis undique prejja malis ; No/ira procelle* fi vario jìc
turbine mundi Volpi tur incertis anxia vita rnodis.
7° Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro
Tutìor utque voles carpe Vìator iter. VIII # De Laudibuj
Medicina ejus origine > progrejju ? militate . Argentora- ti i 5
£3. in 8. IX. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri
. De Vini natura , Artificio , & Ufu , deque omni re
potabili . Basilea , Apud Henricum Petri . XI. Equorum P
& Domejlicorum quo- rundam Ànimalium remedia $ senza data in
tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe . Basilea La
medesima opera trovasi inserita nel Volume in foglio stampato in Colonia
Tan- no 1571. da Pietro Orstio , con il titolo Veroe Alchimia?
Scriptores . XIII. De janitate menda . Argento- rati 15 6 5.
Trovo quest* opera citata dal Mercklino nel suo Lindenius
renovatus. XIV. De Thermis Rhoctias , & Val- lis
Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova stampata tale opera per la prima
volta da Tommaso Giunti in Venezia Tanno 1553. nella sua copiosa
raccolta di tutti quelli y fi che sino alla detta
epoca avevano scritto sopra i Bagni , ed è riportata alla
pagina 192. , con questo titolo Guìlhdmus Gra- tarolus
ad Corradum Gefnerum Medicum Tis'urimim de Thermìs Jxhoetìcìs
Tutti o quelli i quali a mia cognizione hanno par- lato
di questo trattato di Guliclmo , sia neir occasione di dare il Catalogo
delle sue opere , o • sia per semplice erudizione , e perfino il
nostro Padre Donato Calvi , non hanno citata nessun' altra edizione
della stessa opera , che quella dei Giunti % e tutti ne fecero sempre
autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo punto d' Istoria
letteraria . Ciò nondimeno non deve recare maraviglia , particolar-
mente delli scrittori oltramontani , e spe- cialmente di quelli del
decimosesto secolo : ma fa bensì stupore , che siasi continuato ad
attribuire al Grataroli un simile tratta- to , dopo la nitida e ben
corretta edizio- ne fatta dal valoroso Cornino Ventura X anno 1582.
in 4. di tutti i dotti Medici Bergamaschi , che avevano scritto sopra
i Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed è anche evidentemente
provato da quel diligente stampatore , e dagli eruditi e perspicaci
fratelli Licini suoi direttori, che il trattato , che porta
quel titolo , appar- tiene sicuramente a Bartolommeo Albani Medico
Collegiato della Città di Bergamo., scritto dal medesimo sino dall'anno
1470., vale a dire quasi un secolo prima della indicata edizione
Veneta di Tommaso Giun- ti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani
termi- na precisamente con questa data : anno mìllejìmo quadrigentefimo
y & feptuagefimo de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per
ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm Bartholomceum de Albano. Si fa
ancora assai ' più manifesta tale verità da quanto afferma il Cornino
alla decimaquarta pagi- na della sua edizione degli Scrittori
Berga- maschi circa li Bagni Trescoriani , nella annotazione
seguente posta in fine dell* Q- puscolo del sopracitato Bartolommeo
Albani per maggiore sua giustificazione » Da un antichissimo
esemplare manoscritto (83) ri- trovato nella libreria de" Padri
Domenica- ni , il quale si vede eziandio trasportato nella lingua
Italiana , sotto il nome dello stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di
Bar- tolommeo Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie- tà,
conservato sino a questo tempo ». Non si deve adunque più dubitare , che
il ve- ro Autore di quel trattato non sia Bariolommeo Albani , mentre
anche il Padre Cal- vi così ha lasciato scritto nella sua Scena
Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della Medicina celebre
Professore fiorì verso la metà del passato secolo e fu il primo y
che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre- score j leggendosi le sue
degne fatiche con quelle d 5 altri Autori nel libro » De Bal- neis
Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Ber- gomi Questa è T accennata edi-
zione di Cornino Ventura. Si noti in que- sto luogo , che lo stesso
Bibliografo indi- cando l'opera del Grataroli (85) sopra io stesso
argomento , dopo di avere scritto De Thermìs Rhoeticis, & Vallìs
Tranfche- rii agri ìSergomatis » aggiunge » Questo si trova nell'
opeia Veneta De Balneis » » Adunque al Calvi era nota tanto V edi-
zione dei Giunti , quanto quella del Co- rnino : dopo tutto questo, in
quale manie- ra si potrà difendere il Grataroli dalla tac- cia di
plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile , Ricercato
Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande amico , che si chiamava il Plinio
dell* Ale- magna , perchè gli facesse avere delle no- tizie circa
le Terme , o Bagni della Re- zia , e della Provincia Bergamasca , egli
^per fare cosa grata ad un amico di tanta rinomanza , prese in mano il
manoscritto dell' Albani , vi aggiunse qualche cosa del proprio ,
ed ancora molte cose di quelle che aveva scritto sopra i Bagni di
Tresco- re il dotto Medico Lodovico Zimalia , le- vando alcune cose
che gli sembravano su- perflue , o inesatte , con purgato stile la-
^inò , e con veri termini tecnici rifuse il manoscritto dell' Albani , e
cosi riformato ed ordinato lo spedì all' amico, unitamen- te ad una
erudita lettera relativa alle Ter- me della Rezia : e siccome in quei
giorni il Gesnero si trovava in Venezia per de- scrivere i Pesci ,
ed i Crostacei del mare Adriatico , averà consegnato questo scritto
a Tommaso Giunti s che in quel tempo era occupato a pubblicare la sua
grande edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni e le aque
Termali n siccome ho già di so- pra notato . Indubitata cosa ella è che
il Grataroli chiude il suo scritto con queste parole (86) » Ho
raccolte brevemente, e con chiarezza tutte le soprascritte cose a
benefizio , e sollievo del mio prossimo^ io Gulielmo Grataroli Dottore di
Medicina : frutto tutto questo delle mie oculari osser- vazioni , e
della lettura di parecchi amichi Medici della mia patria » . Appunto
questa sua protesta dalle persone oneste e giudiziose deve essere
considerata una confessione del fatto , ed ancora del di- ritto che
aveva acquistato di appropriarsi quello scritto ; tanto più che il
Grataroli nello spedirlo al Gesnero , lo previene con la seguente
onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizio- ne
delie Terme Bergamasche , le quali non sono lontane dalla Rezia più di
due gior- nate di cammino • Di queste niente sino al presente
trovasi pubblicato con i tor- eh) ; onde mi giova sperare , che
diver- ranno celebri anche in avvenire , siccome lo furono in
passato , dopo che Y occul- ta, e quasi intieramente ignorata loro
vir- tù sarà fatta nota con le stampe ; purché non vi rincresca
accoppiare le erudizioni Italiane alle Tedesche » . Poteva qui
espri- mersi Gulielmo con più candida , ed one- sta sincerità ?
Confessa di essere semplice raccoglitore d^gli altrui scritti,
mentre dice » Ho raccolto dagli scritti di altri antichi Medici
Bergamaschi » Non chiama sua quella fatica , ma dice semplicemen-
te (89) » Vi spedisco T intiera descrizione delle Terme Bergamasche >
delle quali niente sin ad ora è stato pubblicato » Non si deve
dunque condannare di plagiario il Grataroli $ e certamente non conviene ,
che egli abbia avuto rimorso di avere commes- so una cosi vile, e
detestabile impostura , mentre essendo sopravissuto quasi quindici
anni dopo l'edizione Veneta di queir opu- scolo , sicuramente non
averebbe mancato di giustificarsi presso il mondo erudito circa il
preteso plagiato . Ecco tutto quello , si può dire in difesa di questo
Medico Fi- losofo sopra tale inssusistente accusa , né altro posso
aggiungere «> se non che far noto al mio Leggitore , che per
quante diligenze abbia usate «> non mi è giammai riuscito di
ritrovare i due citati mano- scritti , e che in oltre il Padre
Donato Calvi , a cui era nota Y edizione di Co- rnino Ventura , non
ha nella sua Scena Letteraria dimostrato di sospettare dell' o-
nestà letteraria di Gulielmo Grataroli . Pri- ma di terminare il presente
articolo dei Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma- nissimo
Voto, con il quale Gulielmo chiu- de la sua opera stampata dal Giunti
Faccia Iddio , che la Bergamasca Re- pubblica abbia diligente cura di
rimettere nel primiero loro stato questi saluberrimi Bagni , che
certamente lo può , e lo de- ve fare » . Faccio io pure fervidi e
sin- ceri voti , perchè abbia effetto tutto ciò che caldamente
raccomanda il Grataroli ; e per maggiormente incoraggire la mia
Città , ed i miei Cittadini a procurare al- la patria un vantaggio così
rimarcabile , vivamente li supplico a leggere T erudita ed elegante
latina lettera di Lodovico Zi- malia , premessa al suo dottissimo
Trattato dei Bagni di Trescore , dedicato al suo magnanimo Mecenate
Bartolommeo Colleoni Capitano Generale degli Eserciti della Serenissima
Veneta Repubblica , (91) nella quale prova con una evidenza che
sorprende, e che deve intenerire chiunque senta amore per la sua patria ,
che quello famosissimo Eroe deve senza alcun dubbio essere
ugualmente ammirato , e commen- dato sì per le sue azioni militari , che
per le sue virtù politiche , a benefizio «> ed eterno vantaggio
, e decoro di tutta la sua amata nazione Bergamasca . De
Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore .
Tuttavia nominerò ancor io tra le opere di Gulielmo un libro con tale
ti- tolo , ritrovandolo registrato dal Calvi , e dal
Papadopoli suo copiatore , ma non dal Frehero , non dal Bayle , non
dai Maizeaux suo illustratore , non dal Mer- ci: lino , non dall'
Eloy , mentre tutti que- sti si suppone avessero molto interesse di
far autore di un libro Anticattolico Romano un erudito e dotto Italiano -
sic- come era da tutti considerato il Grataro- li. Non però verun
altro Letterato ha po- sto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro
• D' altronde è cosa più che cer- ta , che si può scrivere dei caratteri
dell' Anticristo anche dalla più religiosa e ze- lante penna
cattolica : ed è certo di più , che il Calvi , o non averebbe registrato
un così fatto libro , o non averebbe man- cato di scriverne qualche
parola in dete- stazione del medesimo . Ma di più anco- ra quanto
al Papadopoli , probabilmente questi non averà nemmeno veduta
quest* opera , essendosi intieramente riportato al Padre Calvi ,
siccome egli stesso scrive nella sua storia dell' Università di
Padova parlando di Gulielmo Grataroli . Avendo in oltre riportati i
titoli delle altre sue opere senza data , alterati , e confasi no-
tabilmente, non sarebbe stato egli il primo a giudicare di un libro mai
veduto , nò letto • A me stesso è accaduta la medesi- ma
sorte y non solo di poterlo trovare > ma neppure di averne fondata
contezza , per quante ricerche abbia usate non sola in Italia , ma
altresì nella Germania e nell* Olanda . Sostengo finalmente , che se
que- st* opera esiste , che io non credo , o se fu composta da
Gulielmo Grataroli -, non doveva essere tanto malvagia e perversa ,
quanto alcuni senza ragione sospettano ; mentre che tutte le opere del
Grataroli è vero che sono poste nell* indice de' Libri proibiti ?
ma con la semplice cautela ; Quandiu emendata non prodieri nt (92)
« Dal che si è da presumere che se que- sto fosse stato un libro
veramente Etero- dosso , Santa Romana Chiesa lo avrebbe posto nella
classe dei libri empj e mal- vagi di prima classe • XV I.
Confilium de Proe fervanone a Vcnenis . Gulielmo Gratarolo Aucìore
. Hamburgi in 8. Ecco registrate tutte quelle opere che
mi è riuscito di raccogliere, le quali furo- no composte da questo
dottissimo Medico e Filosofo : ora passerò alla seconda classe
delle opere tradotte e fatte stampare dal medesimo . J. Joannis Braccfchi de Alchimia
, cum propofìtionibus 29. Idem argume ri- rum compendiofa brevitatc
compleclens ex Italico Aucloris Autographo in latinum verni ->
& edidit Gulìelmiù Gratarolas . Basilea 156*1. in folio. Apud
Henricum Petri . Non mi è noto dove sia stata stam-
pata la prima volta questa traduzione; ma solo ne ho trovata un' altra ed
zione fat- ta in Amburgo neir anno 1^7 3. in 8. II.
Chirurgico rum quorundam Auclo- rum Libros Gali ice fcriptos latine
reddidit ? & in cap'-ta difiribuit Gulielmus Grataro- las •
Lugduni in 8. Apud Gabrie- lem Coterium , Classe terza delle
opere d* altri Scrit- tori fatte stampare con prefazioni , note y e
commenti da Gulielmo Grataroli . I. Ve ree Àlchymìce Scriptores
aliquota cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col- Ifgit y
& una edidit Gulielmus Gratarolas. Basilea? , apud Henricum Pctri
in folio . II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo- rumane
Remediis , cum Additionibus Gu- Udini Grataroli . Francofurti , apud
Joan- n ìm Velici in 8. 8i III. Hermannl a
Ncunare de no- vo haclenufque inaudito Germanice morbo ^pompar*
idcft judatoria febre , quern vulgo fudorem Britannicum vócant,
libellus a Gu- lielmo Gratarolo editus. Colonia in 4. Ermanno
Ncunare era Conte e Pre- vosto della Cattedrale di Colonia .
Simeonis Riquinii Judicium do~ clijjimum duabus epijìolis
contentimi de fiutato r ice Febris cura t ione editum a Gu~ lielmo
Gratarolo Medico > & Philofopìio B ergo mate . Colonia in j
6. V. Joackini Schdlerii ^ o come altri scrivono Sckilfeni de
Pejìe Britannica Commentariolus aureus a Gulielmo Grata- rolo
Medico & Philofopko editus . Basilea? 1 5 c> 3. Apud Henricum
Petri in 12. VI. Alexandri Benedicii de Pejlilen* tioe
Caujjls s Proe fervanone > & auxiliorum Materia Liber Jingularis :
Omnia ex ma- nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit
Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo- fophus . Basilea? 1559. in 4.
Ibidem 1572. in folio apud Henricum Petri . VII. Correcliones
, & Additiones ad librum Italicum , falfo tributum Fallopio 7
infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti irfoò. in folio , e
i6"o£. cum operimi 6 1 82 Appendice
Guliehni Grataroli Medici Bcr- gomatis. Girolamo Mercuriali da Forlì
coe- taneo del Grataroli , soprannomato Mercu- rio e Trimegisto per
la vastissima sua medica scienza , nell' erudita opera : De ratione
dijcendi Mediana/?! , edizione di Argentina dell' anno 16*07. > m
proposito dei libri falsamente attribuiti a Gabriele Fallopio ,
racconta che vi furono alcuni , i quali o per malignità , o per
sordido lucro cacciarono fuori opere sotto il nome del Fallopio ,
che affatto non sono sue , come il libro dei Secreti . Opere
indegne del suo maestro , e soltanto capaci a to- glierli quella
vera , e soda gloria , la qua- le si era acquistata presso i dotti
• Vili. Cenjura & Additiones in Li*- bruni Alexii
Pedemontani , ubi de Quinta effentia funplici . Per Gulielmum
Grataro- lum . Venetiis apud Jun£hs in 12. Conjìha , &
Curationes variorum doclijfimorum Medicorum de Sudore An- glico a
Guliehno Gratarolo edita . Colo- nia apud Franciscum Hofmannum
1602. in folio . X. Thaduei F/orenini , che 1' Alido-
sio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù a Brixia Conjìlia • Colonia*
i^c^. Apud Iranciscum Hofmannum in 4. Per Gidid- mum
Gratarolum . XI. Johannis de Kupecijja de Extra- tione
Quinte? ejfentioe omnium rerum prò u fu Medico . Venetiis apud Juntìas
156*1. in 1 2. XII. Theatrum G aleni > hoc eft uni-
verjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar- f inique traduce
Promptuarium completimi & in
meliorem ordinem redaclum per Lu-> dovicum Luride llum a Gulielmo
Gratarolo Medico } & Philojbpho editimi . Basilea? 15 68. Apud
Henricum Petri in folio «> Hamburgi apud Joanneni Neumannum >
& Georgium Volfium \6j2. in foiio. Petri Pomponacii de Incanta*
tionibus libri in quibus dijficilUma Ca- pita > & Quefliones
Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina
explicantur > & multis rarìs Hijìoriis > & Glojfulis
illujlrantur . Per Gulielmum Gra- tarolum Medicum , & Philojbpkum
Bergo- matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum
Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi- cina
Henripetrina in 8. cum Csesa- rea Majestatis gratia & privilegio.
Quesra edizione del trattato deeli Incantesimi di
&4 Pofnponacio tu consagrata dal Grataroli a
Federico Conte Palatino con una nobilissi- ma , e giudiziosissima
dedicatoria impiega- ta parte in encomj della virtù e meriti di
quel Principe, e parte in difendere Y ope- ra di quel Filosofo Mantovano
, del quale afferma e sostiene , che fu a torto impu- gnato , e
perseguitato ; e che se fosse sta- dio con prudenza e carità Cristiana
tratta- to , sarebbe riuscito uno dei più zelanti e forti
Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a
Giustino Martire , al grande Agostino , ed a mol- tissimi altri
difensori della nostra santissima religione • Di fatti Pomponacio per
atte- stato di tutti gli Scrittori della sua vita mori
cattolicamente (93) : » Voglio spera- re , che Pomponacio prima di
mandare fuori T ultimo suo spirito , siasi per singolare grazia delia
divina providenza e misericordia ravveduto e pentito , e che non abbia
perseverato neir ateismo . Imperoc- ché tale essere stato il Pomponacio Y
ho udito spesse fiate a rammentare da Elideo Medico di Forli
chiarissimo ornamento del- la medica scienza , ed uno de suoi più
cari discepoli » . Ho ricopiato questo sen- timento dui Grataroli
acciocché si conosca quanto grande fosse Sa sincerità e Tat- , taccamento
verso la Chiesa Cattolica. Gis- berto Voet , o Voezio ^ dotto
Professore di Teologia -, e delle lingue Orientali neìl' Università
di Utrecht , inimico capitale della Filosofia e di Cartesio , ha
parlato con molta lode della suddetta edizione, dicendo Gulielmo
Grataroli Medico Italiano , li di cui scritti vengono coiti*
mendaci per lo zelo di pietà e di religio- ne che vi traspirano, e per li
encomj de* quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue lettere , e per
li suffragj di molti altri uo- mini dotti, che lo trattarono nelle sue
ope- re stampate in Basilea difende Pomponacio contro li suoi
caluniatori, ed afferma, che abbia terminati i suoi giorni assai piamente.
Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da esso scritta un anno solo prima
del suo pae- saggio all'altra vita si rileva, che già die- ci anni
innanzi egli aveva fatto stampare r senza che mi sia riuscito di sapere
in qua! parte ^ il Trattato De ìncantationibus di Pomponacio ,
perchè così scrive al Princi- pe suo Mecenate * (9$) » La parte di
questo libro , che tratta delle cause , e degli effetti naturali, o sia
degli Incantesi- u mi fatta da me stampare sono
già più di dieci anni , T avevo dedicata e spedita air
Illustrissimo Principe Ottone Enrico Elettore di felice memoria , e S. A,
non sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo proprio pugno » . Mi
è piacciuto di nuo- vamente riportare quanto Gulielmo Grata- roli
scrisse in quella sua elegante Dedica- toria , perchè dalla premura e
zelo da es- so dimostrato sino agli ultimi periodi del- la sua vita
, e dalla universale estimazio- ne , che hanno sempre costantemente
fat- ta palese in faccia di tutto il mondo tanti letterati del
primo ordine , d* ogni nazio- ne , e d' ogni religione , della dottrina
, della probità, e dell' amore del vero , e del giusto , che ha
conservato in tutte le sue operazioni , possa invogliarsi qualche
valente ed erudita penna della sua , e mia patria a tessere , ed in assai
miglior modo ordinare una più compiuta istoria scevra dai difetti ,
dei quali questa mia pur troppo è ripiena , di un Filosofo e Medico
j che ha impiegati e consagrati tutti i suoi talenti , e tutti i momenti
de' tuoi giorni a benefizio e vantaggio della languente umanità ,
ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del
sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere
in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in
fine illustrando ed arricchindo di uti- lissimi riflessi e profittevoli
commenti un numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni
genere di scienze e di cognizioni, siccome ne forma una evidentissima
prova il copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo
Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Grazia – il principio di benevolenza
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo
italiano. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom Italians
consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture – a truly
Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria,
da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si
oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome
dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli:
Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli:
Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama);
“Considerazioni sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che
stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss.
Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario
Biografico degli Italiani. Classe Appetito;Volere.Condizionediogni appetito è
l'andarsi rinvigorendo con la reiterazione degli atti fino a rendersi dominante
su gli altri appetiti. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio
acquistando maggior potere su imoti del corpo sog 3.Classe-
Moloriprimitividellavolontà: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione;
appetito istintivo del piacere nella sua triplice forma, e avversione al
dolore; amor di sè stesso co'tre caratteri di concentrazione, di reazione, di
espansione spontanea. Classe- Oggetti dell'amor proprio diconcen nale, onore
esterno. Reazione dell'amor proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea.
Benevolenza. Il benessereè certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella
classe va distinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e
l'avversione al dolore. Non è perchè a mi a m o n o i s t e s s i, che
desideriamo il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel
cercare I mezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a
contrastare a tale uopo altri appetiti. L'appetito quindi del benessere, una
delle esigenze dell'amor proprio,é precisamente quel principio, in cui Stewart
ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non
è getti al suo comando, come anche su l'attenzione riflessiva. Seconda
condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere, quando è
soddisfatto; e da dolore, quando essendo istigato non è soddisfatto. È questo
esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione: Benessere, dignità.
perso IL METODO. Classe Stati diversi dell'appetito: Desiderio, o contento;
godimento, o afflizione, o rammarico; speranza, o timore; pentiinento;
disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri invero
irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori e piaceri ,e ragione e volontà,
esso prevedendo le conseguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi un
piano di condotta per evitare il dolore, per pro cacciarsi il piacere; e la
repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a
b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito del benessere a sola mira
di esibire intero nella 4. classe ildominiodell'amorproprio. E
lapresenteosserva zione basta a far riguardare con tutto rigore l'addotto
esempio di classificazione. Abbiam già completato il quadro de' fenomeni pri
mitivi del pensiero, distinguendolo in tre categorie corrispondenti a'
fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e tenendo conto delle condizioni loro
comuni. Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo fine a questo
articolo con la seguente generale osservazione. La semplicità di una
classificazione di fenomeni primitivi non si dee giudicare su la classe
suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al numero de' fenomeni distinti
nella totalità della classificazione. Può quindi avvenire, che due
classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti
assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende i tre fenomeni
-- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la memoria, esi fosse
distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel riconosciinento; non si
sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni irreducibili. Ciò non dimeno
un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente .Nella classificazione da
noi preferita i fenomeni della prima classe sono i più differenti di natura. Ma
ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee
astratte si riproducono nella loro perfetta integrità. Le sensazioni perdono
estremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione. Niente altro
cangiano di loro condizione primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione delle
affezioni morali. La memoria quindi, presa nel suo più ampio significato, non
reca fenomeni di natura differente da que' della sensibilità, dell'intelletto,
e della volontà. Queste ultime facoltà somministrano materiali fra loro
differenti, e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima
classe ha potuto segnalare la prima divisione della scienza ne' tre rami
logica, etica, estetica. Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo,
ma non v'era alcuna ragione per disprezzarlo. Si supponga or che
invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in
una sola lista , come è costume: sensazione, giudizio, attenzione,
immaginazione, reminiscenza, analisi, sintesi, astrazione, generalizzazione. Il
numero de'fenomeni primitivi potrebbe rimanere lo stesso, ma senza esservi
marcata la dipendenza tra I medesimi. L'attendere è proprio dell'intelletto.
L’immaginazioneè una legge della sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento
è un giudizio. L'analisi, la sintesi, l'astrazione, la generalizzazione,
appartengono all'intelletto. Una tale dipendenza è una condizione di più nel
fenomeno: è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro
esempio, se i motori della volontà si enunciassero come segue: Tendenza istintiva
delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere; appetito
razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore
esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si
avrebbe completo il numero de' motori primitivi, ma niente apparirebbe della
loro dipendenza. L’enunciazione non darebbe ultimata la loro riduzione, non si
esprimerebbe completo, per quanto a noi si scopre, il sistema della natura de'
fenomeni della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della origine e della
reulià della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL
METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA. primitivi ..realtà delle
conoscenze. delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida osservazioni
parlicolari, su la origine e Classificazione de'fenomeni primitive. Riduzione
de'fenomeni particolari a' »esempio tratto dalla estetica Classificazione delle
scienze nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle scienze nat. Metodo
inventivarella scienza delpen Melodo di esposisione nelle varie.
Metododiesposizionenellascienzadelpensiero - poche idee sul metodo
Utilitàinultimarleriduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL
METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA, E SUE
DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Metodo. Esemplare classico
del metodo speculativo. Primo esemplare del metodo di pura osservazione.
Deviazioni del metodo nel periodo sco. Metodo di pura osservazione nella
parte psicologica della Filosofia ortodossa. Progresso della osservazione
analitica nella Filosofia, ad onta che i sistemi: declinassero o al
sensualismo, o al’ idealismo. Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant.
Declinazione della osservazione analitica, e rifiuto de’ suoi prodotti
precedenti, surrogandovi una supposta percezione de’.sensi, e una dimessa
ma ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso detta
discorsa Rassegna ci con la seguente. ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA
SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL. Su l'identità de’ due contrarii. Le
idee fondamentali dell’ intimo senso Vanno snaturate in ogni panteismo .
Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella scienza prima —
tende di continuo ad alterare il genuino valore delle idee fondamentali. SU LA
FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVIDUALE , SECONDO IL
LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI L'ATTO CREATIVO,
SECONDO IL Gro- SERIE input » Sul secondo a della formola. .IN. Su Te
altre parti della Formola, cioè T Enie e l'alto creativo. .Sulla Visione
delle idee in Dio indipendentemente dalle altre parti della iu
DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA FILOSOFIA. Sul concetlualismo, perenne
caasa delle deviazioni della Filosofia. . . Hi. Su i recenti proget di
nuova Filosofia OROCO: «..-_/._. cs. iu » Influenza della sacks tedesca
su la Filosofia. Sulle più famose obbiezioni prodotte da’ moderni contro
la Teologia naturale. VW. Riassunto degli articoli precedenti e conseguenze per
le scuole d’insegnamento. » ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'UMANO
INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. Su i modi dialettici adoprati dal
Rosmini nel mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata da
Aquino. Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filosofi di questa
Italiana provincia faceva da noi dipartila ! Niun periodico della capitale fra
i tanti che pur trattano di futilità e di non nulla , o tutt'al piú di
celebrità di teatro,fecealcunmottodilui:ilsoloOmnibus annun ziandone la grave
perdita, prometteva una biografia dell'estinto:ma tale promessa insino ad ora
non l'ab biamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza
pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo
potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria (1). A quella regione ferace
di eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a Galluppi
(tralasciando tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro Filosofo, avendo
avuto i natali verso il 1792 nell'antica Reazio ,oggiM e Ahi sugli
estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. .
7 soraca,inProvinciadiCalabriaultra2.dabaronale ed agiatafamiglia.
Passòl'infanzianellaterranatale,ima mostrato avendo svegliato ingegno, fu
pensiero di un suo zio, religioso dello insigne ordine de'Teatini di con durlo
in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que'RR.Padri.
Quivi dedicandosi alacremente a talistudi,ebbe a con discepoloilfamoso ex
Generale de Teatini, P.Gioacchino Ventura, che se tutti ammirano per non comune
facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed illibatezza di costumi,
gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato continuatore dell'opera
progreditrice e liberale da lui cominciata a p r o p u g n a r e n e g l i a n
n i 1 8 4 6 e 4 7 . C o n l u i il De Grazia le g o s s i con tale intima
amicizia e scambievole stima , che le m e morie di quella loro prima età
insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi ,abbenchè
pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro
discosti. Escito il De Grazia da quelle scuole, diessi con tutto ardore agli
studi severi delle matematiche , non pure tra lasciando qnelli della filosofia
, pe ' quali monstrava incli nazione grandissima. Giovane ancora militò per
qualche tempo nel Genio ; m a poscia,smesso il cingolo militare, esercito
professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de' Ponti e Stradë. Si
nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai doveri della sua
carica, e procacciossi giusta estimazione.Ed abbenchè per lasua indipendenza di
pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato come avrebbesi
dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere
pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di uni versale
contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e
consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese
del De Grazia da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da
potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata
qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegnosirimanefrapastoje;perché
condannato a grame proporzioni di una architettura bor ghese, od a meschine
economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni
incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli
originali disegni. De Grazia, omettendo i lavori per Ponti e Strade e smessa
ogni altra cura ed applicazione, si dedicò con tutto ardore a quegli studi
filosofici che fin dalla gioventù avea mostrato di molto prediligere. Frutto
delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla
realtà della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che pubblicossi a
Napoli e che il Silvestri in Milano ed ilFontana a Torino voleano ristampato
pe'loro tipi,ma non vedendosi incuorati da chicchessia a tale
pubblicazione , e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole , ne smisero
il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo si stema
filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui menzione ,pon
sentendoci da tanto,e lasciando a'profondi pensatori un tale incarico. Solo
diciamo ,ch'egli rifuggendo da'sistemi oltramontani e dallaservile imita zione,
ha tutte leproprietà dell'italiano Filosofo, per quella sua maniera di studiare
il mondo esteriore, e per quel pratico senno che loconducono dall'esperienza
alla induzione ,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla
generalità delle idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del
sommo Aquinate ,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera
alcuna di questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche
dell'altro nostro celebre italiano , l'abate Rosmini , il quale in un luogo
delle sue opere ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi
detti,sorse vaghezza al De Grazia di leggere la somma di esso santo; e
grandissimo fu il suo compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine
in ciò che concerne ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di
ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di
rispetto e di ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più
alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in
questi u l timi sei secoli. Oltre a molti altri scritti minori , pubblicati in
parecchi giornali specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra grave sua
Opera è quella intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla Filosofia
speculativa , ove adoprandosi dimostrare l'assurditàdi
taleLogica,confutaque'filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene
d'intede scare la filosofia italiana. Per chi le Opere del De Grazia
punto non conosce,riu. scendogli per avventura nuovo un tal nome ,potrebbe di
leggieri riputare sospetti i nostri elogi, se non altro ,per troppa carità di
patria : noi a renderlo persuaso del con trario, e che anzi,il lodato resta
sempre al disotto delle nostre umili laudazioni , citeremo l'autorità di un
giudice assai competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di
Heidelberg Cav. Carlo Mittermaier. Questi nel suo Libro Condizioni d'Italia
pubblicato nel 1846 e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al
chiaro abate Mugna , traduttore del suo libro, dopo aver parlato delle
celebrità letterarie e scientifiche d'Italia , e m o strando desiderio che le
opere filosofiche degl’Italiani fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in
ispecie da'suoi connazionali , venendo a parlare di Napoli dice : « Il genio
della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito
umano,sempre unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenzapratica ».Ad
essoappartengonoleopere di P. Galuppi e di V. De Grazia, peculiarmente l'opera
di questo:Saggio sulla realtà dellascienzaumana.Esa >
minandol’A. gliscrittide'suoipredecessori,non che de'filosofi tedeschi ed
entrando in minute particolarità (peresempio
vol.2.p.1.174)intornoa'varipensamenti sulla origine delle idee,seguesi con piacere
lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno
alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o noscenze dimostrative. «
Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono più che sufficienti a
testificare sul merito filosofico del nostro concittadino , ed altre singole
illustritestimonianzepotremmopurqui addurre;ma le opere di lui per chi vuole e
può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare di dire che fu
in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e scienziato profondo
il Conte de' Camaldoli , Francesco Ricciardi,e che ilsuo grand'emulo il
Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte del De Grazia confutata
perché non severamente italiana, nè in tutto da lui tro vata scevra di straniere
dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà
dellascienza umana , rispose:l'operaprocedemoltobene,secondo ilsistema seguito
dall'autore.E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi raggiun se
piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi? chi più
possedette geniocreatore? A ciòrispondiamoesserpaghidi rilevare inambidue il
positive progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli come
continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi Calabresi Telesio e
Campanella che cercarono di richiamare la filosofia del secolo decimo
settimo a'suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria
ragione ed all'esatto studio del mondo ,quale si offre alla osservazione, e
sopratutto cercando di sce verare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche
del tempo ; per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro
avversari , seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in quanto alla forma che
alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi di Europa , ognuno
dei quali nasce per distruggere l'anlecedente , e per essere poi a sua volta
distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due grandi Calabresi, Galluppi e
De Grazia, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo , e
sopravviveranno a'posteri assai più,se non c'inganniamo,dell'eccletismo di
Francia e del razionalismo puro di Germania ,il quale ultimo sistema
argutamente il De Grazia chiama: poema filosofico; abbenchè de' filosofi
tedeschiegli faceastima grandissima, especialmentedi Emanuele Kant, ch'èil
primo nella serie di quelli che formano la moderna scuola, per la mente
profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania ,per
maturo giudizio,fervida imaginazione,esottilissimoingegnoanalitico,ma lamen
lava che il suo genio batté la via del eccletismo scettico e del dommatismo
razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con
cittadini,nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di
Heidelberg che nell'opera,da lui citata e da noi di sopra più volte riferita,la
penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro De Grazia abbiano
richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche del
Galluppi. Eppure questi , sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel Governo ,
essendo stato nominato professore di filosofia nella cattedra della
universitàdegli studi di Napoli (2) e nella morte di lui fu r o n v i pubblich
e esequie e recitaronsi funebri elogi m a il De Grazia vive e muore ignorato, e
non fu noto che alla calabraterra, chevidelonascere,edaqualche singola
celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa ? Forse de' tempi ? del governo
? o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le
suindicate cagioni. Circa il governo cui appartenne il De Grazia, il merito non
è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo
presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente
dallo adulare potenti,dalcercarmecenati,dalraccomandare odedicare isuoi scritti
achichessia,mantenendosi sempre in dignità Il secolo che corre: e che
appellasi posilivo non ha altripensieridominanticheilcredito,> laborsa,lespe
culazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare
l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che di continuo lo
stringe ed arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di
filosofia. e modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta
agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e
calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto
influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando
per conseguenza vita laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi
fatteragionicheilnome suorimanesseignotoall'universale. Ma qui non possiamo
fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione
governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso
negato a privati di fare puranco il bene (4)o altra innocentissima cosa ,senza
previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare
a stampa senzapreventivarevisioneecontro revisione;non rebbe uu richieder
troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare
aggiungessero un pò di buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze
, tenerne nota ed applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe
riuscita al De Grazia,abbenchè dell'indole qui sopra descritta , e sempre
abborrente dalla servitù e dalla vanità, se il governo in modo qualunque
avessegli addimostrato di tenerloin pregio, o nominandolo professore di
filosofia nella Università, dopo la morte del Galluppi, non essendovi in tutto
il reame altri che più diluinefossestatodegno,omostrandogli dipregiarlo in
altra guisa qualunque,ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua massima
indeclinabile che il merito de sa vesi conoscere
volenterosamente dagli altri,senza sforzo di sorta per parte propria. Sonovi
però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra
regina e manifestasi con tuttalapossibilespontaneità.Un talemomentosifuquando
nel 1848 ilDe Grazia,non pure senza brigarlo,ma senza avervinemmeno
pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali,
qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si compiacque per
tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini;ed
accetatone il grave mandato ,pieno di buon volere e di coraggio si parti con gli
altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli elettori suoi
nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche,alla
realtà della vita politica:ma tanto non avvenné, Equicisi
permettanoper poco talune reminiscenze, r i andando 'un tempo, che già fu per i
liberali onesti e di buona fede che credevano alla santità ed alla osservanza
di giuramenti e del cui gran numero facevano parle quasituttii liberali
delleprovincie, traqualiil De Grazia, que' tre primi mesi, con assai più
ragione di quello che uno scrittore francese diceva del suo paese nel 1830
furono giorni deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe
quell'allegrezza,quella ‘speranza, quel non so che si raro nell'umana storia
che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più
rappresentavasitristea'nostrisguardi,scoprivasiun'oriz. zonte sconosciuto,
tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso
indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della
filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di
cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza
ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini
tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non
più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non
provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e
pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali
interessi, che stan materializ zandotuttiglispiritiedimmergendoliinunprofondo
le targo daimpedirediaddarsidellalenta,ma sempreognor crescente propagazione
del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente
progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare (7).E
cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti
Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello dell'azione.Uomo
adusato da tanti anni а star chiuso nella rocca della sua mente per dare
corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo
delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda realità, divenne
esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono
conce I fatti che vide nel famoso 15 Maggio , al primo scio
gliersidella Camera de'Rappresentanti della nazione, non che nel tempo
successivo (da superare f i n a n c o l e sue previsioni e che iscusano la sua
condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità) fecero d' allora in poi
addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui felice ! che p o teva col
pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i
nobili e pacifici campi della fi losofia. Fu verso quel torno che rivedemmo per
l'ultima volta il'De Grazia,ilquale ci feceaperto diesser egli tuttoap plicato
al compimento di un lavoro già concepito quando legge la Somma dell'Aquinate.A
questonomeglidichia rammo francamente il desiderio nostro, e di altri suoi
amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche scelte dalla S o m m a
presentar volea la Filosofia di S. T ommaso , coll'esame comparativo delle
dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di tutte le sentenze politiche,
di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse conoscere la politica di quel
santo dottore, in tutto tendente a fare che la s u prema autorità non
trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina governativa fosse
tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della co 48
dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della
situazione politica del momento, e m i surandone tutta la portata, promise a sé
stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento Napoletano. e
mune Patria; che simili scritti, soggiugnevamo,potrebbero
serviredifrenoalpotere,affinchéne'suoiattinon de generasse in forza brutale. Al
che il nostro Filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle
artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza della bocca de'cannoni fa ammutolire
ogni lingua , e fa cadere la penna dalle p a ralizzatemani.E
noidirimbecco:seilcannonedistrugge, la penna può e sa riedificare. Fu dunque
nel 1851 che il cennato suo lavoro col litolo di:Prospetto della Filosofia
Ortodossa, venne stampato in Napoli, in un volume in 8. di pagine 632. Fra le
molle lodi che questo libro ebbe dalla stampa periodicadi di verse parti,
furono quelle tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica
(8)(anno 3. vol.10. N. 60) connostra grande maravigliaesatisfazione.Ma lamag
gior lode che ridondar possa a vantaggio del De Grazia, si è, che per il primo
ha cercato di far rivivere la Filo sofiadiS.Tommaso,echeilsuo pensieroè
statoposcia seguito dalla Università -parigina e da parecchie di Ger : mania.
Era sua intenzione comporre un'opera di Estetica ed un'altra d'Istituzioni
filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo lui, gran difetto nelle
scuole : m a tale divisamento non potè mandare ad effetto: sonosi tro
vati,èvero,de'manoscrittinellasuacasa,ma forte temiamo che andranno perduti.
Ferale morbo mina da più tempo isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine
con la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22
settembre 1857 cessò di vivere. Fu ilDe Grazia di ordinaria statura e di
gracile com plessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti
gentili, e cortesi epperò riusciva piacevole nella conversazione.Nel suo
incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello,o
talmente era assorto da suoi filosofici pensieri,da non por mente alle cose
esteriori,e da non addarsi degli amici che passavan gli allato, se questi nol
riscuotevano chiamandolo per nome.Visse sempre celibe.Lasciò un'unico nipole,
erede de'suoi beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso
due suoi antichi compagni ed i suoi d o mestici. Or un tant’uomo disparve dalla
scena di questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua
tomba ; senza che nè pietra pè parola additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome
diluiagli avvenire ! A voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune
sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di
nazionalità, abbiamo rivolta la nostra p a rola:inscrivete,per come é debito,
il nome di Vin cenzo De Grazia tra quei grandi nomi che passar denno alla
Posterità ! Tu , illustre Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice
lettera, de'chiari Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode
sul merito filoso fico del nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è
trappassato, por vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal 20
21 paese ovo nacque e mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai
dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti
divise, e che forse ignori ch'ei non è più , in rilevare la sua dipartita,
scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se
straniera,che co'suoi scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non
attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome
deltuoanticoamicosiaconto all'universale(9).Le no stre rozze e disadorne parole
rassembreranno talco o mica inruvida roccia,ma
levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato,
dopo morte quel merito che in vita gli fu negato. 0 Napoli febbraio
1858. Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar
Ionio è situata Mesuraca,paesello che conta un due migliaia e mezzo di
abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve gliando,gl'irrevocabili portenti della
Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di
scorgere gli avanzi di un vetusto tempio , sacro a Venere ; e nel nome
tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e
gli amori , fidi compagni della
vezzosaDeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più vicine,e
più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre
compaesano,del Galluppi, ch'era nato il 1770, nella stessa provincia di
Catanzaro ,in una piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto
mare;e,vedi caso,era nato anche lui di casa baronale ; sicchè pare che su lo
scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non fosse così ostinatamente
avver so agli studi Addi 19 febbraio 1785, in quel paesello
appunto,nasceva da Marco e Laura Brondolillo quel Vincenzo De Grazia, di cui
vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasceva di casa baronale ; ma non è
quel che ci preme ;nè pare importasse neppure a lui, che aveva il buon senso di
segnare a fronte de'suoilibriilproprio nome ecognome asciuttoasciutto,e senza
nessun prefisso. Giovanettino ancora di soli cinque anni lascio, o meglio gli
fu fatto lasciare il paese nativo, e fu condotto a Napoli, e quivi chiuso nel
collegio di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come
sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o
distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita
di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio,certo Teofilo
Misa,sottoladatadel15agosto1795,concuisiraggua gl i a v a il padre della b u o
n a riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di lui.Questa lettera giova
non tanto a testimonian za del profitto; chè un baroncino , si sa, fa sempre
bene ; e di fatti il buon rettore si lodava non solo di Vincenzo , m a del
l'altro fratello Domenico ; quanto ad assodare la data della nascita . Eugenio
Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di scrivere lememorie
dellaCalabria,lofanato il1792:seil1795 da va pubblici esami , quella data è
dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io nel
volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente la morte del De
Grazia.Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed iol'hopotutoavere,insieme
conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio Serravalle, valoroso
giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro paese:qual cuno di
casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti i primi studi ,
diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere.Ilnapoletano conquistato
dalle armi fran cesi,doveva allora,per l'imitazione de'conquistatori, corre re
dietro al mestiere delle armi . Il 1811 il nostro De Grazia trovavasi arruolato
da sottote nente nel Genio,quando con Decreto Reale comunicatogli da Campredon
a nominato ingegnere aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso,con Decreto
del 22 aprile 1812, fu promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i
documenti , che abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato
ildecennio,eiritirossi disua 2 scelta, o se fu licenziato dal
Borbone restaurato sul trono. Dal 1812 ci è forza saltare al 1838 . Il 29
giugno di quell'anno la Società Economica di Cala bria Ultra 2.a lo proponeva a
socio : la nomina aveva luogo soltanto il 18 dicembre 1839. Era lentezza,o si
erano incon tratiostacoli?nonsisa,efameraviglia,come diunuomo di vaglia,
vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a
lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto
casalinghe, che dalla famiglia ei visse diviso , che per le vie raro si faceva
vedere. E di o m i ricordo, c h e a n d a t o studente a Catanzaro benchè
misidicesse cheilDeGraziaci fosseallora, benchèio avessi desiderio di
vederlo,nonmiven ne mai fatto d'imbattermegli per via.
Questariservatausanza,e'lnon averemaiinsegnato,fe cero sì, che poco si
dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle
mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie,od almeno un
frequente carteggio : m'ingannai :corrispondenze non mantenne,o non conservo ;
più facilmente però non mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di
conservare alcune lettere, e di distruggere le altre.Nè
ciòprovenne,aparermio,danoncuranza,ma da impossibilità; correndo tempi
fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli animi,pieni di paure e di
sospetti. 3 Dueotrenomine diAccademie glivennero,chenoiab biamo trovate
fra le sue carte,con una certa cura custodite: una ,a socio onorario
dell'Accademia Valentini di Napoli ,che
avevaaprotettoreilContediSiracusa,sottoladatadel4giu gno 1842;una seconda,a
socio corrispondente della R. AC cademia de'Peloritani,sotto la data del 10
ottobre 1842 ;una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della R.
Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data Ecco gli scarsi
onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama ! IlMittermaier,professore
dell'Università diHeidelberg,
scrivevaintantoall'ab.PietroMugna,cheavevavoltatoin italianoilsuolibro
sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo : « Il
genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina a n a lisi dello spirito
umano ,sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica.Qui
appartengono le opere di Gal luppi,ediV. deGrazia,peculiarmente
l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori,anche de
filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità,(per esempio
vol.II,pag.1-171)intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi
con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi (per
esempio vol.II, pag . 171 ) intorno alla natura delle conoscenze pure e cono
scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco. L'opera del De
Grazia,a cui egli alludeva,e che preferiva a quelle dello stesso Galluppi, era
appunto il Saggio su la realtà della scienza u m a n a cominciato a pubblicare
a N a poliil1839,efinitoil1842. Della importanza di quest'opera,e della mira
che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente : per ora giova a v
vertire, che gli stranieri avevano letto ed ammirato un libro che gl’Italiani
di allora quasi ignoravano,e che i contempo r a n e i, per non far torto ai
loro maggiori, continuano ad ignorare. Escludo da questo numero Ferri, che
nelsuo Saggio sulla storia dellafilosofia in Italia lo riporta nel ca talogo
dei libri filosofici (degnazione non piccola) ; guardan dosi,beninteso,di
accennarne almeno lo scopo.Forse non lo aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù
del suo tempo a Napoli, dove il Galluppi fin dal 1831 teneva la cattedra di
filosofia nella 4. Università,ed attirava a sè la gioventù si per
l'insegnamen to vivo, come per la popolarità de'suoi elementi .Al De G r a zia
mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli riuscì di ave re seguaci. E che
desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scriveva Lorenzo
Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni al
Gallup pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre
concittadino turbava i suoi sonni ; ma all'emulazione non simescevanessunsenso
d'invidia,e molto meno obblique a r t i per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha
raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la cattedra della Università
napolitana,al De Grazia non sarebbe stato difficile ottenerla,se l'avesse
chiesta.M o stratagli questa agevolezza,eiricusò di chiederla,benchè la
desiderasse,enon lonascondesse:offerta l'avrebbeaccettata; ma
ilGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuonoc chio . IlDe
Grazia,intanto,alparidelGalluppi sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei
rivolgimenti politici:entram bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano
fabbricato un ri tiro dentro il proprio cervello . Il Galluppi aveva visto le
stra gi del 1799 ,gli spergiuri del 1821 , ed aveva continuato tranquillo le
sue meditazioni : pubblica, in mezzo a que rimescolio , i suoi elementi
di filosofia. Il De Grazia non a vrebbe potuto, per l'età, prender parte ai
casi del 1799;a vrebbe potuto il 1821 , m a nol fece : la filosofia civile e
bat tagliera era finita col patibolo di Mario Pagano ; da indi in poi,nel
mezzogiorno d'Italia,prevalsero le speculazioni soli tariefattene'penetrali
dellacoscienzasubbiettiva.IlGioia ed il Romagnosi scontavano nello Spielberg il
delitto di aver applicato l'ingegno alla Statistica,ed al Dritto pubblico :nel
Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i filosofi furono esclu sivamente psicologi.
Non so se bisogna far eccezione per quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo
pseudonimo di Pirro Il 1848 trovavasi il De Grazia avanti negli
anni,dedito da quasi cinque lustri agli studi filosofici, stimato, se non cele
bre; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla C a mera la sua
provincia. Pare che questi numeri gli meritas sero isuffragî degli elettori
politici,ed egli riuscì eletto con 5103 voti,terzo fra inove deputati della
provincia di Catan zaro .L'esito gli fu comunicato il 7 maggio 1848 dal
Presiden te Ignazio Larussa, valoroso giureconsulto ,e scelto Deputato anche
lui,con queste parole: Tal verbale , nell'essere il mandato legale de poteri a
Lei conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue
eminenti virtù ». Il De Grazia però non fece a tempo di saggiarsi nella vita
politica : la mala fede del principe aiutata dalla inesperienza politica del
popolo insanguinava le vie di Napoli e sgomentava naturalmente l'animo di chi
era fatto per la quiete dello scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe
delle piazze . Il De Grazia, senza infamia e senza lod e , torna agl i studi.
Lallebasque, scriveva aLugano laGenealogia del pensiero, e che quivi pare
balestrato da contrario e prepotente de stino. Dopo lamorte delGalluppi,contro
lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato nel saggio,era nel mezzodì inval
saquelladelRosmini edelGioberti,ed,oltreaquesteita liane, quella straniera
dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no principalmente il sopravvento . Ciò
dava molestia a lui, costante e schietto sostenitore della filosofia della
sperienza. Se gli era parsa incauta e sdrucciolevole quella che il M a miani
chiamava la riservatissima filosofia del Galluppi,è da immaginare quanti
pericoli non temesse dalle ardite sintesi del Gioberti e dell’Hegel. In un
volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello del francese
Lamen nais,e pubblicollo il 1850. Pur lodando l'impresa del De
Grazia,il Padula non gli dis simulava però che la critica fatta dell'Hegel e
del Gioberti era scarsa al bisogno : instava, che ci tornasse sopra,e che
raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il filosofo a p u b blicare la
Filosofia del pensiero, opera dal De Grazia dovu ta accennare come in via di
esser composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed
al Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia
ortodossa. L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di
sensualismo,e quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto
rincrebbe,e si risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la
filosofia dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed
amettere in salvo la pericolante ortodossia.IlProspetto,
invero,piacquealcleronapoletano,piacqueaiGesuiti;ras sicurò l'autore
medesimo,che doveva sentirsi in disagio. Padula,ilsolo,credo,cheleggesseallorailibri
delDe Graziain Calabria, glibattevalemani da Acri, suo
paesenativo.LeletteredelPadulailDeGraziaavevacon servate; gradito applauso in
tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle idee giobertiane
appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera segnata addi 1 del 1851 ,da
Acri,gli scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea
giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte
mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere
chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta
doveilDeGraziaraccontaleliete,enonsoseoneste,acco glienze fatte al suo ultimo
libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo inserito
nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima lettera,un
altro forse se ne pub blicherà nel Periodico la Scienza e la Fede.
Eparmichean 8c h e il clero napolitano a b bia accolto con favore
il mio piccolo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e
dottrina del regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel
Seminario di Napoli, il quale ha una m e r i t a t a r i p utazione presso il
clero anzi detto. È ben s ì indipendente d a t a l favore v o l e opinione il
suffragio de ' redattori della Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che
queste accoglienze fossero one s t e , quanto erano liet e . Il clero
napoletano allora, e i Gesuiti specialmente miravano ascalzare la filosofia del
Gioberti,a denigrarla,ametterla inmalavoce.IlGiobertifilosofonon era forse la
secreta n:ira de'loro strali :tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico
: guerreggiavano la costui filosofia per vilipendere quel senso d'italianità
che traspirava da tutte le pagine dell'illustre torinese. In quella che il
Padula aveva chiamatal'epopeagiobertiana,lafilosofianonerasenonun e pisodio
solo;e se gran parte de'giovani corse dietro ai pensamenti di Gioberti , vi
cor e s o spinta da quel caldo patriottismo, onde ilfilosofo aveva saputo
ravvivarli.Igiovani hanno più sicuro,che non gliuomini fatti,ilpresentimento
dell'avve nire. I Gesuiti se n'erano accorti, e festeggiavano l'opera del De
Grazia,perchè vi trovavano un poderoso aiuto.Non dico che il De Grazia
sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accettava la lode,
perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al Padula,e che noi
abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di un fanciul lo
che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione dell'articolo della
Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem . « Lode al
cielo !Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia
italiana, intenebrandola colle lar ve di quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del
possibile,e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge
all'estremità d'Italia , nella patria degli Archita, dei Zenoni ,
dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta
richiamare gli Italiani a pensamenti meno aerei spezzando gli idoli adorati
oggidì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla
ge neralità delle idee ». Qui la frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto
fra ita lianissimi e tedescanti non poteva essere più abilmente, o più
gesuiticamente messo in rilievo : non basta però a colo rire intero il disegno
dell'articolista, ed ecco un 'altra frec ciata,che mira più addentro. «Oh
questosì,chepotràdirsiunverorinnovamentodifi losofiaitalica!enegode l'animo dipotervaticinarealch.
A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini , di
quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali
tentano di risuscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi Italiani, mentre
in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo te desco,o
dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio agli Italiani
vanno nella Magnagrecia ad invocare la Pitonessa,perchè risusciti dalla tomba
iprofeti del paga nesimo,all'estremità della Magnagrecia presso la calla del
cattolico Galluppi la Provvidenza fa sorgere un ingegno sin golare, che
passando dalla milizia alla Scuola sembra con trapporsi al Renato ,che
abbandonò la milizia per combattere la Scuola ». FinquiilGesuita.Ordunque,notoio,quandosivuolfi
losofare alla tedesca , l'Italia è la patria degli Archita , e dei Zenoni,e non
istà bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora,ch'era
stato modello adArchita,ed allo stesso Zenone da voi indicato,ecco che questi
diventano a un tratto profeti del paganesimo : potremo sapere a quali filosofi
bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo ?
- « La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io
ho fatta;e che sarebbe per me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle
poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire per R o m a . Se in tale
occasione p o tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi stimereifelicedi conoscere
il Ristoratore della filosofia ortodossa ». Mi son fermato su questi
giudizî,perchè qualcuno ne ave va indotto,aver ilDe Grazia nell'ultima opera
cangiato via, ed essersiaccostato alTomismo.IlDe Grazia,qui come nel
Saggio,rimane saldo nella sua dottrina sperimentale: se di fetto v'ha in lui, è
la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime idee,e delle medesime parole
stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non glisipossono imputare.Quel che
si trova dippiù nel Prospetto di filosofia ortodossa è lo sforzo di far parere
tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli pre messe,non indovino : era per
tranquillità della propria co scienza ? era per capacitare gli altri ? era per
aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua
dottrina ? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimase quasi sconosciuta, nè
le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le
nocquero più tardi : successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui
disegnato,e costruito a Cosenza ; il quale fu disfatto per impiantarvi un
collegio di gesuiti. Ma lasciamolo làil Gesuita,che non siaccorge,quanto la
filosofia del De Grazia possa arrecar di nocumento alla sua fede:ilcritico non
va a cercare tanto per lo sottile,e siap paga dell'autorità di san Tommaso ,e
del titolo del libro:più inlànonvede.NèpiùinlàvideilP.Taparelli,contuttala fama
di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro De G r a zia da Sorrento,in
data del 12 agosto 1852,lo salutava,senz'altro, ristoratore della filosofia
ortodossa. Il De Grazia, saputolo a Napoli , era stato a fargli visita : non lo
aveva trovato , e d il Taparelli , i n f o r m a t o n e , gli aveva scritto
così. Meritava egli quest'obblio? Certo che no ; e noi ci studie
remo didimostrarlo,facendouna rapidaesposizionedellesue dottrine contenute
ne'libri finora accennati. E primadi tutto:
qualieranolecondizionifilosofichedelle provincie meridionali , quando egli
diessi a filosofare ? Quale fine si propose egli ? Quali mezzi aveva sotto mano
? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle
sue ricerche . Vincenzo de Grazia aveva avuto una coltura matematica ; e, come
porta questa coltura, il suo spirito ne aveva attinto un bisogno di
dimostrazioni rigorose,ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle
sintesi arrischiate. Da parec chie testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla
filosofia sui quarant'anni, quando già la fantasia è manco vivace pur n e gli u
o m i n i c h e p i ù n e a b b o n d a n o . E l ' e d u c a zion e a d u n q
u e e l'età lo attiravano per quella via piana e sicura, dove un pie de va
innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di salti. Nel 1825,quando
all'incirca eisimise afilosofare, ilGal luppi aveva lastricato quella via, ed
additatala ai suoi con cittadini.La filosofia sperimentale era in voga.
Erainvoga,ma lestavasempre difronte,temutaavver saria,quella filosofia che
rivendicava all'attività dello spiri to un'attività produttrice ed
indipendente, benchè sotto v a rie forme. Il Locke nel secolo diciassettesimo
aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma era stato alla sua volta com
battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto altro aspet to.Non
dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar mo,dicevaLeibniz;ma ilmarmo
nonèperòliscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che messa inrisalto siaccosta as
sai alle linee che ti occorrono a figurarle. Stefano Bonnot di 11 Il De
Grazia mori a Napoli, quasii gnorato : era attorno ad altri lavori , fra i
quali un'Estetica, eleIstituzionidifilosofia;ma diquestimanoscrittiforsela
sciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia. Condillac
ripigliava l'impresa del filosofo di Wrington , e non c o n t e n t o d i d i v
o l g a r l o t a l e q u a l e , c o m e a v e v a f a t t o il V o l t a i r
e , lo semplificava,lo facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui
quell'ufficio, pel quale al Locke erano occorsi due coef ficienti : la
riflessione del filosofo inglese era sbandita come
soverchia.IlCondillacaveva,come suolesuccedere,comincia to con ricalcare
fedelmente le orme di Locke , poi aveva ri fatto a modo suo : e la sua
semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine del
filosofo inglese. Onde,morto luiil1780,ilsuofilosofarecontinuò,inter r o t t o
a p p e n a d a l l o s t r e p i t o d e l l a r i v o l u z i o n e ,c h e t
e n n e d i e t r o allasuamorte.Cessato,difatti,ilterrore del1793,l'anno
appressoicondillachianiriapparveropadronidelcampo filo
sofico,edebberoinmanolaScuolanormale,el'Istituto,che allora sorgeva per Decreto
della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo gruppo detto degl'Ideologi
contava nomi ce l e b r i : C a b a n i s il f i s i o l o g o d e l l a s c u
o l a , T r a c y l ' i d e o l o g o p r o priamentedetto,Volney
ilmoralista,Garatprofessorealla scuola normale e difensore del sistema ; e poi
con loro altri che dipoi deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano p e
r la m e d e s i m a d o t t r i n a : il M a i n e d e B i r a n , il D e G e
r a n d o , ilLa Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e
la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava
nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni
allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo .
Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I
deologia;nontuttinesannoilmotivo.Napoleonenon l'odia va tanto come
dottrina,quanto come partito. IlCabanis,ilVolney,ilGarat,ilDeTracy,cheavevan
visto di buon occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della
rivoluzione, non furono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove .
Gli tennero il broncio , ed ei si 12 vendicò nel rimpastare
l'Istituto,scartando la sezione delle scienze morali, e destituendo
l'Ideologia, secondo la frase del Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi
della collera napoleonicacontro quegl'innocenti ideologhi,che poinon
lameritavano davvero.All'Ideologia Napoleone imputava di scandagliare le
fondamenta dello Stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che fosse
l'accusa,l'Ideologia ne scapitd, alme no perdendo la veste di filosofia
ufficiale, e lo spiritualismo,
chenespiavalemosse,lasoppiantonellascuolanormale, dove ilRoyer Collard
l'introduceva il1811. Seguace del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere
la preoccupazio ne invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori
della Ideologia;e che quindi o bisognava accettare lo spirito teologico del De
Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a c a p o il T r a c y . C o l R o y
e r C o l l a r d l ' a l t e r n a t i v a f u e v i t a t a , e d inaugurata
la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi in poi
sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint Hilaire,
col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato
dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna:
gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra
filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune
proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata
dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I
talianilafilosofiatrascendentale di Emanuele Kant.IlGal luppi se ne mostrava
profondo conoscitore fin dal 1819, quando incominciava la pubblicazione del
Saggio su la cono scenza umana ;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse e
s p o s i z i o n i d e l V i l l e r s . P i ù t a r d i s o l t a n t o , il
1 8 2 1 , t r a d u c e v a laCriticainitalianoilMantovani;ma
PirroLallebasque,il 1824,era in grado di studiarla su l'originale, come dimo
stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Intro 13
duzione alla filosofia del pensiero : caso degno di nota per quel tempo,
quando nè la lingua,né la filosofia tedesca era no divolgate, come oggidì, non
dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa .
Leduevieaperte,daindiinquà,furonoadunque,almeno p e r n o i , q u e s t e d u e
: il s e n s i s m o , e d il c r i t i c i s m o . T r a q u e s t e cercava
di aprirsi un varco intermedio il Galluppi ; al sensi smopropendeva
ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa squale Borrelli scriveva e stampava a
Lugano, quasi con temporaneamente al Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di
nome .Ottavio Colecchi insegnava pure in quel torno,ma le sue questioni
filosofiche non furono pubblicate, se non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia
quindi conosciuto gli scritti del Colecchi , è certo ; del Borrelli si può
dubitare, benchè a certi segni,che appresso additeremo, si possa credere di
averne avuto sott'occhio le opere .Indubitato è però che siasi formato sul
Galluppi,e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran
concittadino, evitando gli svia menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando
più dritto alla meta . Più dritto e difilato procedette in realtà;ma verso dove
? ParvealDeGraziacheilGalluppi,scambiodifondarelafi losofia della sperienza,
come si era proposto, per incaute concessioni al Kantismo,era finito con
darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi
libri, come nell'ultimo;primacopertamente,esenzapronunziarne
ilnome,poiallasvelata.Onde amenonpiccolasorpresaha cagionato il giudizio di
certi nostri storici e critici ad orec
chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima
dottrina. Capisco che iltitolo, c o m u n e a d e n t r a m b i , di filosofia
s p e r i m e n t a l e , h a p o t u t o t r a r
reinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei losbaglio,s'ei fossero dilettanti;ma è
da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di scrivere storie e
critiche, senza leg gere neppure ilibri istoriati e criticati. 14
15 TornooraalDeGrazia.Perdimostrareilprocessostori co de'due opposti
avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de sistemi
filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il problema, e
si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è manifesta, avendo
questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e
dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini
fatte prima da altri sul m e d e s i m o s o g g e t t o : il D e G r a z i a t
u t t a v i a r i t e s s e l a m e d e s i m a storia con altro intendimento
;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta dal Galluppi, e vale il pregio
di essere esposta e conosciuta in disparte. II. La filosofia pel De Grazia si
aggira sul problema della scien
zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle due opere capitali scritte dai
due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione.Il Galluppi scriveva il
Saggio plosofi co su la critica della conoscenza ; il De Grazia, il saggio su
la realtà della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni
storiografi dafrontispizî,perchè dallaintestazionesono corsi,senz'al t r o , a
d a s s e r i r e c h e il G a l l u p p i e d il D e G r a z i a p r o f e s s
a n o l a medesima dottrina.Se non che,questa volta l'hanno sba gliata ; chè se
il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma
opposta.Il De Grazia scrisse col manifesto divisamento di combattere la
soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca
accenna a questo punto capitale del suo Saggio , ch'è la real tà della
scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio ne accettata dal filosofo di
Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto dal De
Grazia. IlGalluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua
Ancora non gli eran potute essere note le tre epoche di stinte da Augusto Comte
, che par di non aver conosciuto n e p pure
dopo,egiàeglitripartiscelastoriadellafilosofia,aun di presso,con un criterio
analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione,baldanzosa
per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, te nendo
scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne quasi un'appendice
delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse
dal proble madelconoscere;matostoloabbandona,sedottadallame tafisica. Nella
terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito,ed'altronon
sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema conoscitivo,di quando in
quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa metafisica,lo scapestrato
razionalismo s o n o p e r D e G r a z i a il v e r o o s t a c o l o , c h e n
o n l a s c i a p a s s a r l a vera scienza per la sua via. Alle tre epoche
egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi
ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti
d'induzione ; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in
terrotta qua e là dai tentativi del Galilei, del Bacone,e del Des
Cartes;laterzaduraancora,edènelmeglio delle sue conquiste. 16- dottrina
la genesi storica del problema da lui riproposto ; e
sirifàdaCartesioaquestaparte,daCartesiocheperluiè il padre della filosofia
moderna .Il De Grazia risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca
, senza perder d'occhio p e r ò il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a . Il
s u o c r i t e r i o s t o r i c o è s e m plicissimo:v'èduefilosofie,una che
ritienel'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè
si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome
dirazionalismo. È mestieri,diceilDe Grazia,distaccardeltutto leme
tafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero,per forzar la ragione al
metodo di pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza
precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel
chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l'
i m p e t o , e n e m o d e r i la foga ; e , p e r n o n
esserviriuscitaancora,lametafisica èrimastastazionaria, piena zeppa di
ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. «Positivoprogresso
dellafilosofiad'oggidì è quello di es
sersiridottelericerchemetafisiche,cheuntempo formava no la sterile ricchezza
degli scritti filosofici ». L a s t e s s a a v v e r s i o n e h a il D e G r
a z i a p e r l o s p i r i t o t e o l o g i c o . « L'intervento divino nella
spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento
del nodo diuna tragedia.Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una
causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause
naturali ». Soggiunge innotaunariserva,èvero;dichiaradinon v o l e r i m p u g
n a r e i m i r a c o l i : il p u n t o p r i n c i p a l e n o n è m e n
saldo però,l'esclusione loro dalla scienza. QuiilDe Grazia,siacheloconoscesse,oche
s'incontras se col Comte , si mostra cosi aperto avversario dell'interven
todivino,come delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo sviano dalla vera
scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tresecolinelDeGrazia:fondamentodellascienzaèlasolaos
servazione;e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa,da parte
degli autori. IlDeGrazia rivolgeaifenomeni delpensiero quella os servazione,
che il Telesio aveva rivolto a'fenomeni naturali. Ilmetodo ch'ei si traccia,e
che si studia di seguire,è il se guente:osservare ifenomeni primitivi,ridurli
finoagli ele menti irreducibili. 17 3 «La
filosofiaintellettuale,eidice,dopoaverriconosciuto i fatti attuali di coscienza
dee saggiar di risalire di riduzio ne in riduzione al fatto primitivo,alla pura
veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si fer
ma?Sono tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi tre parti principali della
filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio
i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da lui seguito è pre
cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non dissimula il bisogno
da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo dellematematiche,allequali
s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che
si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno m e desimo si
coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po sitiva. « E p p u r e , e s
c l a m a il D e G r a z i a , n o n v ' è c h i p a s s a n d o d a l la
evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto
ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema
della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo spirito possa solle v a r
s i a l l a r i d u z i o n e s c i e n t i f i c a d e ' f e n o m e n i , il
D e G r a z i a d e scrive in modo molto preciso;e tale che merita esser riferi
to con le sue stesse parole. « Ma l'esperienza non è l'osservazione
empirica,che si arresta a'fenomeni isolati.Ilmetodo sperimentale sigiova
dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno meni;del ragionamento
astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali, delle ipotesi.Con sì
varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre
i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal corso della na tura le sue
leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une costanti e permanenti , le
altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a
minorar tuale ». l'ignoto,che resta limitato a'fenomeni
irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello diprevenir l'esperienza,e
somministrar così preziosi materiali a tutte le arti ». C h i r i c o r d a il
m o t t o d e l C o m t e : « s a v o i r c ' e s t p r é v o i r » r i
conoscerà di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune
mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto
. Trasportandoorailmetodotestedescritto alleinvestiga zioni filosofiche, il De
Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i fatti della coscienza,qual'è
attualmente, e di riduzione in riduzione risale
finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge
nerata.Eglistessoformolailsuoproblemainquesti termi ni:«coimezzichesonoinnostropotere,ritrovarlagene
razione delle verità,di cui siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama
genealogico; e la parola ed il concetto sitrovano inun altro filosofo
italiano,noto alDe Grazia,in Pasquale Borelli,che intitolò lasua filosofia,Prin
cipii della genealogia delpensiero.Fino a che punto s'ac cordino nel loro
intento,toccheremo appresso :qui basta n o
tare,chelafilosofiavera,lafilosofiaseriapelDeGrazia co mincia con quest'analisi
minuta degli elementi primi del pensiero.Dimodochè sebbene ei lodi Aristotele
di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più ancora di essersi
fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio,e per
un'affrettata generalizzazione,il n o strofilosofononripiglialaverastoriadalui.Ilprimo
sag gio genealogico del pensiero sembra a lui,essere stato il
Saggiosul'intellettoumano diLocke,chepure ilGalluppi chiamava immortale.
QuelSaggio,cadutopoi indiscredito,ebbe una meritata
rinomanza;elafamafupiùfondatadeldiscredito.La filo sofia inglese mette capo
tutta quanta in esso ; la francese del secolotrascorso
nederivò;allatedesca,iniziatadalKant, d i è il p r i m o u r t o p e r m e z z
o d i H u m e . O g g i d i , a p p r e s s o d i n o i 19 Il
principal merito del filosofo di Wrington era agli occhi del De Grazia quello
di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per
innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e
quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare
attorno a questa ricerca.Cartesio e Leibniz,
chesicredonodiaverleammesse,inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e
fu per colpa di una improprietà dilinguaggio ses'imputòalorodiaverleaccettate.E
qui dava una toccatina alGalluppi. Ma
ilsistemalockiano,nelrintracciarelagenealogia del pensiero, omise moltissimi
atti mentali che vi concorrono ; ed era omissione scusabile in un primo
tentativo,ed in ri cerca cotanto complessa.Locke diè,per dir così,una for mola
generale,allaqualeeranoapplicabilipiùvalori:Con dillac si avvisa di darle un
valore preciso ; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva riconosciute due
sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la riflessione:quest'ultima non era
ben definita,erauna funzione che accoglieva un po'di
tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in definita,siconfondeva con
lacoscienza:Condillac dà un va - 20 -
sièpiùgiustiversodelmodesto,delsincero,del pazientis simo Locke ; smessi i
superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scriveva il De Grazia le
invettive giobertiane erano accolte senza molti scrupoli ; ed al filosofo
calabrese f u g l o r i a n o n e s s e r s e n e l a s c i a t o s m u o v e r
e . Il G a l l u p p i , c o m e abbiamo visto,lo aveva pregiato assai,ma i
consigli del buon vecchio cominciavano ad aver poca presa su gli animi
de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta stima del Saggio lockiano,che
al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da
insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal maestro di filosofia
ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto Locke
. lore preciso , riduce tutto alla sensazione , o semplice , o t r a
sformata : sentire è giudicare. IlDe Grazia,come abbiamo visto,fa della
sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili ; egli non può dunque nè
contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne moltomeno
dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione de'fatti gli
pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare sistematico . Gran
merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio,di questo
fenomeno irreducibile,stato dal Con dillac confuso con la sensazione. Pel
filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte
le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al nostro filosofo
paiono indispensabili alla soluzione del p r o blemachesièproposto. Ma con
questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività
de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a s
o g g e t t i v i t à d i K a n t p e r ò , e d il D e G r a z i a n e c o n v
i e n e , fu una necessità storica. Locke aveva detto che tutte le n o stre
idee nascono dalla sperienza,e che un'idea originale semplice non può derivare
quindi da un ragionamento : H u
meaccettòlepremesse,econtinuò:mal'ideadicausanon ܚ.ܝ 21-
Per lui,come per d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e
intelligente,è quella di poter dare un senso al la parola è:ora il Condillac
questa distinzione l'ha distrutta. ; i J tà el
Seelementisoggettivi,eglinota,simesconoco'dati spe rimentali,in taleipotesinon
conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma quelcheciapparisce
esservi;talchese spogliamo ilfattodiciòch'ènostraproprietà,lanostraco noscenza
svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le
ideedispazio,ditempo,disostanza,dicausa?Togliete via dunque dagli oggetti
esterni e dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e
dello spirito è distrutta », può derivare dalla sperienza ;dunque
non c'è.Cosi tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel
sen so comune ,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli
elementi aggiunti dall'attività dello spirito. IlDe Grazia nota con molto
accorgimento,che in sostan zailsensocomune,dicuitantosicompiacciono certi filo
sofi anche oggidi,non salva nulla;che per giunta è pieno di
contraddizioni,perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie,mentre
si era prefisso di accettare le comuni cre
denzetaliqualisitrovanonellacoscienzavolgare;che tra Reid e Kant,per ciò che
riguarda la realtà della scienza, nonc'èpuntodidivario.
«Kantnellospiegareilfenomenolosfigura,elascia sco
vrireildubbio:lascuolascozzesetieneoccultato ildubbio perchè non imprende la
spiegazione del fenomeno .... È BravoilDeGrazia!Eglinonsilasciaappagaredallepa
role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò rendergli giustizia,nè
condannando lui,assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene
ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degli
elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma l'aggiunzione sola,quanta che
fosse, era sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana . Certi
nuovi critici,che in filosofia credono poter servirsi dellastadera,han
detto,peresempio:ilKantammette in tuizionipure,categorie edidee,tutte
apriori,ilGalluppi, invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'i
dentità e di diversità,dunque è lampante ch'ei sian discosti le mille miglia
uno dall'altro. sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle
nostre conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina
della scuola di Reid !> que IlDe Grazia scrive così:«basta ilsupporre una
pura ve duta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità,
·23 rapporto fondamentale delle nostre conoscenze , per ricadere nel
realismo empirico del sistema kantiano ».(Saggio etc. Vol.2,pag.160 - Napoli
1839). Nè contentoacid,altroverincalzalasuaosservazione in questi termini: « M
e t t i a m o o r a i n d i s p a r t e il s i s t e m a k a n t i a n o ; c a
n g i a m o la sua ripartizione tra gli elementi soggettivi e gli oggettivi
accordando più largamente alla sperienza ; o anche tutte le idee diciamole
derivate dalla sperienza,e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni
oggettive i rapporti a n zidetti appresi tra le sensazioni ; noi ricadiamo
apertamen te nel realismo empirico della filosofia critica ». (Vol. 3, p.367).
Pel De Grazia il kantismo consisteva nell'applicazione di elementi soggettivi
alle sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei riconosce
ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli
altri non siansi accorti di questa medesimezza. « La storia nota a stupore
della posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema
kantiano, e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta n a
tura soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe stata la
maraviglia del De Grazia,se avesse vistoche,quando
ebbenotatacotestasomiglianzaloSpaven ta,controluigridaronotutteleoche,vigili
sentinelledella rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana,
quella ch'era critica aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne
predicavano sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma
torniamo al De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se
non una volta sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del
suo gran concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che
però miri al Galluppi, ap parisce da un'apposita nota,che aggiunge
a pag.239 del 4° vol.delsuoSaggio. « La dottrina degli elementi soggettivi,ei
dice,è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del
metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo,riferendosi alleformepure diKant,che
sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione
per la c o n siderazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia
l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome
credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella
ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome
or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se
cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di
mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal
sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina
degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e
si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da
taluni si è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Pel De Grazia adunque il
divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso,
era più dinomeched'altro.Checosanediràilprof.Acri?checo sa ne diranno tutti
quei ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche
citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile
rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva
dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato dal
De Grazia . 24 « Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che
questeidee(identitàediversità)sono soggettive es'accor dano
nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il t u o a r g o m e
n t o s a r e b b e q u e s t o n è p i ù n é m e n o : q u e l l ' a n i m a l
e lì è c a n e ; q u e l l a c o s t e l l a z i o n e lì è c a n e : q u e l l
o a b baia;dunque quell'altra deve pure abbaiare.Se si considera ilpensiero
delGalluppi su questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha
notato quel nostro De Graziadegnodimaggiorfama,sivedesubitochel'idea
diidentitàhavaloreoggettivoereale,perchènasce dall'i dentità reale dell'io come
cosa,non altrimenti che l'idea di unità ».(Acri,Critica etc.p.31). Quando lessi
questa scappata dell'Acri,mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto
nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione del De
Grazia,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano
la falsità. Stando all'Acri,adunque,quel nostro De Grazia aveva notato
benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano
oggettive;chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza.
HailprofessoreAcrilettodavveroilSaggio delDeGra
zia?Iocredo,edebbocrederedino,perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro
valoroso concittadino d'altro non biasimailGalluppi,pursenzacitarlodinome,che
diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di
questi due d'identità e di diversità. - 25 Ilprof.Acri,seavesselettoillibro,non
sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che
ilDe Grazia ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza
de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme
kantiane,come degli elementi soggettividelGalluppi.Capiscocheilprof.Acri
potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di
storia della filosofia,ma egli non doveva contare per niente,dunque,neppure
isuoi contraddittori? Padronissimo di creder lui,che que'rapporti
pel Galluppi sianooggettivi,ma perchèvolertiraredallasuaancheilDe Grazia,che
tuttalavitascrisseappunto per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi.
Finchè visse ilGalluppi,ilDe Grazia non riflni dal com batterneladottrina,congrandeinsistenzaforse,delche
si scusava;ma con profondaconvinzione,edopo averne lunga mente ponderato quelli
che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una
volta sola, c o m e a b b i a m o v i s t o , e p e r l o d a r l o . M o r t o
c h e f u il G a l l u p p i , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di
Prospetto della filosofiaortodossa,smettelaprima riserva,elocombatte no
minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi : « Su tutto
quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione
essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo
anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che fin dal 1839 le stesse
osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e
non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli
pubblicati in diversi giornali ».(pag.141-142). Dimodochè rimane fuori di ogni
controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina del Galluppi su
la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a
quella di Emanuele Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività
de'rapporti parve al De Grazia concedere più di quel che Kant medesimo
ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto
questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi
soggettivi ».(Vol.4,pag.267). Eperchèdippiù?PerchèKantlimitavaalmenoilnumero
delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più
largamente. Ecco le strette in cui il De Grazia pone questa filosofia.
26 «Finché siritiene,eidice,da'filosofilanatura soggetti
vadelleideedirapporto,restainconcusso ilprincipio,che
isensinonpossonoaltrodarcichenude sensazioni.Questo p r i n c i p i o o r o v e
s c i a p e r i n t e r o il s i s t e m a s p e r i m e n t a l e , o deve
ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo
èilformalismoassoluto,all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello
spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le
nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice
ilsensualista».(Vol.4,pag.269-270). O Kant,oCondillac:eccoilbivio
dellafilosofia,secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due
soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri m e z zi del
conoscere.Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un
solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano.
Formalista è dunque il Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad
ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse
un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il
nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma
ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto dal De
Grazia non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia
delle q u e stioni;noncosìilDeGrazia,ilquale vipenetraaddentro. È una
contraddizione,eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina
è quella che non dipende dal la intenzione,o dalla professione di fede che fa
un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi
sintetici a priori non vole 27 rà; « Non si è dunque avvertito, che son
due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e
l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.). te
ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o
parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello
spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e
del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e
dal Galluppi, diceva:giudicare è a g g i u n g e r e ; il D e G r a z i a , d i
s c o s t a n d o s i d a l p r i m o e d a l s e condo,dice:giudicare
èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione
del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né
Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ;
Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato
ilGalluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno
dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale del De Grazia .
Due sbagli commette ilGalluppi,uno di confondere ilsen - timento con la
coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il
sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi
abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che
sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello
spi rito ».(Vol.4,pag.17). « Confondendo la coscienza della sensazione con la s
e n sazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il
conoscere, il percepire col sentire, c o n fusione che essi medesimi
rimproverano a'sensualisti ». (loc. cit.). Queste due confusioni erano state fatte
veramente dal G a l luppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin
Il simile si dica della idea dell'ente, che il Rosmini a g giunge ad ogni
giudizio; su la quale torneremo altra volta. 29
«Sentireilmesensitivodiunfuordime,glidiceilDe
Grazia,èlapiùforzatacontrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di
coscienza ».(Vol.4,pag.18). L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere
questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo,
dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo
motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di
spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert,
entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto
il bisogno di spiegareilpassaggiodalmealfuordime:idueprimiave vano anzi
proceduto più avanti,additando come mezzo l'in
duzione;ilGalluppitagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi
luogo a passaggio,quando la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio
sbaglioadunque da partedelGalluppi:primo,aver disconosciuto igiudizî
primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo
esteriore,ilsoccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la
dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto
che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo
non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi
fapassareall'oggettoesterno,come,diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare
una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle
sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ; -
ternailsentimentoelacoscienzadelme;esottoilnomedi sensihilità esterna la
sensazione e la percezione . Perchèdalsentimentosivadaallacoscienza,edallasen
sazioneallapercezionecivuoleilgiudizio;non ilgiudizio
galluppianocheaggiungarapportisoggettivi,ma ilgiudi zio che osserva,ed
osservando distingue i rapporti reali delle cose. e della forza dell'abitudine
Hume ,e della efficacia della in duzione avevano accennato il Leibniz ed il
D'Alembert ! IlDe Grazia riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c e s s o r
i , e li c o m p i e c o s ì . associazione adunque spiega l'origine :
l'induzione as sicura la realtà;come si può assicurare, beninteso, una ve rità
contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i
quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto
:ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo
descritto 'da Davide Hume. Il D e G r a z i a , s c h i v a le p r i m e e le s
e c o n d e difficoltà , e f o r m o l a il p r o c e s s o g e n e a l o g i c
o c o s i : l ' a s s o c i a z i o n e c o m i n c i a , senza badare alla
realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del
cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi
parziali tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione
e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac
;l'osservazione, indefi nitatralemanidiLocke,edaluimeglioprecisata;lamas sima
aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo
da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e dal
D'Alembert a scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi
dati,ilgiudizio osserva i rap
portichevisonocontenuti;l'associazionedelleideecifor nisce leconoscenze prime
concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima
le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa d e l l a i n d u
z i o n e , h a n n o o s s e r v a t o , c o m e il G a l l u p p i : m a l a
i n duzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede
troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre
capace. 31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di
fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva
enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo
diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due
geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece
di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati
sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine
artificiose de'lorosistemi,l'occasionalismo,l'armonia prestabilita,e simili
deviamenti dalla salda filosofia. IlGalluppipoiagliocchisuoihailtortonon
solodinon aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato
anche al di là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto
per obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a
tutti i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà
oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: «
ciò che non veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente
percettividell'oggetto esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza
legittimata la realtà dell'oggetto esterno ».(Vol.2,pag.254-255).
IlGalluppidiffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo
de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con
l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che c'è una contraddizione
manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap
porti (pag.316-317). Ondechesquadrilaquestione,ilDeGraziatorna,edin siste
sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve
chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive
leidee,contraddicendo alla loro provenienza . Nel Galluppi rivive la tesi del
concettualismo , che il n o -- stro filosofo combatte
aspramente;nel Galluppi,e più anco ranelRosmini.IlDe Graziafautore del
realismo,non del platonico però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve
nienti del concettualismo medioevale,e più del moderno;ed in questa
disputa,trattata largamente in una rassegna appo sitapubblicatail1850,eidifendeSanTommaso
dallataccia di concettualista, ed impugna la somiglianza che il Rosmini vuol
trovare tra la sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di
questa particolare ricerca diremo appres so : continuiamo intanto ad avvertire,
con la scorta del De Grazia , le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi
avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta maestrevolmente da K a n t :
il D e G r a z i a è l a r g h i s s i m o d i l o d i a l f o n d a t o r e d
e l C r i ticismo,filosofo per questo verso inarrivabile.Della origine
peròilKantnon occupossi,dichiarandoaggiuntiaprioritut tiquegli elementi, di cui
gli pareva arduo rintracciare la ge nerazione.Quanto sitoglieaiverimezzi
diacquistar cono s c e n z e , t u t t o si a t t r i b u i s c e a d u n a s u
p p o s t a o r i g i n e a p r i o r i , a questo vasto serbatoio di tutte le
perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere
lacune,per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han
combattuto,dopo delDe Grazia,l'apriori ifilosofi po sitivisti.Siricasca
inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonatalagenesisperimentale,siricorre
allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si
travestiscano . D'accordo con Kant,dice ilDe Grazia,che la conoscenza risulti
dasensazioniedagiudizî;ma giudicare,perme, semplicemente osservare,e non è
punto aggiungere. La ve duta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già
quando - Ilmetodo daseguire,nelproblema dellaconoscenza,era
questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen
te;risalirealleoriginidelleideecheoravitroviamo;legit timarne la realtà.
O siaggiunge dal soggetto.Aggiuntachel'avretevoi,non è più da discorrere
della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la
critica della coscienzaattuale;arrestossi per via nel rintrac ciare le origini
della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà
della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del
giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata;
se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun patto
legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè il
De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed insieme
di valutare,quanto poco la mira delDeGrazia
siastatascortadaquellichenehannofinora discorso.Egli ritorna spesso su la
critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa
dell'esser passatainavvertita,perchèdileggereiseivolumidelle sue opere i più si
sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre
a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatalaricercadellaumana
cognizione:gliuni avevan detto col Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a
vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi
soggettivi:egliavevarisposto:èfalsal'una el'altraspiega
zione.Ilgiudicarenonèsentire,ma osservare;irapporti sono oggettivi,non
soggettivi. Il Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni ,
aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal
ladottrinacondillachiana,purdistinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però
ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra
modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur
promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo
sperimentale, aveva a c ce to B EL er EN 5 0 cettato due
rapporti come soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La
sottile e giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali
contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza
piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve
lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande
perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. «
L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di
rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa
occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se
stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di
esistere » (Vol.4,pag.140). L'anno appresso,che ilDe Grazia finiva la
pubblicazione d e l s u o S a g g i o , il 1 8 4 3 c i o è , u n d o t t o a b
b r u z z e s e , O t t a v i o Colecchi,pubblicava in due volumi le sue
Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica delGalluppi,muovendo da un
criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed intanto somigliantissima nel
significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda
mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a
quelle di sostanza e di causa;le dedu c e n o n g i à d a l l e f o r m e d e l
g i u d i z i o , c o m e a v e v a f a t t o il K a n t , ma dalle anzidette
nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ;
rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e
finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto
compromessa . Il Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per
averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi;
senonche,invecedisoggiungerecomeilDeGrazia:dove
vateritenerlituttiperoggettivi,corregge lacontraddizione io
galluppiana in un modo opposto,soggiungendo:dovevate ammetterli tutti per
soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi
allafilosofiakantiana,eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò
che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro De
Grazia,citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo
abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli
ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal
Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se
rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa
da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no
dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai
sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua
nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di
analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le
sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò
nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori
alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so
stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la
sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle
due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono
un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi » ? (Qui
stionifilosofiche,vol.1,pag.197-198- Napoli1843).
Potreicitarealtriluoghi,concuiilColecchinota ildi - 35 un li ne ato 4 1
Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget
tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi
spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che
sono soggettive,senza essere rapporti. verso valore che debbono
avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si
applicano o agli o g getti dellamatematica,oaquellidellasperienza;ma usci
reifuoridelmiotema.Amepremeassodarechelecontrad dizioni, in cui s'era avvolta
la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate con
mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Il prof.Ferri,il quale scrisse due
grossi volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro
spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle
seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de
Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant
Galluppi,n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la
philosophie critique ».(Essais sur l'histoire etc. tom . 1, p . 334 ). Certo
così il prof. Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono
frasi tanto diplomatiche che par c h e d i c a n o , e n o n d i c o n o . Il D
e G r a z i a h a m o d i f i c a t o il G a l l u p p i ; il C o l e c c h i l
' h a c o m b a t t u t o : c i h o g u s t o : s t a b e n e ; m a c h e c o s
a h a n d e t t o ? Q u e s t o è il p u n t o ; e s u q u e s t o , s i l e n
zio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure
: l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole?Nonerameglioconfes
sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene?
Forsechèerandamenoditantialtri?Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e
salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico nel De
Grazia e nel Colecchi, che non nelMamiani.L'ho detta grossa?Chiedo scusa a
tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con
mecoloro,chesen'intendonodavvero;eche intendendo sene ardiscono dire il proprio
parere. Del silenzio sul Colecchi il prof. Ferri si scusa quasi ,scri vendo in
una nota così : 36 « Les écrits de Collecchi dispersés dans
les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il
y a quelques années ». Pardon,prof.Ferri:gliscrittidelColecchi furono stam pati
fin dal 1843 in due volumi,che io ho qui sul tavolo,ed hanno
questaindicazione:Napoli,all'insegnadiAldoMa
nuzio,CarrozzieriaMontoliveton.13,1843.Qualgirodi anni comprendete voi nell'il
y a quelques années ? Venticin que non vi bastano ? E perchè non una parola sul
De Grazia , che doveva es servi noto,poichè ne registrate ilSaggio nell'indice
delle opere filosofiche pubblicate in Italia in questo secolo ? Forse n o n e n
t r a v a n e l d i s e g n o v o s t r o , c h ' e r a d i d e s c r i v e r e
il p e n siero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te
trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare
diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo
criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre,avvertendo soltanto,poichè siamo su q u
e s t o a r g o m e n t o , c h e il c o g n o m e d e l D e G r a z i a n o n
v a s c r i t toDiGrazia;echeilColecchinonvarinforzatocome l'ha
rinforzatoilprof.Ferri,che loscriveCollecchi.Sarebbero minuzie, se non
attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto
chefuilGalluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel
combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione.
Ne'discorsi pubblicati il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva
preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva
l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso
di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal
luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla
svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova
generazione.IlDe Grazia comprende tutti que 37
stisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa .
Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più
acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano
del La Mennais,del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa
mente, perchè s'accorda col sistema del Gioberti nel rifiu tare la testimonianza
e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto al P. Ventura, poco seguito
aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza,nèilDeGraziaglienedàmolta. Mente
severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia sommaria di
tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base
solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una
volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo
accedat,nisigeometra;igiovanettioggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non
hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio
-Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non
può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per
tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i
nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà
ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più
dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un
riflesso del d o m m a religioso ; che 38 Contro del La Mennais nota che
la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi
il c o n s e n s o u n i v e r s a l e n o n h a a l t r o v a l o r e , c h e
q u e l l o d e g l ' i n dividui, da cui proviene. Con non dissimulata
derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo
del domma. Punzecchiando ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper
liberarsidaognimolestiasularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e
scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre
quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè
le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano
però a surrogarla pie namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi divini,
cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli
appunti ch'ei muove al Gioberti.Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È
ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinitobastaadecclissarlo? Il D e
G r a z i a , p e r q u e s t o i n e s p l i c a b i l e e c c l i s s e , s '
i n s o s p e t 39 d'altronde doveasi toccare con più rispettoso
contegno. Fino n e ' s e t t e c o l o r i d e l p r i s m a s c o r g e il t e
r n a r i o , d a c h e t r e s o l i secondo l'autore sono iprincipali ». Che
cosa avrebbe detto ilDe Grazia,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo
dell'abate Fornari ? Il Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot
trinaquasiispiratadelLaMennais:ilDeGraziarendegiu stizia al filosofo
italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab
bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove.
IlGioberti,perlui,escludeognianalisi delle idee,eper dispensarci dalle minute
inchieste psicologiche, ci accorda l ' i m m e d i a t a v e d u t a d e l l e
i d e e d i v i n e . C e r t a m e n t e , r i p i g l i a il De
Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le
parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « P e r t o g l
i e r s i d a o g n i i m p a c c i o b a s t a o g g i il d i r e : i o s e n
to i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero
per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia
: io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»
tiscedellaesistenzadell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla
coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè
piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si
passasse alla riflessione. Il p o t e r e d e l l a p a r o l a , d i c e il D
e G r a z i a , è m i s t e r i o s o : n o n circoscrive l'idea,su la quale
non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva.
Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in
potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però il De Grazia va più
addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione.
«Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto,
concernelapossibilitàdellavisioneinDio.La stessanonè
solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere
può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia
equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto
dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica
del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel
Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più
larghezza. 40 IlDe Grazia continua:vedere le idee in Dio,presuppone
assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono
scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici
e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui
riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con
quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per
ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettua
l i s m o , a v e v a c o m b a t t u t o l ' a s s e r z i o n e , c h e
le n o s t r e i d e e n o n siano rappresentative.A proposito del Rosmini
ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la
subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo
adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem
esserem naturae ». O r q u a l d o t t r i n a s e g u e il R o s m i n i ? F o
r s e q u e s t a d e l l ' A q u i nate,fondatasulpiùschiettorealismo?No;nesegueuna
ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso .
« L ' e n t e i d e a l e d e l R o s m i n i , d i c e il D e G r a z i a , è
b i f r o n t e ; da un lato offre l'idea universale di esistenza, dall'altro
un ente esistente ». Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare
diquantaperspicaciafossefornitoilDe Grazia;ma egliva più in là ancora,ed addita
un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non
trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi
di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea
di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea
universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze,
differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto
allanaturadellaesistenza,l'entedelRosmi ni non è meno lucido e trasparente, che
l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la possibilità
«Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia
maggiorrisaltonelnostrolibrosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale
delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi
speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha
felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». 6 42 -
dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi
lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi
nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere
un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari
«.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemidelsecolocorrente
-Napoli1850-- 29 Rassegna,pag.288). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione
del De Grazia, perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra
l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando lo Spaventa, dopo del De Grazia,e
senza sapere forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano
rimaste sconosciute,mise in rilievo con più lar g h e z z a q u e l r i s c o n
t r o , la c o s a p a r v e s t r a n a , e ci si v i d e u n o
stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio
preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadellafilosofiaitaliana,levarono
lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra
filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi
kantiano ! Il Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon
gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi,
e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi.
Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco
sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto
tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che
della smania divoler costruire la storiaapriori.IlDe Grazia, difatti,aveva a
chiare note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistemadelGalluppi;econ
menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema
delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i rappresentanti
dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel
nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe
Grazia,dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente
rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e
medesima sentenza,di averlo una voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume
divinomedesimo,eidimostraugualeaccorgimento nelrile vare altri difetti.
L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra
lapercezionesensitiva;ma ilDe Grazia s'accorge, che la vera sorgente,l'unica
sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre
l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una
sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di
nascondereimoltigiudizî,chesicontengono nellaformola «enteagentesuimieisensi»?
Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della i d e o l o g i a
r o s m i n i a n a : il D e G r a z i a l ' h a c o l t o a m a r a v i g l i
a . « La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero ? Se lo
è,siavrà un pensare identico alsentire;
senonloè,siavràunapercezione,allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in
sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque
non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba
concorre re traccia di pensiero : nè molto proficua è la ragione, che il De
Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica
ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma
chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non
il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni. « La
capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così
differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' a t t r i b u i r e l a p e
r c e z i o n e a l l a s e n s i b i l i t à , e l ' a t t r i b u i r l a s e
n sazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al
senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del
Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio
ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De
Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione
immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno
di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera
esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe
dirsi apocrifa ! » Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi
niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e
reale. Come impugni il De Grazia le interpetrazioni date dal
RosminialsistemadisanTommasovedremoaltravolta;chè tal ricerca non è semplicemente
storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del
nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata
la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o
frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi
nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra
gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa
de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pub b
l i c a t o a P a r i g i il 1 8 4 4 . N o n è d a r e c a r m a r a v i g l i
a a d u n q u e , - 44 - Al De Grazia non isfugge nessuno dei tortuosi
giri dell'ideo logia rosminiana. 45 s'ei qui non possa penetrare
sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e
coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini
edelGioberti,benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e
profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la
cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non
sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una
esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che
a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così al De
Grazia il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col
non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia
stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro
posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di
quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza
veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro
filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non
trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò,chemuove
allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più fondata.
SenonchenellaLogica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni
anch'essi ; ma non è vero però, c h ' e i s i a n o u n m e r o n i e n t e , e
c h e t u t t o il p r o c e s s o h e g e l i a no riesca al postutto ad un
movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non
aver c o m p r e s o b e n e il v a l o r e d e l N i c h t - s e i n , c h e n
o n e g l i s o l t a n t o , m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per
un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo
modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e
solo conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute
dellospirito.Qui, come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi
fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo
sofia del Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività
de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi
siassolvettenell'Idealismoassoluto.IlDe Graziaconfino accorgimento perseguita
il suo illustre avversario sino alle ultime e non sospettate conseguenze del
suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini sarebbe appreso dalla.
nostramente,sesiammettesse lasupposizione,che irap porti sono pure vedute dello
spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ». Hegel è agli occhi del De
Grazia « un elevato e perspicace p e n s a t o r e » , m a il s u o s i s t e m
a è u n a p e r p e t u a i r o n i a . L a sola istruzione che se ne possa
cavare è quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a
cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci
dà in forme le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te
al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che
l'ideale ! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la
realtà; e questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori
proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se
maneggiare ilmetodo ontologico ». I due principii che lo informano sono
l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le
prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Q u e s t o s o
l t a n t o , c h e il c o n c e t t u a l i s m o è f a l s o ; m a l a v e r
a f i losofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che il De Grazia
attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello
che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia socratica avrebbe svelato le
contraddizioni della Sofistica, come l'ironia hegeliana avreb be tirato le
ultime conseguenze del Concettualismo moderno . H e g e l , s e c o
n d o il g i u d i z i o d e l D e G r a z i a , a d d i t o il r i m e d i o
contro le forme subbiettive di Kant ,deducendo da quelle pre messe , che dunque
« i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta », Tutta la storia
della filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della
conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra
coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio
con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il s e g u e n t e : « c i
ò c h e l a n o s t r a m e n t e v e d e i n u n f a t t o o è realmente nel
fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il lusoria ». D a u n l a t o a d u
n q u e c ' è il r e a l i s m o , a f a v o r e d e l q u a l e e g l i s i s
c h i e r a ; d a l l ' a l t r o l a t o il c o n c e t t u a l i s m o , c h
e p i g l i a d i v e r se forme, finchè non diventi idealismo assoluto, ossia
l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne de'siste mi
antecedenti,Benchè ilibridelDeGraziasianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure
in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di una nuova
soluzione del problema genealo gico delle idee.Il De Grazia fa consistere in
questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non
ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente
ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert Spencer, studia
la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De Grazia si arresta ai
tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi
soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo,
sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo
immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime;ilDeGraziarisponde:ilve
roimmediatoèilsentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la
origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E
n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa
immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione,dice
ilDe Grazia,ciguida a riconoscere,che ilcampo dellaimmediata
percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi
, è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di
essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla im m e d i a t a n o s t r a p
e r c e z i o n e , m a n o i li p e r c e p i a m o c o l m e z z o di più
atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine
scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi
della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGal
l u p p i ) c o m b a t t e a v i v a m e n t e il p r i n c i p i o s e n s u
a l i s t a , g i u d i c a r e è s e n t i r e , a b b i a p o i r i t e n u t
o , c h e il s e n t i r e è u n a s p e c i e del pensare ? » Il De Grazia
scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita
così . «Quandosiammette,chelerealtàesteriorisonodanoi sentite,e che poi
l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non
sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti
distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura pri m i t i v a ; o n
d e t u t t o il c a p i t a l e d e l l a e s p e r i e n z a e s t e r n a è
c o stituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in
pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi
confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità
interna,cioè All'acume del De Grazia non isfuggi la conseguenza,che
avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este
rioreècoltaimmediatamente,dunque ilsentire è lostesso c h e il p e r c e p i r
e ; è l o s t e s s o , c h e il p e n s a r e . G a l l u p p i s e n ' e ra
aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto
sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una
specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed
irredu cibili,come ilDe Grazia sostiene. la conoscenza de'fatti
interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu
distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi il De
Grazia , son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la
coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi
dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e
chidice:lacoscienzasiestendeallarealtàesterna,dice u gualmente cosa inesatta
;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda.
IlGalluppiammetteundoppioimmediato,ilme edilnon
me;ilDeGrazianeammetteuno,ilmesolo:dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con
le parole stesse del De Grazia, le quali compendiano e chiariscono la dottrina
galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi
veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del m o n d o e s t e r i o
r e , v a l q u a n t o il d i r c h e l o s p i r i t o u m a n o c o n i s u
o i p r o p r i i e l e m e n t i c o m p o n e il m o n d o . L a f i l o s o
f i a s p e r i mentale di Francia su questo punto va a coincidere con l'I
dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il Galluppi non si affidava ai giudizî per
coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure v e d u t e dello
spirito ; d i m o d o c h é , se il m o n d o n o n ci fosse a p parso dal bel
principio così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe
stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto
di reale nella natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conosce
re,ilGalluppiquindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della
sensazione,confondendola con la percezione esterna. 51 « Si è quindi
detto,osserva il De Grazia,che nel fatto io s e n t o n o n è c o n t e n u t o
il p r o p r i o e s s e r e , e si è t e r m i n a t o d ' a l tra parte con
dire che nel fatto io sento si contiene l'essere straniero,ilnonio».
IlDe Graziaritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e
quindi non alla sensazione,ma ad un pro
cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed
indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le
troviamo nella nostra coscienza . Esclusa dal De Grazia l'immediatezza della
sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano
più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. Il De Grazia
nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro Campanella ,
il quale lo formolò così: Sia monoichemutiamo:dunquesentiamosolonoistessi,enon
giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen
tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo
, che , variamente rimaneggiato , è r i m a sto in sostanza il gran ponte di
passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro
fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente
colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la
volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed
intanto è mutazio nenostra.Epoi,poniamochelamutazioneviadditialcun c h è d i e
s t e r n o , c h i v i g a r a n t i s c e c h e il p r i n c i p i o e s t e
r n o s i a un corpo ? A taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim
potente a discoprire un fatto :esso è utile soltanto a disco prire verità di
ragione. Tolta l'immediatezza della sensazione,tolto il sillogismo, il D e G r
a z i a t o r n a a l l e r a p p r e s e n t a z i o n i , c o m e i m m a g i
n i d e l le cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle
immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione
ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione
necessaria,ma nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta
impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale.
L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat
tili:igiudizîabitualicolgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque
venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute
subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata
pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima
opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro
filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali
della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a
quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to
mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filo s o f i a a r i s t o t e
l i c a , d a a c c o r g e r s i c h e il m e g l i o d i q u e l l a , c h e
ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto
quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente il De Grazia
avverte la differenza che l’A quinate mette tra isensibili proprî,ed
icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume
l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come
odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti
tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti,
successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia
omnia reducuntur ad quantitatem ». Finalmente cita la sentenza che accenna alla
formazione delleimmagini corporee,echeattribuisceallospirito,enon 53
Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti,che San Tommaso
hariconosciutocomereali,comeresnaturae,enongiàco me res rationis.
giàaicorpi.«Imaginemcorporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in
seipso facit ». Alla quale ultima sentenza ilDe Grazia aggiunge questa
avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme
soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza
combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del
corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in
questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono
reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione
dell'Aquinate,che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona
così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva
tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui ilDe Grazia
si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri sultati
: 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del
senso;2ocheleimmaginide'corpi sivan componendo con elementi
nostri;3ochenoigiudichiamo,essere icorpi simili a quelle immagini. S e n o n c
h e S a n T o m m a s o s ' e r a f e r m a t o q u i : il D e G r a zia ha
domandato inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con qual
criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha
risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle
sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili:
giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla
seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione « Quanto però
egli(San Tommaso )enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle
immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che
que'del senso e della imaginazione ». Quando , difatti, io applico
ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione
riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza
della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica
dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. « Se
l'estensione corporea,dice ilDe Grazia,è reale, la troverò costantemente
conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà
presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer
mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve
ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa,l'evento che ne
dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far
presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar
dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la
mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti
tra la sua dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la
sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta
imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra
causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri - si fa non per la
immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via
d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue
filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione
apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere
causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap
porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma
aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di
quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo
e corpo ! mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono
ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto
nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna.
« Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di
numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le
idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del
possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per
essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro
dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio
essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è
la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non
sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe u n m e z
z o t r a l' e s s e r e e d il n o n e s s e r e ; il c h e è a s s u r d o .
Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure
al Galluppi,che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la
medesima origine. Pel De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto
permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la
modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon
sipuòdispiccaredal laesistenza,edilDeGraziachiama una rivoluzione filoso fica
quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad
affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon
giàl'essere.D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per
via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al
fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia
ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a
cogliere questo rapporto non è attalasensazione,siveramente ilgiudizio.
Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad
un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi
essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e
cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante
gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi
abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa
che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen
sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma
èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non
è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora
che a queste tre classi di fenomeni ri duce
eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te
cheperluiselacoscienzaporgeilmodellodellasostan za,non
èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una
determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata
dallostatoanteriore;nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato
anteriore e dalla mutua azione. Il De Grazia riassume la sua dottrina su queste
due idee capitali nel seguente modo . « La sostanzapersistenellasuaimmutabilenaturaal
can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove
sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi
connessi tra lo ro,cheinogniistanteilsuostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè
nel corso de'suoi cangiamenti ha per
modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato
vaseguendo,equestatendenzaèquelchenoico - 57 8 nosciamo della
forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste forze ci viene
manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza.Così
distinguia mo levarieforzeinternediunasostanza,elevarieforzein terne delle
diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può
da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato ».
«Oltrelaconnessionetraicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una
connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le
medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo
non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro
medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti
anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ».
Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente,
è la traduzione filosofica delle leggi delmoto
diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi
degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto
aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla mutua
azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non
conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.Pare al nostro au
torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata
diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato
indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien
tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma
semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia
la natura della 58 prinda percezione,come una serie di zeri è
impotente a co stituire una quantità. Con
lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione
noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza
esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci
avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi
induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacon t r a r i
a s u p p o s i z i o n e , ei r i s p o n d e , i m p l i c a l ' a s s u r d
o , c h e d u e sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e
sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più
tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che
isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau
sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse
diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a
priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri
aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma
analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia
riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua
causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma
crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì
a tal principio.Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della que stione .
.-59 11DeGraziareplicò:altroèilnonavereunaideaadegua
ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è
inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma
intrecciati insieme forsebasteranno:epoisièlasciatafuordiconto l'in
duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome. Kant aveva
attribuito al principio di causalità un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore
ogget t i v o : il D e G r a z i a i n t e r p e t r a o g g e t t i v o n e l
s e n s o d e l l a f i l o s o fiasperimentale,ed affibbiaalKant una
contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della
Ragion pura. «Daunapartesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a
priori hanno un valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene
che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi
alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a
era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o
quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in
universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo
questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive
appunto cosi: « N u n heisst « verknüpft sein in reinen Bewusstsein » soviel
als « obiectiv verknüpft sein ». Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione
dellamente,sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di
poco sicure traduzioni. N e l l ' e s a m e d e l m o d o , c o m e il D e G r
a z i a s p i e g a l ' o r i g i n e dell'idea disostanza,equella dicausa,noi
abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del
pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di
altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo
testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle
idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative
;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di
rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee sono ledue vedute
primordialinellaquistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze ». Con
questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto,ediquivi
pervia diastrazione,ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea.
Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come
percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval
giudicare ciò ch'è gene r ale ». È una falsa opinione il credere che la
necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à
non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio
non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. «
Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con cuisioffronoleideeallanostra
percezio ne:eccoquantodevesisolamentediredalfilosofo». L'infinito non è pel
nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è
anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee
precedere il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità
che ha limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover
precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una
quantitàinfinita non ènegativa». Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere
in se tutte le finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come
negazione,ma come quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che
San Tommaso chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti
quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità.Oralavorando
Piùcomplicataèlagenesidelleideedispazioeditempo. 62 sopra questi
due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella
estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio,
nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p
a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di
successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il
valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ?
Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua
natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma
a tutt'i punti assegnabili,siavrànonpiùunadataestensione,ma lo spa
zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un
istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a
tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite
della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita.
Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono ?
IlDeGraziachelichiamasensibilicomuni,ritenendo la nomenclatura tomistica nel
Prospetto della filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non
alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina k a n tiana
delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e
successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come
diverse, o meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni
dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e
successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del
concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si
contrad CO diceva ammettendo, che la materia sensibile prende
un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e
la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa
contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma
delGrazia,eforsequestil'hamutuatadall'autoredella
Genealogiadelpensiero.Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne
percategoriedell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una
varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè il
Borrelli, né il De Grazia s'accorsero però che il divario tra categoria, ed
intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel
diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare
nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire
lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui
sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n
e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è
nonperprodurre,maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa
disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofiadell'Aquinate,che,foggiatasul'ari
stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico
adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede
difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che
cosaèilfantasma?Similitudinedellacosaparticolare:Si militudo
reiparticularis.Checosaèl'attodell'intendere? È
laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre
dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che
cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino, sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera
Dio stesso,ounsuoriflesso?PelDeGrazianonèaltro,se non l'effetto della
attenzione, che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da
non confondere con la s e n s a zi o n e , m a i n s i e m e e r a u n p u r o
m e z z o d i o s s e r v a z i o n e . Osservare adunque è la parola che
compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia del De Grazia
è più moderna di quella del Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo
contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva
dettato da Augusto Comte fu pubblicato in Francia. Il De Grazia avrebbe potuto
averne notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non
l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte
era stata avvezza alle scien zeesatte,elapocapropensione per lespiegazioni
trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. Il De Grazia al
pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una
mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi
appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e
rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la
scarsa che attribuisce al sillogismo . Se non che all'osservazione
immediata ei seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata.Della
induzio ne ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli
ceradunamento de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della
sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella
evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità
di r a gione;ma una certezza morale,laquale ammette la possibi
litàdell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello
stato, ch'è pure tanto discosto dal d u b biotormentosolasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco
nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si
potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte. « Il metodo è il
ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più
generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione
viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate
osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli
incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu
tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però
negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi
sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la
nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti
speri mentali con andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi
a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma
allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal
fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte trascura
affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane pel De
Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla metafisica un valore
storico sol t a n t o , il De Grazia è per sua s o c h e l a metafisica po s s
a r i m a nere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri
inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non
esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità,
l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo
metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in
lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che
il tomismo stesso a lui or balena 9 va come riflesso dalla filosofia
aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina; edellaortodossia
del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del si losofo .
Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce
da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato :
eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto p r
o trattiinostrigiorni,finoall'istantedirassicurarciche il nostro
comunquedebolelavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate
odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità
diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. Lo studio di Aquino, e d
il Prospetto della filosofia ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per
fine ladifesa della propriadottrina.Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare
ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri
cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel nostro filosofo era
dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di
santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato al Rosmini edal
Gioberti. Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe
potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi
a stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin
cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni alla Estetica,oal l'Etica si trova più di
un semplice accenno: la Logica stessa non vi è di stesa pienamente, sebbene
tutto i'l Saggio non s i occupi di altro che di Logica. Stando ai brevi accenni
noi sappiamo che le parti della filosofia per lui sarebbero state la
logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili del pensiero sono
ilgiudi care,ilvolere,ilsentire.Ilsillogismo ègiudizio pure;ma 66
un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è
la osservazione immediata della realtà concreta. Il sillogismo è applicabile
alle sole verità di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia
della sperienza immediata :essa però presuppone la realtà delle idee di
numero,identità, diversità, sostanza,modificazione,
necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione,
altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla
osservazione immediata fatta per m ezzo del giudizio. L'associazione è la
sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee: l'induzione dipoi
legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva
per ipo tesi anticipato. Ecco adunque delineato il compito della logica:
analisi d e l senso comune, e giustificazione delle credenze spontanee che
quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a
differenza di Elvezio , il quale dà per originario il solo desiderio del
proprio utile, ammette appetiti disinteressati originalmente, non credendo che
l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare
laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi
disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti
primitivameute tali. Anchequiadunqueavrebbe il De Grazia adottatolostesso
procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to
conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavesse in 1 Prima la mente crede,
perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché laragione ha legittimato
lasuacredenza. Fin chè il dubbio non l'assale,la mente riposa sicura sui nessi
stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee:quando
ildubbio sottentra,la induzione ne la libera, giustificando la spontanea
credenza . origine operato. Se non che, eglisenerimetteaquella Filo
sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a noi. Meno preciso è il
disegno, del qua l e si sarebbe dovuto toccare della Estetica. Noi sappiamo
solo, che il Bello è per lui «l'oggetto della percezione,quando ci riesce
piacevole il contemplarlo ». Ma ,oltre a questo effetto prodotto dalla bel
lezza nello spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri schiarimenti .
Nei voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto colorire intero
il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche
ed in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello
stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe tizioni. I sei
volumi si sarebbero potuti restringere in un solo, o in un paio al più, senza
nessun danno per le idee che viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo
tuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare,che
il sensua lismo era la dottrina favorita de'giovani italiani, pria di comparire
il Saggio su la critica della conoscenza, che in parte con la forza del
ragionamen to,einparteconquellaautoritàcheilnostroGalluppi ven ne mano mano
acquistando pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle
menti giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della
religione.Quindi le sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi
principi del Saggio,furono adottate per quasi tutte le scuole d'inse gnamento
in Italia.Un tal positivo giovamento recato alla 68 Il De Grazia combatté
la filosofia del Galluppi, finché que sti viveva e professava nella Università
napoletana : la combattè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che
fu ilsuo grande avversario,ei,pur rimanendo saldo nella sua sentenza , scrisse
di lui queste parolesua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da
un filosofo». Così il De Grazia giudica il Galluppi morto nel Prospetto di
filosofia ortodossa ; ed il giudizio ci rivela il carattere
integro,leale,generoso di chi lo portava.Combattendo le dottrine di un
avversario,ei rispetto,ei lodò le intenzioni ; ei non disconobbe l'utilità che
aveva arrecato al suo paese . Talvolta anzi ei par che non agogni,che non cerchi
altra gloria, che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi
di conseguirla vivo,pur se l'augura dopo morto, non tanto per sè, quanto a pro
della sua patria. «Ese non può goderne chi l'ha meritata, pur questa tar
dagloriasiriflettesulasuapatria, servedisprone a'suoi concittadini sopra
tutto,nella faticosa carriera letteraria, e riesce di nobile compiacenza per
tutti gli spiriti fatti per a m mirare,per amar lavirtù ». Chi scriveva queste
magnanime parole ebbe certamente un cuore non minore della mente, e la tarda
gloriadaluiinvo cata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da biso
gno, non allettato da premio, passò la vita, non fragliagi ereditati, manella
faticosa palestra dello studio, dove s'in vecchia e simuore anzi tempo,ma dove
siha almeno ildrit todicredereche, morendo, non si muore del tutto.Vincenzo Di
Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e
Gregory – implicature clandestine – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Fellow of the British Academy. Grice: “I like
Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in one of the most
interesting epochs: the thirties! Then he explored what he calls the ‘lessico
filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the philosopheer’s ‘volition’
when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna a Roma. Direttore
di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di Storia della filosofia
Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima mundi”
(Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo” (Bari,
Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”,
“Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”;
“Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il
libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica
della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria
e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”;
“La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma,
Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza);
“Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier
Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A.
ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G.
Savio e Tullio Gregory, Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di
conferenze promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di
Roma nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del
Rinascimento, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni Universitarie, 1949, 191
pp. 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 1951 torna su 1951 esci 3.
BRUNO NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO NARDI, Il problema di Dio
nella filosofia medioevale, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica,
1951, 88 pp. 5. Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento
della “Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III,
XXX, 1951, pp. 119-125. 6. L’Anima mundi nella filosofia del XII secolo,
«Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp.
494-508. 3 Bibliografia di Tullio Gregory – 1952
torna su 1952 esci 7. BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1952, 51 pp. 8. L’idea della natura nella Scuola
di Chartres, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXI, 1952,
pp. 433-442. 9. Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova teologia»,
«Rassegna di filosofia», I, 1952, pp. 49-66. 10. Gli studi italiani sul
pensiero del Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di
filosofia», I, BRUNO NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory,
Roma, La Goliardica, 1953, 48 pp. 12. Note sul platonismo della Scuola di
Chartres. La dottrina delle specie native, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XXXII, 1953, pp. 358-362. Diventa, corretto e aumentato, il
quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi
Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18) e
Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23). 13. Gli studi
italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo,
«Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1954. La pubblicazione è in due volumi, il primo
di 111 pp. e il secondo di 109 pp. 15. L’escatologia cristiana nell’Aristotelismo
latino del XIII secolo, «Ricerche di storia religiosa», I, 1954, pp.
108-119. 6 Bibliografia di Tullio Gregory – 1955 torna su
1955 esci 16. “Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola
di Chartres, Firenze, Sansoni, («Pubblicazioni dell'Istituto di filosofia
dell'Università di Roma», 3), 294 pp. Indice del volume: I. La vita e le opere
di Guglielmo di Conches, p. 1; II. La teologia, p. 41; III. L’anima del mondo e
l’anima individuale, L’idea di natura,
p. 175; V. Gli ideali culturali della Scuola di Chartres, p. 247; Indice dei
manoscritti, p. 281; Indice dei nomi, p. 285. 17. L’Apologia e le
“Declarationes” di Francesco Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in
onore di Bruno Nardi, I, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 385-424. 18. Note e testi
per la storia del platonismo medievale, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XXXIV, 1955, pp. 346-384. Diventa, corretto e aumentato, il
quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi
Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Nuove note
sul platonismo medievaleIl maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in
BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze,
Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia»), Il
«De magistro» di S. Tommaso d’Aquino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico
del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I
Classici italiani della pedagogia »), pp. 183-201. Si veda anche il 1965, n.
44. 21. La «reductio artium» da Cassiodoro a S. Bonaventura, in BRUNO NARDI, Il
pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni
Giuntine-Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 279-301. 22.
Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di
Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice Arese, con la
collaborazione di Gian Luigi Barni, Luigi Brusotti, Don Giuseppe De Luca,
Tullio Gregory, Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 («La letteratura
italiana. Storia e testi», I), LXXI-1237 pp. I capitoli in cui Tullio Gregory
ha curato la nota introduttiva e/o le traduzioni sono: Dalla epistola ad
Drogonem philosophum (traduzione), pp. 362-365; Lanfranco da Pavia (nota
introduttiva e traduzioni), pp. 420-434; Sant’Anselmo di Aosta (nota
introduttiva e traduzioni), pp. 435-470; Gioacchino da Fiore (nota
introduttiva), pp. 723-725. Il volume è stato successivamente ristampato da
Einaudi (si veda 1977, n. 76 e n. 77). 8 Bibliografia
di Tullio Gregory – 1957 torna su 1957 esci 23. Nuove note sul platonismo
medievale. Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. III, XXXVI, 1957, pp. 37-55. Diventa, corretto e aumentato,
il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai
saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Note
e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale. Studi e
ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1958 («Studi
storici dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 26/27), 159 pp.
Indice del volume: I. Il commento a Boezio di Adalboldo di Utrecht, p. 1; II.
L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica di Manegoldo di
Lautenbach, p. 17; III. La dottrina del peccato originale e il realismo
platonico: Odone di Tournai, p. 31; IV. Il Timeo e i problemi del platonismo
medievale, p. 53; Indice dei manoscritti, p. 153; Indice dei nomi, p. 155. Per
la traduzione tedesca del secondo capitolo si veda 1969, n. 58. Nel quarto
capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul platonismo della
Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12); Note e testi per la storia del
platonismo medievale (si veda 1955, n. 18); Nuove note sul platonismo medievale
(si veda 1957, n. 23), tutti pubblicati sul «Giornale critico della filosofia
italiana». 25. Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale critico
della filosofia italiana», s. III, XXXVII, 1958, pp. 319-332. Con revisioni e
aggiunte è diventato il primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La
polemica antimetafisica di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della
filosofia», XIV, 1959, pp. 131-161. Per la seconda parte si veda 1959, n. 27.
27. La polemica antimetafisica di Gassendi. II, «Rivista critica di storia
della filosofia», XIV, 1959, pp. 243-282. Per la prima parte si veda 1959, n.
26. Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un
estratto unico: Tullio Gregory, La polemica antimetafisica di Gassendi,
Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia
dell’Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIX,
1960, pp. 237-252. Con modificazioni e aggiunte è diventato il secondo capitolo
di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo ed empirismo. Studio su
Gassendi, Bari, Laterza, 1961 («Biblioteca di Cultura Moderna», 557), 254 pp.
Indice del volume: I. La polemica antimetafisica, p. 5; II. Scetticismo ed
empirismo, p. 119; III. Empirismo e metafisica, p. 179. 30. L’opera di Bruno
Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», II, 1961, pp. 31-52. 31.
Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. III, XL, 1961, pp. 163-174. Testo presentato al
Convegno “L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo” e
pubblicato negli atti (si veda 1962, n. 33). Diventa il capitolo 9 di Mundana
Sapientia (si veda 1992, n. 134). 32. Platone e Aristotele nello “Speculum” di
Enrico Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi
medievali», s. III, III, 1961, pp. 302- 319. 13
Bibliografia di Tullio Gregory – 1962 torna su 1962 esci 33. Escatologia e
aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età nuova nella
spiritualità della fine del medioevo, atti del 3° Convegno del Centro di Studi
sulla Spiritualità medievale (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi, Accademia
Tudertina, 1962, pp. 263-282. Apparso sul «Giornale critico della filosofia
italiana» (si veda 1961, n. 31). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si
veda 1992, n. 134). 34. Per i sessant’anni della Casa Laterza, «Belfagor»,
XVII, 1962, pp. 701-713. Testo della conferenza tenuta in occasione dell’inaugurazione
della Mostra storica della Casa Editrice Laterza, a Roma, il 7 aprile 1962. 35.
Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola», Giovanni Scoto Eriugena:
tre studi, Firenze, Le Monnier, 1963 («Quaderni di letteratura e d'arte», 21),
82 pp. Indice del volume: I. Dall’uno al molteplice, p. 1; II. Mediazione e
incarnazione, p. 27; III. «Contemplatio teologica» e storia sacra, p. 58. Il
primo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Sulla
metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (si veda 1958, n. 25). Per una traduzione
tedesca del primo capitolo si veda 1969, n. 57. Il secondo capitolo è una
rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Mediazione e incarnazione nella
filosofia dell’Eriugena (si veda 1960, n. 28), entrambi apparsi sul «Giornale
critico della filosofia italiana». Diventano i primi tre capitoli del volume
Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224) 37. Note sulla dottrina
delle «teofanie» in Giovanni Scoto Eriugena, «Studi medievali»i 38. L’idea di natura
nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il
secolo XII, Firenze, Sansoni Editore, 1964, 43 pp. Testo presentato al Terzo
Congresso Internazionale di Filosofia Medievale “La filosofia della natura nel
Medioevo” (Passo della Mendola 31 agosto-5 settembre 1964). Successivamente è
stato pubblicato negli Atti del Convegno (si veda 1966, n. 46). Diventa il
terzo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 39. Aristotelismo,
in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata
da Andrea Mario Moschetti e Michele Schiavone, VI, Milano, Marzorati, 1964, pp.
607-837. 40. Einleitung, in PETRUS GASSENDI, Opera Omnia, Faksimile-Neudruck
der Ausgabe von Lyon 1658 in 6 Bänden mit einer Einleitung von Tullio Gregory,
I, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1964, pp. V-XXII. Il testo in
italiano è apparso sul «De Homine» (si veda 1964, n. 42). La traduzione in
tedesco è a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel. 41. Filosofia e teologia
nella crisi del XIII secolo, «Belfagor», XIX, 1964, pp. 1- 16. Testo italiano
di una lettura tenuta all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia
Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963, edito in polacco con il titolo Filozofia i
teologia wdobie kryzysu XIII wieku (si veda 1967, n. 51). Diventa il secondo
capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 42. Pierre Gassendi, «De
Homine», 9-10, 1964, pp. 89-114. La traduzione tedesca del saggio, a cura di
Franz Rauhut e Hermann Dommel, è pubblicata come introduzione all’Opera Omnia
(si veda 1964, n. 40). 43. Studi sull’atomismo del Seicento, I. Sebastiano
Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLIII, 1964, pp.
38-65. Il saggio è seguito da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert
(si veda 1966, n. 47) e da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda
1967, n. 50). Tradotto in francese diventa il settimo capitolo della Genèse de
la raison classique TOMMASO D’AQUINO, De magistro, introduzione, traduzione e
commento a cura di Tullio Gregory, Roma, Armando, 1965, 181 pp. È utilizzata,
rivista in più punti, la versione dei testi di Tommaso d’Aquino già pubblicata
nel volume BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, pp. 203-275 (si
veda anche 1956, n. 19, 20). 45. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso
d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo
Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali»,
s. III, VI, 1965, pp. 79-94. Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia
(si veda 1992, n. 134). 17 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1966 torna su 1966 esci 46. L’idea di natura nella filosofia
medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, in La
filosofia della natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di
Filosofia Medievale, Vita e Pensiero, Milano, 1966, pp. 27-65. Diventa il
capitolo 3 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Si veda anche 1964, n.
38. 47. Studi sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel
Sennert, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLV, 1966, pp.
44-63. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda
1964, n. 43) ed è seguito da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda
1967, n. 50). Tradotto in francese diventa l’ottavo capitolo della Genèse de la
raison classique (si veda 2000, n. 173). 18
Bibliografia di Tullio Gregory – 1967 torna su 1967 esci 48. TULLIO GREGORY,
GIORGIO TONELLI, World Soul, in New Catholic Encyclopedia, XIV, New York,
McGraw-Hill, 1967, pp. 1027-1029. 49. La saggezza scettica di Pierre Charron,
«De Homine», 21, 1967, pp. 163- 182. Pubblicato come terzo capitolo di Vie
della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto
capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 50. Studi
sull’atomismo del Seicento, III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. III, XLVI, 1967, pp. 528-541. Il saggio è preceduto da
una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) e da una seconda
parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47). Tradotto in
francese diventa il nono capitolo della Genèse de la raison classique (si veda
2000, n. 173). 51. Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia
Mediewistyczne», 8 1967, pp. 3-18. Testo edito in polacco di una lettura tenuta
all’Instytut Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5
novembre 1963. Traduzione a cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo
in italiano è apparso su «Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia
Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Michele
Schiavone, XII, Milano, Marzorati, 1968, pp. 723-786. 53. Vorwort, in JOANNES
DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1639, mit einem
Worwort von Tullio Gregory, I, Hildesheim, Olms, 1968-1969, pp. V-XII. 54. Gli
scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini,
«L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca», IX, 1968, pp. 39-58. Si veda
anche 1990, n. 123. 55. Bruno Nardi, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XLVII, 1968, pp. 469-501. 56. Due interventi
sull’Università, «Problemi», 7, 1968, pp. 290-291. Il primo intervento è di
Salvatore Valitutti (pp. 289-290). 20 Bibliografia di
Tullio Gregory – 1969 torna su 1969 esci 57. Vom Einen zum Vielen. Zur
Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: WERNER BEIERWALTES (Hrsg.),
Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche
Buchges, 1969, pp. 343-365. Traduzione tedesca del primo capitolo di Giovanni
Scoto Eriugena: tre studi (si veda 1963, n. 36). 58. Das Opusculum contra
Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von Lautenbach, in
WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters,
Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 366-380. Traduzione
tedesca del secondo capitolo di Platonismo medievale. Studi e ricerche (si veda
1958, n. 24). 21 Bibliografia di Tullio Gregory – 1970
torna su 1970 esci 59. Opera e studi di Bruno Nardi, «La Provincia di Lucca»,
X, 1970, pp. 5-13. 22 Bibliografia di Tullio Gregory – 1971 torna
su 1971 esci 60. Premessa, in BRUNO NARDI, Saggi sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova, Antenore, 1971, pp.
IX-X. 61. Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Pietro Gismondi, Tullio
Gregory, Ugo Spirito, a cura di Lido Chiusano, «Riforma Universitaria», I,
1971, pp. 41- 52. L’intervista a Tullio Gregory è alle pagine 45-50.
23 Bibliografia di Tullio Gregory – 1972 torna su 1972 esci 62.
Gassendi e Galileo, in Saggi su Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni,
Firenze, Barbéra, 1972, pp. 309-323. 63. Erudizione e ateismo nella cultura del
Seicento – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. IV, LI (LIII), 1972, pp. 194-240. Con numerose modificazioni e
aggiunte diventa il primo capitolo del volume Theophrastus redivivus (si veda
1979, n. 79) 64. Abélard et Platon, «Studi medievali», s. III, XIII, 1972, pp
539-562. Comunicazione presentata alla International Conference “Peter Abelard”
tenutasi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio nei giorni
10- 12 maggio 1971. È stata pubblicata negli atti (si veda 1974, n. 67) ed è
diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).
24 Bibliografia di Tullio Gregory – 1973 torna su 1973 esci
65. FRANCESCO ADORNO, TULLIO GREGORY, VALERIO VERRA, Storia della filosofia.
Con testi e letture critiche, 3 v., Bari, Laterza, 1973, [199413]. vol. II, Dal
Rinascimento a Kant, a cura di Tullio Gregory, VIII-546 pp. Nel 1979 è stata
pubblicata un’ottava edizione riveduta e ampliata. Nel 1996 viene pubblicata la
nuova edizione (si veda 1996, n. 155). 66. Considerazioni su «ratio» e «natura»
in Abelardo, «Studi medievali», s. III, XIV, 1973, pp. 287-300. Traduzione
italiana della comunicazione presentata al Colloque International “Pierre
Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye de Cluny dal 2 al 9 luglio
1972. La versione in francese è stata pubblicata negli atti (si veda 1975, n.
70) ed è diventata il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n.
134). 25 Bibliografia di Tullio Gregory – 1974 torna
su 1974 esci 67. Abélard et Platon, in Peter Abelard, proceedings of the
International Conference (Louvain, may 10-12, 1971), edited by Eloi Marie
Buytaert, Leuven-The Hague, University Press Leuven, 1974, pp. 38-64. È stata
pubblicata in «Studi medievali» (si veda 1972, n. 64) ed è diventata il sesto
capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 68. Dio ingannatore e
Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale
critico della filosofia italiana», s. IV, LIII (LV), 1974, pp. 477-516. Diventa
il capitolo 15 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). La traduzione in
francese viene pubblicata nel decimo capitolo di Genèse de la raison classique
(si veda 2000, n. 173). 26 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1975 torna su 1975 esci 69. La nouvelle idée de nature et de savoir
scientifique au XIIe siècle, in The cultural context of Medieval learning,
proceedings of the First International Colloquium on Philosophy, Science, and
Theology in the Middle Ages (September 1973), edited with an introduction by
John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston, Reidel Publishing
Company, 1975, pp. 193-212 (Discussion, pp. 212-218) Diventa il quarto capitolo
di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 70. Considérations sur ‘ratio’ et
‘natura’ chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants
philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe
siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche
Scientifique (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris, Éditions du CNRS,
1975, pp. 569-581 (Discussion, pp. 582-584). Versione in francese del saggio
Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso su «Studi medievali»
(si veda 1973, n. 66). Diventa il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si
veda 1992, n. 134). 71. Giovanni Scoto Eriugena, in Questioni di storiografia
filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio Mathieu, I, Dai
presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 503-522. 72. L’escatologia
di Giovanni Scoto, «Studi medievali», s. III, XVI, 1975, pp. 497-535. Il testo
originale francese di questo saggio è stato presentato al Colloquio “Jean Scot
Erigène et l’histoire de la philosophie” (Laon, 7-12 juillet 1975). Il testo
italiano è stato pubblicato con un apparato di note più ampio di quello in
calce al testo francese destinato agli atti (si veda 1977, n. 78). Diventa il
capitolo ottavo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Diventa il quarto
capitolo di Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224).
27 Bibliografia di Tullio Gregory – 1976 torna su
1976 esci 73. La filosofia medievale. I secoli XIII e XIV, a cura di Tullio
Gregory, Alfonso Maierù, Franco Alessio, in Storia della filosofia, diretta da
Mario Dal Pra, VI, Milano, Vallardi, 1976, pp. 1-232. La cultura filosofica
nella prima metà del Duecento, pp. 3-46. Alberto Magno, la Scuola di Colonia e
il neoplatonismo medievale, pp. 47- 68. Bonaventura e l’agostinismo, pp.
69-110. Tommaso d’Aquino e le origini del tomismo, pp. 111-146. L’averroismo
latino, pp. 147-181. Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, pp. 183-208. Enrico di
Gand, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi
enciclopedie, pp. 221-232. 74. Rapport sur les activités du «Lessico
Intellettuale Europeo», in I Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale
Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1976, pp. 21-43. 75. Centro di studio per il lessico intellettuale
europeo, Roma. Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca scientifica»,
CNR, XLVI, 1976, pp. 1171-1173. 28 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1977 torna su 1977 esci 76. Scritture e scrittori del secolo XI, a
cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di Tullio
Gregory, Bruno e Tilde Nardi e Luigi Ronga, Torino, Einaudi, 1977, VIII-319 pp.
Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi
latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e
precisamente le pp. XI-LXXI e 257-510. I capitoli curati da Tullio Gregory
sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione e note) pp. 108-111;
Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni) pp. 166-179; Sant’Anselmo
di Aosta (nota introduttiva e traduzioni) pp. 181-215. 77. Scritture e
scrittori del secolo XII, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi, con la
collaborazione di Felice Arese, Tullio Gregory e Tilde Nardi, Torino, Einaudi,
1977, VIII-289 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le
origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n.
22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 513-735. Tullio Gregory ha curato il
capitolo Gioacchino da Fiore (nota introduttiva e note) pp. 213-215 78.
L’eschatologie de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie,
Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Laon,
7-12 juillet 1975), Paris, Éditions du CNRS, 1977, pp. 377-392. Il testo in
italiano della comunicazione qui pubblicata è apparso su «Studi medievali» (si
veda 1975, n. 72), con un apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo
8 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).
29 Bibliografia di Tullio Gregory – 1979 torna su 1979 esci 79.
“Theophrastus redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano,
1979 («Collana di filosofia», 20), 217 pp. Indice del volume: I. Gli dei figli
degli uomini, p. 7; II. La storia naturale della religione, p. 77; Appendice:
Le citazioni di Machiavelli, p. 197. Il primo capitolo del libro riprende, con
numerose modificazioni e aggiunte, il saggio Erudizione e ateismo nella cultura
del seicento (si veda 1972, n. 63). 80. GIAMBATTISTA VICO, Principj di una
scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, Ristampa anastatica
dell’edizione Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1979, 15-270 pp. 81. TULLIO GREGORY, GIORGIO PETROCCHI, Ricordo di
Bruno Nardi, con sue pagine autobiografiche, Roma, Casa di Dante, 1979, 28 pp.
Nel volume compaiono i testi degli interventi di Tullio Gregory e Giorgio
Petrocchi alla “Casa di Dante” in apertura dell’anno di studi 1978-1979.
L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 5-13. 82. La conception de la
philosophie au Moyen Age, in Actas del V Congreso Internacional de Filosofía
Medieval, I, Madrid, Editora Nacional, 1979, pp. 49-57. 83. Pour un Thesaurus
mediae et recentioris latinitatis, in Ordo. II Colloquio Internazionale del
Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi
Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 719-738. 84. Lessico
Intellettuale Europeo (1974-1976), in Ordo. II Colloquio Internazionale del
Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi
Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 779-785.
30 Bibliografia di Tullio Gregory – 1980 torna su 1980 esci 85.
Elogio di Henri Gouhier, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di
consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di Antonio Ruberti, Luigi De
Nardis, Tullio Gregory, Carlo Muscetta, Henri Gouhier, Eduardo De Filippo,
Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1980, pp.
7-10. 86. Ricerche sul Lessico Intellettuale Europeo, in Atti del Convegno
sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità
(Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di Italo Lana e Nino Marinone, Torino,
Accademia delle Scienze, 1980, pp. 47-54. 31 Bibliografia di
Tullio Gregory – 1981 torna su 1981 esci 87. TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI,
GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura
libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio
di Genova (30 ottobre- 1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981,
XII-430 pp. 88. Il libertinismo della prima metà del Seicento: stato attuale
degli studi e prospettive di ricerca, in TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO
CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura
libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio
di Genova (30 ottobre-1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp.
3-47. Tradotto in francese, diventa il primo capitolo di Genèse de la raison
classique (si veda 2000, n. 173). 89. Le biblioteche universitarie, in La
riforma universitaria e le biblioteche dell’Università, atti del Convegno
internazionale su “Le biblioteche universitarie e i loro problemi di struttura,
coordinamento, unificazione”, Roma 4-5 ottobre 1980, Roma, Bulzoni, esci 90.
Relazione sulle attività del Lessico Intellettuale Europeo (1977-1979), in Res.
III Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di
Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp.
509-518. 91. Foreword, in Global linguistic statistical methods to locate style
identities, proceedings of an International Seminar (Gallarate June 5-7, 1981),
edited by Roberto Busa S.I., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. VII-VIII.
92. “Omnis philosophia mortalitatis adstipulatur opinioni”: quelques
considérations sur le Theophrastus redivivus, in Le matérialisme du XVIIIe
siècle et la littérature clandestine, actes de la table ronde des 6 et 7 juin
1980, organisée à la Sorbonne à Paris avec le concours du CNRS par le Groupe de
recherche sur l’histoire du materialisme, dirigé par Oliver Bloch, Paris, Vrin,
1982, pp. 213-218. 93. Aristotelismo e libertinismo, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. V, LXI (LXIII), 1982, pp. 153-167. Relazione letta al
Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna”
(Padova, 23-27 settembre 1981). È stata pubblicata negli atti del Convegno (si
veda 1983, n. 95) e diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda
2016, n. 256). Tradotta in francese diventa il secondo capitolo di Genèse de la
raison classique (si veda 2000, n. 173). 94. La tromperie divine, «Studi
medievali», s. III, XXIII, 1982, pp. 517-527. Comunicazione presentata alla
Table ronde internationale su “Preuve et raisons à l’Université de Paris.
Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle”, organizzata dal Centre
d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi (5-7
novembre 1981). È stata pubblicata negli atti (si veda 1984, n. 97) ed è
diventata il capitolo 14 di Mundana Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in
Aristotelismo veneto e scienza moderna, atti del 25° anno accademico del Centro
per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi
Olivieri, Padova, Antenore, 1983, pp. 279-296. Apparso su «Giornale critico
della filosofia italiana» (si veda 1982, n. 93). Diventa il settimo capitolo di
Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 96. Introduzione, in BRUNO NARDI,
Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, Bari,
Laterza, 1983 («Collezione storica Laterza»), pp. VII-XLIV. L’opera è stata ristampata
nella collana «Biblioteca Universale Laterza» La tromperie divine, in Preuve et
raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe
siècle, actes de la Table Ronde internationale organisée par le Laboratoire
associé au CNRS (Paris, 5-7 novembre 1981) edité par Zénon Kaluza et Paul
Vignaux, Paris, Vrin, 1984, pp. 187-195. Pubblicato su «Studi medievali» (si
veda 1982, n. 94), diventa il capitolo 14 di Mundana Sapientia (si veda 1992,
n. 134). 98. Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps chrétien de la
fin de l’Antiquité au Moyen Age. IIIe-XIIIe siècles, Colloques Internationaux
du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, 9-12 mars 1981), Paris,
Éditions du CNRS, 1984, pp. 557-573. Diventa il capitolo 12 di Mundana
Sapientia (si veda 1992, n. 134). 99. Instrumenta Lexicologica Latina: verso un
«Thesaurus Patrum Latinorum», «Studi medievali», s. III, XXV, 1984, pp.
449-457. 100. Premessa, in Francis Bacon. Terminologia e fortuna nel XVII
secolo, Seminario Internazionale, Roma, 11-13 marzo 1984, a cura di Marta
Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 1-3. 101. Introduzione, in
Architettura in Provincia. Il centro storico di Sacrofano, a cura di Enrico
Guidoni e Pia Pascalino, Roma, Edizioni Kappa, Filosofi, Università, Regime: la
Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico documentaria, a
cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma-Napoli,
Istituto di Filosofia della Sapienza-Istituto italiano per gli studi filosofici,
1985, 506 pp. Presentazione pp. XI-XIII. 103. I sogni nel Medioevo, Seminario
Internazionale (2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1985, VIII-358 pp. 104. Il Lessico Intellettuale Europeo, in Lo
storico e il suo lessico. Atti del Convegno di Prato, 1-3 aprile 1982, a cura
di Maria Caterina Cicala. Presentazione di Luigi De Rosa, Società degli storici
italiani, [Messina, La Grafica], 1985, pp. 3-14. 105. Introduzione, in BRUNO
NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini,
introduzione di Tullio Gregory, Roma- Bari, Laterza, 1985 [19902] («Biblioteca
Universale Laterza»), pp. VII-XLIV. La prima edizione dell’opera è apparsa
nella collana «Collezione storica Laterza» (si veda 1983, n. 96). 106. I sogni
e gli astri, in I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (Roma, 2-4
ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, pp.
111-148. Diventa il tredicesimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n.
134). 107. Discorso di chiusura, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto
Medioevo, atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di studi
sull’alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1983), II, Spoleto, Centro italiano di
studi sull’alto medioevo, 1985, pp. 1445-1485. Diventa il capitolo 16 di
Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 108. L’importanza dei filoni
tradizionali, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori,
Bari, Laterza, 1985, pp. 149-151. 109. Premessa, in Trasmissione dei testi a
stampa nel periodo moderno, I seminario Internazionale, Roma, 23-26 marzo 1983,
a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, Etica e religione nella critica libertina,
Napoli, Guida, 1986 («Interventi», 31), 117 pp. Indice del volume: I. Il
libertinismo erudito, p. 11; II. Il «libro scandaloso» di Pierre Charron, p.
71; Nota bibliografica, p. 111. Testi di due lezioni tenute nel 1985
all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la stampa e arricchiti delle
note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il volume è stato pubblicato
tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w krytyce libertyńskiej (si
veda 1991, n. 127). Il primo capitolo diventa il sesto capitolo di Vie della
modernità (si veda 2016, n. 256); in una versione leggermente ridotta, è stato
pubblicato tradotto in inglese (si veda 1998, n. 168). Il secondo capitolo è
stato pubblicato come quarto capitolo nel volume Vie della modernità (si veda
2016, n. 256); tradotto in inglese con il titolo Pierre Charron’s ‘Scandalous
Book’ è stato pubblicato in Atheism from the Reformation to the Enlightenment
(si veda 1992, n. 135). I primi due capitoli, tradotti in francese, diventano
rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della Genèse de la raison
classique Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cura di Tullio
Gregory, Achille Tartaro, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987, XIX-173 pp. 112.
Le platonisme du XIIe siècle, «Revue des sciences philosophiques et
théologiques», tome 71, 2, 1987, Paris, Librairie philosophiques J. Vrin, pp.
243-259. Testo presentato alla conferenza al Collège de France il 19 febbraio
1986; sono state aggiunte alcune note essenziali. 38
Bibliografia di Tullio Gregory – 1988 torna su 1988 esci 113. The Platonic
Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, edited by
Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 54-80.
Translated by Jonathan Hunt. Diventa il quinto capitolo di Mundana Sapientia
(si veda 1992, n. 134). 114. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella
cultura medievale, «Archives internationales d’histoire des sciences», 38
(1988), pp. 189-242. Relazione presentata in apertura della prima sessione
plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29
agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella
filosofia medievale”. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia
italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n.
124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo
capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 115. Forme di conoscenza
e ideali di sapere nella cultura medievale, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. VI, LXVII (LXIX), 1988, pp. 1-62. Relazione presentata in
apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di
filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza
scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata negli
«Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114),
negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si
veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana sapientia (si
veda 1992, n. 134). 116. Lessico Intellettuale Europeo: recherches sur la
terminologie intellectuelle du Moyen Age, in Actes du colloque Terminologie de
la vie intellectuelle au Moyen Age, Leyden/La Haye 20-21 septembre 1985, edité
par Olga Weijers, Turnhout, Brepols, 1988, pp. 105-108 117. Sémantique, in
Image & Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur
le vin et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en
collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur, Louvain-la-Neuve,
28 septembre-1 octobre 1988, pp. 151-154. 118. Necessità di programmare le
carriere amministrative in funzione della specificità dei profili
professionali. Il ritorno alla selettività e alla preparazione scientifica, in
Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici,
archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l’innovazione, a
cura di Alberto Clementi e Francesco Perego, Bari, Laterza, Ricordo di Paul
Vignaux, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVIII (LXXX),
1989, pp. 129-143. Testo letto in apertura della tavola rotonda su “Théologie
et droit dans la science politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École
française de Rome nei giorni 12-14 novembre 1987; Paul Vignaux – che doveva
presiedere la tavola rotonda – era deceduto il 24 agosto in Spagna. Pubblicato
negli atti della tavola rotonda (si veda 1991, n. 131). 120. Il calcolatore in
lingua, «Il pensiero informatico», 3, 1989, pp. 13-15. 121. Ideali di sapere
nella cultura medievale, «Il veltro. Rivista della civiltà italiana», anno
XXXIII, gennaio-aprile 1989, pp. 5-51. Relazione presentata in apertura della
prima sessione plenaria dell’VIII Congresso internazionale di filosofia
medievale su “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”
(Helsinki, 24-29 agosto 1987). È stata pubblicata nel «Giornale critico della
filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda
1990, n. 124), negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si
veda 1988, n. 114), ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si
veda 1992, n. 134). 122. Presentazione, in GIORDANO BRUNO, Summa terminorum
metaphysicorum. Ristampa anastatica dell’edizione Marburg 1609. Nota e indici
di Eugenio Canone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, IX-X pp.
40 Bibliografia di Tullio Gregory – 1990 torna su 1990 esci
123. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini,
in BRUNO NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo con
saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere,
1990, pp. 285-312. Si veda anche 1968, n. 54. 124. Forme di conoscenza e ideali
di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the Sciences in Medieval Philosophy,
proceedings of the Eight International Congress of Medieval Philosophy
(Helsinki, 24-29 August 1987), edited by Monika Asztalos, John Emery Murdoch,
Ilkka Niiniluoto, I, Helsinki, Societas philosophica Fennica, 1990 («Acta
Philosophica Fennica», 48), pp. 10-71. Relazione presentata in apertura della
prima sessione plenaria del Congresso. È stata pubblicata nel «Giornale critico
della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli «Archives
internationales d’histoire des idées» (si veda 1988, n. 114) e nella rivista «Il
veltro» (si veda 1989, n. 121). È diventata il primo capitolo di Mundana
Sapientia (si veda 1992, n. 134). 125. Théologie et astrologie dans la culture
médiévale: un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de
Philosophie», 84, 1990, pp. 104-130. Prima comunicazione del saggio che poi
diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia, dal titolo Astrologia e teologia
nella cultura medievale (si veda 1992, n. 134). 126. Missione scienza,
«Ulisse2000», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Anna
Tylusińska, Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii
(«Renesans i Reformacja», 6), 1991, 59 pp. Versione in polacco del volume Etica
e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). Indice del volume:
I. Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Pierre’a Charrona,
p. 37; Nota bibliograficzna, p. 57. 128. Sul lessico filosofico latino del
Seicento e del Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia
filosofica e storia delle idee (V- 1991), a cura di Antonio Lamarra e Lidia
Procesi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1991, pp. 1-20. Relazione presentata
al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal
Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991. Diventa il terzo capitolo di
Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006,
n. 200). 129. Intervento, in Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti
di Gabriele De Rosa. Interventi di Emile Goichot, Tullio Gregory, Liliana Billanovich,
Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale Villani, Cosimo Damiano Fonseca,
Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1991, pp.
21-29. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 21-29 ed è stato tenuto per
la presentazione del volume di Gabriele De Rosa Tempo religioso e tempo
storico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza,
presso la Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, il 14 ottobre 1988, per
iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, con il
patrocinio del Comune di Vicenza. 130. Gli studi di filosofia medievale fra
Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia medievale fra
Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti del convegno internazionale
(Roma, 21-23 settembre 1989), a cura di Ruedi Imbach e Alfonso Maierù, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, pp. 391-406. Pubblicato in appendice a
Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 131. Ricordo di Paul Vignaux, in
Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne, actes de la
Table ronde organisée par l’École française de Rome avec le concours du CNRS
(Rome, 12-14 novembre 1987), Rome, École française de Rome, 1991 («Collection
de l’École française de Rome», 147), pp. 1-16. 42
Bibliografia di Tullio Gregory - 1991 Pubblicata sul «Giornale critico
della filosofia italiana» (si veda 1989, n. 119). 132. Cultura umanistica e
istituzioni, «La rivista dei libri», I, 2, 1991, pp. 18-20. 133. Le discipline
umanistiche. Analisi e progetto, Supplemento al Bollettino «Università
Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 1991, 147 pp. Rapporto
finale della Commissione Nazionale per la formazione e la ricerca nelle scienze
umane, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica,
redatto dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della
Commissione. 43 Bibliografia di Tullio Gregory – 1992 torna
su 1992 esci 134. “Mundana sapientia”. Forme di conoscenza nella cultura
medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992 («Storia e
Letteratura», 181), 480 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sulla
storia della filosofia medievale pubblicati in sedi e anni diversi. Il saggio
Astrologia e teologia nella cultura medievale (capitolo 11) è nuovo, e ne fu
data una parziale anticipazione alla Société française de philosophie (si veda
1990, n. 125). Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi
già pubblicati. Indice del volume: Avvertenza, p. V; I. Forme di conoscenza e
ideali di sapere nella cultura medievale, p. 1 (si veda 1988, n. 114 e n. 115;
1989, n. 121 e 1990, n. 124); II. Filosofia e teologia nella crisi del XIII
secolo, p. 61 (si veda 1964, n. 41); III. L’idea di natura nella filosofia
medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, p. 77
(si veda 1964, n. 38 e 1966, n. 46); IV. La nouvelle idée de nature et de
savoir scientifique au XIIe siècle, p. 115 (si veda 1975, n. 69); V. The
Platonic Inheritance, p. 145 (si veda 1988, n. 113); VI. Abélard et Platon, p.
175 (si veda 1972, n. 64 e 1974, n. 67); VII. Considération sur ratio et natura
chez Abélard, p. 201 (si veda 1975, n. 70; la versione in italiano è stata
pubblicata su «Studi medievali», si veda 1973, n. 66); VIII. L’escatologia di
Giovanni Scoto, p. 219 (si veda 1975, n. 72; per la versione in francese, con
un apparato di note ridotto si veda 1977, n. 78); IX. Escatologia e
aristotelismo nella scolastica medievale, p. 261 (si veda 1961, n. 31 e 1962,
n. 33); X. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, p. 275 (si veda
1965, n. 45); XI. Astrologia e teologia nella cultura medievale, p. 291; XII.
Temps astrologique et temps chrétien, p. 329 (si veda 1984, n. 98); XIII. I
sogni e gli astri, p. 347 (si veda 1985, n. 106); XIV. La tromperie divine, p.
389 (si veda 1982, n. 94 e 1984, n. 97); XV. Dio ingannatore e genio maligno.
Nota in margine alle Meditationes di Descartes, p. 401 (si veda 1974, n. 68);
XVI. L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, p. 443 (si veda
1985, n. 107); Indice dei nomi, p. 469. 135. Pierre Charron’s ‘Scandalous
Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, edited by Michael
Hunter and David Wootton, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1992, pp. 87-109.
Traduzione inglese del secondo capitolo di Etica e religione nella critica
libertina (si veda 1986, n. 110). La traduzione francese compare nel quarto
capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 136. Gli
atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi cartesiani, in GIULIA
BELGIOIOSO (a cura di), Cartesiana, Galatina, Congedo Editore, 1992
(«Università degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi»), pp.
97- 101. 137. E 42. Utopia e scenario del regime. I. Ideologia e programma
dell’Olimpiade della città, a cura di Tullio Gregory e Achille Tartaro,
Catalogo della mostra (Archivio centrale dello Stato, Roma, aprile-maggio
1987), Venezia, Marsilio, 1992, XX-180 pp. 138. Préface, in Pierre Gassendi
explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition, quatrième centenaire de la
naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne, 19 mai-18 octobre 1992), rédigé
par Anthony Turner avec la contribution de Nadine Gomez; préface de Tullio
Gregory, Digne-les-Bains, Musée de Digne, 1992, pp. 11-28. Traduzione a cura di
Simone Matarasso-Gervais. 139. Pierre Gassendi dans le quatrième centenaire de
sa naissance, «Archives Internationales d’histoire des sciences», 42, 1992, pp.
203-226. Discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les-
Bains, 18-22 maggio 1992). È stato pubblicato negli Atti col titolo Pourquoi
Gassendi? (si veda 1994, n. 145). La traduzione italiana è stata pubblicata nel
«Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140). Diventa il
sesto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 140.
Pierre Gassendi nel IV Centenario della nascita, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. VI, LXXI (LXX), 1992, pp. 202-226. Versione italiana
del discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi
(Digne-Les-Bains, 18-22 maggio 1992). Diventa il quinto capitolo di Vie della
modernità (si veda 2016, n. 256). La traduzione francese è stata pubblicata
negli «Archives Internationales d’histoire des sciences» (si veda 1992, n. 139)
e negli Atti del Colloquio con il titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n.
145). 141. Presentazione, in Lessico Filosofico dei secoli XVII e XVIII.
Sezione latina, a cura di Marta Fattori, con la collaborazione di Massimo Luigi
Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Eugenio Canone e Giacinta Spinosa,
Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, p. VII. 45
Bibliografia di Tullio Gregory – 1993 torna su 1993 esci 142. Storia
dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André
Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, 1993. Il secondo volume è a cura di Tullio
Gregory (si veda 1994, n. 144). 46 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1994 torna su 1994 esci 143. L’eclisse delle memorie, a cura di
Tullio Gregory, Marcello Morelli, prefazione di Giorgio Salvini, traduzioni di
Marcello Morelli, Roma-Bari, Laterza, 1994, XI-283 pp. 144. L’età moderna, a
cura di Gabriele De Rosa e Tullio Gregory, in Storia dell’Italia religiosa, a
cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, II, Roma, Laterza,
1994, XX-596 pp. Si veda anche 1993, n. 142. 145. Pourquoi Gassendi?, in
Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi 1592-1992, actes du
Colloque International Pierre Gassendi (Digne-les-Bains 18-21 mai 1992),
Digne-les-Bains, Société Scientifique et Littéraire des Alpes de
Haute-Provence, 1994, pp. 21-39. Discorso di apertura del Colloquio. Pubblicato
con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des
sciences» La traduzione italiana è stata
pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n.
140) 146. Gli studi di filosofia medievale di Sofia Vanni Rovighi, in
Sapientiae studium. La giornata operosa di Sofia Vanni Rovighi (1908-1990), a
cura di Mario Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 13-26. 147. L’ordine
della natura e l’ordine del sapere, in Storia della filosofia, a cura di Paolo
Rossi e Carlo Augusto Viano, II, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, Diventa, con
il titolo Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, il secondo
capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 148. Considerazioni
conclusive in Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, A cura di
Jean-Robert Armogathe e Giulia Belgioioso, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, Introduzione, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico: Le
Institutiones Oratoriae: un bilancio critico, a cura di Giuliano Crifò, Napoli,
Guida, Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, a cura di G.
Adamo, «Lexicon philosophicum., Quaderni di terminologia filosofica e storia
delle idee», 151. Dell’Elefante. Parole pronunciate il 12.IX.1994 in occasione
della mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma, Roma, Edizioni
dell’Elefante, 1994, 19 pp. Opuscolo in edizione limitata. Pubblicato in
Bibliomania Perennis (si veda 2002, n. 178). 152. Università e Beni Culturali,
ricerca – formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d
Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino
«Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione
finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in
Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, redatta dal Professor Gregory in qualità di
coordinatore della Commissione. 48 Bibliografia di Tullio Gregory –
1995 torna su 1995 esci 153. Introduzione, in “Fabula in tabula”. Una storia
degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi,
Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, 1995, pp. 3-8. 154. I «thesauri» dei Padri greci e latini, «Studi
medievali», F. ADORNO, T. GREGORY, V. VERRA, Manuale di storia della filosofia,
Roma, Laterza. Curail secondo volume, XIV-457 pp. e i capitoli dal 19 al 41 del
I volume. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia
italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del
VI Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma, 12-14
settembre 1996) organizzato dalla Società Italiana per lo Studio del Pensiero
Medievale. Diventa il nono capitolo di Speculum naturale ‘Natura’ e ‘Qualitas
planetarum’, «Micrologus», IV, 1996: Il teatro della natura/The theatre of
nature, pp. 1-23. Diventa il quarto capitolo di Speculum naturale (si veda
2007, n. 203) 158. Premessa, in Album. I luoghi ove si accumulano i segni, a
cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro di
Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. VII-XII. 159. Prefazione in Accademia
nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato- Consiglio nazionale delle
ricerche, Guglielmo Marconi e l’Italia. Mostra storico-documentaria (Roma 30
marzo-30 aprile 1996), catalogo a cura di Giovanni Paoloni e Raffaella Simili,
prefazione di Tullio Gregory, introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia
nazionale dei Lincei, Prólogo, in MICHEL DE MONTAIGNE, Ensayos (selección),
Prólogo de Tullio Gregory, Traducción y notas de María Dolores Picazo y
Almudena Montojo, Barcelona, Círculo de Lectores, 1997, pp. 9-31. Il testo in
italiano è stato pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si
veda 1997, n. 163). La traduzione francese, con qualche variante, diventa il
secondo capitolo di Vie della modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario
della republique des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia.
Problemi di metodo, atti del Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon
(Napoli, 17-18 maggio 1996), a cura di Marta Fattori, Firenze, Leo S. Olschki
Editore, Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme dans la
Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris, 4-6 dicembre
1997), Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico
della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola
all’antologia degli Essais di Montaigne (si veda 1997, n. 160). 164. Nel mondo
semantico del virtuale, «if. Rivista della Fondazione IBM Italia», V, 1997, pp.
14-17. 165. Introduzione, in Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del fondo
storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da
Giovanni Treccani, a cura di Roberto Mauro e Massimo Menna; presentazione di
Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Introduzione,
in RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin. Introduzione
di Tullio Gregory, Roma, Laterza, 1998 [201819], pp. V-XLVIII. 167. Conclusion,
in Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe siècle
(autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts
mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre
Médiéval Européen de Chartres, 1998, pp.135-142. Discorso di chiusura del
colloquio internazionale del 4 e 5 luglio 1998. 168. ‘Libertinisme erudit’ in
Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion,
«British Journal for the History of Philosophy», L’articolo, apparso in
italiano con il titolo Il libertinismo erudito come primo capitolo del volume
Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110), è stato
leggermente ridotto in alcune parti. Traduzione di Letizia Panizza. 169.
Introduction, in Le Dictionnaire de l'Académie Française et la Lexicographie Institutionelle
Européenne, Actes du Colloque International (Paris, 17- 19 Novembre 1994),
publiés par Bernard Quemada avec la collaboration de Jean Pruvost, Paris,
Honoré Champion Éditeur, Nature, in Dictionnaire raisonné de l’Occident
médiéval, ed. Jacques Le Goffe - Jean-Claude Schmitt, Paris, Fayard, 1999, pp.
806-820. Diventa il primo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203),
restituendo in latino i testi tradotti in francese. 171. Per una fenomenologia
del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della metafisica,
«Micrologus», VII, 1999: Il cadavere/The corpse, pp. 11-42. Diventa il sesto
capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 172. Sapor mundi: scritti
sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli articoli di
carattere gastronomico pubblicati tra il 1994 e il 1998 su Il Sole 24 ore.
Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, traduit par Marilène
Raiola, préface de Jean-Robert Armogathe, Paris, Presses Universitaires de
France, 2000 («Épiméthée», 84), V-365 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni
saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla prima metà del XVII
secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da
l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del
volume: Notice de Tullio Gregory, p. v; Préface de Jean-Robert Armogathe, La
première crise de la conscience européenne, p. 1; I. Le libertinisme dans la
première moitié du XVIIe siècle, p. 13 (si veda 1981, n. 88); II. Aristotélisme
et libertinisme, p. 63 (si veda 1982, n. 93); III. Ethique et religion dans la
critique libertine, p. 81 (si veda 1986, n. 110); IV. «Le livre scandaleux» de
Pierre Charron, p. 115 (si veda 1986, n. 110; per la traduzione in inglese si
veda 1992, n. 135); V. La sagesse sceptique de Pierre Charron, VI. Perspectives
sur Pierre Gassendi à l’occasion du IVe centenaire, p. 157 (si veda 1992, n.
139); VII. Sébastien Basson, p. 191 (si veda 1964, n. 43); VIII. David Van
Goorle et Daniel Sennert, p. 235 (si veda 1966, n. 47); IX. Ralph Cudworth, p.
269 (si veda 1967, n. 50); X. Dieu trompeur et malin génie, p. 293 (si veda
1974, n. 68). 174. Vers un «Thesaurus totius latinitatis»: problèmes et
perspectives, in L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Age, actes
du Colloque international de Louvain-la-Neuve et Leuven (12-14 septembre 1998),
organisé par la Société Internationale pour l’étude de la Philosophie
Médiévale, éd. par Jacqueline Hamesse et Carlos Steel, Turnhout, Brepols, 2000,
pp. 539-549. 175. Informatica e analisi testuale, in Enciclopedia Italiana di
Scienze, Lettere ed Arti. Appendice 2000, I, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 2000, pp. 919-922. 176. I cieli, il tempo, la storia, in Sentimento
del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo, atti del XXXVI Convegno
storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 1999), Spoleto, Centro Italiano di
Studi sull’Alto Medioevo, 2000, pp. 19-45. Diventa il quinto capitolo di
Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 177. Il liber creaturarum: dal
sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, in Le vie del medioevo,
atti del Convegno internazionale di studi (Parma), a cura di Arturo Carlo
Quintavalle, Milano, Electa, 2000, pp. 45-48. Diventa il terzo capitolo di
Speculum naturale Scrittura, fondamento
di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta, 3. Istruzione, scienza,
linguaggio, a cura di Marco Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano, Apologeti e
libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Diventa il capitolo 8 di
Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 55 Bibliografia
di Tullio Gregory – 2001 torna su 2001 esci 180. Per i cento anni della Casa
Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura italiana del Novecento,
«Accademie & Biblioteche d’Italia», s. I, LXIX, 2001, pp. 117-121. Testo
del discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni il 18 settembre 2001, alla
presenza del Capo dello Stato, in occasione delle celebrazioni per il 100°
anniversario della Casa Editrice Laterza. 181. Come cucinare un filosofo,
«l’Erasmo», Introduzione, in VINCENZO CORRADO, Del cibo pitagorico ovvero
erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica dell’oritano
Vincenzo Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di cibo, opera del
medesimo autore. Con una introduzione di Tullio Gregory e una nota alle
illustrazioni di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, Due testi autobiografici di
Giordano Bruno, in Memoria di Giordano Bruno
Atti del convegno (Roma) con il patrocinio dell’Assessorato alle
Politiche Giovanili del Comune di Roma, a cura di Maria Mantello, Roma,
VE.GRAF, Dell’Elefante, in Bibliomania Perennis. Mostre delle Edizioni
dell’Elefante. Prologhi e testi di occasione, Roma, Edizioni dell’Elefante,
2002, pp. 135- 151. Parole pronunciate il 12 settembre 1994 in occasione della
mostra Res libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma GEORGE TATGE, Al di là
del tiglio. Un ritratto di Todi. Testi di Tullio Gregory, Firenze, Fratelli
Alinari, 2002, 112 pp. 186. Il valore di una cultura comune. Il ‘nuovo mondo’
dei dotti del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia del sacro
nell’occidente altomedievale, «Giornale critico della filosofia italiana»,
Testo integrale della relazione parzialmente letta in apertura della
Cinquantesima settimana di studio organizzata dal Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo (Spoleto, 4-9 aprile 2002) sul tema: “Uomo e spazio
nell’alto Medioevo”. Pubblicato negli atti del Convegno (si veda 2003, n. 191).
Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si
veda 2007, n. 203). 188. Introduzione, in GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un
ritratto di Todi, Alinari, Firenze, 2002, pp. 11-12. 189. Apertura dei lavori,
in Experientia. X Colloquio Internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2001), atti a
cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Noè ovvero della sobria
ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San Gimignano, a cura di
Marisa Zattini, Cesena, Il vicolo, 2003, pp. 23-25. Catalogo della Mostra
tenuta a San Gimignano nel 2003. Edizione di 1500 esemplari numerati. 191. Lo
spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio
nell’alto Medioevo: settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo (4-8 aprile 2002), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo, 2003, pp. 27-60. Discussione sulla lezione Gregory, pp. 61-68. Il
testo della relazione è apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana»
(si veda 2002, n. 187). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di
Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 192. Nani sulle spalle dei giganti.
Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino, «Studi medievali», s.
III, XLIV (2003), pp. 1053-1075. Relazione presentata al VI Convegno
Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28
settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2006, n. 201).
Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna.
Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200 e l’ottavo capitolo di Speculum naturale
(si veda 2007, n. 203). 193. Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta,
«l’Erasmo», 15, 2003, pp. 87-95. 194. Istituti culturali e territorio: i
problemi della ricerca e della formazione, «Accademie & Biblioteche
d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica e scienze umane. Mezzo secolo di
studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Editore,
2003, pp. VII-VIII. 58 Bibliografia di Tullio
Gregory – 2004 torna su 2004 esci 196. Alle origini della terminologia filosofica
moderna: traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della filosofia
italiana», Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di
Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti
del Convegno (si veda 2005, n. 199). Diventa il secondo capitolo di Origini
della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200).
197. Introduzione, in MAURO SIMONAZZI, La malattia inglese. La melanconia nella
tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il mulino,
2004, pp. 9-13 198. Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, Dall’Apiarium alla
Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale tra propaganda scientifica e strategia
culturale, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di
Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. IX, v. XV, Roma, Accademia Nazionale
dei Lincei, 2004. 59 Bibliografia di Tullio Gregory –
2005 torna su 2005 esci 199. Alle origini della terminologia filosofica moderna:
traduzioni, calchi, neologismi in Significare e comprendere. La semantica del
linguaggio verbale. Atti dell’XI Congresso nazionale, a cura di A. Frigerio e
S. Raynaud, Roma, Aracne, 2005, pp. 85-116. Relazione presentata all’XI
Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18
settembre 2004, pubblicata su «Giornale critico della filosofia italiana» (si
veda 2004, n. 196). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia
filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200).
60 Bibliografia di Tullio Gregory – 2006 torna su 2006 esci 200. Origini
della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Leo S.
Olschki Editore, 2006 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 1), X- 120
pp. Indice del volume: Premessa, p. IX; Nani sulle spalle di giganti.
Traduzioni e ritorno degli Antichi nel Medioevo latino (relazione presentata al
VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma
24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno, si veda 2006, n.
201. Pubblicata in «Studi medievali», si veda 2003, n. 192. Diventa l’ottavo
capitolo di Speculum naturale, si veda 2007, n. 203), p. 1; Alle origini della
terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi (relazione
presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio,
Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti, si veda 2005, n. 199, e in
«Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2004, n. 196), p. 33; Sul
lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento (testo, con l’aggiunta
di una nota finale di aggiornamento bibliografico, della relazione presentata
al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal
Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991 e pubblicata in Lexicon
philosophicum, si veda 1991, n. 128), p. 77; Referenze bibliografiche, p. 109;
Indice dei nomi, p. 111. 201. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e
ritorno degli antichi nel Medioevo latino, in Medioevo: il tempo degli antichi,
Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 24-28 settembre 2003, a cura
di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2006, pp. 57-64. Pubblicato in
«Studi medievali» si veda (2003, n. 192). Diventa il primo capitolo di Origini
della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200)
e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 202. Paul
Vignaux storico del pensiero medievale, «Studi medievali», XLVII (2006), pp.
361-381. Traduzione italiana, leggermente modificata, della relazione francese
Paul Vignaux historien et philosophe, letta in Sorbona il 2 aprile 2004, al
Colloquio “Paul Vignaux citoyen et philosophe”. Speculum naturale.
Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 («Storia
e Letteratura», 235), X-254 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sul
pensiero medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da
l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del
volume: Nature au Moyen Âge, p. 1 (si veda 1999, n. 170); Riscoperta della
natura e nuove scienze nel secolo XII, p. 15 (si veda 1994, n. 146); Il Liber
creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, p. 35
(si veda 2000, n. 177); Natura e qualitas planetarum, p. 47 (si veda 1996, n.
157); I cieli il tempo la storia, p. 69 (si veda 2000, n. 176); Lo spazio come
geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per una fenomenologia del
cadavere. Dai mondi dell’immaginario, p. 121 (si veda 1999, n. 171); Nani sulle
spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi, p. 151 (si veda 2003,
n. 192, 2006, n. 200 e 2006, n. 201); Pensiero medievale e modernità, p. 173
(si veda 1996, n. 156); Cosmologia biblica e cosmologie cristiane, p. 197;
Appendice: Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento, Gusto del cibo,
itinerario storico sentimentale, «L’attimo fuggente», Presentazione, in JUNE DI
SCHINO, FURIO LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi. Bartolomeo Scappi e la
Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma, Gangemi, Per una Storia delle
filosofie medievali. Discorso di chiusura pronunciato al XII Congresso
Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo 16-22 settembre 2007) promosso
dalla SIEPM, «Studi medievali», Pubblicato negli Atti. Le acque sopra il
firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli altomedievali,
Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp.
1-41. 208. Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo
altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura
di Carlo Altini e Michelina Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena,
2008, pp. 41-70. 209. Cosmogonia biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie
e cosmologie nel Medioevo. Atti del Convegno della Società italiana per lo
studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006, a
cura di Concetto Martello, Chiara Militello e Andrea Vella, Louvain-La-Neuve,
Brepols, 2008, pp. 169-194. 210. Prefazione, in ROBERTO DE MATTEI, Il CNR e le
scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale delle
Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc Marion, par
Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des Inscriptions &
Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la Cancellerie, 1er décembre
2009, pp. 8-13. 212. Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Testo
parzialmente presentato, in inglese, al decimo congresso della International
Society for Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval,
and Modern bearers of Intellectual History (Verona, 25- 27 maggio 2009). 213.
Prefazione, in XXI Secolo-Norme e idee, direttore Tullio Gregory, Istituto
della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 2009, pp. IX-X. 64
Bibliografia di Tullio Gregory – 2010 torna su 2010 esci 214. Dante e la
«Commedia», in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del
Senato Edizioni, Milano 2010, pp. 37-44. 215. Bruno Nardi, storico della
filosofia. Uno sguardo d’insieme (Relazione di chiusura al Convegno di Pescia),
in Per ricordare Bruno Nardi, a cura di Laura Simoni Varanini, Firenze,
Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 43-49. 216. Tullio Gregory incontra Cartesio,
«Le interviste immaginarie», Milano, Bompiani, 2010, 19 pp. Ristampato in
appendice alla raccolta di saggi Vie della modernità (si veda 2016, n. 256).
217. Il lessico Intellettuale Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti
della Accademia Nazionale dei Lincei, Anno CDVIII – 2011. Classe di Scienze
Morali, Storiche e Filologiche. «Memorie», Roma, Accademia Nazionale dei
Lincei, Testo della Lectio brevis tenuta il 12 novembre 2010 presso l’Accademia
dei Lincei, in apertura dell’anno accademico Eugenio Garin: un ricordo in
Normale, «Quaderni di storia», LXXII (2010), pp. 11-29. 219. Claudio Leonardi
medievista, «Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di Studi sul
Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una vera ‘Rinascita’, «La Biblioteca di via
Senato – Milano», Postfazione, in LUCIO MARIANI, Farfalla e segno. Poesie scelte
(1972-2009), Milano, Crocetti Prefazione, in FRANCA FOFFO, E le stelle stanno a
mangiare... La Dolce Vita continua, Roma, Sovera Edizioni, 2010, pp. 9-14. 223.
La libraria di Fausto Maria Franchi, in FAUSTO MARIA FRANCHI, Studiolo
Crispolti, a cura di Lucia Sabatini Scalmati, Roma, Gangemi, Giovanni Scoto. Quattro studi, Premessa di
Enrico Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011
(«Uomini e mondi medievali», 24), VIII, 110 pp. Sono ripubblicati i tre studi
su Giovanni Scoto Eriugena Le carte di Carlo Lorenzetti, relazione tenuta
presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma il 25 febbraio 2011, in occasione
dell’inaugurazione della mostra di Carlo Lorenzetti. 226. «Vi esorto alla
Bibbia», in Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici
interdisciplinari, a cura di Gian Gabriele Vertova, Carocci, Roma 2011, pp.
17-20. 227. Alle origini dell’etica moderna, in Per un’Etica civile. Tema di
approfondimento culturale per l’a.s. 2010-2011, a cura di Licia Ferro, Roma, Liceo
Classico Orazio, 2011, pp. 13-31. 228. Natura, in Dizionario dell’Occidente
medievale. Temi e percorsi, 2: Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema
della fortuna in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», s.
VII, LXXXX-XCII (2011), pp. 9-26. 230. Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier.
Lo scaffale dei sapori, a cura di Rosaria Campioni, Bologna, Istituto per i
beni artistici culturali e naturali della regione Emilia Romagna, 2011, pp.
60-63. L’articolo è tratto dalla rivista «IBC. Informazioni, commenti,
inchieste sui beni culturali», XIX, 3, 2011. Si veda anche 2011, n. 232. 231.
L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, «Nuova informazione bibliografica», Il
gusto sullo scaffale, in Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una
raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, di Rino
Pensato e Antonio Tolo, con la collaborazione di Adele Blundo, contributi di
Tullio Gregory e Massimo Montanari, Bologna, Editrice Compositori, Montaigne e
la fortuna, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2011 («Paginette») Bibliografia
di Tullio Gregory – 2012 torna su 2012 esci 234. Quintino Sella, Roma,
l’Accademia dei Lincei, in Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti
del Convegno Linceo (Napoli), Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella,
Roma, l’Accademia dei Lincei, in Quintino Sella Linceo, a cura di Marco Guardo
e Alessandro Romanello, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2012, pp. 19-42.
236. Per una Storia delle filosofie medievali, in Universalità della ragione.
Pluralità delle filosofie nel Medioevo, Atti del XII Congresso Internazionale
di Filosofia Medievale (Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Alessandro
Musco, Fascicolo monografico «Schede medievali», n. 50, Palermo, Officina di
studi medievali, «Studi medievali» Les
sources oubliées d’une Introduction à l’Ethica, «Giornale critico della
filosofia italiana», Quasi una Prefazione, in FRANCA FOFFO, Il dolce della
vita, Roma, Sovera Edizioni, 2012, pp. 9-11. 67 Bibliografia
di Tullio Gregory – 2013 torna su 2013 esci 239. Principe di questo mondo. Il
diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza («I Robinson / Letture»). Indice del
volume: I. La caduta di Lucifero. II. Apparenza e realtà, p. 17; III. La via
del nero, p. 31; IV. Il principe di questo mondo, p. 57; V. Satana e modernità,
p. 67; Bibliografia, p. 79. 240. Translatio Studiorum, in MARCO SGARBI (ed.),
Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and Modern Bearers of Intellectual
History, «Studies in Intellectual History», 217, Leiden, Brill, Paul Vignaux,
Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen et Philosophe (1904-1987),
sous la direction de Olivier Boulnois, avec la collaboration de Jean-Robert
Armogathe, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 9-26. 242. Per il XXV della Fondazione
Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali», Presentazione, in GIUSEPPE
FINOCCHIARO, La biblioteca di Trisulti. L’ordine dei codici tra il 14° e 16°
secolo, Roma, Scienze e Lettere, 2013, pp. 149- 167. 244. Presentazione, in
Accademia nazionale dei Lincei. Inventario dell’archivio (1944-1965) a cura di
Paola Cagiano De Azevedo, Roma, Ministero dei beni e delle attività
culturali, Le carte di C. Lorenzetti,
Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della Biblioteca
Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri d’artista”
di Carlo Lorenzetti, Città di Castello, Bibliografia di Tullio Gregory – 2014
torna su 2014 esci 246. Le plaisir d’une chasse sans gibier. Faire l’histoire
des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale critico della
filosofia italiana», Testo della relazione presentata il 25 settembre 2014 in
apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de
Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; in
italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il Lessico
Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium. XIV Colloquio
Intrnazionale (Roma 3-5 gennaio 2013), Atti a cura di Delfina Giovannozzi e
Marco Veneziani, Roma, Leo S. Olsckhi
Prefazione, in FAUSTO MARIA FRANCHI, PIER LUIGI PICCARI, LUCIA SABATINI
SCALMATI, Ricette preziose dal gioiello al pane, Terni 2014, pp. 7-10. 249.
Presentazione, in LUISA RUBERTI, Le ricette di Luisa. La cucina campana a modo
mio, Firenze-Milano, Giunti, 2014. 69 Bibliografia di Tullio
Gregory – 2015 torna su 2015 esci 250. Carlo Lorenzetti e il Lessico, in Segno
e parola. Carlo Lorenzetti e il Lessico Intellettuale Europeo, Catalogo della
mostra (Roma), a cura di Giovanni Adamo e Cristina Marras, Firenze, Leo S.
Olschki Editore, La rinascita nel dopoguerra, in Treccani. Novanta anni di
cultura italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2015, pp. 15-18.
252. Dubbio, fede e religioni in Montaigne, «Giornale critico della filosofia
italiana», Prefazione, in La cultura e il mondo. Aggiornamento della
Enciclopedia Italiana, Nona appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Michel de Montaigne o della
modernità, Pisa, Edizioni della Normale, 2016 («Variazioni», Translatio
linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Leo S. Olschki Editore,
2016 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 2), IX-75 pp. 256. Vie della
modernità, Firenze, Le Monnier Università, 2016 («Centro Interdipartimentale di
Studi su Descartes e il Seicento. Saggi. Nuova serie», 1), 174 pp. Indice del
volume: 1. Il piacere di una caccia senza preda. Fare storia delle filosofie:
costruzione e decostruzione, p. 1 (testo italiano della relazione francese
presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma
dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la
philosophie avec son histoire”; apparso sul «Giornale critico della filosofia
italiana», si veda 2014, n. 246); 2. Michel de Montaigne ou «le plaisir de la
variété», p. 22 (traduzione francese, con qualche variante, della prefazione
all’antologia dell’edizione spagnola degli Essais di Montaigne, si veda 1997,
n. 160; 3. La saggezza scettica di Pierre Charron, p. 40 (pubblicato in «De
homine», si veda 1967, n. 49); 4. «Il libro scandaloso» di Pierre Charron, p.
55 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, si veda 1986, n.
110); 5. Pierre Gassendi nel IV centenario della nascita, p. 71 (testo italiano
del discorso di apertura del “Colloque International Pierre Gassendi”,
pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1992, n.
140); 6. Il libertinismo erudito, p. 93 (pubblicato in Etica e religione nella
critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, p. 115 (pubblicato in
«Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1982, n. 93, e negli atti
del Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza
moderna”, si veda 1983, n. 95); 8. Apologeti e libertini, p. 127 (pubblicato in
«Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2000, n. 179); Appendice:
Tullio Gregory incontra Cartesio. Commentario (direzione scientifica) in
GIORGIO SIDERI DETTO CALAPODA, Portolano 6. 1550, Roma, Treccani, 2016, 236 pp.
258. Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»),
24 pp. 259. Postfazione “La cultura del vino” in MARCELLO MASI, ROCCO TOLFA,
Signori del vino, prefazione di Carlo Petrini, Roma, Rai Eri,
2 Bibliografia di Tullio Gregory – 2017 torna su 2017 esci 260; “L’ambigua
dignità dell’uomo moderno” «Quaderni di storia», Bibliografia di Tullio Gregory
– 2018 torna su 2018 esci 261. Considerazioni per una storia del pensiero
scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa, Modena,
Consorzio Festivalfilosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei: percorsi e
vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi Edizioni, 2019, 24 pp. 264. Fra i miei
libri, «Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei libri, «Voci»,
Istituto Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi gastronomici da Il
Sole 24 ore (1999-2018), Roma, ILIESI, 2019, 217 pp. Raccolta degli articoli di
carattere gastronomico pubblicati tra il 1999 e il 2018 su Il Sole 24 ore.
Stampato in numero limitato di esemplari in occasione del novantesimo
compleanno di Tullio Gregory. 74Tullio Gregory. Gregory. Keywords: implicatura
clandestina, clandestino – cognate with celare and occolto -- terminologia
filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il libertino. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Griffero – l’inter-soggetivo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo
italiano. Grice: “I like Griffero; for one, he has a taste for neologisms, like
his atmospherelogy – He has understood that aesthesis, qua sensatio, is the
basis for aesthetics, and he has explored the philosophies of Tarso, Spranger,
and Schelling!” Insegna a Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.”
Studia Betti (“Interpretare. La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino)
ed il concetto di spirito e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli,
Milano). Si dedica al rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e
immagine. Simbolo e mito (Guerini, Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari (Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle
caratteristiche del real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto
dato da questo autore all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma).
La nozione di "immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini
Attive: beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce
la storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe
in grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna. In
Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La
corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia
del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili"
(Mimesis, Milano). La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della
percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia.
Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La
realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei
un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la
vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità
aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al
paradigma cosale tipico della tradizione occidentale Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica
patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica
di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al
patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le
opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto
involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante. Il
tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla
presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica.
Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma). 5. Quali
atmosfere per quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica
(cfr. Griffero 2010d) che, ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono
opprimente, l’odore penetrante e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo
allo spazio locale ma allo spazio assoluto e predimensionale (più o meno
transitorio) delle “isole” leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più
interessa nel nostro più generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme 1995,
Griffero 2010 e Griffero 2014) – che lo spazio non locale del sentimento
(Gefühlsraum)14, permeato cioè da sentimenti o tonalità emotive (Gefühle o
Stimmungen) (cfr. Schmitz 1969), intesi ora come atmosfere, come quasi-cose
caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a rigore non
solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie),
monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto).
13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti
in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente
estesi [...] sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo
spazio locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di
sfera o un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz 1990, p.
292). © SpazioFilosofico 2014 – ISSN: 2038-6788 351 prototipica e
cioè oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce l’apriori di ogni
nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze espressive delle
singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere qualcosa, così le
affordances dello spazio del sentimento, irriducibili all’assetto ottico e agli
effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson, portano infatti in luce
l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica) della nostra Lebenswelt.
Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la qualità affettiva e
leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una radicale
Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno) dai
nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche dei
tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c)
corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure,
come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da
un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma
come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e
dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la
medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci
coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose)
che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono,
invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure,
vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema
specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle
fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab
extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi
di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e
condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come
amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria
dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o
deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la
paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del
“presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere
generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole
nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in
virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle
proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un
substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di
principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme 2001, pp.
193-210). Quasi fossero i “punti di vista” con cui le cose in un certo senso
escono da se stesse (cfr. Griffero 2005) e che appaiono inspiegabili come mera
espressione di un interno (qui propriamente inesistente), le atmosfere o estasi
delle cose paiono analoghe a potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali –
l’ira, ad esempio − sarebbero meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici
centrati, chiamando in causa una dissociazione tra punto di ancoraggio (lo
stato di cose che suscita l’ira) e zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto
con cui si è adirati): due elementi di solito poco connessi sotto il profilo
causale o logico (gestalticamente: figura/sfondo), visto che – ed è forse
illogico ma adattivamente funzionale! – si teme, ad esempio, più la persona che
potrebbe ucciderci (condensazione) che non la morte come tale (cfr. Schmitz
2007, p. 64). 16 Ma Schmitz qui obietterebbe che, le atmosfere non essendo per
lui intenzionalmente producibili e riducibili a cose singole (giusta una più
generale campagna contro la forma mentis singolaristica su cui non possiamo qui
fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non sarebbero autentiche
atmosfere. 352 demoniche (numinose) indipendenti dalla nostra
volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti, affordances),
nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si esauriscono, esattamente
come il vento coincide col proprio soffiare (cfr. Griffero 2013b). Sono
modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger 1941, pp. 77-78) che, generando lo
spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza
(proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e
oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione
soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria,
s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo
aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti,
ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura
ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Grimaldi – implicatura anti-peripatetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cava
de’ Tirreni). Filosofo italiano. Grice: “I have spoken of ‘magic’ – “two kinds
of magic’ – actually, for Grimaldi there are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial
magic,’ and my favourite, ‘natural magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di
origini genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu
seguace e fece parte del gruppo chiamato degli epigoni dell'Accademia degli
Investiganti. Consigliere Regio. Scrive numerose opere, raccolte poi in
"Istoria dei libri di don Costantino Grimaldi, scritta da lui
medesimo". Tra quelle più note si possono elencare le “Considerazioni
intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni
filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione sulle tre magie, naturale, artificiale
e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò "Ragioni genealogiche a' favore
della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D. Costantino Grimaldi. Colli signori
Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj di Catanzaro" F. A. Meschini,
nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica Napoli come città natale.
Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo, introduzione note V.I.
Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio storico italiano», Franco Aurelio Meschini, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Anticurialismo. GRIMALDI, Costantino. -
Nacque a Napoli il 30 genn. 1667 da Francesco Antonio e Antonia Cacace. Ebbe
come maestro per le belle lettere e l'oratoria Matteo Taurini. Spinto dallo zio
Scipione, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo dello
Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso di S. Tommaso d'Aquino,
dal quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine
del quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di
metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto
Domenico Radesca e Matteo De Lellis. Lesse poi, per proprio conto, E. Tesauro,
F. Piccolomini e, per i casi di coscienza, la summa di A. Diana e l'opera di M.
Bonacina. A sedici anni, con la dispensa del Collaterale per la giovane età,
ottenne la laurea. Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare,
tuttavia, lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Luca
Giordano che lo avviò alla lettura dei moderni: L. Di Capua, T. Cornelio, R.
Boyle, P. Gassendi, R. Descartes. Non trascurò i classici, Cicerone e
Quintiliano sopra tutti, studiò lo spagnolo e il francese, i rudimenti della
geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Tommaso Donzelli. Di lì a
poco prese a frequentare il circolo di Giuseppe Valletta e strinse amicizia con
diversi personaggi illustri: Francesco Billio, Filippo Anastasio, Giuseppe
Lucina, Giacomo Grazini, Domenico Greco, Antonio Monforte, Giacinto Di
Cristofaro, Niccolò Capasso, Niccolò Cirillo, Matteo Egizio, Ottavio Ignazio
Vitagliano, Amato Danio, Felice Stocchetti. È di questi anni l'idea, cara
all'ambiente vallettiano, di una storia universale della filosofia, che il G.
concepì in contrapposizione al gesuita Giovan Battista De Benedictis. Questi
nel 1694, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a
Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della
filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma
facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di
una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti
risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Giuseppe Lucina, Filippo
Anastasio, Francesco D'Andrea, Domenico Greco e Giuseppe Magrino. Da parte sua
il G. in un primo momento (è lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere
indirettamente, compilando la sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto
seguire lo sviluppo della filosofia nelle singole nazioni, soprattutto nel suo
sorgere presso i Greci, nel passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai
moderni. Quando apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non
avevano raggiunto lo scopo o che addirittura erano destinate a restare allo
stato di progetto, mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano
nell'offensiva contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al
gesuita. Le tre risposte del G. videro la luce tra il 1699 e il 1703.
Nella prima (Risposta alla lettera apologetica in difesa della teologia
scolastica di Benedetto Aletino. Opera nella quale si dimostra esser quanto
necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto inutile, e vana la
volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per l'interessamento di C.
Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso S. Hecht), pubblicata
anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra una buona e una
cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta dalla Sacra
Scrittura, dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità, la seconda
che, al contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e pretende di
provare le verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla filosofia.
Descartes, che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani viene
accomunato spesso a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso nei
confronti della sacra dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che dialettizzavano
la teologia. La Risposta, di cui ben presto si conobbe il nome
dell'autore, procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del Regno
e lo mise in contatto con letterati illustri, tra cui G.V. Gravina, L.A.
Muratori, A. Magliabechi, J. Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla
seconda lettera apologeticadi Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori
della filosofia, in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica
dottrina, 1702), non più anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e
stampata realmente a Colonia "perché trovò le stamperie occupate in
Ginevra", sono affrontati più direttamente i problemi della filosofia
aristotelica e del suo rapporto con la fede e con la dottrina cristiana.
Con abile mossa il G. trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco
ad Aristotele, proprio sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità
teologica dello Stagirita. Sulla base di un sapiente incastro di testi (F.
Patrizi, P. Ramo, P. Gassendi, ma anche gesuiti come Juan Maldonado, Antonio
Possevino, Michel Elizade o domenicani come Melchior Cano) e di abili
argomentazioni, il G. dimostra come alla luce dei principî aristotelici
diventino insostenibili i cardini della fede cristiana: la provvidenza, la
creazione, l'immortalità dell'anima; e, sul versante della scienza, la
corruttibilità dei cieli. Diversamente, i moderni, Descartes sopra tutti, hanno
professato dottrine non in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno
del filosofo francese per conciliare la dottrina eucaristica con la sua
concezione della res extensa. Alla terza risposta (Risposta alla terza
lettera apologetica contra il Cartesio creduto da più d'Aristotele di Benedetto
Aletino. Opera in cui dimostrasi quanto salda e pia sia la filosofia di Renato
delle Carte e perché questa si debba stimare più d'Aristotele, 1703), stampata
questa volta in Napoli da G. Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia
(perché senza la licenza dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes
dagli attacchi dell'Aletino. Questa risposta, più ancora delle prime due,
rappresenta uno fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e
delle opere di Descartes in ambiente napoletano. Il G. appare, anzi, come uno
dei più attenti, se non il più attento interprete partenopeo del filosofo
francese, sia per la conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora
disponibile, comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume
interpretativo. Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo",
viene visto soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non
solamente il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla
cognizione d'Iddio […] ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone
necessariamente per fabro, e regolatore il supremo facitore" sicché
"togliendosi per ipotesi il darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla
la macchina del Cartesiano sistema" (pp. 186-188). Questa piegatura
metafisica, nuova rispetto a pensatori come Valletta e D'Andrea e più in
generale all'ambiente investigante e a quello dell'Accademia di Medina Coeli,
permise al G. di allontanare da Descartes la pericolosa accusa di collusione
con l'atomismo antico, e di inserirlo nell'alveo della tradizione di Platone e
di Agostino, di cui, in particolare, Cartesio è detto "fido seguace".
Tutti i temi e i testi della metafisica cartesiana, in un discorso che è al
tempo stesso giustificazione e ricostruzione del moto rinnovatore napoletano
che da quei testi aveva tratto alimento, sono passati in rassegna: il dubbio,
il cogito ergo sum, il criterio dell'evidenza (ove grande importanza è data al
momento dell'intuitus, il "guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza
di Dio. Esaminata e così difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui il
G. discute il ruolo delle ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli
astronomi, spesso impossibili), appare se non più agevole, certo più sicura. Il
G., che difende al tempo stesso Descartes e Leonardo Di Capua, polemizza non
solo con l'Aletino ma anche con talune sue fonti come il padre G. Daniel e
soprattutto l'astronomo Pierre Petit, che l'Aletino aveva indicato come propria
guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le principali
concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato al rifiuto
delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima
"ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione
del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino),
costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del
principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto
e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo
materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie
alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della
salvaguardia del composto anima e corpo. Nel 1703 uscì una replica
dell'Aletino alla terza Risposta del G., la Difesa della scolastica teologia, ed
ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che
diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G.
trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati
filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto
all'interessamento di A. Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi del 13
marzo 1703, Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.671), ebbe una notevole
diffusione in Italia e fuori. Tra il 1703 e il 1704 il G. abbozzò le risposte
contro la IV e la V lettera del gesuita. Nel 1704 venne colto da un colpo
apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704 s.
Ignazio avesse colpito il G. perché aveva osato "malmenar" la sua
Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica
di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G.
non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino,
collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la
denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri
avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno
scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i
motivi per cui il G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso
periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui
bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a termine
perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio di Nicolò
Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici ecclesiastici nel
Regno di Napoli contro la Curia romana. Il G., che aveva già ricoperto
cariche in seno all'amministrazione (governatore dell'arrendamento dei ferri in
Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del tabacco), venne chiamato a
questo incarico il 20 luglio 1708. La pretesa del re Carlo d'Asburgo, espressa
negli editti, di conferire benefici ecclesiastici solo a regnicoli, contro la
pretesa della Curia romana, venne dunque sostenuta dal G. nelle Considerazioni
teologico-politiche fatte a pro degli editti di s. maestà cattolica intorno
alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (I-II, Napoli 1708-09), che
furono recensite nel IV supplemento degli Acta eruditorum del 1711 (pp. 369
s.). La risposta di Roma non si fece attendere: il 17 febbr. 1710 la Curia
emanò una bolla che colpiva, con le opere di Alessandro Riccardi e Gaetano
Argento, la prima parte del Trattato delle considerazioni teologico-politiche,
mentre la seconda parte veniva raggiunta dalla censura neppure un mese dopo, il
24 marzo. Il G., che nel 1709 era stato nominato consigliere straordinario del
tribunale di S. Chiara (diverrà ordinario il 28 febbraio dell'anno successivo),
preparò contro il testo della censura (la cui stesura si doveva al benedettino
Nicolò Maria Tedeschi) un Avviso critico et apologetico intorno alla bolla, et
alla censura fatta a' libri intitulati Considerazioni teologico-politche, che
circolò manoscritto negli ambienti anticuriali napoletani. Morto
l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessò: in un processo che li
riguardava essi ricusarono il G. come giudice, facendo leva sulla passata
polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio del reggente
S. Biscardi, l'esclusione del G. da tutti i processi in cui fosse coinvolta la
Compagnia, con una sentenza del Collaterale del 19 dic. 1710. Il G., che cercò
inutilmente di ottenere la revoca del decreto (facendo anche intervenire L.A.
Muratori presso il viceré Carlo Borromeo Arese, di cui l'abate modenese era
amico), ebbe tuttavia dalla sua parte Gaetano Argento e il reggente Gaetano
Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi testimoniano la sua attività di
consigliere. In questi stessi anni il G. riprese in mano le risposte
all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova edizione. Le controverse
vicende della stampa sono documentate dal G. stesso nelle sue Memorie, ora
pubblicate, a cura di V.I. Comparato, con il titolo Memorie di un
anticurialista del Settecento, Firenze 1964. Terminata la stesura dell'opera il
G., il 29 marzo 1719, chiese la licenza di stampa al Collaterale (non
all'arcivescovo, precisa lo stesso G., per l'illegittimità, a suo avviso, della
licenza ecclesiastica); si rivolse quindi allo stampatore Nicolò Parrino, che,
iniziata la stampa, la sospese di lì a poco su pressione di ambienti curiali. A
questo punto il G., secondo una prassi invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i
caratteri, continuò la stampa in casa propria. Gli ostacoli e gli equivoci
erano, tuttavia, ben lungi dall'essere superati: il cardinale Francesco
Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò, infatti, di far interrompere la
stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il viceré, cardinale Michail
Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva fatto intendere che avrebbe
gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che il G. fece - sollevò mille
difficoltà, cui il G. rispose punto per punto, finché "vidde, ed odorò che
il signor viceré non facea più da viceré, le cui parti altre certamente
sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da esecutore delle voglie altrui,
non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da colà" (ibid., p. 54). I
volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva fatto
circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite del
cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di queste
venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò la
condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la
seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in
cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata
immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio. La nuova edizione,
intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino
Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di
Benedetto Aletino (I-III, Lucca 1725), contiene, in realtà, alcune importanti
aggiunte, che danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni il G.
andava facendo e di nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente
napoletano: in particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre.
Gli interventi più significativi sono nella prima risposta, con una più
convinta difesa del giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per
un cristianesimo nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel
momento in cui veniva tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare
il campo della filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella
libertas philosophandi che era stata e continuava a essere la bandiera dei
novatores. Le risposte alla quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e
ora conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un
lasso di tempo che presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla
pubblicazione della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta il G.
attinge a pensatori come Pierre Bayle e Richard Simon, a libertini come
François de La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé, alla cultura investigante,
sempre a Descartes, ma anche a Nicolas Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto
il Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in
questa fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un
punto di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più
ortodosso, Tommaso d'Aquino, la cui valorizzazione di Aristotele non può
servire ai sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta
dalla conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele
stesso, di cui il G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi,
tuttavia, il G. non contrappone un nuovo corpusdottrinale, bensì, con un
atteggiamento caro ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria
apologia della ricerca. Non mancano altresì affermazioni che nella
sostanza suonano anticartesiane, soprattutto nella direzione di un certo
vitalismo della tradizione naturalistica meridionale. Nella quinta risposta,
Per la scelta d'Aristotele in maestro contro a' libertini ed atomisti, il G.
affronta il tema dell'ateo virtuoso e, per spezzare la relazione tra atomismo e
ateismo, cavallo di battaglia dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su
Aristotele, che per di più è giunto in Occidente attraverso la mediazione
irreligiosa di Averroè ed è all'origine sia degli errori di P. Pomponazzi sia,
ancor più, di B. Spinoza. La fortuna della filosofia aristotelica, d'altro
canto, era nata, secondo il G., dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora
era in declino proprio per l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto,
alle scienze sperimentali. L'opera, che si conclude con un'apologia della
ragione e dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico
che troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste
religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del
diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. -
attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio,
attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se
non della dottrina. Tra il 1729 e il 1733, cioè dall'uscita di scena del
viceré d'Althan all'avvento degli Austriaci, il G. trascorse uno dei periodi
più tranquilli della sua vita e al tempo stesso più intensi per la sua attività
politica: insieme con Biagio Garofalo compilò la lista delle "proposizioni
ingiuriose alla potestà de' principi" nelle Riflessioni morali e
teologiche, scritte dal gesuita G. Sanfelice contro P. Giannone, prese parte al
progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura di Biagio
Garofalo a teologo del Collaterale e di Celestino Galiani alla cappellania
maggiore del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con l'avvento di Carlo
di Borbone segnò una nuova svolta negativa nella vita del G., nei cui confronti
venne aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle accuse della corte di
Roma e dei gesuiti, in seguito alla quale, nel 1735, perse la carica di
consigliere, non senza, tuttavia, che il re riconoscesse il suo valore: gli
venne, infatti, concesso "l'onor della toga e l'intiero soldo".
È in questo momento che il G. pose mano all'Istoria de' libri di Costantino
Grimaldi scritta da lui medesimo, con l'intento di difendere il suo operato;
fonte preziosa che permette di seguire la genesi delle sue opere e delle
polemiche in cui fu impegnato. Per ottenere il passaggio delle sue opere
censurate dalla prima alla seconda categoria dell'Indicedovette adoperarsi con
tutte le forze, ricorrendo agli amici, facendo appello a tutta la Curia romana
e giungendo, infine, a una ritrattazione (1736) che, a sua insaputa e con suo
disappunto, venne pubblicata l'anno successivo nelle Novelle letterarie di
Venezia. Negli anni successivi visse appartato, continuando a
intrattenere rapporti epistolari con vari rappresentanti della repubblica
letteraria, in particolare G.M. Mazzuchelli. A questo invierà l'Elogium che gli
aveva dedicato il padre Casto Innocente Ansaldi, insieme con le Discussioni
storiche e una versione abbreviata dell'Istoria de' libri, scritta nel 1735,
cui aggiunse le notizie relative agli anni successivi al 1734 e cenni sulla sua
giovinezza, materiali questi che Mazzuchelli utilizzerà per le Notizie storiche
e critiche intorno alla vita e agli scritti di C. G., pubblicate l'anno dopo
della morte del G. nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici di A.
Calogerà. Il 17 febbr. 1744 il G. fu arrestato, con l'accusa di
intrattenere corrispondenza con gli Austriaci, insieme con il figlio Gregorio,
che fu poi relegato nell'isola di Pantelleria. Il G. restò in carcere quaranta giorni
(Vat. lat., 9281, cc. 130-140). Dello stesso anno è una Lettera apologetica
indirizzata al padre Sebastiano Paoli sull'involuzione della liturgia nel
Medioevo (tema ripreso il 23 maggio dello stesso anno e il 30 nov. 1745 in due
lettere a Mazzuchelli). Polemiche attardate, come quella durante la crisi
napoletana del Sant'Uffizio nel 1746-47 allorché il G. compose il trattato
Sciagura maggiore…, rimasto manoscritto, in cui riproponeva la lotta
anticuriale a favore del sovrano e contro l'intrusione del potere di Roma.
L'ultimo scritto del G., pubblicato postumo (Roma 1751; rist. anast. Milano
1974) a cura del figlio Ginesio, è una Dissertazione in cui si investiga quali
sieno le operazioni che dependono dalla magia diabolica e quali quelle che
derivano dalle magie artificiale e naturale. Il G. morì a Napoli il 16
ott. 1750. Dei tredici figli avuti dal matrimonio (1692) con Giovanna de'
Marzi, morta durante la sua prigionia, gli sopravvissero Gregorio e Ginesio,
Bernardo, chierico e abate di S. Maria della Misericordia a Itri, Aniceto e
Teodosio, monaci olivetani, e tre femmine. Il G. intrattenne un'ampia
corrispondenza: in particolare le sue lettere al Magliabechi sono conservate
nella Biblioteca nazionale di Firenze, quelle al Muratori nell'Archivio
Muratoriano di Modena, quelle al Bottari, infine, presso la Biblioteca
Corsiniana di Roma. Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat.,
9281, cc. 130-140: Viri clarissimi Costantini Grimaldi senatoris Neapolitani
elogium authore P. C.I. A. O.P. [C.I. Ansaldi]; G. Grimaldi, Lettera di
Claristo Licenteo [Licunteo]scritta al signor Rodolfo Grandini, in cui si
essaminan due luoghi del signor Francesco Maradei in persona del regio
consiglier d. C. G., s.l. 1716; Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a
cura di A. Quondam - M. Rak, Napoli 1978; G.G. Scarfò, Opuscoli, III, Napoli
1727, pp. 56 s.; G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche intorno a C. G.,
in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLV, Venezia
1751; Index librorum prohibitorum, Roma 1758, p. 17; M. Delfico, Elogio di C.
G., Napoli 1784; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del
Regno di Napoli, III, Napoli 1787, s.v.; M. Schipa, Il Muratori e la coltura
napoletana, in Arch. stor. per la provincie napoletane, XXVI (1901), pp.
553-649; P. Sposato, Le "Lettere provinciali" di Biagio Pascal e la
loro diffusione a Napoli durante la "rivoluzione intellettuale" della
seconda metà del secolo XVII, Tivoli 1960, pp. 27-47, 72-100; N. Badaloni,
Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, passim; E. Boscherini Giancotti, Nota
sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in Giorn. critico della
filosofia italiana, XLII (1963), pp. 339-362; R. Ajello, Il preilluminismo
giuridico, Napoli 1965, pp. 146 s.; V.I. Comparato, Ragione e fede nelle
discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di C. G., in Id., Saggi e
ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 48-93; B. De Giovanni, "De
nostri temporis studiorum ratione" nella cultura napoletana del primo
Settecento, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 141-191; B.
De Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la
restaurazione del Regno, Napoli 1968, pp. 35, 37 s., 43, 83 s.; F. Venturi,
Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 31-33, 83, 87,
322, 375, 388, 532; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere. Un
intellettuale napoletano alla fine del Seicento, Napoli 1970, ad ind.; G.
Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli
1970, pp. 266-271; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di
Napoli. Problema e bibliografia, Roma 1974, ad ind.; L. Osbat, L'Inquisizione a
Napoli: il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, pp. 51, 54; G.
Ricuperati, C. G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, V, Milano-Napoli 1978, pp. 741-774; E. Garin,
Storia della filosofia italiana, Torino 1978, pp. 874-876, 882, 907; V.
Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel
primo Settecento, Napoli 1982, pp. 478-481; M. Torrini, La discussione sullo
statuto della scienza tra la fine del '600 e l'inizio del '700, in Galileo a
Napoli, a cura di F. Lomonaco - M. Torrini, Napoli 1987, pp. 357-383; F.
Cacciapuoti, Il processo agli ateisti: dalle discussioni teologiche al
giusnaturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Cartesio e
Napoli, Napoli 1997, pp. 149-174; G. Belgioioso, La variata immagine di
Descartes. Gli itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli (1690-1733),
Lecce 1999, pp. 29-62; E. Lojacono, Immagini di Descartes a Napoli: da Valletta
a C. G., II, in Nouvelles de la république des lettres, 2000, n. 2, pp. 45-65.
Grice: “There is something to be said about what Italians, in connection with
Grimaldi, call ‘anti-curialismo,’ as opposed to the more general, and more
revolutionary, ‘anti-clericalismo.’ My father being a non-conformist, would
love Grimaldi on both counts!” -- Costantino Grimaldi. Grimaldi. Keywords:
magica naturale, magica artificiale, magica diabolica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Grimaldi: implicatura peripatetica”– The Swimming-Pool Library.
Grice e
Grimaldi – inter-azione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara).
Filosofo. Grice italiano: “Grimaldi for some reason did some deep research on
cynicism – a wonderful etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello
minore di Domenico Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che
faceva risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi
di Monaco, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un
uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi
nelle sue proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce
Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della
Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova,
esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere
la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della
Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso”
istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe
aristocratica. Maestro venerabile della
loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di
analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei
"sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --.
Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza
umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le
differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es.,
il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione non e uno stato di corruzione, ma lo stato
"naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era
giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita
ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una
Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De
successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius
Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque
absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica
all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica
di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio genovese, illustrata
con riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo
politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La
vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza
fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema
Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re
delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla
fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del
Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno
1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli:
Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo Grimaldi
patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe
Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «Grimaldi e
l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria
dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico,
«CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F.
Crispini, Appartenenze illuministiche: i calabresi Francesco Saverio Salfi e
Grimaldi, Cosenza: Klipper, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma:
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Boccanera, «Grimaldi In: E.Tipaldo,
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, e de'
contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata
per cura del professore E. Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ Melchiorre Delfico,
Elogio del marchese don Francescantonio Grimaldi dei signori di Messimeri,
patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina, In Napoli: presso Vincenzo
Orsino (ristampato in Opere complete di Delfico, a cura dei G. Pannella e L. Savorini, ITeramo: Giovanni Fabbri). R. Ubbidiente, Il
pensiero e l'opera di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Tesi di Laurea in
Filosofia italiana. Salerno. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dell’ineguaglianza degl’esseri organici. Dell
ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf organici . Della
di/fimilitudine fifica , che vi è traglt nominile gli altri efferi organici, Dell'
ineguaglianga fijica tra gli uomini . Dell' ineguaglianza della [enfìbìlità 3S»
degli efferi organici . Deìr ineguaglianza della [enfibili- > tà tra gli
uomini . Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali Dell' ineguaglianza delle pajjio- Deir
ineguaglianza della volontà . Principio generale intrinseco dell' ine- * , gli
uomini Ji fono ritrovati dopo della generale inondavo- Uh cietà familiari. Delle
Tribù de'Selvaggi. Delle Nazioni barbare.Delle Nazioni civili. Dello Sviluppo delle facoltà intellettuali
nelle Nazioni civili relativamente alle arti, ed al. /e fetente . Dello Jviluppo delle pajjioni de- uomini
ctvilt . . Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile focietà
. U"T^XEl? ineguaglianza naturale
Della libertà , e della ferviti civile ;. De Governi . Della legge di Natura.
Del diritto delle Genti. Del Diritto Civile. Della maniera come fi giudica da
noi Vineguaglianza politica de*diritti e delle obbligazioni degli uomi-m ni
. Questa breve ricordatila dell’
illustre Cittadino, questo semplice monumento alla Memoria d’un Uomo ce- lebre
nella Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m »!tX4 «m
ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa egli
contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , «ervire per
ricordo di gratitudine a' concittadini , per motivo d’ imitazione agli Uomini
di Lettere , e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel
loro cuore i più rispettabili sen- timenti , che istillar possono concordi la
Natura e l’ Educazione! Nascita ,
Grimaldi t 4*4 vi 44 ed 'TT'L nome Grimaldi contemporanco alla Storia Moderna d’
Eu- ^ * ** r0Pa ^ stat0 scmPrc fecondo d’ Eroi . Un ramo di que- sta illustre
Famiglia si trovava da più secoli trapiantato in estraneo suolo , cioè, nella
Città di Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi , e Porzia Grimaldi
nacque Francescan- tonìo (a) Le emigrazioni delle famiglie da uno Stato
all'altro in Italia furono frequentissime nel XIII. e XIV. secolo, quando per
la debolezza delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leg- gi , ma i
partiti. Genova soffrì forse più lungamente che qualun- que altra Città d’
Italia queste politiche concussioni . I Grimaldi Guelfi di partito , ebbero de'
tempi di disdetta ; ma non fu ni per disgrazia , ni per delitto , che
Bartolomeo Grimaldi si spa trio . Figlio sccotiAoeenìio di Ranieri L Principe di
Monaco , venne colle sue galee nelL 1309. in ajuto del Re Roberto a ri-
acquistar la Sicilia , e formò il ramo de' Grimaldi Signori di Mes- sirneri.
Per più d' un secolo , ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi st
conservarono in grande stalo ; ma le non insolitejiccnde di famiglia, più
frequenti ancora sotto quel Regno, ridussero i Grs maldi in più umile grado di
fortune . Perdute le grandi ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di
Provincia , conobbero chi vi può « - sere una grandezza nella virtù , che forse
frequenta più le pri- vate abitazioni , che quelle de' grandi • Piccola
consolazione nel Cinsuperabile ineguaglianzal » -~-4» ionio (a) , che nel
secolo XVI1L ha accresciuto nuovo lustro agli allori -de' suoi maggiori. L’
onestà , la virtù , e le lette- re , che avevano fatto sempre la principal
caratteristica di questa Famiglia , fecero l'educazione di Colui che abbiamo
per* duco. 11 di lui savio genitore , memore -di partecipare all* au- torità
suprema d’ una Republica illustre , non conservava solo nel suo cuore le comuni
doti d’ ordine degne d’ un membro di Senato Aristocratico t ma nato in una
libera monarchia rico- nobbe altre più vere idee della virtù , che seppe
imprimere nel- l’ animo di quelli a’ quali aveva dato 4' esistenza « Conobbe egli
» » «he la severità della virtù passa agevolmente in difetto , quan- do non è
accompagnata da quei sentimenti d’ umanità che devono costituire il benefico
carattere dell’uonjo sociale ; e che questo perfezionamento della virtù non si
acquista che colti- vando Jo spirito, e perfezionando la ragione. Per tal modo
quel tavil>«tUirJatJ»***-!r»i.—i—— «<* *mi ri no que’ semi virtuosi , che
vennero poi vigorosamente a germo- gliare. L’esempio stesso della di lui vita
fu per esso una cont»* mua lezione di que’ doveri , che accompagnano l’ uomo
ne’ suoi varj rapporti e. situazioni . Qual raro e piacevole spettacolo è in
latti , il vedere un amico genitore occuparsi gradatamente a perfezionare l’
instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli « condurli quindi alla
conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- (a) A' io. Maggio 1741. strar «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’
idiomi , ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti , ed ora quelle
della ragione ! Questa fu la vera e rara educazione , che F. A. G. ebbe la
sorte di go- dere. 11 solo padre fu il suo istitutore - Nato con una
costituzione vigorosa , sana , e di sanguigno temperamento, ajutato da una
educazione corrispondente svi- luppò prematuramente un carattere capace del
grande . E sic- come sono le circostanze che determinano 1’ attività nostra a
tale o tal’ altra direzione ; così le sue forze incapaci d’ un’ iner- zia
vergognosa , presto si determinarono al laborioso migliora- mento delle facoltà
intellettuali , che duplicano quasi la nostra esistenza , facendo sviluppare lo
spirito e sublimando la ra- gione . Ciò che si chiama Corso di Stud) no» fu per
esso , come co* illunemente esser suole , una serie di lezioni consuetudinarie
, che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin rVm dete* riorarlo . Egli studiò
le scienze con quella vera attenzione , che meditando su le idee e verità
conosciute vede sbucciarne delle nuova , e richiamando per i varj e necessarj
rapporti mol te idee a quella che principalmente si medita , fa quasi sorgere *
crea nuove verità , che altrimenti resterebbero in dubbio retaggio ai secoli
futuri-. Un* anima cosi elevata da moltiplicità di cognizioni erra qual- che
tempo nell’ immenso campo delle idee , ora seguitandone arditamente una serie ,
ora poggiando su le adire per sentirle quasi più da vicino j ma noa SÌ
stabilisce finalmente e riposa Digitized by Google che sopra quelle
, che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. • • La Morale scientifica e
prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il
risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di
paragoni , chedopod’avernequasiformatouncorsod'esperienze, ritor- na alle
cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e
privata : fi chiunque non è nuovo nelle scien- ze converrà facilmente che
questa parte della Filosofia è egual- mente grande per l’ importar»»» •»» • p»r
hi sue sublimità. Que- sta fu , non dirò la prescelta^* dal nostro Grimaldi ,
ma quella verso della quale egli fu trasportato dalla forza del suo inten-
dimento combinata con quella del suo cuore. I primi saggi in- fatti del di lui
spiritOi anche indirettamente, fecero subito rico-; noscerc quésta naturale
inclinazione» Un* -11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i
principj di quell’ ar- monia generale , che donò il gusto del Bello ma fra le
Belle Arti la Musica é forse la più vicina e la più dipendente da co» desti
principj non ancora interamente rivelati dalla Natura : Perciò allor quando il
cuore è più sensibile e l’anima più ar- monica è facile il trasporto al gusto
musicale . 11 di lui savio educatore fin dalla prima infanzia profittò di
questo stato pre- coce della sensibilità del suo allievo. Quindi seppe
insinuargli fc fargli nascere il più sicuro senso dell’ordine, della proporzio-
ne, e dell'armouia , coll’isiruirlo nei principj del Disegno , della a Pit-
Digitized by Google • fattura e della Musica . Non vedeva egli
ancora qua! parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù :
onde seguitò lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma
allorché le altre cognizioni cominciarono ad accu» snidarsi nel di lui spirito
-* quando cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma
parte ancora delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e
necessar} , della Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente
dettati della Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì
contentò della sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee ,
ie mflhagini, i sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle
domande . I suoi progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1*
esattezza e i’ espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che neU’esegui-
re . Per la perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì* zio abituale
C Continuo di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte del tempio
della gloria prende delle Belle Arti quella parte che serve al miglioramento
della sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli nondimeno ,
trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato colla scor- ta
degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul costume , cioè
sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che caratterizzano gl’
individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le sue osservazioni,
*i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono secssoesaeeMieMfleM —* . > Ono esse contenute
nella Lettera sopra la Musica alt Lo- Lettera sopt4 ^ HSK*> cruentissimo
Signore Agostino Lomellini (a) . A quest' uo* no degno d’ eterna ricordanza
volle il Grimaldi indrizzare I» sue idee , non solo perchè n’ era un giudice
competentissimo ì ma per attestargli parzialmente quella stima, della quale L’
Euro» pa tutta r onorava . ' E‘ meraviglioso il vedere come il Grimaldi in
questa operici ciuola abbia potuto combinare tanta abbondanza d’erudizione è di
ricerche , « tante fona di wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una
parte- sublime dalla Filosofia } che ha contribuito all’ espansione della virtù
, alla regolarità de' Governi , alla conservazione del costume > alla
sublimazione de’ sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri
tempi questa ch’era stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t»
«rwwf! r i- eroe»a- j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì
finanche la fisica di lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono
dimostrativamente provati dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni
de’ Filosofi contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle
cagioni , che il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’
sotto tre forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 *
che» Digitized by Google 4-4 xii cte chiama Naturale , la
«*rr>nda Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto
siamo lontani dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di
giudicare della sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le impressioni
delle passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti , la diversa
prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga degli stessi
tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e vocale . L'
imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1* altra semplice
e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento della Società e
nel perfezionamento della Mu- sica , con questa differenza che quella restò
sola presso le Na- zioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò quasi per la
parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari por- tano quasi
dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica voluttuosa pare
«V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica , che per la
qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di Filosofia
nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’ orga- no
ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far nascere de’
sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non per una più
estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per rendere la
macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’ Ordine , che
deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli Stati. La Filosofia
dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo Digitized by Google
\ , lo stabilire una qualità di Musica assoluta , i cui effetti
fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il caratte- j re
de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o avviare alla
perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità lora Esaminando
però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia albergato poco sul
Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà , che di —. costume.
Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit> cip), che si palesa
negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le producono, possono avere
un’espressione degna di esse : ecco la Musica Filosofica. Questa forse era quella,
«olla quale si can- tavano le antiche leggi, e le gesta degli Eroi ; questa,
che det- tava i principi Morale, questa, che eccitava, i cuori all» gloria , e
che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè i più illu-. stri
fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo , Chirone furono
tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la Musica è l’emblema
dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco perchè ancora, i
Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della Filosofia, o la
ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine socia- le, che
solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ; ed ecco infine
perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di miglioramento morale non
si richiamila Musica ai suoi principi , e non si feccia del piacere una strada
alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla con vista immediata al
pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni Vita £Ansal- do
Grimaldi. <H xiv H» mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a
tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non
manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra
sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest'
Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la
migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre
Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che
il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla
Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del
nostro Grimaldi, quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di
luì penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo
retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo
sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe
della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi
corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco
vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire
principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di
rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande
; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli 1769. Digitized by
Google «H xv W versi punti importantissimi delia Storia politica di
Genova e di segnare il carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri
e regolari della sua sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’
Ansaldo , non solo perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma
perchè in quel tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della
Republkana libertà e si sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da
quella dello Stato istesso . Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a
quelle particolarità che occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò
di cs* •ere più utile col sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde
poi provenivano quelle vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ;
e per quale sue* cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che
tut- tora vi regna. E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’
Eroe , fa la parte principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle
Republiche è stata sempre la vera miniera delle poli- tiche e morali
osservazioni , cosi il nostro Autore non potè evi- tare quelle riflessioni che
il corso della Storia naturalmente gli presentava . Esse sono opportunamente
collocate , e formano quasi una «rie di tanti saggi Politici e Morali , ne’
quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La storia dell' uomo interessanti a
fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa quest’ Opera quasi in due parti .
Nel Testo si fa come' un quadro animato della Storia Po* litica di Genova'
scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa veder come la mancanza di
Costituzio- ni e **88* 1.10 . metraggio , cioè, ravvicinando le thè r uomo non sia risparmiato , poiché viene
mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle circostanze, il Grimaldi non
lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in. ogni circostanza •ono
le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna assolu- tamente leggere
-quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene tante nobili idee , e che è
impossibile di dettagliare in un cir- coscritto discorso . Torno per tanto
all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il titolo di Grande, che dall’
adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’ Umanità, non si deve che
ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande è la Beneficenza. Ansaldo
gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso , sensibile meritò dunque questo
titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza consista nella quantità
dell’azione, e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea- lizzò in Ansaldo. Come
uomo di Stato egli sostenne la Patria col vigore de’ suoi consigli, rolla
sublimità de’ suoi talenti , colle ric- chezze ammassate dalla sua temperanza.
Come semplice Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano essere oggetti
d’una illuminata beneficenza, cui non si contentò di esercitare nel ristretto
tempo della sua durata , ma volle estendere all'avvenire e che anco- ra persiste
. Non solo vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue ricchezze, ma
fece che la sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella serie de’
secoli. Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando la Ragione
perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti per **l*a
publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di Scienze , ma
som- Digitized by Google 4-i xvii somministrò anche soccorsi a
coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò moderatamente i luoghi religiosi ,
gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica pietà . Egli pensò da uomo libero
e non da Aristocratico : volle che tutti partecipassero della sua beneficenza ;
quindi non solo ebbe in mira le opere dan- neggiate dalle passate guerre , come
la darsina , il porto , le mura , i ponti e i mulini , ma lasciò altre somme
considerabili per le ordinarie spese della Republica ; liberò dai debiti Je ga-
belle che già troppo aggravavano il popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori
furono obbUacì nelle sue liberalità e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza
non gli chiuse però il cuore ad una più propria e particolare del suo nome e
della sua famiglia . Le risoluzioni domestiche, si osservano più facilmente nel
tem- po che quelle degli Stati . Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte
. Quindi da gran politico pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente,
dalla povertà de’ Nobili incomincia la corruzione , volle , per quanto potè ,
prevenire questi tristi ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una
quantità di beni , che potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per
tutta la famiglia un Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io
splendor del cognome Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che
attendessero alle lettere , con pen- sione che durava per anni otto : volle che
le donzelle Grimaldi avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ;
e nel- C le aeoaeeseueaaysa Digitized by Google 4 xviu >4* le
annue liberalità che per i poveri stabili , volle che non fos- sero obbliati
quelli del suo nome , che una rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe
collocare • Una cosi estesa e perpetua generosità , un uso cosi giusto delle
ricchezze , una liberalità , che si propagava fino all'ultimo Cittadino »
riunite a tutte le altre qualità che gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea
meritare ad Ansaldo il’ titolo di Gran- de : e più lo merita a’ giorni nostri
quando un lusso distruggi- tore à estinto negli animi ogni sentimento di
beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba alzasse il capo il Grande
Ansaldo* forse esclamerebbe: O Patria, ingrata Patria, o Posteri più in- grati
alla mia memoria ed ai miei sentimenti ! Io non feci delle mie ricchezze un
Banco di Commercio, ma di Beneficenza Come V amministraste voi verso quella
famiglia , che per virtù e per le circostanze diveniva la prediletta nella mia
intenzione ? Voi nega- ste al vostro sangue , al vostro nome stesso quei
soccorsi che lo Spirito di Patria , d' Umanità , di famiglia mi dettò contro i
di- spettosi rovesci della Fortuna . Ah ! un nome illustre non ì che un
tormento se è accompagnato dal bisogno L Ma sento da un cu- • po oscuro
Chiostra ì teneri ed acuti accenti di cinque mie figlie , che rivolte all’
antica Patria ridamano i diritti di quel sangue che loro scorre nelle vene .
Possano queste voci giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di meritata
riconoscenza ! Genova , Grimaldi , calmate V ombra del vostro Benefattore -1 Il
nostro Grimaldi fu veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo
personalmente e promuoverlo alle su-- iy pren>£ Digitized by Google
«H x*x preme Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù
; ma lé circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito
si contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con
quello della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i
rapporti degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al
Foro e desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo
combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa
professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1
Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore
applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive.
Tut- servire a questo primo oggetto so-« ciale . La conoscenza del Giusto in
tutta ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’
apice delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di
dritto è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una
tranquilla della Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi
ognuno conviene della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della
perniciosa mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti
esistenti nell* amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera
dono di questi mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano all’infinito
gli attori di questa scena tragica per la società e per la Morale ; e questo
malore contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu- quel
vertiginoso frastuo- corruzione, i più ri- . «H xx deteriorazione del
costume ed all’ affogamento de’ talenti , che nella loro freschezza rivolgono
facilmente , come le piante , le radici a quella parte ove più abbondantemente
possono succiare gli umori nutritivi 11 Grimaldi cautamente portò il piede su
le sponde di code- ito baratro pericoloso . Senza immergevi nel bujo , vedeva
dal- la circonferenza a quali limiti bisognava rimancrfe . Non cupido d’una
gloria efimera e fugace, non avido di que’ lucri, che di rado sono il premio
della virtù e del valore , egli si contentò dell’ approvazione della Ragione
piuttosto che di quella del vol- go ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che
si ritenesse in tali limiti per mancanza di convenevoli talenti , l'Opera
legale che egli ancor giovine molto dettò , potrebbe facilmente sincerarlo .
Nell’ e- là di soli ventiquattro anni egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus
legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) - Qual differenza fra questa e tante altre
Opere legali uscite dal nostro Foro , che I opprimono il buon senso ed oscurano
la Ragione ! Tutte le co- gnizioni antecedenti , necessarie a formare non dirò
un Giure- consultomaunLegislatore, nonmancavanogiàalGrimaldiin età cosi
giovanile. La Storia e la Filosofia erano cosi amalga- mate nel di lui spirito
, che la conoscenza prattica e teorica dell’ Uomo e delle società gli era
sempre presente per conoscere ( ) lo Napoli 1766. le Digitized by Google
le cause delle sue idee e de* suoi movimenti , e per ravvisare quali
fossero i piti convenevoli alla sua destinazione. Egli dun- que vide la materia
delle successioni legittime come provenien- te dai primi dritti della Natura
realizzati nelle società collo sta- bilimeuto della proprietà e dei dominj .
Dimostrò come lo staro della legislazione civile d' una nazione siegua la sua
politica Costituzione ; e quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera
di considerare gli stessi oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano.
Venendo al suo oggetto, cercò rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini
N«potetene' te rapporto alle successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa
Città , nell’ analogia di governo colle altre Greche Republiche , e con una
felice e nuo- va applicazione ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone . L’
erudizione sparsa in queste ricerche è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi
procede nel resto dell'esame, cioè nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli
cibilo JcgreUxione net 'SUCCOSsivi cambiamenti della Romana Repubiica .
L’Aristocrazia espressa tutta nella legislazione decemvirale fissò le
agnazioni, e l’esclu- sione delle donne , avendo in mira la conservazione e
perpetui- tà delle famiglie Aristocratiche . I progressi alla Democrazia , ne-
- cessario frutto dell interno vigore dello Stato , che liberò i beni dalla
schiavitù , che sciolse gli individui dalla dipendenza dell’ opinione e della
servitù personale; che strappò il codice arbitra- rio dalle mani sacerdotali ,
cangiò anche questa parte di legis- lazione : e le donne furono riguardate come
parte della specie e della Società . Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ;
e si serbarono i nomi mentre le cose non erano più . Le forinole e
le solennità de’ Giudiy , che costituiscono fino ad un certo ter- mine la
libertà civile , cederono a quelli detti impropriamente di Buonafede,
chesembranopiùconvenientiadunGovernome- no complicato , facendo strada a quell’
arbitraggio che è la . , morte della Civile libertà . Le alterazioni in questa
parte della legislazione .si fecero insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a
quelli , che con nuova Religione portarono nuove leggi sul Tro n no. Ma qui non
è luogo di seguire 1’ Autore in tutta la serifc. istruttiva delle tante idee
utili e nuove , che s’ incontrano ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai
profondi Giureconsulti il giudicarne con dettaglio » e far vedere qual
precisione e chia- rezza egli seppe portare nel pii oscuro legale labirinto,
quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare alla dilucidazione del suo
oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di lui Opera non solo nel
giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te delle nostra
legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle cure del
gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente assorbire
il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore de’ suoi
tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e più
generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo , poiché
l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di
piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di
Vita di Dio- ‘TìT •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’ idee e
sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di sensibilità ,
che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non permette che
lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee e delle virtù
comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo del Genio e
della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le vie per
aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella vecchia
Storia della Filosofia cioè de’ progressi della , Ragione e degli errori , vide
I! Grimaldi i grandi sforzi degli amichi Filosofi, che non più contenti d'una
Morale di prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di ridurla a
princlpj ge- nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso della vi- ta
. Ma esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide quanto è
difficile una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl» antichi Istitutori
e maèstri dBTMorale un Filosofo che fissò tutta la sua attenzione ; e questi fu
Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k Credè alcuno , eh’ egli
imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma chi ha letto questo
nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua intenzione. Egli fece
vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da Laerzio , non quell'
impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello stravagan- te • '^''•'' _,i
(a) in Napoli 1777. , le
che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad evidenza che quel Filosofo fu il
più conscguente r giacché le azioni .corrispo- sero sempre alla sua dottrina :
e codesta era la più vera , la più utile , la più giusta che fosse ' •* dettata
insind allora . Sinope , Corinto ed altre Città ono la memoria di quell’
illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non poterono salvar la di lui fama
presso l’invida posterità . Grimaldi nel Se- colo XVIII. rinnalza Diogene su i
monumenti erettigli da' suoi compatrioti e diviene il Restitutore della di lui
fama , e della di lui virtù . La Morale di Socrate era divenuta puramente
nominale , quando a Diogene sorse il talento di reintegrarla ad uso dell’
umanità . 1! principio della Morale prattica par che consista nella
facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellez- Iezze , l’
indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito , se pei ci
sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore . Diogene
volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è creato nella
Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa vera
osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della Virtù
. La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni da un
estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale privilegiato ,
che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti , ha più
facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione quello che
gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla Digitized by Google
. ^xxv^4» - «aaBeMecSeaooeoeeseaaoosMsaeeseeeiMjeBft dalla Natura . L’
uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di desìdeij,che accrescono m ragion
diretta la sua sensibilità al dolore, senta proporzione relativa al piacere ed
alla felicità . Se questo spiacevole accrescimento di sensibilità è effetto
dell’ edu- cazione , esso è opera dell’uomo , è di creazione sociale; vi è dun.
» que tutta la possibilità d’ abolirlo . Si può essere decentemente coperto
d’un Pallio senza infelicitarsi per non avere in dosso le gemme ed i preziosi
metalli ; si può vivere bene e sano senza esser velato dalle leggerissime
spoglie dell' Oriente o soffogato sotto i rarissimi velli del Settentrione : e
, se dell’aria comune la più respirabile è la più libera , si può vivere, e
meglio, sen- ta le stanze ermeticamente chiuse , senza che sieno ricca- mente
foderate , e senza richiamar tutte le arti e tutti i climi ad estenuarci ed
estinguerci nella mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze s'acquistarono forse
alle spese della virtù; aveva dun- que egli regione di veder I» Temperanza come
la base princi- pale di essa- Ma se per la Vmù è necessaria quella tal
disposizione abi- tuale dell’ animo che si chiama Tranquillità , questa è
simil- mente figlia della Temperanza: L’animo distratto dalle passioni
disanaloghe alla natura dell’ uomo , cioè non tranquillo , non può essere
virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti del dolore la strada alla virtù tristo
comando alla Natura umana - Non diceva : „ divieni apa- to ed insensibile „
altro precetto peggiore e non conducente alla perfezione morale- Diceva solo:
„sii temperante che sarai tran- D quii- . 4^ xxvi >4* jquillo ,
ed essendo l’ uno , -e 1* altro puoi essere virtuoso . „ Finché 1’ uomo è
distratto da sensazioni vaghe « immerso ne’ desiderj , lacerato dalle passioni
non sentirà che se stesso ; ma quando nè i bisogni , nè le idee, nè le
immaginazioni tumultua» rie Io tormentano , egli deve essere necessariamente
benefico , cioè , virtuoso . Se le ricchezze fossero sempre necessarie all’
esercizio della beneficenza , la virtù sarebbe solo riposta nell’ uso de’
metalli , ed il non ricco non potrebb’ 'essere giammai Virtuoso . La virtù ,
nel sistema di Diogene, non doveva essere Un fantasma dell’ immaginazione , un’
astrazione per alimenta- re le dispute de’ Moralisti; ma bensì il partaggio
dell’ Umanità» il vero sistema della beneficenza universale • Se la virtù è
nell’ azione , e quest* azione dev’ essere facile , equabile , pronta * Diogene
voleva render l’uomo libero dagli inutili ceppi fabbri- cati a se stesso, per
renderlo attivo , benefico , virtuoso . Uno aguardo anche passaggiero su la
Morale esistente prova la ve- rità e la profondità delle Ciniche osservazioni
Qual era diuresi Ja serie ragionata e conseguente delle idee morali di Diogene
? Temperanza , indipendenza , libertà , tran- quillità , beneficenza ; virtù
tutte nascenti 1’ una dall’ altra • tutte conducenti per la più agevole strada
alla meta della Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di lui principj .
Egli visse libero , tranquillo e contento , cioè virtuoso e felice . Apostolo
della vtréi e della virtù , egli non fece che predicarle . Un Re «d un llot^
erano eguali agli occhi di lui : la verità e la virtù fa- xxvii $4*
ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì eeyecaìtjesa faceva
egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi e la pubblica
Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano dirette al
pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine . Venerava la
Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che conduce sem- pre
alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche ia q-v «empi
sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le sostanze de’ divoti
. Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo conjugale ; ma come
fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società de’ suoi tempi che
la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e miserabili , di ti-
ranni e di schiavi ? Un Filosofo non può amare la moltip li- catione e la
riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to pteseritto loro dalla
Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della Verità e della Virtù :
egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente come n’ era uscito . La
distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è nelle sue immutabili e
costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il contemplatore della Natura
, l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata da una etilica imparziale
c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte le circostanze e situazioni
. Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per vanità che il Grimaldi
imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per rendere un giusto
tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o per partecipare al
pubblico un vero D a fiJCh , nè Digitized by Google xxvm ^
tJtis»oe«cM»eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac
modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera ,
che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come
quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo
s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fece Grimaldi . Le
virtù di Diogene furono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno
veduto in tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la
tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti ,
la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la
tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento
costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità
purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe
combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita
sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua
civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le
sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo
rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi
idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio ,
non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe
maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo
dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua
serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di migliorar
se . ; ma che egli lo se stesso , e di
essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj e le continue
meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più utili che si
possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito d’ idee e di
cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile esercizio di
molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente diretti verso
qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante : l’animo prova una
certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di pensieri , e par
che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra qualche og- getto
particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se questo sentimento
penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere parti dello tpirin
, non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti i parti sono
regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il Grimaldi ebbe
sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri- chiamarle ai
principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma dopo d’avere
per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti li vide in
tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni Morali che
presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che stende il suo
do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale Ine guagliania A
tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo portò su questo
punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’ gran ruoti fra le
idee principali , balzò agl! estro- ., 44 xxx >4» estremi
obbliando le idee intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente
> e quindi fra molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi
in luogo di tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto il
Grimaldi di quale utile fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto >
che è quasi la base del- la Morale e della Politica . Prescélse quindi un campestre
ed isolato soggiorno ; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile anche agli
amici ed alla famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea principale ,
impetrava dalla Natura la rivelazione delle verità più utili all’ uomo . In
codesto stato egli delineò il piano delle sue Riflessioni sopra VIneguaglianza
tra gli uomi- ni (<*) Le sue prime considerazioni gli scoprirono , che la
base dell* Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza Fisica la
generatrice delle altre: è dunque legata ad un ordine: è per conseguenza una
legge immutabile ed eterna . Le stesse ricerche preliminari, che fa su questo
punto, portano f espresso carattere della novità . Colla più seria attenzione
poi assottiglia il suo Sguardo per penetrare nei più complicati recessi di
quest’ Esse- re sublimemente organizzato , che si chiama Uomo - I più te- nui
rapporti non sono negletti; e combina una maravigliosa mol- tiplichi di
cognizioni per farsi strada all’ oggetto . La Fisica la Fisiologia , la Storia
Naturale , quella particolare dell’ uomo 00 In Napoli 1779-80. è perciò e delle
Società , tutto è da esso ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si
era proposto , cioè , a far conoscere 1* essenza reale di questo composto
meraviglioso. Incominciando dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za
generale degli esseri organizzati , passa all’ esame particolare della
Ineguaglianza che nasce dalla diversa destinazione degl'ìnr dividui della
stessa specie . Osserva , che la differenza sessuale si va distinguendo a poco
a poco dagli esseri più semplici 9 meno complicati fino ai più composti e
perfetti . Che questa differenza porta per necessiti di natura una
Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento, nella forza , nel carattere ,
nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama meccanismo e sensi-* biliti.
......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la dissomiglianza in ge^qfgjp»
degli esseri organizzati; e riducendo questo paragonerai ferenza che vf ha fra
IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'* altri corpi organici ', rileva qual
sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la spezie umana • Si apre quindi la strada
ad esaminéft * geograficamente le differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5- de’
P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre con abbondante." -ed adatyy^fcrvp. .
dizione la superficie tutta del Globo , indicando le cagioni pria- cipali e le
concause , che rendono gli esseri delIiL stessa specie tanto dissimili gli uni
dagli altri , e come questa dissomigliati? za fìsica porti nel tempo la morale
. Ha riflettuto e dimostra^', che la sola differenza di climi non
poteva-produrre questo tv* levantissimo effetto, ma che la situazione locale,
la quali$ -delP^- ’-;' ’,aria , , . * • Digitized by Google xxxii
>4 •ria > le maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d' abiure vi
concorrono necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo stesso .
La Natura ha prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gli uomini
sono ineguali, come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in diverso
suolo, e come diffe- renti sqno ancora gli alberi della stessa selva . Le
cagioni sono qualche volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano resi-
stenza . Da questa Ineguaglianza più apparente , par che divenga una
Conseguenza necessaria quella della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’ Autore
sbandisce la Metafisica delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi punti
della Psicologia , e combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le sottigliezze
, si fa strada alla Realità , . Per una lunga serie di osservazioni egli
gradatamente giunge a stabilire ; Chi la sensibilità negli esseri organici
siegue i gradi dfl loro meccanismo ; e che la differenza che vi è fra il
tertiro dell' uomo e quello degli altri animali cossituisce la ca-
-tatteristica essenziale della nostra seusibiihd paragonata colla ion • • / Che
che ne sia della sensibilità assolutaci sonode’corpi più « meno conduttori , ma
il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’ esame particolare degli organi de’ nostri
sensi , paragonati con quelli degli altri esseri sensibili, ne compruova maggiormente
1' assun- to , che anche più resta dilucidato colla dichiarazione di ciò -che
si chiama Senso interno , punto centrale della sensibilità e *. *he par che
segua la gradazione dd meccanismo e della sen- sibi- * Digitized by
Google . xxxili >4* eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja
sibiliti istessa . Ciocché 1’ Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte
basterebbe per fare un’Opera illustre. L’esame che egli fa della sensibilità ,
riducendola quasi agli elementi primitivi che la formano e la generano ,
dimostra che essa non può essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-»
cevole verità , che il tuono fondamentale della sensibilità è il dolore :
tristo partaggio di quest’ essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di
sviluppo d’ attività in tutu 1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì*
intelligenza come l’effetto alla causa e che per conseguenza deve portar 1*
istesso carattere della sua genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò
espressa fra gli uomini ; ma a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’
intel- ligenza sublime non s’ acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza
e della vita. Ne fu un esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla
sensibilità e dall’ intelligenza risultano le passioni e no portano il
carattere . Chi non ne vede continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri
Moralisti Francesi , due nomi immortali per i progressi dalla Filosofia ,
Montesquieu ed Helvetius , so- stennero le cause uniche delle differenze
generali fra gli uomi- ni , 1’ uno rapportando tutto alle cause fisiche , 1’
altro alle morali ; ma 1' amor del Sistema nascose alla loro vista la chia- ra
verità che rivela la Natura. Se la sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere
le passioni sono queste che determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua-
Digitized by.Google . xxxiv eoaeejeBeaseesaeesoeeBeeaaeaoiyaeo
>aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più
sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile
della llatura . Lo stato d Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere
pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera,
dimostrandovisi che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà
intellettuali dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle
cause esteriori , che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’
Uomo è in relazione con tutti gli esseri che lo circonda- no . Ogni sensazione
o piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e
questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra
di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la
Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa
esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri :
Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi
relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità
de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle
necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo
riconosciuta 1 ine- guaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza
del parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni
degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui .
Ed ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by
Google . xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli
uomini contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura
stessa , cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo .
Chiunque non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V
Espressione ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell'
Autpre . Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste
osservazioni che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita
ed erronea è sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono
anche codeste naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ;
raononàuncaratterease, maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle
circostanze giacché in esso vi è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle
cahse esterne , e circoscrit- ta dalla forza del meccanismo di ciascun
individuo. Che quia- di Io stato morale di ciascun individuo i relativo alle
circo- stanze sociali combinate con quelle , che sorgono dalla propria
sensibilità Con questi principj si apre la strada all’ esame morale deU’ uomo .
Egli lo sottopone all’ esperienza , non come un semplice Fisico farebbe, ma
come il Chimico più esperto e sensato, sottopo- nendolo all’ operazione di
diversi agenti , analizzandolo , ricom- ponendolo , e combinandolo , per vedere
in quale stato possa dare più felici risultati , risultati che caratterizzino
la differenza e 1’ Ineguaglianza morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo
solitario è 1’ oggetto di queste sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi
; perchè l’uomo per Natura , stabilisce
ocsfleesaoejeeoooeaooesocsocBooeaooeaoee'Mtoo semplice vista ; ma nella
Società egli è messo ad un vero ci- mento, giacché ivi siscuoprono i varj gradi
di rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i quali si può misurare la sua
moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti dell’ Uomo solitario sono
quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una sus- , sistenza che non
conosce , per passare a considerarlo nello sta- to <Ii Società, riflette
primamente , che la sociabilità è un» qua- lità essenziale dell' uomo ; cosa
dimostrabile per ragionamenti se non fosse una verità comune , continua e
coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno intanto diversi gradi alla
per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma il massimo , se vi può
essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici . Ma come tutti questi
immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i componenti in 'rapporti
e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale saranno del pari
differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo dovettero avere
de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di famiglia dovet-
tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca- dere quando le
famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della Terra a popolarsi
di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire allo stato di
barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti questi lenti
passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati dall'Autore ,
sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come naturalmente
ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee e de’
rapporti, dal- Digitized by Google xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc
^>3frC-»o ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità ,
dello sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e
finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che
susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de'
nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come
nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come
i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle
circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non
comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per
necessità di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l'
Ine- guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce ,
all’ epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed
all' Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del
vortice sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io
guidino nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo Filosofo ,
compassio- nando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia-
ma 1’ uomo ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale •
Quando si considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale
sono capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad
esse uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società
solamente si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è
dunque in esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va
ravvicinar 1' Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando
XXXVIII H* »ando la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e
miglio- randola ; e questa non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero
sociale ? E’ vero che nella Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’
inegu3gliania morale ; ma in che altro consiste essa che nei gradi di
miglioramento del carattere e dei sentimenti degl individui ! E se anche le
circostanze sociali portano delle catti- ve abitudini, che altrimenti non
esisterebbero, codeste sono mo- derate e ritenute dalle leggi conservatrici .
Ma questo rientra nell’esame dell’ ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto
della Ter- za Parte. Qual infinita differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile !
E' la crisalide trasformata in farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un
miracolo agli occhi volgari , non è che un naturale svilup- po a quelli dell'
attento Naturalista . Tale è 1’ uomo sodale per chi medita la Natura umana . Ma
qual differenza ancora nel seno stesso della Società ! Nel massimo della
civilitazione si trova spesso lo stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’
uomo di genio e lo stupido , il virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso
, 1‘ opulenza ed i cenci ; il Frate ed il Militare esistono nella stessa
società e sotto lo stesso Governo. Ma fra i Governi ancora quai triste
differenze ? "Lo stupido Despota da un trono invisibile sacrifica milioni
di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col popolo che lo adora . Un Senato
Aristocratico a pas- si lenti e regolari calpesta un popolo che crede degradato
per Natura , e che lo è spesso per sentimento ; mentre una Demo- cra- Digitized
by Google crazia , sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime
, , «M-xxxix h* sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le
appartengono La tumultua- . ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’
oppressione alle circon- ferenze . Che strani misti ancora possono sostenersi ,
senza un contrasto di forze resistenti l E quali specie di sentimenti nascono
ancora sotto queste varia- te forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei
ineguaglianza; e le leggi, sempre deboli contro • quella dominatrice dell’
Universo, la vedono spesso lor malgrado de' varj Governi , che non dal potere
innalbera in mezzo alla Socie- trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi
revole; e se tutti gli sforzi non sono egualmente felici, cosi non- dimeno si
scuote l’inerzia fondamentale dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo,
così si sublima a un grado superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le
circostanze che s' incontrano , ael corso della vita, determinano gli uomini
diversamente in ra- gione della loro sensibilità ; e quindi nella riunione
delle azioni . formano un tutto, non di parti similari, ma differenti e
dissimi- li , che fermentando necessariamente rigenerano il moto e danno
origine a nuove trasformazioni Senza l’ineguaglianza le Società non
sussisterebbero. Non posso» no codeste distruggerla, ma non per questo essa
porta un caratte- re intrinseco di male: e quando siam persuasi che le idee mo-
rali sono tutte relative , e che esse traggono la loro sorgente dai rapporti
immediati dell'uomo, ci bisogna esser conseguenti iti riconoscere il bene che
fa la Società col moderare e rintuzza- , a quell' insegna favo- .,.
4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’ ineguaglianza che viene dalla Natu- ra .
Nelle Società sono nate le leggi protettrici della de- bolezza e direttrici
della forza e della Ragione ; e se le Società non danno sempre quegli effetti
che dovrebbero per loro natu- ra, non parmi che sia per intimo difetto della
cosa, ma della Na- tura umana finora incapace d’ un sublime grado di perfezione
Se nondimeno la ragione , la sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in
società è sempre determinato dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste
sono in gran parte in mano del Legislatore e del Governo , basta far nascere
queste circostanze, per far prendere agl’individui quella determinazione , eh è
più atta fare la loro felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’
amico de' valentuomini , li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’
suoi brevi successori La legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte,
cioè, del premio alla virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e
le leggi non communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso
s' avvia per questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere
all’insegna dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più
brevi, si con- tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da
Eremita Bisogna assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza,
per avere le più giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle
Genti e del Civile . J principj fattizj d’ al-
cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati, colmostrareche essi non s’ adattano
all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza non sono tratti da quei rapporti
coesistenti colla specie , e che non si cangiano , che nei diversi punti della
naturale progres- sione . Le prime leggi di Natura sono comprese nella teoria
della sensibilità tanto bene sviluppata dall'Autore. Tutti i drit* ti
dell'uomo, in qualunque stato, sono una emanazione di quella qualità inerente
alla sua esistenza , e su di essa si devono misurare . Quindi dimostra infine
che non bisogna giudicare delle azioni morali col rapportarle all’ idea di
utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c clic I" archetipo al quale si
devono ri- ferire è la Giustizia , che vale a dire, T espressione perpetua ed
eterna della morale verità Ecco il secco scheletro d'un’ Opera pienissima ,
fatto solo col ravvicinare il più che per me si è potuto le idee principali
dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che forse per sola mo- destia
volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più completo corso di naturale
Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo , ed il più utile,
perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla teoria della
Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito , qual’estensione di
cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte à quest’Opera non
può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero eco in celebrar- la
: e questa e quella del Cavalier Filangieri, facendo molto ono- re alla Nazione
, eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto in un nuoyo Codice
gir'effetti di questi lumi e di quella libertà che non si scompagna giammai
dalla Ragione e dalla Virtù . Una tale Opera che sarebbe stata sufficiente per
fare la cele- brità d'un uomo, che poteva farne nascere delle altre utilissime,
che non pecca d’ altro che d’ abbondanza d’ idee e profondità di pensieri ,
avrebbe dovuto fare riposare lo spirito dell’ Autore , se avesse travagliato
pel solo desiderio della Gloria . Ma que- sto sentimento lo tormentava cosi
poco , che non potè calma- re 1’ attività dello spirito sempre sollecito d;
pensieri utili ed interessanti , e lo diresse ad altr* oggetto , che doveva
eterna- re la sua memoria colla gratitudine della Nazione. Annali del TTL
sentimento di Patria, soggetto ad estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL, spotismo
, ricomparisce nello spirito e nel cuore sotto di- versi aspetti ne' Governi
moderati. li desiderio della Gloria e del Pubblico bene accompagna
costantemente questo sentimento nel- ie anime ben nate ; e ciascuno brama nel
suo interno , che, la sua Nazione sia la più rinomata e la più felice . La
nostra Nazione è come una illustre antica famiglia della quale si contano tanti
-Eroi nella Storia e le cui glorie sono coeve del tempo htcsso s ma ridotta in
più povera fortuna ed umile stato , riclama solo per suo vanto le imprese c le
gesta de’ suoi maggiori . Vide il Grimaldi che nella folla de' nostri Storici
Scrittori si era mancato sempre a quella vista che l' ottimo Storico deve ave-
re, 1' utile cioè dell'umanità e della Nazione in particolare per la qua-
Digitized by Google XLIII ì*
t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs)3iitsatii3aae»ioi=>» quale si scrive
. Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile
rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la
Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che
formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono
ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un
utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali
del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non
fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei
portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa
pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col
far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a
situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato
quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un
Filosofo vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i
superstiti monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma
combinandoli e riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo
con .molta fatica ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla
Storia, stessa. Egli ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le
Colonie d' oltremare venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione
reciproca d qua.’ popoli fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1'
avanzamento degli uni e la decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i
progressi della perfettibilità Fi non sociale j Inforza teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeaeBOiuo^eeaooo» non
sempre accompagnata dalle ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col
commercio e colle arti e poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli
discese fino alla particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano
Religione , feroce o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo
stesso Go- verno economico e politico non è stato trascurato , mostrando come questi
popoli liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza concorde ,
che formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà generale , che è
la legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le Scienze anno
anche meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri eh' abbia rab-
bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera: attentamente,
troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica , che alla
vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna è sempre
animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che entrano pur
troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si stanca mai di
combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati , per far via
più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso de’ secoli.
La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso dell’ uomo e
più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del vero Filosofo ,
che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli tratta la Storia
de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non perderotto la
propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma. 4*^ XLV
>4* la forma del Governo cangia il carattere morale de popoli „ Niente di
grande , niente di generoso sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di
libertà . Un lusso distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e
la spopolazione corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli
antichi popoli sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la
rigenerarono. Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual
progresso lento , con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u-
manità riprendesse questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore
, a cui nulla sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue
pretensioni o consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di
quest’ Opera, che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E'
stata vera disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso
della sua vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco
con quali Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi
cercò di essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di
celebrare e piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta
nelle Opere sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice
dell’ esistenza d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle
di lui Opere morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti
ch'egli esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore
sente ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza.
Si Digitized by Google 4*4 xlvi >4» Si inno ordinariamente delle
strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si dispensa e prodiga spesso il
titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate , credendosi volgarmente che
la sensibilità non possa esser compagna della virtù e della ragione.
Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per rimaner insensibile ai
più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per essere conformi alla loro
destinazione) devono nascere da quella analogia d' idee , da quella uniformità
di sentimenti e da quel- ( la consensibilità di cuore) che formano la base
armonica dell' amore.-Se un uomo sensibile resta indeterminato a questo sen-
timento , non è certamente per mancanza di sensibilità fonda- mentale, ma dal
non essersi ancora incontrato con un cuore v che possa combaciarsi e quasi
amalgamarsi col suo . Rari in- contri , ma possibili, per consolazione della
spezie tonio Grimaldi fa abbastanza ragionevole e fortunato, per collo- care
gli onesti sentimenti del suo cuore in quello della Contessa tratteggiata dall'
espressione della virtù c dei doveri , era poi quasi alluminata Aurora Barnal
a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi e teneri sentimenti del cuore.
La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della sua ragione il gusto per ,
laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj ( virtù rara nel sesso ) faceva
parere che fussero tras- fase nella di lei anima le virtù del suo compagno come
spesso , il disinteresse , e la temperanza dei , una maschile fisonomia ei
conosce in più delicato volto e pren- , de la morbidezza e ’l carattere del
sesso che investe- Con que- ste qualità fondamentali si potrebbe mai dubitare ,
se D. Auro- ra ! Francescan- 4*4 XLVII H ra facesse la feliciti della sua
famiglia , se fosse la più teneri amica del marito , la più saggia madre delle
sue figliuole , la più atta all’incarico delle domestiche cure ? Non si
conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere ancora qual donna egli s’ avesse
assortita . Gli amici e confidenti di lui erano egualmente j suoi Lo spirito di
ragione e ’l gusto ch’essa portava su varj oggetti, ne rendevano la compagnia
egualmente piacevole ed interes- - sante . la sua casa era quindi il punto di
riunione di coloro che ai talenti accoppiavano le Non è questo il luogo di fare
il catalogo dei molti amici del Grimaldi * tutti conosciuti per merito e per
probità ; mi non posso trattenermi dal ricordar colui la cui memoria dovrà
esser mai sempre cara alla nostra Nazione , dico d’Antonio Genovesi, padre e
creatore de’ nostri ingegni Quell’ Uomo egualmente di . cuore benefico e di
spirito sublime aveva assai punti di rappor- to per esser stretto amico del
giovine Grimaldi , che già in fre. sca età dava non dubbj segni d’ esser
destinato a divenirgli successore nella pubblica stima , e nella celebrità »
Grimaldi era un uomo che abbisognava d'amare per istinto; sin- cero e semplice
nelle sue maniere come ne’ suoi sentimenti , il suo cuore non era chiuso nè
dalla diffidenza nè dal disingan- no . La libertà della- sua ragione non era
mossa nè dallo spiri- tò di dispuu nè dal gusto di primeggiare : ma aveva il
giusto principio di richiamare tutte le idee allo scopo dì qualche uti- lità
morale . Con questa maniera di pensare , oh quanto d’ inu- tile si trova negli
usi ordinar) della vita ! Eppure essa dà il meto- do p iù lodevoli qualità, del
cuore- . xlviii >4* do più
vantaggioso per giudicare del bene reale delle cose e del- le azioni . I suoi
più prediletti discorsi si raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente
ricorre nelle Capitali . dove la grandetta della scena è proporzionata alla
moltitudine degli at- tori . Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle
necessa- rie applicazioni' non si distraeya in inutili trattenimenti , ma in
compagnia d’eletti amici rilevava Io spirito con altre idee era-, gionamenti
d’un utilità più ordinaria e generale. Non solo i nazionali ma gli esteri
ancora vollero avere il piacere -di vedere dawicino quest’uomo illustre, e
restavano sor- presi nel riconoscere in una somma semplicità di maniere quel
Filosofo , che in lontananza avevano altrimenti immaginato. Egli però poco
desideroso di essere conosciuto , niente avida» di gloria letteraria , anzi
pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva il di lui merito reale, evitava. le
nuove conoscenze, e cercava di tenersi chiuso eristretto fra’l numero di pochi
amici, eh’ egli più che fraternamente amava . Pareva che non esistes- se
veramente fuori della sua famiglia . Cosa rara nel seco- lo ! Le persone
eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno bisogno d’uria esistenza
adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà estranee ad essi, o dnno la
disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o non esistono che per 1’
ambizione e per la vanità . La prima morale comincia, dai primi vincoli e
rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non sentirà che in
apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova i germi delia
sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil- jncu-
euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><- c»iwieeao «ente
rinvenirli altrove. Quindi egli menava il più che poteva la vita domestica , e
poco si estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli del cuore , che si
spossano nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè però celarsi allo
sguardo di chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale Afton, desideroso
d’avere al suo fianco un uomo , che all’ estesa cognizione delle Leggi riunisse
non ordinarj talenti e le più preziose qualità del cuo- re, non altrove seppe
porre il suo giusto sguardo e fermar la sua scelta che sopra Grimaldi, già
molto conosciuto per nome e per i suoi libri in Europa. Egli lo rese noto alla
Maestà del Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi sudditie voglioso di
ricono- scerne il merito , fece che restasse impiegato nelia delicata cari- ca
d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in mira per altre situazioni
, dove più utilmente e più estesamente avrebbe impiegato la forza de’ suoi
talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo estendermi sii! dìsiiBpegno
particolare della sii* Carica . Pieno di talenti , della più vera rettitudine
di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe dubitare se ben l’esercitasse
è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto colle lagrime . Nel rimanente
della sua vita privata era lo stesso cogli estranei e co- gli amicj . Ignorò
sempre ciocché si chiama lingua e tuono del mondo , non essendo stato giammai
Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo carattere . La verità usciva nuda c
sincera dalla di lui bocca, e la espressione di essa gli era cosi naturale come
il sentimento» Mai ricercato o ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per
mostrare d’ averne , e le sue maniere non erano model- G late ,
Digitized" by Google L eCJlMStysooe^fle^oe^e^nr^anp^sagsg^at x
—v^' * s^ey— late sul gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . ,
In tal guisa egli faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino.
In questi ultimi anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare
all’amicizia. Pieno di sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava
in gran parte di quello e compromesso ; col pubblico e con se stesso per
l’Opera degli Annali, travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a
lui caro . Ru- bava le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere
della macchina per soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa
combinazione eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida
costituzione* Gli accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali,
che minacciarono la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che
disposto a trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio
pansiere della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per
i mali fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva
ricordarsi della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato
delf organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano
sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali
violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura
della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai
modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti
le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle
applicazioni dello spirito,'. è stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi
e sublimi ta- lenti. In questo stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un
colpo terribile gli fece risentire la catastrofe , che nel disastro della
Calabria involse anche il luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune
della Nazione fu terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri individui
della sua virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il cuore
destinato a sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell»
sensibilità so- no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica-
ta organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto
sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo
descrittore di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie
viste d’una ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del
Trono per conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne
nacquero altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle ,
eh’ egli per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento attacco
di sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo
immaturamente pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse
sopraffatto in questo sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la
diletta compagna del suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell*
espressione.ti «alm*. r: -1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che
trascurava per se medesimo, volle che fos- sero moltiplicate per lo sospirato
ristabilimento della sua consorte 1 4*i LII >4. td amica-
L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era
impadronita, dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite
mortali nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti
casi conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali
lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due
anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel
suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo
ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè
farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano
espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P
indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non
odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali
dell'animo . ed O T una o 1’ altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima
Pavé- vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano
perduto la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo
solo tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù • La
perdita del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed
afflitte pupille ànno trovato nei cuori di Fer- dinando E Carolina la
sensibilità e P affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far
I’ Elogio de’ nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’
essi possono testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste
pO- Digitized by Google un >4* poche pagine e questi sentimenti
sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva consacrare ALLA
MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IXFrancesco Antonio
Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese Grimaldi
dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione, Romolo bruto. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed inter-azione” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Torino).
Filosofo italiano. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at Oxford, someone
who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il concetto di
egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio quello che,
tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto di egemonia;
e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi, direi che, se
vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato, di Gramsci con
Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia è il punto di
approccio di Gramsci con Lenin.
Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato,
l'apparenza; si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci
conduce, io trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti
i Quaderni. Luciano Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma. Gramsci
è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento
operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico
italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso
un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa,
ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad
affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di
Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale,
secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del
capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della
funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari. Gramsci
sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un
processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è
un approfondimento del pensiero di Lenin. Gramsci si aggancia
direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin,
individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento
della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione
culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non
solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più
essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in
Russia. La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di
pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e
filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di
agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo
egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia
significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica,
cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico
massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo. Lenin
avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire
la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due
elementi. In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche
la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la
vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato
tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si
può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da
Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di
pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta». Il
processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è
complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una
riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo
Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità. In un
articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano
che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la
città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura
spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo «Statuto
albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti
della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano
nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re
sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si
pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.
Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno
formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà
di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli
altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste,
in Italia non c'è neanche la garanzia formale. Negli Stati capitalistici
che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo di presidio delle
libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la giustizia non
è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della corona
e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia.
Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del
ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni
particolari, gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo
dello Stato dipendono dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia
il presidente del consiglio si riservi sempre il ministero degli Interni, come
era tipico nello Stato prefascista, in modo che tutto l'apparato di forza
armata del paese sia completamente nelle sue mani. Il presidente del
consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla sua scelta
collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari
terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza
parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non
solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche
di diritto, il presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato
italiano. La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia
di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa
considerato un popolo di razza inferiore che si può governare senza
complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente
regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del ministro
dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento l'amministrazione
poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di
riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via
amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini
sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e
nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i
contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di
un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una
riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella
uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate
dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di
un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di
sciogliere un'associazione, ecc.». È un'analisi spietata dei limiti
liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del
potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una
descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai
questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà. Ora a questa
visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci
ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per
Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di
distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si
organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per
Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si
compie in un determinato momento. La domanda infatti, che egli si pone
nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine
nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di
Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne. E
aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu,
bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli
di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro
iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina,
per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento
non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un
organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della
produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della
produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della
fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a
diventare potere nella società e nello Stato. indice I consigli di
fabbrica Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice
salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della
propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è
presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei
produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato
ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di
classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi
immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete
degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale,
forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire. Egli scrive
nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli
socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali
occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia
operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai
quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne
limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di
arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani
come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le
sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare
prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo. Fin
d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di
delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola
d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata
all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».
Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a
fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li
va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste,
cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e
molta più capacità rappresentativa. A questa concezione di elevamento
della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere,
come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla
leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del
suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che
la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della
conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo
quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella
fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?
Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti
contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi
che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e
il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non
contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in
Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare, meccanicistico del
processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto, del partito.
Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni parlamentari.
Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende cioè
una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano
polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia infantile del comunismo
contro queste posizioni di Bordiga. Per Gramsci, invece, ripeto, la
rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare tutte le vicende
dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero dell'aprile del '20,
detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione
dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise
di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i
consigli di fabbrica. Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le
lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di
principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il
non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu sostanziose che
potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una lotta di
principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe padronale
passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più
avanzato della lotta, ma un momento di difesa. Funzionarono, però, i
consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina, ma
nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il
movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi
esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della
fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e
soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico
limite dell'Ordine nuovo. Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei
consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come
momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci
aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva
privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.
indice Necessità della ricognizione nazionale La riflessione
di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una
rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati
sconfitti? Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce
il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro
sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle
classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è un'infinità
di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i contadini sono
autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono autonomisti i
latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli anarchici
sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non
conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed
Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di
usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di
analisi, di comprensione della realtà. Certo, spiegare la sconfitta del
'20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente, è
unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della verità.
Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di
arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico
italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo
attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare da
questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella
classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda
il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione.
Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in
polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano
dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e
soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui
la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza
fosse una contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non
ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini,
costruzione dell'egemonia. Nella Questione meridionale inoltre Gramsci
pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e
quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione
pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo
della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo
aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e
di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un
lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però
faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla
funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro,
ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la
politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in
Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il
modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe
questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i
grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe
operaia del Nord e contadini del Sud. A questo proposito Gramsci dice: il
proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui
riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare
contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione
lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti
in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe
masse contadine. La questione delle alleanze, quindi, è vista come
questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione
contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in
generale (tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è
storicamente determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale,
in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana,
per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e
peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto
con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di
ispirazione cattolica. Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire
che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato,
che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società
civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale,
politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.
Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile
l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non
è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che
la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è
una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in
realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano
nella realtà. Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che
significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel
significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel
senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo
termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare
la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione
democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il
concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente
della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente
la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la
dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione
democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella
dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi,
obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la
nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco
storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del
proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e
realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione
del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel
senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata. Ora
Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il
consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?
La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato
la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e
ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso
uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato,
sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno
(si era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle
libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre
più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime
sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la
egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e
si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto? Non abbiamo
vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una
società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico
in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati.
La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le
condizioni oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una
risposta in questa analisi di Gramsci. Gramsci dice: in Oriente, cioè in
Russia, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa
(ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto
rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura
della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava
una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a
Stato) ma questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale.
Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente
casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una
enorme burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui
quando lo Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta
militare e durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente
che resisteva. In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e
lo Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta
struttura della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue
organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via. Questo, secondo me, è
un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti,
ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone
il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati. Di
qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in
altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale,
gelatinosa, era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe
rapidamente risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che
qui non significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione
Gramsci indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non
significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai
all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i gangli
essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica
(attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto
di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza
di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la
rivoluzione. Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo
dall'Ordine Nuovodel '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare
ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare
anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo
dal movimento reale, non astrattamente. Nel '26 già individuiamo che cosa
distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia.
Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che
Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è
l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione
vaticana che l'origina. Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza
di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno
di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della
situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella originalità
dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.
L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che
Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata)
applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era
la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del
fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla
Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un
tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a
mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo
pensiero, lo porta oltre. Lo porta oltre però partendo da intuizioni che
in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno
conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati,
non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse
radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati,
partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini
partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi
Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una
strategia, diversa, cioè il fronte unico. Gramsci parte da questa
intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente
la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere
internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali
strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali,
particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in
un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è
internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i
contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del
processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori
della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare
la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società,
l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo
livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano. Questo
nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista
dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è
individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in
determinate situazioni. Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx
aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una
società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde
le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più
esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica
del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà
prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il
modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di
produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi
questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione
capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in
discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate,
ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante. Non
appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato,
assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non
soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una
concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone
ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo
enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta,
cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante una
parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini,
ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali. Ora Gramsci si chiede
come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco
storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo
rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e
lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una
determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui
interessi sono opposti. Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli
operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società
capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con
l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda,
che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma
con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande
cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo
ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere
dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee. Noi allora abbiamo un
processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne
all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria
cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo
eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi
subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne
sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non
riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale,
culturale. È necessario tutto un processo perché le classi subalterne
diventino autonome, si diano un partito, una linea politica, una concezione
culturale, e allora da autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già
prima della conquista del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la
propria concezione non solo politica, ma culturale, in tutta la società.
L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione
essenziale per la conquista del potere. Il processo di egemonia è quindi
un processo di unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi
sono subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita
all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari
sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può
accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo
dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar
pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano
subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della
chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.
Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è
quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata
che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale.
Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di
educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica,
diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a
quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una
cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose
sono strettamente congiunte per Gramsci. Gramsci riprende questo concetto
di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone
completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana
del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come
nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di
simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e
morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la
controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del
dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà
scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia,
che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei
cortigiani, ne ha fatto dei servi. È mancata una riforma protestante.
Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato
qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo
all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese,
qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione
di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro
compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo
umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era
necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché
si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con
una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della
costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro
Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica,
perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla
due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta
bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al
tempo stesso. Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una
riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo
lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia
cosciente. Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici
lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e
creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i
suoi quadri, i suoi dirigenti. Qui muta completamente la nozione di
intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore
o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro
sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale,
secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega
bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci,
perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono
gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico,
gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli
intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e
oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per
esercitare il suo dominio. La cosa interessante è che Gramsci elabora
queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre
concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia
l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica abbiano
assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e disgregato il
blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione intellettuale e morale.
Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e morale nella
direzione dei liberali moderati. Ed è qui che egli introduce il concetto
di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una supremazia in quanto ha la
direzione e il dominio, la classe che è all'opposizione non ha ancora il
dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè l'egemonia, se vuole
conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio deve mantenere
la direzione. Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La
rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una
crisi di capacità dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non
riescono più a risolvere i problemi del Paese, non riescono più a tenerlo
insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si sono compiuti. Lo
spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche pericoloso che sia,
contiene molti elementi di individualismo borghese esasperato - e quindi resta
nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto più di quanto non si pensi
-, ma è anche il segno della disgregazione di questa egemonia culturale, una
disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si rigira e si
tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere
come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono. Qui c'è un
allargamento della nozione di rivoluzione. Marx aveva detto: la
rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in una contraddizione
incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui, ma vede la
totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe
dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano
più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande
ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di
egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della
direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui
il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza. Noi stiamo
vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di potere che
aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità dirigente
del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del resto), non
si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un nuovo
blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa
Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di
una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un
nuovo rapporto tra base sociale e Stato. Il momento di questa crisi di
egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi culturale, di
crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto, della
coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è iniziativa, è
intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva detto
nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo
storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali,
avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo
per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non
hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto
soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della
prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in
tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la
prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento
del soggetto sulla realtà. Attenzione però. Gramsci parla sempre di
egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai
rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia
debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai
Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito,
essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente
nelle istituzioni statali oltre che di massa. Inoltre Gramsci non
mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare
il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato,
di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza
moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la
spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli
chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune,
nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni
arretrate. indice Il partito, moderno «Principe» È compito del
partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo
razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica
della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia
della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il
partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia
istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole
che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione
dell'insieme. In questo senso egli chiama il partito il moderno principe,
riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe
moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più
possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una
grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe. Del partito
Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In
ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto
ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per
entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza
questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con
l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito;
occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma
alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va
dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto
più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una
visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo.
Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di
Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come
fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione. Il partito è
il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia
concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del
meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista
da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento
sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali:
l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si
tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il
momento di saldatura. Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente
blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e
costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e
culturale. Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non
di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di
scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da
togliergli la forza fisica di scrivere. In questa elaborazione noi siamo
andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia
rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a
fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di
democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti. Secondo Togliatti non ci
si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione
ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La
ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN
(Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice:
avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere
in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI. Lavorando su
questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva,
riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo
quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa
strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza
avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento
operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano
euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il
partito spagnolo ed altri partiti. Abbiamo naturalmente esteso il
concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia
è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché
la classe operaia abbia accesso al potere in una società di capitalismo
monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe operaia
deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i
contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli
ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve
arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un sistema di
alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli
operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola e media
industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che noi
dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe
Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico. Ora alleanze
sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in
partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un
partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista
bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia
delle alleanze, non ci poteva arrivare. indice Quale
pluralismo Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di
partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di
pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una
scarsa autonomia forse, ma esistono realmente. Come mandare oltre questa
esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è
fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad
'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche
discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo
chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che
non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia
cattolica e dalla sociologia americana. La sociologia cattolica intende
per pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con
l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo
pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe
operaia e capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli
altri. La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di
istituti che impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.
Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale
da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui
oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo.
Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando
esiste il grande capitale il pluralismo reale nella società non ci sarà mai,
sarà sempre apparente. La nostra Costituzione è pluralistica, ma il
pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è il monopolio dei
mezzi di informazione, dell'economia e cosi via. Ad esempio il pluralismo
della società americana nasconde la realtà di una società in cui il potere
economico e politico è al massimo grado concentrato, e la partecipazione democratica
dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare per due partiti che
si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che differenza
ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono
d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi
repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale
pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano
forme di autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è
anche statale, di istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato,
poi, è un momento decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali
intendiamo parlamento, regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere
o di circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un
istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto
dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche.
Inoltrel'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la
classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della
classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito
comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti
nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i
democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica,
che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti.
Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella
società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come
diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più
egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma
di lotta, la più ampia, la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista
di classe oggi. D'altra parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma
isolamento della classe operaia e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale
nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari ovviamente non capiscono
nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare di pluralismo, e
viceversa. Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana
hanno ragione, ma noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato
a questo si pone anche il tema della dittatura del proletariato. Come ci
collochiamo? Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del
proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in
realtà dilatavano una concezione della democrazia tale per cui nell'esercizio
della democrazia si arriva al socialismo, ma smarrivano la questione
dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia, concepivano il processo
come puramente elettorale e non come un'egemonia che rompe il blocco
avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi un'egemonia
fondata sull'iniziativa e sulla lotta. Noi abbiamo parlato di dittatura
del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII congresso,
nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del
proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo
sottolineato questo elemento: cambiano le forme. Abbiamo ripreso questo
concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del
proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In
seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata
cadere. Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare
questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la
discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema. Ad ogni
modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la
nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana
dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello
superiore. Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at·
traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo
unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una
funzione dirigente. D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si
costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.
Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e
politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo
progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si
conquista ogni giorno. Ecco allora che è il blocco di potere ad
esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato.
L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il
socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco del
potere, non direttamente dalla classe operaia. Del resto anche nella
concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la
coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso
gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui
la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna
pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di
consenso e un elemento di costrizione. Se si allarga il blocco di potere,
come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un
consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche,
tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non
esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di
Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet,
che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si
sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale.
La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per
riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta
la società. Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo
il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni,
le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come
elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri
e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il
parlamentarismo. In questo senso allora mi pare che non si possa parlare
di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un
elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue
forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere
che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.
Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere
esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere,
per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si
va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e
diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi
via. Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento
essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia,
superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un
ambito più ampio. Questa è soltanto la mia opinione in proposito. “C’è
in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di
chiarezza responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo,
avventato o ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono
giovani che, usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con
diverso profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano
in breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura,
quasi non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo
tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo
è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e
questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che
smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente.
Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un
matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo
astratte per il suo bisogno di concretezza.” Così Italo Calvino, dalle
pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi. Mi sembra giusto rendere
onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se
non attraverso i suoi scritti. Gruppi è stato per lungo tempo il
responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore
dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di
Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su
Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre
pubblicazioni. Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato
fondamentale nel costruire quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria
rivoluzionaria che a noi, comunisti del XXI secolo, così manca. Una
testimonianza diretta da mio padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di
Partito di Frattocchie/ In quel periodo il partito si era impegnato molto nella
formazione dei gruppi dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della
gloriosa Federbraccianti delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i
trent’anni avevamo partecipato, orgogliosamente, a quella settimana di studi e
approfondimenti sulla questione agraria e economica del Mezzogiorno. Ci
colpi’ molto la preparazione e la competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo
linguaggio e la sua dialettica, coerentemente alineata a sani principi
etico-morali. E uno che volava alto, ogni tanto si lasciava andare in
ragionamenti filosofici che a noi, ancora politicamente acerbi, sembravano un
pò difficili. Una settimana intensa e ricca che ci forni strumenti di analisi,
di critica e di proposta.” Qualche cenno biografico per i compagni che
non lo conoscono, dal sito biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e
da suo nipote Andrea Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/
: Iscritto al Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo
la Liberazione è membro della Segreteria e responsabile della Commissione
giovanile della Federazione di Torino. Responsabile della Commissione
giovanile, poi della Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria
della Federazione di Milano. Responsabile della Sezione d’organizzazione
e vicesegretario della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di
Torino. Fa parte della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della
segreteria del Consiglio mondiale del Movimento dei partigiani della pace a
Praga e a Vienna. Vice responsabile della Sezione di stampa e propaganda
del Comitato centrale del PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di
Torino ed è capogruppo consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del
PCI nel Comitato di redazione della rivista internazionale Problemi della pace
e del socialismo, a Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del
Comitato centrale del PCI. Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per
le scuole di partito. Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione
culturale del Comitato centrale del PCI. Vicedirettore della rivista
Critica marxista. Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro
Togliatti (Frattocchie). Presidente dello stesso istituto. Membro
del Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al
congresso ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del
PCI; Ha restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto
al Partito della Rifondazione Comunista; Nello stesso sito è possibile
trovare l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le
lezioni tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/lucianogruppi/concezionedellostato/la_concezione_dello_stato.html
Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto”
https://www.marx21.it/rivista/5142-marx-dalla-democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html
Un breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca
Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :
“Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai
necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà
teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che
dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la
“scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista.
Luciano Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è
destino dei grandi. “Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana al
socialismo, egemonia della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.: Luigi
Speranza: Grice e Gruppi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Guastella – la conoscenza – filosofia italiana – filosofia
siciliana -- Luigi Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella
is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and
metaphyusics in a clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio
di Vincenzo farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della
coppia, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con
l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il
capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”;
“Metafisica”; e “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica.
Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Cause empiriche:
e cause metaempiriche. La causa nel senso scientifico. Distinzione tra la causa
nel senso metafisico (causa efficiente) e la causa nel senso scientifico. I
filosofi hanno ammesso generalmente questa distinzione. Impossibilità di
provare la dottrina di Comte sulle cause efficienti. L’ANTROPOMORFISMO.
La Filosofia teologica. La filosofia teologica nel periodo prescientifico.
Funzioni della divinità come principio esplicativo dei fenomeni.
La divinità come principio motore.
La divinità come principio di una spiegazione
teleologica dei fenomeni. Le prove dell'esistenza
della divinità. I concetti della teologia trascendentale.
Immutabilità ed extra-temporalità di Dio. Dio come l'Infinito o l'Assoluto.
Il dualismo e il panteismo nella filosofìa antica e nella moderna.
Il valore delle prove dell'esistenza della divinità
dipende da quello del concetto
di causa efficiente. L'animismo come spiegazione dei fenomeni
biologici. Osservazioni generali suU'animismo come
ipotesi biologica. La
spiegazione animista dei fenomeni biologici. Estensione del dominio della coscienza in conseguenza
dei principii dell'animismo.
Spiegazione intellettualista dell'istinto. L'ilozoismo.
Osservazioni generali sull'ilozoismo.
L' ilozoismo nella filosofia antica e moderna.
L'ilozoismo nella filosofia contemporanea. Il panpsichismo. Osservazioni generali sul panpsichismo.
La monadologia di Leibnitz. I panpsichìsti moderni. L'idealismo.
Osservazioni generali sull'idealismo. L'idealiijino di
Kant L'idealismo assoluto, dei successori di Kant. Il concetto di causalità dell’antropomorfismo.
Le oda volizionale della causazione e teorie affini.
Osservazioni su queste teorie.
La filosofia meccanica o impulsionista.
Della filosofia meccanica o impulsionista in generale.
Il principio, su cui è fondata la
filosofia meccanica, in Cartesio e i
cartesiani, in Hobbes, in Spinoza, in Newton,
nei primi newtoniani, in Locke, in
Leibnitz, in Clarke, in Huygens, Bernouilli, Eulero, d'Alembert,
Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton, Galluppi, Rosmini, Cuvier,
nei fisici e filosofi contemporanei. La proposizione
che l’azione a distanza è inconcepibile, assurda e
contraddittoria. Origine e sviluppo dell'idea di causa efficiente.
Le causazioni più familiari ci sembrano spiegarsi da se stesse e potere spiegare tutte le altre.
Proposizioni di filosofi che hanno riconoscinto questo fenomeno psicoloco (di Bacone, Stuart-Mill, Bain,
GiiffopA, Pag.Stallo). L' idea di causa
efficiente deriva, dall' «et sperienza delle
causazioni più famlliani. Le causazioni più
familiari non sembrano, misteriose che
nella riflessione scientifica. Perchè
l’azione volontaria diventa misteriosa Perchè
diventa misteriosa, in generale, l'azionem utua tra lo
spirito e il corpo. Perchè diventa
misteriosa 1' attività interiore dello spirito 3Perchè
diventano misteriose IMnipulsione e le altre azioni fisiche più
familiari. Conclusione sulle ragioni per cui
le causazioni più familiari perdono la loro intelligibilità.
La tendenza naturale a spiegare le sequenze non familiari riconducendole alle
familiari, e quindi il principio di causalità efficiente nella sua forma
primitiva e spontanea, non possono avere alcun valore obbiettivo Forma
secondaria del principio di causalità efficiente. Il principio di causalità
efficiente è un'induzione incosciente dalle causazioni più familiari. Origine
comune e differenziazione prògressiva dei concetti fisico e metafisico i' deWsL
causalità. La dottrina dbll'inconoscibilb b l'idea di CAUSA EFFICIENTE. La
dottrina dell'inconoscibile come appliéàzìone del principio di causalità
efficiente 'tiella sua forma secondaria. La proposizione che non conosciamo l'essenzal
disile cose il fondamento principale della teoria
dell'ÌDCon<6scibìl'e è il principio di causalità
efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo.
Ciò è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la
conclusion. Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo
essenziale della produzione dei fenomeniLa Forza nel senso metafisico. La
filosofia apriorista. Lo sforzo di ricostruire la realtà a priori è
una delle tendenze più generali della speculazione metafisica. La filo&ofìa
apriorista è sovratutto un'applicazione del principio di causalità
efficiente La filosofìa apriorista in Cartesio,
in Malebranche 4(ìy-in Spinoza in Leibnitz, in Locke, in
Condillac, in d'Alembert, in Hume, in Kant, in Fichte, Schelling,
Hegel, in Reid, Ehigald-Stewart, Galluppi, Rosmini, Gioberti, Mamiani, in
Taine e Spencer e in Hartmann.
Le pretese dimostrazioni dei principii della
meccanica. La filosofia apriorista al di
fuori della ricerca della causa efficiente. Dottrine della
filosofia apriorista sulla essenza e la definizione. Dottrine di Aristotile e
di Platone in particolare. Dottrine
analoghe e particolarmente
quella di Cuvier della correlazione organica.
Spiegazioni della filosofia apriorista della costituzione del cosmos (e
particolarmente quelle di Platone e di Aristotile).
L'argomento ontologico come applicazione della spiegazione apriorista. IL
REALISMO DIALETTICO. Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e
precisasione della qaistione. Il realismo, in quanto è
una spiegazione del mondo (realismo dialettico), ha Io
scopo di identificare il rapporto logico
tra il principio e la conseguenza al'
rapporto ontologic tra la causa efficiente e l’effetto. Origine del
realismo degti scolantici. Il sistema di Hegel. Il sisttema di Taine. Realismo
(realizzazione dei concetti) del Taine. Il suo metodo dialettico (cioè di
dedurre i concetti realizzati). L'idea fondamentale di questo sistema è
l’dentificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la
causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Platone. Cenni generali sulla
filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente
deduttivo. Importanza capitale attribuita al
metodo; universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità del
metodo dialettico col metodo matematico.C aratteri prepri del metodo
dialettico, per cui differisce dal matematico. Tutte le altre Idee si deducono
da quella del Bene. L'Idea del Bene non è solo il principio logico ma anche il
principio ontologico (la causa produttrice) delle
altreldee, enonne è il principio ontologico che in quanto ne è il principio
logico. La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una
derivazione reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si
deducono. L'Idea del Bene è la più generale di tutte. Contenuto di
quest'Idea. Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. Teoria della
definizione.La dieresi è una deduzione in cui l’Idea divisa funge da principio,
e le Idee in cui si divide da conseguenza. Come la dieresi
è una deduzione, e come si trovino in essa 1 caratteri
distintivi del metodo dialettico. Il metodo indiretto del Parmenide. É con
questo metodo che deve dimostrarsi il primo principio (cioè l'Idea del Bene).
Un'Idea generale non è solo il principio logico ma anche ontologico (la causa),
clelle Idee più particolari in cui si divide. L'obbiettivazione dei concetti e
il metodo dialettico hanno per Iacopo l’identiflcazione del rapporto tra il
princìpio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e
l’effetto. n iftiema. Idea generale della filosofia di
Spinoza.Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi. Metodo
puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo
ontologico. Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo
Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente e
ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e
la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto.
Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il realismo dialettico
deriva dalla tendenza naturale del nostro spìrito da cui derivano tutti gli
altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT. Tendenza naturale a
supporre che il reale nella sua essenza é immutabile. I fisici greci in
generale. Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti.
Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina d’Eraclito
dell’identità dei contrari Dottrina degl’Eleati. Spiegazioni meccaniche
dei fisici in generale. Dottrine dei filosofi indiani. Dottrine di Bruno e di
Telesio. La teoria meccanica (cioè laridnrione di tutti i
fenomeni a quelli meccanici) nella scienza moderna. Applicazione della teoria
alla costituzione della materia. Ancora della teoria meccanica. Applicazione ai
fenomeni psichici. Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il
principio della persistenza delle cose nelle stesse proprietà nell'atomismo
metafisico, nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo. Dottrine
di Herbart e di Corleo Dottrina dell’identità della causa e dell'efletto.
IL CONCETTO DELL'ANIMA. L'animismo (sostantificazione dell’anima)
è il prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano. Le
prove della sostanzialità dell’anima. Materialiià deir anima Della forma
primitiva deirÀnìmismo. L'animismo è anch'esso un'applicazione del
principio deirimmutabilità dell'essenza delle cose. Le concezioni moniste si
fondano su questo principio egualmente che le dualiste. È per esso che deve
spiegarsi anche Tanimismo del'uomo primitive. Il concetto dell'immortalità
dell'anima e quello della sua immaterialità sono degli sviluppi naturali della
teoria animista. Il substratum, supposto indisponsabile j dei fenomeni psichici
non è che il fantasma del corpo» La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina
che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il
substratum di tutti gli altri. DOTTRINA DI ROSMINI SULLA SOSTANZA
DELL'ANIMA carte. IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE.Prove di
qoeatimmanetiixa. I termini designanti le Idee in generale. I termini
designanti ciascen'Idea. carte Il concetto e la conoscenza
generale si riferiscono airidea» La definizione e la dieresi, che
hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle cose considerate d'una
maniera generale ed astratta L'Idea è l’universale, ciò che è
lo steiso in tutti gl'individui del genere.VLa napouoCa, la
(léBe^i^ e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle cose.
Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche. Gli elementi
delle Idee sono anche gli elementi delle cose. Tutto il reale si risolve nelle
Idee. L'essere non 6 fuori del divenire, ma nel divenire stesso. BlMeuMione
degli argomenti contro l’immanenza La sostanzialità delle Idee. La
distinzione fra le Idee e le cose interpretata come una separazione. ni.
Le Idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che
approssimativamente. Le allegorie del Fedro e del Timeo. La testimonianza
d'Aristotile. IL PITAGORISMO PLATONICO. Cenni snlle dottrine del Pitagorici
e sul pitagorismo di Platone In generale.
I namert ideali carte I due elementi. La forma e
la materia delle Idee. La forma e la materia delle cose. Le entlUi
matematiche
(come intermediarie fra le Idee e le cose.
Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo. Motivi deireTolnzione di Platone verso
il pitagorismo. II pitagorismo nel Timeo (Carattere simbolico della cosmogonia
del Timeo e suo significato). Il pitagorismo nel Timeo (il limite e
l’illimitato di questo dialogo). Il pitagorismo nel discepoli di Platone. Le
tre dottrine dei platonici sui numeri carta. La dottrina di Xenocrate
carte La dottrina di Speusippo. DOTTRINE DI PLATONE SULL'ANIMA E LA
DIVINITÀ NEL LORO RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE. L'anima e suo rapporto eon
le Idee e eoi fenomeni (l’anima individuale carte l’anima cosmica carte
L'interpretaslone teistica del sistema delle Idee (che le Idee sono i pensieri
della divinità creatrice) liO idee e il pensiero (Interpretazione di Hegel e
del Teichmùller dell'immortalità dell'anima e altre dottrine connesse. Platone
non ammette l’identità dell'essere e del pensiero, e la sua idea è un’entità
puramente obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Guicciardini – le cose dello stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic;
some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY
Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian
of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political
lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure
political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at
Oxford!” Terzogenito dei Guicciardini,
famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione
umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici
dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo
le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per
seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze,
esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello
Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi.
Esattamente dieci anni prima, ossia con l'anno 1498, si chiudono quelle
Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti
riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui Guicciardini si occupa,
nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In
occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria,
ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi
portarono il Guicciardini anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo
dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il
Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la Relazione,
e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria politica in cui
Guicciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica
fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte
della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato
concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di
Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella
politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio
Emilia e di Parma. Nominato commissario
generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi,
matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi
Ricordi e della Storia d'Italia. Alla morte di Leone X, si trova a
contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa
di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di
Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle
lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli
abilità diplomatiche. Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda
un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in
modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola.
L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di
questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il
modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e
Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la
repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai
repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa Guicciardini di
Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio
accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello
dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta
con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse
le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra
la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della
mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione
definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di
nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a
Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea
come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare
lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non
fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro,
Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di
Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili,
raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad
Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata. Guicciardini
è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle
vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e
il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e
più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche
Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti. L'opera
districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del
Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come
spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati
eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione
delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo). Guicciardini è l'uomo
dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui
al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire
"con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si
determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da
leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del
pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il
saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come
realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di
agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non
va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione
solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare
pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica
situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).
In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della
fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia
moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di
verifica della sua Storia d'Italia. La reputazione di Guicciardini poggia
sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi
discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di
pubblicare le sue memorie. Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono
ad un'accurata conoscenza della sua personalità. «L’angolo di prospettiva
dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII,
l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori
secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole
Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio il Guicciardini sopra
il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le
mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi,
la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi
dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità
fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento
con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario,
una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare,
superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e
precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato
esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i
meno benevoli alla Storia.» Il giudizio di Francesco De Sanctis
Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Francesco De Sanctis non
ebbe simpatia per Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare
maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il
critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le aspirazioni
di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo
invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis affirma:“Il
dio del Guicciardini è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente
che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali
scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un
popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno
per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si
gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E
poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o
l'osservare. Né altro è il sistema. Guicciardini nega tutto quello che il
Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più
logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di
asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento". Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per
l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia
del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che Guicciardini vale
più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso,
preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della
narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo
delle autopsie". Altre opera: Scritti autobiografici e rari
(Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi
del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia
d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia
(Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,
presso Zanichelli, Bologna; presso Istituto per gli studi di politica, Firenze;
presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di
grandissimo animo e molto virile", secondo il Guicciardini (Storie
fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La
Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi
non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale
appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica
dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e
sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l
senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi,
come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A.
TASSONI, Pensieri diversi, Venezia, Il
legame del pensiero politico tassoniano con quello di Guicciardini (incluso, a
differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e
Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è
noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse
la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma, T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra
del paragone politico, I, Bari, Walter
Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino,
Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari,
Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia,
Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici”
(Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari,
Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo
politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, Guicciardini.
Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per Francesco
Guicciardini. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Famiglia
Guicciardini. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Propositioni, overo Considerationi in materia
di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, &
Concetti Politici di Guicciardinii, Lottini, Sansovini, Venezia, Presso
Altobello Salicato, Opere illustrate da Giuseppe Canestrini, Firenze, Barbera,
Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana. Il principe, che colmezo
del suo Ambasciatore vuole ingannar Paltro, deueprimaingannar
l'Ambasciatore,percheopera,en parlaconmaggior efficaccia,credendo che cosisiala
mentedel fuo Principei,lchenon farebbesecredesseesseresimulatione,eg
ilmedesimoricordousiogn'uno,che permezod'altrivuoleper Juadereaun'altro il falso.
DAL fareònonfareunacosachepaiaminima,dependebenspejlomomentodi
coseimportantiffime, o però nellecosepiccoledeuefieffereauuertito,ceonsiderato.
FÁCIL cosaèguastarsiunbel'eseredificilealracquistarlo,peròchisitruong inbuon
gradodeuefareognisforzodinonlasciarselovscirdimano. E'Pazziasdegnarsiconquellepersoneconlequaliperlagrandezzaloro,tunon
puoisperaredi poteruendicarti,peròsebena pareessereingiuriatodaquesti, bisogna
patire, efimulare NELLE cose di guerranasconodaun'horaàvn'altrainfinitevarietà,perònon
fideuepigliaretroppoanimodelenuoueprofpere, nèuiltàdelleauuerse,perchespeso
nascequalchemutatione,ma questodeueinsegnare,chea chifelipresental'occasione
non laperda,perchedurapoco. COME ilfinedemercantièilpiudellevolteilfallire; quellodenauigantiilfom
mergere, cofispessodichilungamentegouernailfineècapitarmale QYESTI ricordison regole,
cheinqualchecasoparticolarechehadiuerfa
LE cosechesonouniuerfalmentedesiderate, rareuolteriescono,laragioneècheli
pochisonoquellichecommunementedannoilmottoallecose,e alifini, dichesono
contrarijaljaigliappetitidimolti TVTT.E
lesicurtàchesipossonohaueredel'inimicofonbuone,difede,diamici,
dipromesse,ed'altreassicurationi,maperlamalaconditionedeglihuomini,evariatio
nedetempinissunaaltraè migliore,& piuferma,cheaccommodarsiinmodo,chel'ini
mico non habbiapoteftàd'offenderti IX NESSUNA cofa deue desiderarepiul'huomoinquestomodo,nèattribuirlopiu
a fuafelicità,cheuederel'inimicofuoprostratointerrae ridottoaterminitali, chetu
l ' h a b b i a a d i s c r e t i o n e :M a quanto è f e l i c e a c h i a c c
a d e q u e s t o , t a n t o d e v e f a r s i g l o r i o s o
conl'ofarlalaudabilmente,cioèesserclementeaperdonare,cofapropriadeglianimi
generofi, & 'eccellenti: ragione,
ragione,hannaeccettione,maqualifianoqueicasiparticolari,sipofonomaleinsegnare
altrimenti,chceon ladifcrettione. diuèdicarsi dite,nonlofacciaprecipitosamente,anziaspettiiltempoel'occasione,laqualesenza
dubbioliuerrà diforte,chesenzascoprirsimaligno,oappasionato,potràsodisfareal
fuodesiderio. Chi hadagouernare Città,opopolielivogliatenercoreti,Sappiacheordina
riamentebastapunireidelinquentiaföldiquindiciperlira,maènecessariopunirlitut t
i , c h e i n e f f e t t o s i a c u s t i g a t o o g n i d e l i t t o, m a
s i p u ò b e n f a r q u a l c h e m i s e r i c o r d i a , e c c e t
todellicasiatroci,chebisognadaressempio. XVI. IL ricordodisopra, bisognavsarloin
modochel'acquistarnomedinoneserbene.
fattore,nonfaccia,chegl'huominifugghino,& aquestosiprouedefacilmente,conbe
n e f i c i a r n fe u o r d e l l a r e g o l a q u a l c h ' o n o , p e r c
h e n a t u r a l m ě t e h a t a n t a s i g n o r i a n e g l h u o
minilasperanzachepiutivaleràpressoaglialtri,& piuessempiofavno chetuhaba
biabeneficiato, checentochenonhabbinodatehauutoremuneratione. S.
Auuertimenti di XII. INGEGNATEV Idinonvenireinmalconcettoappressodichièsuperio
renellapatriavostra,neuifidatedelbuongouernodeluiuernostro,chesiatale,che
nonpensiated'hauergliacapitarnellemani;perchenasconoinfiniti,enonpenfaticasi
dihauerbisognodilui, èconuersoil Superioresehavogliadipunire,& XIII. TVTTI
glihuominisonobuoni,cioedouenoncauanopiacereoutilitàdel m a l e , p i a c e p i
u l o r o i l b e n c h e i l m a l e :m a s o n o v a r i e l e c o r r u t t
e l e d e l m o n d o e f r a g i l i t à loro;&
spessoperl'interesseproprioinclinanoalmale.PeròdafauiLegislatorifieper
fondamento dele Republiche trouatoilpremioelapena,nonperviolentareglihuomi ni,m
a perche seguiting l’inclinationenaturale. XVII. PIV tengonoamemoriagl'huomini l'ingiuria,cheibeneficijriceuuti,anziquan
dopuresiricordanodeibenefici,lofannonell’imaginesuaminore,chenon furiputun
dosimeritar piuchenonmeritano.Ilcontrariosifadell'ingiuria,cheduoleadogniuno E
'laudato appressogl'antichi,& è verissimoprouerbio: Magistratusvirumoftédit,
perche conquestoparagonenonsolosiconosceperilpesochesiba,sel'huomoèd'assai
odapoco,maperlapoteftà,elicenzasiscuopronoleaffettionidell'animo,cioèdiche
natural'huomofia, perchequantoaltruièpiu grande,tantomancofreno,erispettoha
alasciarsiguidaredaquelchegl'ènaturale. SE
liScrittorifuferodiscreti,ogratisarebbehonesto,edebito,chelipadronilibe
neficiasseroquantopotesero,ma perchesonoilpiudellevolted'altranatura,equando
fonopieni,olilasciano,òlistraccano,peròèpiu vtileandareconloroconlamanostret
ta, e trattenendoliconsperanza, darlorodieffettitantochebastiafarechenonsidi
Sperino. piu, cheragionenolmentenon
doveriadolere,peròdouegl'altritermini.forpara
guardateuidifarquellipiaceri,chedinecessitàfannoadun altrodispiacerevguale,
percheperlaragionedettadisopra, siperdeingrosso,piuchenonsiguadagna. ,percheper
esperienzasivedecheglihuomininonsongrati,perònelfareicalcolituoi, òneldi
segnardisponerdeglihuominifamaggiorfondamentoinchineconseguevtilità,chein
chis’hadamuouerfoloper rimunerarti,percheineffettoibeneficijsidimenticano.
cheprocededa bron’animo, fivede, chepurtalvolta èremunerato qualchebene ficio,e
anchespessodiforte,chenepagamolti,& ècredibilecheaquellapotestà
ch'èsopraglibuominipiaccinol'ationinobili,eperònonconsentachesianosenza frutto:
INGEGNATEV Id'haueredegliamici,perchesonbuoniintempi,luo ghiecasi, chevoinonpensarete,equestoricordobenchevulgato,nonlopuòconsidera
reprofondamentequantovaglia, achinonèaccadutoinqualchefuaimportanzafen
tirnel'esperienza: P I A C E vniuersalmente, chièdinataraverae liberă,&
ècosagenerosa,ma
talvoltanuoce.Madall'altrocanto,lasimulationeèvtile,ma'èodiata,G hadelbrut the
ènecessariaperlemalenaturede glialtri,però non sòqualesidebba eleggere,
Credoperò, chesipossavfarel'onaordinariamente,senzaabbandonarl'altra,cioènel
corsotuoordinariocomume vjarlaprimainmodo,cheacquistinomedi personalibe ra, nondimenoincerticasiimportantipotrai
sarelasimulatione,laqualeàchivi uecosìètantopiuvtile,e
sicredemeglio,quantoperbauernomedelcontrario,tiè facilmentecreduto E
INCREDIBILE quantogiouiachihaamministratione, chelecosesue
fienosegrete,perchenonsoloidisegnisuoqiuandosifanno,possonoeserprenenuti,e
interrotti,maancoral'ignorareisuoipensieri,fachegl'huominifannosempreattoniti
3 PIV
fondamentopotetefareinvnoc'habbiabisognodivoi,oc'habbiainqua! checasol'interese
communecheinvnoc'habbiariceuutodaboibeneficio XIX. H
O.postoiricordidisopra,perchesappiateviuere,ericonosciatequelchelecose
possono,nonacciocheviritiriatedalbeneficiare,percheoltrecheècosagenerosa,en PER
Lecagionidisopra,nonlaudochiviuesempreconsimulatione,& conarte,
mascufobenechiqualchevoltal'vja. $1A
certochesetudesideri,chenonsisappiachehaifatto,òtentatoqualcheco
Ja,cheèsempreapropositoilnegarla.Percheancoracheilcontrariosiaquasiscoperto
& publico,tuttauianegandolaefficacemente,sebenenonlopersuadiachihaindi tij,
ocredeilcontrario,nondimeno perlanegationegagliardaseglimetteilceruello
àpartito. A 3 esospetti,
efofpetti,aoßeruarelesueattioni.Ed'ognifuominimomoto,sifannomillecommente
ti,& interpretationi,ilcheglidàgranriputatione,peròchièintalgradodouerebbe
auezzareisuoiministrinonsoloàtacerelecosechemaisifappino,ma ancortuttequel
lechenonèptilechesipublichino. ANCORA quellicheattribuendotuttoallaprudenza, ovirtů,
s'ingegnano e s c l u d e r e l a f o r t u n na ,o n p o s s o n o n e g a r e
, c h e n o n f i a g r a n d i s s i m a f o r t e n a s c e r e d q u e l
tempo, oabbattersia quelleoccasioni,chesienoinprezzoquelleparti,opirtùinchę tu
vali . NON vogliogiàritirarquellicheinfiammatidall'amoredeltaPatriasimetto H o
a p e r i c o l o p e r r i m e t t e r l a i n l i b e r t à ., e l i b e r a
r l a d a T i r a n n i ; m a d i c o b e n e , c h e c h i
cercamutationedistatopersuointereffenonèsauio,percheècofapericolosa, elivede
cõeffettiche pochissimitrattatisonoquicheriescano,epoiquãdobeneèsuccesso, fide
e quasisempre che nellamutatione tu no conseguiscidi gră lunga quel chetu
haidife gnato,& inoltretioblighiàvnoperpetuotrauaglio, perchesempretuhaidadubita
re, nontorninoquelli, chetuhaifcacciatijetivecidino. XXIX. CHI
purpuoleattendere'atratati,siricordi,chenefunacosalirouinapiucheit
desideriodivolerlicondurretroppofieuri, perchéchi vuolfarperinterponere manco
tē po, implicapiuhuomini,emescolapiucose,dallaqualcausasiscopronosemprefimili p
r a t i c h e . E t a n c o è d a c r e d e r e c h e l a f o r t u n a , f o t
t o l ' a n i m o d i c h i s o n q o u e s t e c o s e . f i j d e
gniconchivuolliberarsidallapotestàfua& aficurarsi,peròèpiufécurovolerliesem
quireconqualchepericolo,checontroppasicurta. NON
disegnatesùquello,chenonhauete,nèspendetefuliguadagnifuturi;
perchemoltevoltenonfuccedono,etitrouiinuiluppato, & sivedeilpiudelevol te, chelimercantigroffifallisconoperquefto,quando
persperanzad'vinmaggior
guadagnofuturo,entranosuocambi;lamoltiplicationedequaliècerta, & hatempo
determinato, maliguadagnimoltevolte,ononnengono, ofiallunganopiucheildia
OSSERVA I quandoere AmbasciatoreinIspagnaappressoil Re Ferdinan
dod'AragonaPrincipefauio,& glorioso,cheegliquandovoleuafareunaguerra,
impresanuoua,òaltracosad'importanza,nonprimalapublicaua,epoilagiustifica ua, maperilcontrariovsauaartecheinnāzis'intendessequellocʻbaueuainanimo,er
fidiuulgana ilRe douerebbeperletalicagionifar questo inmodo,chedoppopublican
dosiquelchegiàpareuagiuftoadogniunoonecesario,èincredibileconquantalände
eranoriceuutelefuedeliberationi. XXVIII.", RCON
viaffaticateaquellemutationichenonparterisconoaltro,shemutarei
visidegl’huomini: perchechebeneficiotirecafequelmedesimomale,odispetocheti
facciaPietro tifacciaGiovanni? 12 . Jegne,
Tegno,dimodo,chequellaimpresachetuhauenicominciatacomevtile,tiriescedania
nofiffima SE hauetefalitopenfatelabene, emisuratelabene, tananzicheentriateinprigio
nepercheancorach'ilcafofussemoltodificileascoprire,tamenèincredibile,aquante
cosepensailgiudicediligente edesiderosoditrovarelaverità,& ogniminimospiras
glioèbastanteafaruenire tuttoaluce. ,ofa tiche.Ma quelchelafa
forsedesiderabileancoraall'animepurgate,èl'appetitoche
s'had'esserefuperioreagl'altrihuomini,ilcheècerto.cafabella &
beata,attesomaffia me ch’innessunaaltracosacipesamoassomigliareaDio
dentisubitiderepentini,cosacheagiudiciomioèrarissima pericoli,& mai LÀ
medesimaragionefa,chequantopiul'huomoinuecchia,tantopingliperfa ticailmorire, e
semprepiuconleattioni,econlipenfieriviue,comesejapesenonha
weremaiamorire. SI CREDE,&
ancospessofeuedeperesperienza,chelericchezzemale
acquistate,nonpassanolaterzageneratione. Sant'Agoftinodice,cheDiopermet te, chechil'haacquistategodainrimunerationediqualchebene,chehafattoinvi
ta,ma poinonpassanotroppoinnanzi, percheègiudiciodiDioordinariamente,che
cosinadadimalelarobamaleacquistata. IodiligiàadunPadre,cheameoccor
reuaun'altraragione,perchechiha acquistata la roba,ècommunemente allenato
dapouero,l'amasc sal'arte diconferuarla,maifigliuolichesononati& allcuatida
hodefideratocomeglialtrihuominil'honore& l'otile,& infinquipergram
tia'diDioèfuccedutosopraildisegno,enondimenoquãdohocõseguitoquelchedeside
rauo,nonuihoritronatodētroalcunadiquellecosechemihaueuoimaginato,ragione,
àchibenla considerasse , chedoueriabastareadeftinguereaffailafetedeglihuomini. LA
grandezzadiftatovniuersalmenteèdesiderata,perchetutoilbenech'èin
Jei-appariscedifuori,ilmaleftàdentroocculto,ilqualechinedessenonebarebbeforse
tantanoglia,percheèpienasenzadubbiodipericoli,disospettodimilletrauagli LE
cosenonprenedute, nuoconosenzacóparationepisa,cheleprouifte; peròchiama
moioanimograndeeperito,quelocheregge, enonsisbigotisceporili NON
èdubbio,chequantopiul'huomoinuecchia,piucrescel'auaritia.Sidice
communementeessernecausà,perchel'animodiminuisce,ragione,cheamenonècapa
ce,percheè beneignorantequeluecchio,chenonconoscehauerneminorbisogno,quan
ldpiuinuecchia, &inoltreueggo, chene'uecchis'augmētaperilcotrariolalufuria,
(dicol'apetitoenonlaforza lacrudeltà, egl'altriuitijperòcredo,chelaragionue-:
safia,chequantopiusiuiue,tantopiul'huomos'habituaallecosedelmondo o per
consequentepiul'ama > ricchi, A 4 r i c c h i, n o n s a n n o c
h e c o s a s i j l ' a c q u i s t a r r o b a , & n o n h a u e n d o a r
t e , ò m o d o d i c o n f e r . varlafacilmenteladisipano. NON
fipuòbiasimarel'apetitodihauer figliuoli,percheènaturale:madico bene, cheèfpeciedifelicitànonhauorne,percheetiandiochiglihabuoni,e
saur,' perdita ditēpošle quali cosesonotenutemalenelinostrigiudicij,che X L I
I. E ' IMPOSSIBILE, chel'huomo (sebene èd'ottimoingegno, e giudicion a
turale)posaaggiugnères& beneintenderecertiparticolari,però ènecessariale
fperienza,laqualnonaltrogliinsegna,e questoricordolointenderàmeglio,chiha
maneggiatofacendeassai,percheconlesperienzamedesimahaimparatoquantovan
glia,esiabuonal'esperienza. strettonontoglieànessuno,pinsonoquellichepatisconodel
legrauezzedel prodigo, chequellichehannobeneficiodellaficalarghezza:Laragio
nedunquealmiogiudicioè,cheneglihuominipuopiulasperanza cheiltimore,etpiu
Sonoquellicheferonocoseguirequalchecosadalui,chequi,chetemonoessereoppreffi.
1. Auuertimenti di senzadubbiomoltopiudispiacerediloro,checosolatione.L'esempiol'hovedutoinmio
Padre,cheasuoidìeraessempioaFirenzedipadrebendotatodifigliuoti,peròpensa
secomestia,chiglihadimalaforte. PIACE senzadubbiopiuvnPrincipec'habbiadelprodigo,chevnoo’habbia
dellostretto,ő tamendouerebbeessereilcontrario.percheilprodigoèneceßitatofa
reestorsioni,Grapine,lo sha messiasuavolontà,& afuobeneplacito, perchelaleggenonglihavolutodarpoteftà
difarnegratia,manonpotendoneicasiparticolari,perlavarietàdellecircostanze
darneprecisadeterminarione,sirimetteall'arbitriodelgiudice,cioèallasuaconscien
za, checonsideratoiltutto, facciaquelcheglipare piugiusto,& bonefo,&
chialtija mentil'intendesse,s'inganna,perche
laforzadellaleggeloaffoluedihauerneadar conto,perchenonhauendoilcasodeterminato,sipuòsemprescusare,manonglidàfa
caltàdifardonodellarobad'altri. Χ Ι Ι. SI VEDE
percfperienza,cheipadronitengonopococontodeseruitori,e per
ognsiuacommodità,& appetitoglimettonodaparte. Tolaudoqueseruitori,chepi
gliandoessempioda padroni, tengono piùcontodeleinteresisuoi,chediloro,ilcheperò
consigliochesifaccia,faluandosemprel'honore,e lafede. X L. E R R A
chicredechelicasi, chelaleggerímetteadarbitriodelgiudice, fienorin , -NON BIASIMO
interamentelagiustitiaciuiledelTurco,cheèpiutosto
precipitosa,chefommaria:perchechigiudicaaocchichiusiragionevolmente,spedisce
lametadellecausegiustamente, e liberalepartidaspese,&
spessofarebbepiuperchiharagioneha
uerehauutodaprimalasentenzacontra,checonseguirladoppotantodifpendio,do
titrauagli,senzacheàpermalignità,operignoranzadelligiudici;ó ancoraper
ofleruanza delle leggisifa delbianconero : 1 L’IN
deuiofferuarequestaopinione,etiamconqualchetuain- commodità,&
inquestos'ingannanospessoglihuomini,perchesimuovondoa qualche pocodidanno, cheapparisce,&
nonconfideranoquantosianograndiibeni,chenonsi veggono,
percheisudditinonveggono,enonmisuranoappuntoquelchetupuoifare,anzi
imaginandosimoltevoltelapotestàtuamaggiore,chenonè,credonoaquellecoseche
tunonlipotresticostringerė. XLIX. SONO alcunihuominisauiasperarequellochedesiderano,altrichemailocrea
dono,infin,chenonnesonobensicuri,& senzadubbiopiuvtileèsperareinfimilicasi
poco,chemolto,perchelasperanzatifamancaredidiligenza,e tidàpiudispiacere,
quandolacosanonsuccede. QUANTO bendissecolui.Ducuntvolentesfatanolentestrahunt,seneveg
gonoognidìtanteesperienze,cheamenonpare,chemaicosaalcunasiaiceljimeglio.
Saui,chesidevgeodereilbeneficiodeltempo. M. Francesco Guicciardini. S
L’INTENDERSI beneconlifrateli, econliparenti, fainfinitibeni, che tunonconosci,perchenonapparisconoadviper
vno,mainfinitecosetiprofitta, fattihauereinrispetto,però
altrimentièimpossibile,chelungamentesiatenutobuono. CHI
nonsicurad'esserebuono,madesiderabuonafama,bisognachesiabuono, 10
fuigidd'opinionedinonvedereetiamcolpensareassai,quelchenonvedeuo prefto: maconl'esperienzahoconosciutoeserefalfifsimo,peròfáteuibefedichidi
cealtrimenti. Quanto piusipensanolecose,tantomeglios'intendono,á sifanno:
QVANDO tiverràoccasionedicosa chetudesideripiglialasenzaperdereten po, perchelecosedelmondosivarianotantospello,chenonsipuòdiredihauercofaal
cuña, finchenonsiainmano.Etquandotièpropostaqualchecosa,chetidispiace,cer
caildiferirlapiuchetupuoi,percheogniborasivede,cheiltempoportaaccidenti,
cheticauanodiquestedifficoltà,& cosìs’hadaintenderequelprouerbio,chediconoi
ILTIRANNO faestremadiligenzadiscoprirel'anitzetio,ciodseticon
tentideltuostato,consideragliandamentiÜnnodituoi,concetičaredritesdiertocat chi
CHIHA autorità, &signoriapuofpingersi,&flenderlaancorasopralefor zesue,
LI . L. SE tuvuoiconoscerequalifienoipensierideTiranni,legiCornelioTacito,quan
dofamentionedegloltimiragionamentic'hebbeAugusto conTiberio. IL medesimo Cornelio
Tacito achibenloconsidera,insegnapereccellenzacome s'ha da gouernarechi
vinesottoa un tiranno. thìconuersateco,e
conragionartecodivariecofe,&ponerti domandarti partiti,&
parere,peròsenonvuoichet'intenda,bisogna,chetiguardicongrandissimadiligen za, damezzicheeglivsa,nonvsartermir:
A chi haconditionenella Patria,efiafotoonTirannofanguinofo& beftia
le,siposjondarepocheregole,chseienobuone,eccettoiltorsol'esilioM.a quandoilTi
fanno,oper prudenza,òpernecessitàdel suostatosigouernaconsospetto, on’huomo
benqualificatodeuecercarediesseretenutodaaffai, & animoso,madinaturaquieto,
nècupidod'alteraresenonèsforzato,percheintalcasoilTirannotiaccarezza,e
cercadinondarticaufadifarnouità,ilchenonfariaseticonoscesseinquieto, perche
all’horapensainognimodochetunonsiaperftarefermo,ondeèneceffitatopensare
sempreťoccasionedispegnesti. SECONDO ilterminedisopra,èmegliononeseredelipiuintimieconfiden
tidelTiranno, perchenonsolotiaccarezza,mainmoltecose,famancoasicurtàte co, checonlisuoi,cosìtugodilasuagrandezza,&
nellarouinasuadiuentigrande, ma
diquestoricordononsenepuòvalerechinonhaconditionegrādenellasuapatria. E'DIFFERENZA
dhauerelifudditidisperati,adhanerlimalcontenti, perchequelinonpensanomaiadaltro,cheamutationedistato,elacercanoetiamcon
suopericolo, questisébenenonsicontentano,edesideranocosenuouteamennoninui
tanoleoccasioni,ma aspettanochedaseuenghino.
NON. posonogouernareisuditibenesenzaleuerità,perchelamalignitàde
glibuominicercacosim,asiuvolemescolardestrezza,& fardimostratione, accioche
glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute
publica. SIDOVERIJ atenderealiefet,inonaledimostrationi,esuperficie,e
nondimancodincredibilequantagratia,cöfauoveticöcilinoappresoglihuominileca
rezze, etlahumanitàdiparole.lragionecredochesia,percheogniunosistima,
parmeritarepiuchenonuale,eperòsisdegna',quandonede,chetunontieniquel
contodilui,chegliparechesegliconuenga. Auuertimenti di
chebabbinoadarsospetto,guardandoco meparli,etiamconlintimituoi,e
secoragionando,& rispondendodiforte,chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,setipresupponisemprequel'obbietto,cheegliquanto
puoticirconuieneperscoprirti. E'COSA
honoreuoleàun'huomononprometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma
communementetuttiquelligachituneghi,á giustamente,reftanomalfodif
fatti,percheglihuomininon Jilalanogouernaredallaragione:Ilcontrariointra
uiéneachipromette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare
l'esperienzadiquello,chetuhaipromello,& cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure
s'hadauenireal'atononmancanoSpedoscuse,emoltisonofigrofli,chesilasciano
aggirare M . Francesco Guicciardini. aggirareconparole,nondimeno è
fibruttomancareallaparolafua, chequestopre
ponderaogniutilitàchesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi
trattenersiquantopuoconrispostegenerali,&pienedibuonasperanza,manondifor
techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimicosenzaproposito,&
ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. Chi entrane' pericolisenzaconfiderarequelchepossono,oimportino,
fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne
cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, CREDONO
molti,cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea nimoso:
10sonodicontrariaopinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, per che manca
di giudicio, chi stima a d auuenire il pericolo, piuc h e non si d e u e ,m a p
e r auuenturaquestopaso,cheèconfuso,deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan
no effetto,perchealcunineschifal'humo coladiligêza,etindustria,etfrächezzasua,
altriilcasoiftesoetmilleaccidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no
lideue metteretuttiad entrata,& presupponerechetuttisuccedano,m a
discorrerecon prudenza quelchealtruipuò
sperared'aiutarsi,edoueilcasoverisimilmenteglipuò
farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,& honoreuoliperpauradituttii
pericolicheconosceessernelcaso. ERRA
chidice,chelelettereeglistudijguaftanoilcervellodeglihuomini, percheforseè veroachil'hadebole,
ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo
fannoperfetto,percheilbuonnaturalecongiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif Jima
compositione. Livi E'SEN?A comparationepiudetestabileinvn Principel'avaritia,cheinun
priuato,nonsoloperchehauendopiúfacultàdadiftribuire,priuaglihuominitantopiù:
maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze
giuftaquerelad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós
& beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe,fraudaglihuominidiquelchedeueloro.
GV ARDATEV Idatuttoquellocheuipuonuocereenongiouare,però inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,chedispiaccino,
NON furonotrouatiiPrincipiperfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb
bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli,perchefuserobenegouernati,
peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe DICO che il Principe
chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè
Tiranno,facendoquellocheèoficiodepriuati,enondePrincipi,&
peccatantoverfa Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquelcheèoficio
solodelPrincipe. LXVII. LE cosedelmondosonovarie,edipendonodatanticasi,&
accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,&
sivedeperesperienza,chequasisempreleconiet t u r e d e s a n i j s o n o f a l
l a c i,p e r ò n o n l a u d o il c o n s i g l i o d i q u e l l i c h e l a
s c i a n o la c o m m o d i
tàd'onbenpresente,bencheminore,perpaurad'onmalfuturo,benchemaggiore,se non
èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon succedendo poispessoquello dichete
meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio
quelprouerbio.Dicosanascecosa. NELLE cosedellostatoho vedutospessoerrarechifagiudicio,
percheesamina
quellocheragioneuolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel
lochefarà,verbigratiailRediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana
tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascunPrincipe,prudente,
faggio,& giusto. 10 HO
dettomoltevolte, etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace, & chesappia
farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò
attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. LXXI.
NON èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso
l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate
niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto
senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione.
sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa tantadappocagine.
SE hauetemalasatisfattioned'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor ga, perchesubitofialienaràdavoi,&
vengonomoltitempi, & occafionichevipollo noferuire,
viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto,nonvelbauesti giocato,e
ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto
malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è statoamico.
L'AM LXXII. NON
simarauigliarddell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerainCor nelio Tacito,cheliRomanisolitiàdominareilmondo&
viuereintantagloria,ferui uanosivilmente > . LXX CHI vuoletrauagliare, nonsilascicanaredipossessionedellefacende,
perchedal
l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa
tionechetiportailtrouartiinnegotio,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer
bio:Di cosa nasce cosa. 1 1 & nefas,como
ècausad'infinitimali.PeròveggiamocheliSignori fimilichehannoquestoobiet
to,nonhannofrenoalcuna,o fannounpianodellaroba,& vitadeglialtri, purche,
cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza.
similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnochemuored'eticooditisico,chelasuavi
tasempresiprolungaoltral'opinionechehannohauutoimedici,colivnmercăteinan
zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto. M'E
parfasempredificileacredere, cheDiobabbiaapermettere,chelifigliuoli delDuca
Lodouico, habbinoagoderquellostato,quandoioconsidero,cheilpadresuo
l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstatocausadellarouina, seruity
d'Italiaeditantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama
nosonopazzi, perchestarebbefrescalaCittà,cóloro,seiltirannononhauesseattor
noaltrichetristi. M. F 7 L'AMBITIONE
dell'honore,edellagloriaèlaudabile,& vtilealmondo,
perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.Nonècosiquel la
delagrandezza,perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, L'IMPRESE e
cose,chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri
masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli
huominisiostinanoapatire,apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe
creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaafinireperfame,perl'incomodi
tà,per mancamēto didanari,& FATEV 1beffediquestichepredicanolalibertà,nondicoditutiman’ec
cettuobenpochi,percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta
tostreto,cheinunlibero,vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran
noilrispetodel'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala
gloria& l'honore. gottirti, e
coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente. . CHI
conuerfacongrandinonfilafcileuaracauallodacarezzeedimostrationi
fuperficiali,conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono,
@affogarlinelfauore. Etquantoquestoè piudificileadifendersitantopiudeuesbir N O
N potetehauermigliorparte,chetenerecontodell'honore,perchechifaque ftonontemei
pericoli, nefamaicosachesiabrutta,perotenetefermoquestocapo, ú
faraquasiimpossibile,chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor LXXX. Dico
cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi
coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco
taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli,
& conoperedifauoriremoltibuoni,edisfauoriremoltimali LAV
städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. LXXXII. LA
naturadepopoliècomequelladepriuati,diuoleresempreaugumentaredel
gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per
checoncedendononlifermi,anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza,
chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce
lasete.OSSERVATE condiligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future, cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,&
chetuttoquellocheè,
sarà,èstatoinaltrotempo,perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz &
colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente.
LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli,
modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiuigustiel'inclinationidell'arme,
& questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso
loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo
mini. Lamětepericolodellauittoria,ma Auuertimenti di i LXXXI. LAVDO
chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi
derationedistato,chenonhadatemereiluincitore,perchefuggeilpericolo,elaspesa,
elaStracchezza,didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi
questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4
1 SENZA dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia
mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero
chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,&
cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno
participapiudell'animalbruttoched'huomo,l'altrotrascendeilgradodell'huomo,
s'accostapiuallenaturecelesti. INANZI
alM.CCCCXC111.nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca
Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la
guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale
traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote
wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer
ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale
lagiornata,& eradatalasentêzadelaguerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper
dersiilRegnodiNapoli,ilDucatodiMilano,econlafortunad'unsologiocarsitutto
lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostratodiuerfo modo di
guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo p
a g n a ,m a n o n r i u s c i r e b b e b e n e q u e s t o , a c h i n o n h
a u e s s e d i s p o s i t i o n e d e p o p o l i f a u o r e wole,cornehahauutoegliquelladiMilanocontraFrancesi.
LE medesimeimpresechefattefuorditempo,Sonoštatedificiliseme,òimpoffibile, 1
quando
quandosonoaccompagnatedaltempoedall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo
letentarleattrimenti,perchesetuletentifuordeltemposuo,nonsolonontifuccedono,
maportipericolo,checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen
tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. NON
ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità,
sifacciatemere,percheisudditihannofacilmentepauradichilipuosforzare,eroui n a r
e , & v i e n e f a c i l m e n t e a l l' e s e c u t i o n e ,m a l a n d
o i o q u e l l i g o u e r n a t o r i, c h e c o n f a r p o cheaffrezge, et
esecutioni, fannoacquistarsi, & conferuarnomediterribili. xcІ. RICORDATEV I
diquellochealtrevoltehodettodiquestiricordischeno s'hannoad
osseruaresempreindistintamente,mainqualchecasoparticolare,cheara
gionediuerfanonsonobuoni,& qualisienoquesticasi,nonsipuocomprendereconrego laalcuna,nesitroualibrochel'insegni,maènecessariochequestolumetelodiaprima
lanatura, & poil'esperienza. ... .
cu i diseonpopolo,diseveramenteunpazzo,percheeglièunmoftropienodi tonfusione;ó
d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto
secondoTolomeo,laSpagnadall'India. COME M. 8 * 011. A
miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,& qualitàec
cellente,cheinvnCapitanod'onoesercito,perchesonoinfinitequellecose,a cheproue
deré,&
comandaresinfinitiaccidenti,etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano,
inmodocheperamentebisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza,
chelibisognareputoinognialtropesoniente. XCIIII.
Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta
noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque
staconfidēzanõgliaspetarebe,questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo,
perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintostoildãnocbelauergogna.
LXXXVIII. HO osseruatowe'mieigouerni,chequandomièvenutainanzivnacausa,cheho
hauutoper qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma
folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesimepartilhannoricer
cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto
intermine,chequandoèvenutoiltemposuo,ionesonostatopregato. XC: N O N
,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi
cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde,
piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non
perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,&
fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra;cheperognunojnenafcesette. $
NON possoio, nesofarmibello,nedarmiriputationediquellecose,cheinperin
tànonsonocosi,& tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto
giouilariputatione,e opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande.Conquestoru
moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che
ilpadrone,eproportionatamenteil superiorelisudditi, perchenonsipresentaianzialuitaliqualisipresentanoagl'altri,
anzicercanocoprirsialui, & parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli,
qualfortehabbiapiuadesiderareuna Città,òdicaderenelgouernod'vno,òdimolti,odipochi.
p e r c h e d'hora in hora nascono o c c a s i o n i, c h e e g l i c o m m e t
t e a c h i v e d e , ò a c h i g l i è p i u e p r o p i n q u o, c h e s e t
i h a u e s s e a c e r careòaspettarenontisicommetterebbe, e
chiperdevnprincipiobenchepiccolo,per despessol'introduttione,e
aditaarosegrandi. fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non
facendoperacosachesiacontralafede,l'honore. Auvertimenti di XCE . COM
Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer
nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper
se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com
portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. XCVI. R O N
s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose, lequalifepotefse,ofa
cesjemeriteriabiasimo".DICE
ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi v e n i r e
i n c o n c o r r e n z a è c o m p a r a t i o n e d i c h i è p i u p o t e n
t e o r i s p e t t a t o, p i u s u c c u m b e i l
piudebole,nonostante,chelaragioneèl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario,
perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito:+31 xCІ. NIVNO
conoscepeggioliferuitorisuoi GII. 10 velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,&
perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono 2 CI. TP
chéstaiincortë,& seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia
gl'occhi, pome ...) C O N C O R D A N O
-tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono, ibedi pochiedimolti,o
buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono
piufacilmentedibuonodiuentacattiuo,chegl'altri,& quando ècattivoèpeggioredi
tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato,
consideratetutequesteconditioni CTII CHI
siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè d a a u u e r t
i r e c h e l a f o r t e n o n s o l o p k o e s s e r e v a r i a d i t e m p
o i n t e m p o ,m a a n c o i n u n t e m
pomedesimopuoelervarianellecose,perchechiosseruauedràperesperienza,mol
tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,&
inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar
ricolarehohauutoinfinoaquestodàtrediFebraroM D XX111.inmoltecose bonißimaforte,
tamennonPhosimilenellemercantie, one glihonori,cheiocerco d'havere, perchenoncercandolimicorrononaturalmentedietro,ma
come cominciò a cercarli,pare chesidiscostino . LE
cosedelmondononstānoferme,anzihannosempreprogressoalcamino,àche ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e
finire,matardanospesopiache
ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non
secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino
fri,& fitærdipersuanatura,cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode
fuoimoti,e perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, CVII RON
sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna
grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no
fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol
te,perchenonèbuomocosidappoco,chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi
inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri
mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera
meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel
löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet
tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon
èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza. GRUAN
forteèquelladegliastrologi,cheancora,chelaloroprofeffionefiava M.
FrancescoGuicciardini. NON
hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico li,&
trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate. L’APPETITO
dellarobanascedaanimo'balo,omalcomposto,fenonside.
fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviueredelmondo,co me èchidefiderariputatione,èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono
Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,& mãcoconosciute. B
CVIII. La libertàdelleRepublicheèministradellagiustitia,perchenonèfondataadal
trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef
soresicuro,cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau
fadidesiderarelalibertà.Questaèlaragione,chegliantichisauij, & Filosofinon
laudornopiudeglialtrique'gouerni QVANDO lenuoues'hannod'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d
aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuominifacilmente СХ; nito,
Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica
no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, c h se
i a r e p r o b a t a d a v n o , f a , c h e s i s t à s o s p e s o a c r e d
e r l i t u t t e l ' a l t r e v e r i t à , & procede
daldesideriograndec'hannoglibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro modo
dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire,
comeall'infermoilmedico,chelipromettelasalute.
,òdallauoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan
uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille
cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof
fendepiùl'animod’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri
uerenza,chegiudicaconuenirseli. CXI. F T Ë
ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico,
nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince,
siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa
nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,6
imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza
cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo nodagliaccidentidellistati
CXIIII. FV crudeleildecretode Siracusani,dichefamentioneLiuio, cheinsinoalledon
n e n a t e d e t i r a n n i f u s s e r o a m m a z a t e , ma non però a l t
u t t o s e n z a r a g i o n e , p e r c h e m ă
Catoiltiranno,quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono
un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si
ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello.Peròuna Città, cheescanuouamente
dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro
geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine. CXV. N O N
èinpoteftàd'ogniunoeleggersiilgrado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,&
chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna
comedia,nonèmancolodato,chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a
chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel
gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun CHI desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e
riuerenza,e conquestoeferpiutoftoabbondante,che OGNIV NO
inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi
nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli,
ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman
codisordine. 2 E gran E 'granfelicitàpotereviuereinmodo
chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma
chis'adduceingrado,chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper
mioconsigliopigliareiltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa
pernonesseroffeso,comequella,chesifaquandol'offesatièfatta,ènerochebisogna
bendiftinguericasi,nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene
ceshtatoapreuenire,nèpercupidità,nèpermalignità,doueinverononhainèdeui
hauerefolpettovolereconallargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai. NE
glihuominie lapatienza, el'impetosonobastantiapartorirecosegranuis
perchel'onooperaconl'urtareglibuomini,esforzarelecose,l'altraconlostraccara
li,evineerlicoltempo,el'occasioni,peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro,Grå
conuerfo,& chipotessecongiugnerli,& vsareciascunoaltemposuosarebbediuino,
maperchequestoèimpoßibile,credocheožbuscõputatis,lapatienzaemoderationfi: landabileinun
Principepercõdurremaggiorcoseafine,chel'impetoelapcipit.iticne. CXX. NLELLE
cosedellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper flue,ma
quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon
piuvantaggio,ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini. CXXII.
DICEVA unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,chediecichene
baispesi,parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose
honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecosesuperflue. la malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor
gono diquelloharebbono dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo
vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza,
habbiatepervfarizafaruelilenaresubito,& hauerliincasainformaautentica.
10 M. FrancescoGuicciardini. RARISSIMI sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo
fatisecondocheglihuomiuipensano CXIX . SE
benglihuominideliberanoconbuonoconsiglio,gliefetisonoperòlpelocat
tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito
daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,ancorchel'efetosiastatocattiuo,chefeconvácon
figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono. TENETE
amente,chechiguadagna,sebenpuospenderequalchecosadipiu chenonguadagna,tamenè
pazziaspenderelargamentesulfondamentodeguada
gni,seprimanonhaifatobuonocapitale,perchel'occasionedelguadagnarenondu
rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero
comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo,el'honore,percheallafineètenutodipo
coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, &
questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer
B2 puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudinechesisentedatuttiefere
notabile. DEL fareun'operabuona, & laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi
nonsisatisfafolumdelbenfaredi sesteso,lascidifarlo,nonparendoglitrarneuti lità,
maquestoè ingannodeglihuomininonpiccolo, percheilfarelaudabilmente,se bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,&
buonaopinionedite, laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile.
progressoditemposi p o c h e c o f e u e r i f i c a t e, c o m e s i t r o v a
a c a p o d e l l ' a n n o d e g l i a s t r o lp o ge i , r c h e l e c o s e
del mondosonotroppouarie. NELLE
coseimportantinonpuofarebuonogiudicio,chinonfabenetuttii particolari, perche speso
unacirconftantias& minima, nariatuttoilcaso, mauidice bene, chenonhanotitiaadaltro,chedigenerali,&
questomedefimogiudicapeggio intesii particolari,perchechinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf
fioni, facilmenteintendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. SE
d'unos'intendedlegge,chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor. E'Certo, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale,
comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito
inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper
luiinunsuopericolo,òbisogno,òchepermemoriadebeneficij,lafcinounalorocomo
modità, nondimenononsprezzatetantoilfareseruitioapopolichequandouisipre
sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè
fruttoasaidelafatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin
mzoneachièbeneficiatosenonsicaldamente,comelibeneficipropri,almancosarà
partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres
fione,che CH I
facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce ranno,&
scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin SPESSO s'inganna, chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper
ebeuengonosemprepiucaldi,& piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin
però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi, edimanoinmanoglialtri. CHI
halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta,òassediata,deuefa
repochiffimofondamentointuttiqueirimedij,cheallunganogestimareassaiognico
fachetolgatempo,etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor
taqualcheaccidente,chelalibera. . NON combatteremaiconlareligione,neconlecosecheparechedependonoim
mediateda Dio, perchequestoobiettohatroppaforzanellementideglihuomini.
ilmale E'buonmezo
aguadagnarsifauoriilmostrareaquelli,dachituduoiguada gnareilfauoredifarlicapis G
QUANDO sifauna cosa, sesipotessesaperequelchefarebbeseguito, senon sifufefatta,
sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda glihuominilau dati,chenon
fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: ACCADE
:molteuolteinunadeliberationecheharagionedaognibanda, che
ancorachel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio ne, gliparebauerelettolapartepeggiore,laragioneè,
chepoichetuhaideliberato
tisirappresentanosolamenteallafantasialeragioni,cheeranonell'opinionecontra
rialequaliconfideratesenzailcontrapesodell'altretipaionopiugraui,e pireim B 3
portanti M.Francesco Guicciardini. Ir i
male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemancadell'appetia
naturale , n o a fauorire quello, che p e r a l t r o h a r e b b o n o d i s
fauorito NON
credeteaquestichepredicanocheamanolaquiete,etd'essereStracchi
dell'ambitione,& hauerelasjatele.facende,perchequasisemprehannonelcuoreil
contrario, esisonoridottiavitaappartata, & quieta,òpersdegno,òpernecessità,
òperpazzia,l'essempioseneuedetuttoildì, percheaquestitalisubitoches'appres
Sentaqualchespiragliodigrandezza,abbandonerannolatantalodataquiete, & nifi
mettonoconquelpericolo, chefailfuoco,adunacosafecca. L'INCLINATIONI, e
deliberationide.popolisonotantofallaci, &
Menatepiuspessodalcaso,chedallaragione,chechiregolailtrainodeluiuerfuo,non
inaltrocheinfüilasperanzad'hauereadeseregrandecolpopolozhapocogiuditiosper
cheopporsièpiutostoventuracbefenno.
autoridiquellacosa,nellaqualen'haidibisogno,perche la piupartede
glihuomini,presidaquellauanità,òambitione,uisiaffettionanoinmo
do,chedimèticatiirispetticontrari,ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia
INFINITE Sonolevarietàdellenature,dadepensierideglihuomini, però non sipuoimaginarecosa,
nèsìstrauagante,nèsicontraragione,chenonsiasecondo
ilceruellod'ałcuno,perquestoquando sentiretedire,ch'altrihabbiadetto,ofattoco.
facchenonuiparrauerifimile,nèchepossacadereinconcettod'huomo,nonuënefat
teleggiermentebeffe,perchequellochenonquadraate,puofacilmentetrouareachi
piaccia, òpaiaragionevole. PA RE chei Principi sienepiuliberi,e piupadronidellelorouolontà,chegli
altrihuominóznonèuero nePrincipi chesigouernano prudentemente,perchesonone
cefsitatiprocedereconinfiniteconsiderationi,rispetti,inmodochemoltevoltecat
tiuanoilordisegni, iloroappetiti,el'altrevolontàloro, iochel'hoosseruato,n'ho
pedutemolteesperienze. ,diriandaretutteleragioni,chesonohinc,&
inde,perchequeen stoconcorso& contrarietà, chetiapprefentiinanzi,fa,cheleragionichesiconcede
ilano,nontipaianepiudimaggiorpesosoimportanzadiquello,cheveramente QVANDO
nelleconsulsteonoparericontrarij, sealcunoescefuoraconqual. Che partitodimezo,quasichesempreèapprouato,non
percheipartitidimezo,il piudellevoltenonsier:opeggiori,ma
percheicontradittoricalanopiuvolentierid quello,cheall'openionecontraria,& ancoglialtri,òpernondispiacere,opernonef
jerecapaci,sigettanoaquellocheparloro,chehabbiamancodisputa. POSSONO
maleglihuominipriuati,biafimareolodaremoltoleationide
Principi,nonsolopernonsaperelecosecomestanno& peressergliintereffi,&
ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenzaèdall'hauereauuerzo ilceruello
advsodePrincipi,adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato,
ifinidellecose, & gliintereshfulero all'unonoticomeal'altro,leconsiderationi
Auvertimentidi portanti,chenonpareuanoinanzi,chetudeliberafi:Ilrimediodiliberarsidaquesto
molestia,èsforzarsi NO huomo, chenonsiaprudente,nonsipuoreggeresenzaconsiglio,nondime
noeglièmoltopericolosopigliarconsiglio,perchechidàconsiglio,haspesopiuconside
rationeall'interessesuo,cheaquellochelodomanda,anziproponeognisuopicciolo
rispetto,& fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a
importantijimodiquela l'altro,peròdico,cheintalgradobifogna,
ches'abbattaconamici fedeli,altrimenti porta pericolodinonfarmaleapigliarconsiglio,etmaleetpeggiofa,ànolopigliare.
mol tevolteinterzooquartocaso, chenonfumaiinconsideratione, e chedifficilmente
fisarebbeimaginato,chepoteseesseremolteutoltesitroua ingannato. NON
sipuochiamareinfelicevnacittà, chefioritalungamente,uieneabal Sezza, perchequestoèilfinedellecosehumane,nësipuoimputareinfelicitàlelle
resotopostoa quellalegge, cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit
tadini,a iqualihadatolafortenascerepiuprestonelladeclinationedellasuapatria,
cheneltempodellasuabuona fortuna. fono. Però Si CHI sul far giudiciodelfuturovuolpigliare-qualchedeliberatione,
comespesso calcula, latalcosaanderà,òneltalmodo, òneltale.,&
suquestodiscorsopigliail
suopartito,percheperlavarietàdellecose,edegliaccidentidelmondo,viene VR Principe, chevolessetorreilcreditoagliAstrologi,
chestampanoigiudicij vniuersalmente, nonharebbeilpiufacilmodo, checomandare,chequandosistampa
ilgiudicioloro,perl'annofuturo,fusseristampato, & appiccato conessoloroilgiudi
ciodell'annopaljato, percheglihuominirileggendoinquelloquantopoco fifienoa p
postidelpassato, farelbonosforzatinonprestarfedealfuturo,& hauendosidimenti
catolebugiedell'annopaljato, la curiosità naturale, che hannogli huominidisapere,
quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1
peròsonomolto'diuerse,äsidiscorronolecosecondiuersoocchio, sigiudicano
condiversogiudicio,& infine, l'unolemisuracondiuerfamisura dall'altro.
fareognioperapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltècominciaacre dere, chenonlovoglia
seruire; ilcontrariointrauienea chi fa larghezza disperan 2a,&di facilità, perches'acquistapiucolui,
ancorche l'efetononriesca, cosi si Dede, che chi si gouerna con arte, o perdir
meglio con qualche auuertenza , è piu grato, &
piufailfattosuo,nèprocededaaltro,senondaesserelapiupartedeglihuo
miniignorantial mondo, ches'ingannano facilmente in quello che desiderano.onesto
ma utilitario, ambi ziosoepositivo, consideratoildramma dellaruina italica, in
mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il
segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui
manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione, di
collera,discoraggiamento,dibeffardoscetticismo e anche di nobili
entusiasmi. e 2 Niccolò Machiavelli posemano aisuoi Discorsisulle Deche
diTitoLivionel1513,elifinìmoltopiùtardi: liandò leggendo negli Orti
Oricellari,circondato dalla gioventù fiorentina,che pendeva ammirata dallesue
labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto
argomento dal bisogno di o p e rare quelle cose che credeva adatte a recare
comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle
cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato
difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con
più virtù,discorso e giudizio,possa a questa sua intenzione soddisfare.Più
apertamente manifesta questo suo desiderio,concludendo:«Benchè questa impresa
sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto
questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve
cammino a condurlo al luogo destinato.'» Il Guicciar dini ne accettò l'invito e
scrisse le sue osservazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli,fermandosi a
con 1Machiavelli,nel proemio al primo libro dei Discorsi. . Il Machiavelli
tratta delle origini delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili,
i cittadini d i ventano energici ed operosi : m a se si stabiliscono in luoghi
fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male
morale portato dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi
non offre facile via alle conquiste,e per questo i Romani fondarono la loro
città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio : al ri
manente rimediarono con leggi severissime,le quali resero armigero il popolo.
Su quest'ultima parte il Guicciardini,che assaiammira l'arte militare deiR o
mani e non troppo il governo e la politica loro, os serva che Roma era bensìposta
in paese fertile,ma per non avere contado e essere cinta di popoli po tenti, fu
forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la concordia ;e questo si
discorre non in una città chevogliavivereallafilosofica,ma inquellechevo
siderare i primi due libri e appena qualche capitolo del terzo,perchè gli mancò
iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente
fra il Guicciardini e il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime
altezza e sotto un aspetto più g e nerale,abbandonandosi alla sua geniale
idealità,nello studiare l'organizzazione dello Stato ; il Guicciardini
invece,ricco di tanta esperienza,vero genio del senso pratico, nonsegue ilsuoamiconeivolipoetici,ma
si ferma soltanto a rettificare quelle idee del Machia velli a lui sembrate
erronee : in ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei
go verni. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne
studia l'indole per cercare il go verno migliore : parla dei modi di comportarsi
coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli Stati,di condurre le guerre,
dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni:ragiona sullanatura
umana,do minata dai due istinti del bene e del male. gliono governarsi secondo
il comune uso del mondo, come è necessario fare;altrimenti sarebbono,essendo
deboli, oppresse e conculcate da'vicini.'» Moltissime sono le osservazioni del
Guicciardini circa le varie specie di governo,le guarentigie da prendersi per
custodire la libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per
essere forte.” Degne di studio sono pure quelle riguardanti il
principato,ilgoverno popolare e quello degli ottimati. « Il frutto del governo
regio,così il Guicciardini,è che molto meglio, con più ordine, con più celerità,
con più segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando
dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più.» Ma
se il so vrano è cattivo, gli effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui,è
necessario farlo perpetuo,ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non
possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che
sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degli ottimati è il bene,
perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide,
come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con più
prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose
proprie e opprimono il popolo : l ' ambizione fa nascere in essi le sedizioni e
per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del
governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere
buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o
per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di
buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini
; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1
FEgli,nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del
popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e
l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che
senza comparazione il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini
distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco
distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade
più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o
di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta
; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più
qualità di loro e questi sempre desiderano abbas vi è che il popolo,per
la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e
desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato
dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati,
che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni.» Il Guicciar dini,inchinevole
più al governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare,
si di scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze :
questo è uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra
di essi.Del resto il Guicciardini reputava ottima la forma del governo misto di
principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando
indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma
presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è
quellalodatapure dal Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono
dei governi secondo le idee di Polibio, ma il Guicciardini, profondo
conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei
varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il
popolo ad impadronirsi dello Stato. sare.'> Crede il
Guicciardini di non saper bene ciò che voglia dire la questione presentata da
Machiavelli, se si d e v e p o r r e l a guardia della libertà nel popolo o ne'grandi. Se
intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo,ciò spetta,nei governi
misti c o m e quello di R o m a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che
salvarono spesso la libertà della patria. «Ma quando fosse necessario mettere
in una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco
errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più
qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole,che in una
plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male
qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. > Lo
stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere
stati i Romani meno ingrati degli Ate niesi verso iloro cittadini più
illustri.Ciò accadeva per chènellanaturadeiRomani nonfulaleggerezzadegli
Ateniesi e anche per la diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con
le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in
questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più
leggerezza e meno considerazione furono oppressi. La plebe romana trova il contrappeso
della nobiltà, poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità
quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che
icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon m
e n o b a t t u t i . Ma quando il Guicciardini vuol dimostrare che la costanza
e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe
e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento
contro il popolo : « Perchè dove è minor numero, èlavirtùpiùunita,epiùabileapro
durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più
pensieroedesame,ne'negozîpiùrisoluzione; ma dove è moltitudine,quivi è
confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî
pensieri, varî fini, non può essere nè discorso ragionevole,nè riso luzione
fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine
alle onde del mare,lequalisecondoiventichetiranovannoora in qua ora in là,
senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.' I principi e con essi i più
eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu
zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare
alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero
esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo
dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle
tradizioni del paese. Il Guicciardini soltanto in parte era di ciò persuaso ;
vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore
ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato
la gloria della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era
caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle
cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con
difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia
stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo
caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette,
ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la
difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso
1Op.cit.,pag.54,55. necessita fondare un governo
temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere
bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male
esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma
non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver
mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? Al Guicciardini,
nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di
ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono
relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti
tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società
trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva
seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare
l'armonia dei varî interessi. M a , ripetiamo, egli accordava al popolo una
piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi
urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue
leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non
cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione sul capitolo X V I ,
già da noi ricordata,ilGuicciardini mostra la differenza fra l'in dole sua e
quella del Machiavelli, il quale assicurava che in Roma antica non si poteva
trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare ifigli
diBruto.IlGuicciardini,rispondendogli,riconosce la
necessitàdituffareasuotempolemaninelsangue, tuttavia fa voti perchè « non
desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini
contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la
severità ;perchè se bene è necessario in 1Op.cit.,Considerazione sul
cap.XVI. simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato meglio non
avere avuto necessità, e che Bruto non avesse figliuoli, che averne per avergli
ammazzare.'> Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi, si
discute,dal Guicciardini e dal Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di
ringagliardire la repubblica,ma a n c h e il principato . Se un principe,
secondo il Guicciardini, si trova di fronte a un popolo che ami la li
bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di qualità, che
siano potenti a opprimere il popolo, ovvero, co l battere e annichilire il
popolo di sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità
che non abbino a avere causa di desiderare la libertà? » Così , senza parere,
egli sembra accostarsimoltoalleidee di Machiavelli, ma tosto cerca di rendere
meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia
animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì
prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di stabilire
le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per regola
assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo e
rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a fondare
una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo ad
ammazzare ilfratello.A luirisponde ilGuicciardini: «Non è dubbio che uno solo
può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città
disordinata merita laude,se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la
vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. M a è da pregare Dio che le
repubbliche non abbino necessità diessereracconcepersimilevia,perchè gli animi degli
uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la
tirannide.> Inoltre « bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di
Romolo,ilquale,sebbene mi ricordo,sidubitò non fosse ammazzato dal senato,per
arrogarsi troppa au torità.'> E mentre il Machiavelli entusiasmato parla
della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera,
senza lasciare lo Stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo,
ecco il Guicciardini interromperlo e osservare che « questi pensieri che i
tiranni deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la
loro posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e
nelle immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto.”»
Ammette,col Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda
mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate
e suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del M a
chiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda
gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino.
Dimostra il Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude
che con la forza ;m a il Guicciardini osserva : « Se lo scrittore chiama fraude
ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la
conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto,
ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama
fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro
procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni
e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno,di questi Cesare,che di
cittadino privato con altre arti che di fraude si 1Presuppone il Machiavelli
che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re
pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per
necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la
maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha
altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che
ci porge lanatura,da doversipiùprestochiamaremostroche uomo.È
adunqueogniuomoinclinatoalbene,ma, essendo la natura sua fragile, può essere
deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal
l'avarizia:leleggisidevonofareinmanierada impe dirgli di fare il male di cui
sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene il
Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento : il Guicciardini
talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della
morale, m a di un ben inteso interesse. Il Machiavelli sostiene che nel mondo
fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i condusse a
tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare . .
. . M a ,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono
istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di
molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione
di con seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è
necessario per riuscire ad un buon fine, però il Guicciardini non accetta in
modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua
indole, molto più pratica,se si para gona a quella del Machiavelli ; più
sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non
conduce alla meta agognata. 1 O p . C o n s i d e r a z i o n i a l p r o e m i
o d e l l i b . I I , p a g . 6 0 , 6 1 . luoghi, la qual cosa
equivale a dire che sempre nella umana famiglia il bene e il male si
equilibrano. All’incontro il Guicciardini, con mirabile penetrazione, e v o
cando dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e a n che riconoscendo che
l'antica non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che
la somma del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli
esempî : « Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de'Greci e poi
de'Romani la pittura e la scultura , e quanto di p o i r e s t a s s i n o
oscure in tutto il mondo ; e come dopo essere state sepolte per molti secoli
siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa
quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie
la disciplina militare, della quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e
avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri
vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere, della religione, che senza
dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti
luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di
guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ; dalle quali variazioni delle
arti, della religione,dei movimeti delle cose umane,non èm a raviglia siano
anche variati i costumi degli uomini, i quali spesso pigliano il moto suo dalla
istituzione, dalle occasioni,dalla necessità.?» Pel Guicciardini è
indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando viene usata come
elemento di forza nello Stato, e ad esso sottomessa : tuttavia non condivide
col Machiavelli l'opinione che iRomani abbiano dovuto alla religione una sì
gran parte della loro potenza, e dimostra avere le armi maggiormente
contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla
religione dei Romani si collega
Op.cit.,Considerazioni al proemio del lib.II,pag.60,61.
Op.cit.,pag.26,30. e e 2 particolare circa l'influenza del papato
suide- '. stinid'Italia,in cuiidue eminentipensatorihanno punti di contatto e
altri che li dividono. Afferma il Machiavelli avere la Chiesa cattolica di Roma
tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un
capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta
disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun
quel'assaltasse.IlGuicciardinirisponde:«Non si può dire tanto male della corte
romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti
i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza
della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se
il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di questa
nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le sofferte
calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e vera,poichè
se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie regioni, in cui
si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei comuni, che creò
tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività umana, nei com merci
e nelle industrie,preparando gli splendori della Rinascenza,che furono fiaccola
alla civiltà del mondo . Il Guicciardini rimaneva ad osservare la realtà delle
cose che aveva d'attorno e non voleva seguire ilM a chiavelli,che lanciava il
suo guardo di aquila oltre i confini d'Italia, a osservare il formarsi delle
nazioni unitarie , giovani e forti, aventi un vivo sentimento patrio. Secondo
il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e debole,non poteva difendersidalle
loro cupidigie d'in grandimento, e già cadeva sotto i loro colpi brutali,
mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure avrebbe potuto
divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed
ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità. Nella quistione
sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agitò Roma e Firenze,non vanno
d'accordo. Il Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze furono esiziali
alla città, perchè la vittoria del popolo porto larovinadeigrandi:quellediRoma
inveceriesci rono di grandezza allo Stato,perchè ilpopolo,rima sto a combattere
sulla via della legalità,si accontentò di rivendicare isuoi
giustidiritti;e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il governo. A queste
giuste e originali osservazioni risponde ilGuicciardini,e com batte la maniera
assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata questa
distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà degli
onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le quali non
possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero dannose,sebbene in
qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare
le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per la bontà del
rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione di
uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per
impadronirsi del governo,ilGuicciardini dice come Appio Claudio fu rovesciato
dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere ilpopolo,mentre doveva
fare altrimenti, m a perchè tentò di rovesciare la repubblica, la quale era
allora governata da ottime leggi,piena di santis simi costumi e ardentissima
nel desiderio della li bertà.Manlio Capitolino,sebbene procedesse contro il Senatoconartemeramentepopolare,purefuop
presso dal popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà.
Silla occupò la tirannide a Roma elastabili conl'aiutodellanobiltà;ilDuca
d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe
mantenersi fedeli per la sua imprudenza e leggerezza. Cesare si fece signore di
Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti
esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. « I partiti non si possono
pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori
della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e
altre oc correnze che girano.'> Secondo il Guicciardini chi ha seco la
nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua
parte ha più seguaci, ma la potenza sua è meno sicura, per il mutarsi degli
umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono
lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli
di una tirannide, è dal Guicciardini trovato giusto. Però,egli dice con rettitu
dine,non bisognaconfonderegliesempî,perchè qual che volta può darsi che le
forme della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di
discordie civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi
altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la cerca.Mentre è detestabile
in Cesare,pieno dialtavirtù,ma oppressodall'ambizionedeldomi nare : accade pure
al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si
desidera la m u tazione dello Stato. Il Guicciardini,quando siferma a meditare
sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con
quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente
ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana
così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti
delsecoloXV,nonlatoccanonemmeno. Egliguarda soltanto ai caratteri della
politica romana,e,contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata disciplina
militare, Roma ebbe un governo in molte
partidifettoso,come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le
azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli, anche
togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare
dell'autorità senatoria uomini onorandicome Mamerco Emilio. Eglièpuredelpa rere
del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi
volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati
eseguitocoire. Mailfondamentodeimalifulacor ruzione della città,la quale,datasi
all'avarizia,alle delizie, era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne
nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si
viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione
degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte
volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che « se non fussino state le pro
lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la
repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via,essendo la
città corrotta? » Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici
fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in
disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra,ilMachiavelli sostiene che
si deve fare col ferro e non coll'oro :ibuoni sol dati soltanto sono il nervo
della guerra e non l'oro: occorrono certo I danari,ma insecondoluogo,essendo
impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Il Guicciardini, che si
attiene alla vita reale del se coloXVI,incuinonc'eranoarmiproprie,se si eccettua
il tentativo fatto in Firenze sotto il gonfaloniere Pier Soderini, per impulso
generoso del Machiavelli ;CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI.
33 ilGuicciardini, ilquale era stato governatore di pro vincie, commissario
generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e delle milizie,
che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano sin anche la
patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per esperienza che
occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone fortezze. Del
resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra, non intende che
i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî dei soldati,
perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro intese « che chi
faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che senza quelli era
impossibile a sostenerla, perchè non solo sononecessarîperpagareisoldati,ma per
provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si
adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha
pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito
scarso a danari con la virtù sua e col favore delle vittorie li
provvede,nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni
casoeinognitempononcorronoidanaridietroagli eserciti, se non da poi che hanno
vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle
armi da fuoco,che ilMachiavelli, per stare troppo attaccato all'esempio dei
Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili.
Il Guicciardini lo riprende con ragione e dice : « Non si deve lodare tanto
l'antichità che l'uomobiasimituttigliordinimodernichenon erano in uso appresso
a'Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon considerate
dagli antichi,e,peressereinoltreifondamenti diversi,con vengono o sono
necessarie a una delle cose che non Op.cit.,pag.61,62. 1 3 ZANONI.
convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se
iRomaninellecittàsudditenonusaronoedificarefor tezze,non è per questo che erri
chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile
avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze
danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri
vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza
guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si
debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a
essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina,perchègliuomini, sotto
fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che
fanno infermare ? ' Certo si deve deplorare che queste fortezze il Guic
ciardinilestimasseutilisoltantoaiprincipiper guar darsi dai popoli,desiderosi
di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso
questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del
l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle
stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile
conflitto.IlGuic ciardini, come uomo di Stato, supera d'assai il M a chiavelli,e
bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai
Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito Livio,nelle quali,
colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre il lato debole
dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i ragionamenti
poetici ed entusiastici,mettendone a nudo ora la fallacia, ora la indeterminata
incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una figura che
possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia Op.cit.,pag.70,71.
mancato al Guicciardini per continuare il suo esame intorno ai discorsi del
Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato maggior
mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte
a quello idealista del se gretario fiorentino.Francesco Guicciardini. Guicciardini.
Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Guicciardini: l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzi – la lingua inaudita, la lingua inaudibile, la lingua audita -- (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue
– with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al
Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio
Montale. La poetica di Guzzi, fin dall'inizio, si è concepita come
un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza,
sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al
nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di Guzzi ha affrontato, in
particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato
"La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento
epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e
fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina, Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico,
Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca, Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella
mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline, Saggi di filosofia e di religione La Svolta,
Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio,
Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La
profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità,
Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine
all'inizio, Paoline, Dodici parole per
ricominciare, Ancora Il cuore a nudo,
Paoline, Buone Notizie, Ed. Messaggero Imparare ad amare, Paoline L'Insurrezione dell'umanità nascente,
Edizioni Paoline, Fede e Rivoluzione,
Paoline Il profilo dell'Uomo di Dio,
Paoline Alla ricerca del continente
della gioia, Paoline “Dizionario della
lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with
‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his
dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua
inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzo – pagine di filosofi per i giovani italiani – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I admire Guzzo; he founded
‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected
‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on
“Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic
philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says
it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e
Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo
di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo.
Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”;
“Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo”
(Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”;
“Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccan. AUQUSTO GUZZO L’ISAGOGE
DI PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO EDIZION, TORINO I DE
“L’ERMA L’ISAGOGE DI PORFIRIO E I
COMMENTI DI BOEZIO TORINO EDIZIONI DE
“L’ERMA,ESTRATTO DAGLI Annali delV Istituto Superiore di Magistero del
Piemonte. Voi. VII XII TORINO
- L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio
SOMMARIO 1. Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. —
2-5. Questioni su le Categorie. — 6. L’Isagoge. Il prologo. — 7-9. Il
primo commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. Il secondo commento di
Boezio. Le cinque voci. Il genere. La specie. 16. La differenza. La
qualità. L’accidente. Quel che hanno di comune le cinque
voci.Comparazione del genere con le alti e quattro voci. Comparazione
della differenza con le altre quattro voci. Comparazione della specie con
le altre quattro voci. — 23. Comparazione della proprietà con le altre
quattro voci. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. Il
primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque voci. Il dialogo
premesso al primo commento di Boezio. Divisione della filosofia. Il secondo
commento di Boezio. Conclusione.Queste esposizioni di antichi testi molto
famosi ma poco letti co- stituirono l’argomento del corso di Pedagogia da
me professato nell’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte nell’anno
accademico 1927-28. Volevo dare una conoscenza possibilmente precisa di
quel che era l’istruzione c la cultura nell’alto medioevo : ed esposi i
testi che in quei secoli erano più meditati lumeggiando, di scorcio,
anche lo sfondo d’idee su cui sorse più tardi, sui primi periodi
déìVIsagoge, la disputa degli universali.
Porfirio, che è autore della celebre « Isagoge, o In- troduzione
alle Categorie di Aristotele » , è anche autore di un meno noto
Commentario alle medesime Categorie. Sarà utile studiare almeno la prima
parte, cioè la parte introduttiva di tale Commentario: forse si troverà
in essa la spiegazione del punto di vista dal quale si pone Porfirio
nella « Isagoge » . Questo Commentario ci è pervenuto mancante
delPultima parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e
i post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte
precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato del secolo XIII, in
un codice della Marciana del secolo XV, in uno delPEscuriale del secolo
XVI, in uno parigino dello stesso secolo XVI, in uno della Laurenziana
del secolo XV. E' però dimostrato che di tutti questi codici il primo, da
cui tutti gli altri dipendono direttamente, è quello modenese.
Di sul codice parigino il commento fu stampato a Parigi nel 1543 «
apud Jacobum Bogardum ». Su questa edizione, che è Pedizione principe,
del Commentario, fu condotta la versione latina di Feliciano, stampata in
Venezia « apud Hieronymum Scotum ». L’ « edizione critica » è del 1887, e
si deve alle cure logica che, ad esporli, si può tutt’al più
riescire chiari; ma avviciuarli alla comune cultura può forse essere
utile. Anche questo corso, che era rimasto inedito, va messo tra i lavori
da me preparati per l’Istituto Supe- riore di Magistero del Piemonte. Mi
sia permesso enumerarli : Apologia dell’idealismo (Discorso inaugurale
dell’anno accademico 1924 25), Torino, Paravia, 1925; Introduzione e
Commento al i^edone di Platone, Commento alla Repubblica di Platone,
Agostino: dai Contra Academicos al De Vera Religione^ Firenze, Vallecchi,
1925; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro- duzione, Commento e
Appendici, Firenze, Vallecchi, 1926; Tommaso d’Aquino, Il maestro,
Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze, Vallecchi, 1927; Giudizio e
azione, Venezia, «La Nuova Italia», 1928; Agostino e il sistema della
grazia, Torino, «L’Erma», 1930 (1934®); Il concetto di individuazione e
il problema morale (Discorso inaugurale del- l’anno 1930-31), Torino, «
L’Erma », 1931; La « Summa contra Gentiles », Torino, « L’Erma », 1931 ;
I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma », 1932. di Adolfo Busse, nell’edizione dei commenti
greci ad Aristotele, promossa dall’Accademia Prussiana (Voi. I, pars. I «
Porphyrii Isagoge et in Aristotelis Categorias commenta rium edidit
Adolfus Busse. — Berolini, Typis et impensis Georgii Reimer).
Il Commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in londo,
un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non hanno alcun
rilievo ; la « domanda » parte da uno che non sa e chiede spiegazioni :
la c Risposta » enuncia, evidentemente, la soluzione che Porfirio crede
si possa e si debba dare alle varie questioni. Le quali se, da un certo
momento in poi, riguardano il più giusto significato da attribuire alla
lettera del testo aristo- telico, prima vertono su problemi che investono
rimpianto stesso del piccolo scritto aristotelico. 2. --
Prima questione. — « Categoria » in greco vuol dire € accusa », «
denunzia ». Come mai Aristotele chiamò Categorie l'essenza, la quantità,
la qualità, ecc.? La risposa è che il filo- sofo, costretto talvolta a
coniar parole nuove, tal’altra a dare un significato nuovo a parole
consuete, adoprò la parola « Cate- goria » per indicare le « espressioni
enunciative delle cose » (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv
TUpaYixatcov xat- YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice
espi*essione enunciativa, quando sia pronunciata e detta della cosa
enunciata, si dice categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è
questa pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo:
«questa è pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma, giacché indica
la cosa e vien detta di essa. 3. — Seconda questione. — Aristotele
chiamò il suo scritto « Categoi'ie » o, come altri, « Le dieci Categorie
» ? Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello
scritto quanto gli altri : « Prima della Topica », « dei generi
dell'essere » « dei dieci generi > . Non « Prima della Topica »
perché in tal caso sarebbe stato più esatto dire «Prima degli
Analitici», anzi « Prima deU’interpretazione » : chè il libro delle
Categorie è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della
filosofìa, E piuttosto sarebbe < Prima della parte fisica della
filosofia » . anziché « Prima della Topica » : chè è opera della natura «
l’es- senza, il quale e simili » . Nè lo scritto potrebbe in
nessun caso intitolarsi « Dei generi dell’essere » o « dei dieci generi »
« perchè gli esseri e i loro generi e le specie e le differenze sono cose
e non voci » : e invece Aristotele, enumerando le dieci categorie,
l’essenza, il quale, il quanto e le rimanenti, dice: «ciascuna delle
dette si dice per sé stessa, non per attribuzione, mentre
l’attribuzione, 0 affermazione, avviene mediante connessione di esse tra
loro ». Or se è la connessione delle categorie quella che dà luogo
alle asserzioni, e se le asserzioni consistono in voci indicative e
discorsi dimostrativi (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), lo
scritto aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè in
generale le cose: chè non la connessione delle cose costi- tuisce
asserzione, bensì la connessione delle voci significative che indicano le
cose. E Aristotele stesso dice: « ciascuna delle categorie
dette senza alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto »,
con quel che segue. Ora, se Aristotele parlasse di cose, non
direbbe « significa l’essenza », chè le cose non significano, bensì
sono significate. _ Ciò che significa è la voce, la parola:
di voci, di parole dunque, tratta Aristotele nelle Categorie.
Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, sarà
chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto proprio
del libro. Quale è dunque il contenuto proprio delle
Categorie? Porfirio risponde rifacendosi di lontano.
• L’uomo - egli scrive - giunto a indicare e significare le
cose circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con
questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fece delle parole fu
rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci e di parole; col quale
riferimento delle voci alle cose questo chiamò sedile, quello uomo,
quell’altro cane e quell’altro sole: e ancora questo colore chiamò
bianco, quello nero; e questo chiamò numero, quello grandezza ; questo
due cubiti, quello tre cubiti; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e
nomi signifi- cativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della
voce. Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune
parole, Tuomo, passando ad una seconda impresa e riflettendo sulle parole
stabilite, quelle che si uniscono agli articoli chiamò nomi, e quelle
come « io passeggio, tu passeggi » chiamò verbi. Di modo che, se nella
prima imposizione » di nomi questo chiamò oro e quello sole, nella
seconda la voce < oro » chiamò nome e la voce < passeggio »
verbo. Ora il contenuto delle Categorìe d’Aristotele è
precisamente il primo stabilimento delle parole, quello che mostra le
cose: giacché studia le voci significative semplici, in quanto
signifi- cative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra
individual- mente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose
che significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appar-
tengono. Ora l’infinità degli enti e delle parole che li significano si
lasciano ridurre a dieci generi: giacché dieci sono le diffe- renze di
genere degli enti, e dieci anche le voci che le indicano. Ma questo fatto
che le voci, simili a messaggere, prendano le differenze dalle cose che
annunziano, non toglie che la ricerca principale sia, nelle Categorie^
intorno alle voci significative, e non intorno alle differenze di genere
degli enti. Dieci sono i generi delle parole in quanto
significative di cose: ché significano o l’essere (la sostanza), ó la
quantità, la qualità, la relazione, ecc. (i nove accidenti della
sostanza). Due, invece, sono le parole che significano il tipo a cui
appartengono ; giacché tutte le voci sono di due tipi: o nomi o
verbi. Alla quale seconda ricerca - grammaticale, non logica,
diremmo noi > appartiene anche distinguere la espressione propria
dalla metaforica e dagli altri tropi. Presentata cosi la
ricerca delle Categorie come una ricerca nè metafìsica, nè grammaticale,
nè retorica - non metafìsica perchè secondo Porfirio, è incidentale il
riferimento ai generi delPessere, essendo Pattenzione rivolta ai generi
delle parole significative, in quanto appunto significano questo o
quello; non grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si
distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione
tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che
signifi- cano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. - Porfirio
osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca delle
Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del linguaggio, e
gli antichi dicevano di logica, comunemente iden- tificando col pensiero
la sua significazione verbale, si schieravano tanto quelli che ritenevano
oggetto principale delle Categorie la ricerca metafisica intorno ai
generi dell’essere, quanto quelli che. credendo oggetto delle Categorie
la ricerca retorica delle espressioni proprie e delle figurate, ritenevano
la distinzione aristotelica delle Categorie o insufficiente o
incomprensiva o, al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per
esempio, i seguaci di Atenodoro e di Cornuto, studiando le
espressioni proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie
esse appartenessero, non trovando nello scritto aristotelico
risposta a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa
Penumerazione aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci
significative. Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto
d’Ari- stotele Poeto nel suo commento alle Categorie, e più
brevemente Erminio. Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli
che in natura sono i primi e generalissimi generi (che non sarebbe
insegnamento adatto ai giovani), nè studia quali siano le prime ed
elementari differenze delle parole, come se la trattazione riguardasse le
parti del discorso; ma piuttosto verte sulla spe- cie di parole che
risulti appropriata a ciascun genere di enti: onde fu necessario toccare in
qualche modo dei generi, a cui le parole si riferiscono : chè non si
intenderebbe la significazione propria di ciascun genere se qualcosa
intorno ad esso non s’an- ticipasse. Poiché dieci sono i
generi, dieci sono le categorie. E si potrebbe magari anche intitolare lo
scritto aristotelico Dei dieci generi » se con ciò si significasse solo
un riferimento ai dieci generi, giacché non di essi si occupa
principalmente il libro. 5. — Quarta Questione. — Perchè il libro
verte su le « Cate- gorie > e s’inizia con una trattazione su gli
omonimi e i sinonimi? Perchè queste sono distinzioni delle
quali Aristotele deve fare uso in tutto l’Organo: perciò le premette ad
ogni altra considerazione. Tralasciamo, ora, il seguito del
Commento Porfiriano; ma ci gioverà aver visto come Porfirio intendesse
quelle Categorie alle quali s’assunse lo storico compito di « introdurre
» . 6. — La celebre « Isagoge » di Porfirio tratta del
genere, della differenza (che, entro ciascun genere, distingue
l’una dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che
caratte- rizza ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente
(che, senza essere intrinsecamente « proprio » d’una sostanza, le
si attaglia in talune circostanze). La trattazione del genere
è, però, preceduta da una famosa introduzione, nella quale Porfirio si
rivolge a Crisaorio, patrizio romano suo discepolo, dicendo:
« Poiché, 0 Crisaorio, è necessario anche per la dottrina « aristotelica
delle Categorie, sapere che sia genere e che diffe- « renza, e che sia
specie e che proprietà e che accidente; « siccome e per assegnar le
definizioni e in generale per quel « che riguarda la divisione e la-
dimostrazione è utile l’indagine « di tali cose: io, facendo per te una
compendiosa trattazione, < tenterò brevemente, come a mo’ di
introduzione, di spiegare « il pensiero degli antichi, astenendomi dalle
ricerche, più € profonde e investigando, invece, opportunamente le
più « semplici » . Le ricerche più profonde, da cui Porfirio
professa di astenersi, riguardano la realtà dei generi e delle specie, in
una parola degli universali. Difatti Porfirio continua: «
Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece c stiano solo
nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi « 0 incorporei, e se
separati o esistenti nei sensibili e non « fuori di essi, io eviterò di
dire, profondissima essendo questa « questione e richiedendo essa altra
maggiore ricerca » . Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà
a cercare d’esporre a Crisaorio ciò che gli antichi meditarono intorno
a questi argomenti, e tra essi specialmente i Peripatetici.
Porfirio, dunque, tratterà dei generi e delle specie senza
determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici concetti,
esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto suo, per quale di
queste dottrine propende? Grià si è visto che egli considera
generi, specie e differenze « cose, non voci » e che, in generale,
ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro ragion d’esseie in
altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno espressione. Per
Porfirio dunque, generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude
alla Logica aristotelica trattando di essi, in fondo egli ridà alla
Logica d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta
diretta a distinguere generi e specie e valida, nel pensiero di
Platone, tanto oggettivamente, come metafisica, quanto
soggettivamente, come logica. Questo punto di vista
realistico da cui è scritta l’intera < Isagoge » non sfugge,
nonostante tutto, al commentatore Boezio, il quale torna sulla importante
questione cosi nel primo come nel secondo dei suoi commenti
all’Isagoge. È noto che i due commenti son diversi tra loro in
quanto il primo si dirige ai principianti e quindi evita le
discussioni troppo complicate e sottili, il secondo, invece, vuol indurre
i discepoli già provetti a una ginnastica mentale adatta alle loro
‘forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che la «
questione degli universali » — giacché ormai di essa si tratta — sia
impostata diversamente nei due commenti, sebbene la trattazione giunga a
risultati assai affini. 7. — Il primo commento di Boezio giunge a
interpretare il prologo deirisagoge solo al decimo capitolo, e mostra
chiaro lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e dimostrazioni
più semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed
afferrarle. In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni: 1)
- se generi e specie esìstano davvero o stiano solo neirintelletto e
nella mente; 2) - se siano corporei o incorporei; 3) -
se siano separati o uniti con i sensibili. Rispetto alla prima
questione « se generi e specie esistano davvero, o stiano solo
nell’intelletto e nella mente », Boezio sembra interpretarla in un modo
che forse non coincide inte- ramente con ciò che intendeva Porfirio.
Questi, forse, intendeva domandarsi: generi e specie sono idee
platoniche, cioè enti, o invece concetti aristotelici, cioè universali
puramente mentali nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee
platoniche, si intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se
invece sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente,
a forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.
La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti plato-
nicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in re essi
esistono, ma intimi alle stesse cose particolari ? Se questo è ciò
che intende domandarsi Porfirio, si capisce come egli preferisca
rimandare questa controversia prò Platone 0 prò Aristotele a un momento
in cui il suo discepolo Crisaorio sia già innanzi negli studi filosofici.
Ma Boezio intende la que- stione in maniera assai diversa. Egli non
intende i generi e le specie se non come universali mentali post rem,
come con- cetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la
sensazione: per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus)
intel- legit Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le
specie ed i generi: et ex bis (le cose sensibili) quadam
speculatione concepta, viam sibi ad incorporalia intellegendapraemunit,,.
Così, quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto
uomini, sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito
sale a discernere la stessa specie « uomo », incorporea perchè non
si concepisce che con la mente e rintelligenza. Ma, come movendo
dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incor- poree,
così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva a immaginarsi,
per esempio, i Centauri, la cui fallace imma- gine si compone di elementi
della forma umana ed elementi della forma equina. Or si domanda: generi e
specie sono con- cepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo
giusta- mente ricavandola dai singoli uomini coi'porei, o invece
sono immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla
Orazio nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cer- vicem pictor
equinam iungere si velit » ? Come si vede, Boezio non crede che la
domanda di Porfirio sia rivolta a sapere se gli universali siano reali o
puramente mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni
delPimma- ginazione. Il che significa porsi già su terreno
prettamente aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gli
uni- versali post rem siano rettamente pensati o fallacemente imma-
ginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni e
chimere. La risposta che Boezio dà a questa domanda è, se non er-
riamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi e le
specie « sono veramente»: «difatti, come tutte le cose che veramente sono
senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che
anche queste cinque son concepite con verità (vere intellectas) » . Che è
una strana maniera di presupporre gli universali reali nelle cose
sensibili, quando proprio la domanda è se gli universali siano reali o
fallaci- Per Boezio generi, specie, differenze, proprietà, accidenti,
queste cinque distinzioni nelle cose sono « conglutinatae et
quodam- modo coniunctae atque compactae ». Difatti, perchè
Aristotele parlerebbe delle prime dieci espressioni (sermonibus)
signifi- canti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro
diffe- renze e proprietà e toccherebbe degli accidenti, se non li
avesse visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti ( <'
in rebus intima et quodammodo adunata » ) ? In base a questa
argomentazione Boezio conclude che « se è cosi, non c’è dubbio che siano
veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con giusta riflessione
(«certa animi consideratione >). Ma si vede chiarissimo che
Boezio dà per certa e dimo- strata la concezione aristotelica degli
univeisali come forme immanenti nelle cose particolari, onde conclude che
lo spirito, pensandoli, è nel vero e non neirerrore delle pure
finzioni immaginarie. Ma se la questione era per Porfirio se gli
uni- versali fossero reali o puramente mentali, e per Boezio se
fos- sero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la
questione porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con
Tappel- larsi alla concezione aristotelica di universali reali nei
parti- colari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo
è un affermare il temperato realismo aristotelico, non un l isol-
vere la questione con un procedimento dimostrativo. Boezio presuppone
dimostrato Taristotelismo per decidere in senso aristotelico e su V
autorità di Aristotele la questione da lui posta. Senonchè
Boezio trova un’altra conferma realistica- della sua opinione
nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio. Giacché, egli
dice, Porfirio, come se già fosse risaputa e pro- vata la realtà degli
universali, domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda
sarebbe troppo frivola e assurda se non si fosse prima assodata, per gli
universali, quella realtà che ora si domanda se sia corporea o
incorporea. Ma anche qui forse Boezio, neirinterpretare Porfirio, va
lontano da quello che egli intendeva dire. Porfirio forse domandava: —
generi e specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso
platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può ad essi
attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire, se reali, nel
senso platonico, sono separati: se meramente men- tali, non possono
concepirsi che immanenti nei corpi, congiunti con essi e da essi
inseparabili, tranne che per astrazione nel pensiero umano.
Se questa che qui proponiamo fosse una interpretazione plausibile
del celebre prologo porfiriano, le domande ivi contenute in realtà non
sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono reali, o mentali? vale a
dire, sono incorporei, o esistono nei corpi? cioè, sono separati, o
intrinsecati nei corpi e da essi inseparabili ? Ma Boezio le
intende come tre domande, ciascuna delle quali presupponga già risolta in
un determinalo senso le precedenti. Difatti, egli dice: solo se alla
prima domanda « se gli universali siano reali » si risponde
affermativamente, si può poi domandare se esistano come corpi o come
incorporei ; e parimenti, solo se a questa domanda si risponda affermando
Tincorporeità degli universali, si può domandare se, essendo incorporei,
esistano separati dai corpi o siano da essi inseparabili. 8.
— Rispetto alla seconda questione « se gli universali siano corpi 0
incorporei » Boezio tratta separatamente il genere dalla specie.
Quanto al genere egli dice, « quia incorporeorum prima natura est»,
può una cosa incorporea essere madre di una corporea, ma non viceversa,
giacché, la sostanza essendo il genere, e corporale e incorporale le
specie, il genere non può essere corporale, chè, se fosse tale, la specie
incorporea non potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere
non deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per
specie così il corporeo come Tincorporeo. (E qui Boezio solleva una
questione di grandissima importanza. Se il genere non può avere nessuna
delle determinazioni che costituiscono le proprietà delle specie e le
loro reciproche differenze, donde nascono nelle specie queste differenze
che nel genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? - Non si
può pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della
ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse- dere in
sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che, per poter dare
luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie, il genere non abbia nè
Buna nè Taltra delle due differenze specifiche: non sia nè Tuna nè
l’altra specie, pur contenendole entrambe « vi sua et potestate » .
Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente
aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue specie,
senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui il caso di
saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile tentativo di
spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del nascere delle
differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia non ancora reali,
giacché sono potenziali, virtuali). Si è visto dunque che per
Boezio il genere non è nè corporeo, nè incorporeo : il che significa, su
questo punto, non rispondere alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad
essa. E la ragione di tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che
convinto che gli universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende
ad affer- marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali
sono semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto
con Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura,
prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera- mente
logica e non metafisica degli universali come concetti e non come idee, a
pensare il genere come privo delle determinazioni che saranno proprie
delle specie: a costo di non sapere più d donde derivino alle specie
queste differenze, che sono estrai alla sola fonte delle specie che è il
genere. Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale
presei delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà:
( inoltra nella considerazione meramente logica del genere co
semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi scolastiche
dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ] Platone, il genere era
pregnanza di realtà o idea. Quanto alle specie Boezio ne ammette di
corporee e di ine poree: specie corporea Puomo; incorporea: Dio.
Parimenti le differenze: «quadrupede» è differenza cor rea ; <
ragionevole * differenza incorporea. Cosi anche le proprietà:
corporee di cose corporee; ine poree di cose incorporee. E lo
stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s ritolascienza:
accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres Insomma per
Boezio, solo il genere è neutro, nè corpor nè incorporeo: ma le specie,
le differenze, le proprietà e accidenti sono corporei se appartengono ai
corpi, incorporei appartengono allo spirito. Senonchè, in
questa teoria, lo stesso Boezio, che non potuto riconoscere incorporeo il
genere per la sua conside zione meramente logica di esso, ammettendo
corporee le spe( le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose
corpor rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi
meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr secate nelle
cose singole, ma fatte una cosa sola con esse, da ricevere la loro stessa
natura. Torna, bensì, a una considerazione meramente logica
de distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos una
seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo altrui. Secondo
questa teoria il genere va considerato coi genere, come pura
determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere
considerata come una sostanza, ma come un genere, cioè come qualcosa che
ha delle specie sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo
saranno specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure
specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Pari • menti le
differenze: bipede e quadrupede sono differenze in quanto Puno
contrapposto all’altro : vanno, dunque, considerati non come un bipede e
un quadrupede, ma come pure differenze logiche. Similmente le proprietà
non vanno considerate nel loro contenuto, ma come pure caratteristiche
logiche della specie. Così intesi, generi, specie, differenze e
proprietà, come pure distinzioni logiche, non possono essere, secondo la
teoria che Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre
gli accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb-
bero quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze. Sia qui
notato subito che questa affermazione metafìsica della incorporeità di
quattro fra le cinque distinzioni porfiriane proprio perchè distinzioni
meramente logiche, è una afferma- zione cosi male impostata da non poter
resistere alla più sem- plice critica. Come semplici distinzioni logiche
esse non hanno nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata
natura, non esse: nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e
ragionevole, ma € la specie » nè corporea nè ragionevole. Affermare
quindi la incorporeità della specie come distinzione logica, come
con- cetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna
considerarla come idea, come ente metafìsico, non come determinazione
lo- gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammis-
sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e tra
logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella ti'adizione
aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non sareb- bero
più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: in- vece
continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei, primi per
natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono che vuoti termini
classifìcatorii. Ma Boezio continua a esporre la teoria della
incorporeità delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali
sostengono tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il
quale, come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi,
delle differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose
sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare se siano
disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. Boezio, in- vece, dà
tutt’altra interpretazione a questa domanda porfiriana, in quanto la
intende come se suonasse: «gli universali sono sempre separabili dai particolari
sensibili, o a volte inseparabili?», e però non gli sembra che la domanda
porfiriana presupponga, come se già fosse risaputa e dimostrata,
l’incorporeità di tutte le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto
pure determina- zioni logiche. 9. — Egli passa perciò a
interpretare direttamente la terza domanda, lasciando da parte la teoria
della incorporeità dei concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro
titolo di infor- mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per
lui, dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si
domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o pos- sano a
volte disgiungersene. Boezio, per chiarire la domanda porfiriana,
distingue tre specie di cose incorporee: 1) — Cose incorporee
affatto insuscettive di corpo, come lo spirito e Dio; 2) —
Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come lo spazio vuoto che è
immediatamente oltre i termini di una figura geometrica ; 3)
— Cose incorporee che sono corpi e possono essere senza corpo, come
l’anima. Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di
quegli incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che
mai non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uni-
scono, a volte si separano. La risposta di Boezio è che possono
congiungersi e possono separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti
a corpo, nelle incorporee disgiunti da corpo. Ma non bisogna
credere che tutte le specie, le differenze, le proprietà, ecc. siano
congiungibili o disgiungibili dai corpi; al contrario quelle delle cose
corporee sono inseparabili da tali cose corporee, come lo spazio è
inseparabile dai corpi che limita; e quelle delle cose incorporee, come
le proprietà dello spirito non si trovano che nello spirito, che è
perfettamente separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci
sono due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee
sono per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero
considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le corporee e le
incorporee come tra loro coordinate, e le subordina entrambe ad un genere
nè corporeo nè incorporeo, che avrà magari in sè la potenza delle une e
delle altre, ma che intanto, così astratto e sopraordinato ad esse, è il
vertice di una clas- sificazione logica da scuola, non la genesi del
reale. 10. — Nel secondo commento di Boezio le domande di
Porfirio sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è
diversa la trattazione. Le questioni « et perutiles et
secretae, et temptatae quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutae»,
non trattate ancora da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore
impreparato, ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato
dal sapere, sappia che domandare, sono da Boezio formulate così :
1^. Lo spirito 0 , con Pintelletto, concepisce, afferra quello che
realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia in sé stesso;
oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé mede- simo ciò che non
esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi abbiamo del genere^
della specie, ecc. : se intendiamo generi e specie come cose esistenti
delle quali prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi ci
ingan- niamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono. 2».
Che se si ammette che dei generi, delle specie, ecc. abbiamo un vero
concetto, rimane da determinare se siano corporei o incorporei: giacché
tutto ciò che esiste deve essere corporeo o incorporeo, e non si
intenderà bene cosa siano i generi e le specie finché non si sappia se
porli tra le cose corporee o le incorporee. 3». Che, se si
ammette che generi, specie, ecc. siano incorporei, rimane ancora da
stabilire se, pur essendo incorporei, esistano nei corpi, o se invece
sembrino essere sussistenze indipendenti anche senza corpi. Giacché ci
cono due specie di cose incorporee (qui Boezio sopprime la terza specie
da lui distinta nel primo commento: quella delle cose incorporee
che a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la
fonde senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che
possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano nella loro
incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose incorporee, invece,
non possono esistere senza i corpi, come la linea, la superficie, il
numero e le varie qualità, che noi diciamo incorporee perchè non si
estendono nelle tre dimensioni, ma che esistono nei corpi siffattamente
da non poterne essere strappate o separate, o da svanire se separate dai
corpi. Come si vede, le questioni sono impostate come nel
primo commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle altrimenti:
< primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam, post vero
eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare temptabo. »
Insomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere a fondo,
contro ogni concezione platonica o aristotelica degli universali, sia
come reali, sia come concetti: poi giustifi- cherà la concezione
aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli
universali, pur non essendo reali, in natura, se non nei
particolari. Boezio scrive: i generi e le specie o sono e
sussistono, o si formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero,
ma non possono essere generi e specie. Anzitutto, generi e
specie possono essere considerati reali? Una cosa che nello stesso
tempo sia comune a più altre, non può essere una: specialmente se sia
tutta in molte contempora- neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in
tutte le sue specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per
sè una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha in
sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna delle sue
specie contemporaneamente, come può essere uno? giacché, se è tutto in più
specie, in sè non può essere uno di numero. E se non può essere uno, non
è nulla assolutamente, perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo
stesso va detto della specie. Che se si dice che la specie o il genere
esiste, ma molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo,
bensì avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella
moltepli- cità nella propria unità. E, daccapo, se questo
nuovo genere sarà a sua volta molte- plice, non uno, rinvierà ancor esso
a un altro genere: e cosi di seguito, airinfinito, senza che sia dato
trovare un genere che sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue
specie. Che se si dice che il genere è uno di numero, non
potrà essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune a
molte, ma solo in uno di questi tre casi: 1) — che ciascuna sua
parte si applichi ad un particolare diverso: sicché il genere non stia
tutto in ciascuna specie, ma in ogni specie una sola parte del genere;
2) — che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché, ma
l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. (Esempio : più
persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce che non
possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una prima, Taltra
dopo); 3) — che qualcosa sia comune a molte persone, ma senza
costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro è luogo comune a tutti
gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune ad essi
tutti). Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle
tre forme ora dette : giacché deve essere tutto in ciascuna specie,
deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi- tuire
Tessenza delle specie a cui è comune. Ora, se il genere non è nè
uno (giacché è comune), nè molte- plice (giacché, se fosse tale,
richiederebbe un genere ulteriore), il genere non è per nulla. E lo
stesso va detto delle specie, delle diiferenze, delle proprietà e degli
accidenti. Se genere, specie, ecc. non sono, resta che siano còlti
solo con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una
realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da esso. Se
conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo nel pensiero, ma
anche nella realtà, e risorge la domanda come possano essere uni e
molteplici ad un tempo, con la conclusione di pocanzi, che cioè, genere,
specie, ecc. non sono. Se difforme- mente, non possono essere che vani e
falsi dei concetti difformi dalla realtà nel suo vero essere.
Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando son
pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio che si
debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin- zioni
porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè su qualcosa di
cui sia possibile farsi un vero concetto. 12. - A questa obiezione
che mirerebbe, come si vede, a scalzare tutta intera la dottrina
porfiriana delle cinque primis- sime distinzioni logiche, Boezio
risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e
riproduce Targo - montare. Non è vero — scrive Boezio — che
sia falso e vano ogni concetto che si scosti dalTessere reale delle cose.
Se la mente mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi
una immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna,
come quando si immagina i Centauri, componendone mental- mente la figura
con elementi del corpo umano e delTequino. Ma quando la mente procede non
per composizione, ma per divisione ed astrazione, il concetto non
corrisponde a nulla di obbiettivo, e tuttavia non è falso.
Esempio: — la linea non è concepibile che in un corpo: staccata da
qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi potè mai cogliere
con un qualsiasi senso una linea separata da ogni corpo? Ma ciò non
esclude che possa separarla lo spirito e pensarla per sè sola, fuori di
qualsiasi corpo. Onde risulta, nel pensiero, incorporea e separata quella
linea che nella realtà è inseparabilmente unita al corpo e confusa con
esso. Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti:
esistono nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi,
come puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto
della linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa
fuori dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto
di genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali
mentre essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è
prerogativa delTintelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari
sensi- bili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora,
cogliere la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un
genere. Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza
d’es- senza di individui diversi numericamente Tuno dalTaltio: e il
genere è un concetto ricavato dalla somiglianza delle specie. Ma
questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è sensi- bile; quando
nelle universali, è intelligibile. 0, che è lo stesso, sentita, è nelle
cose singole; pensata, è universale. Sicché generi. specie, ecc. esistono
nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei corpi; universali quando son
pensati, singolari quando son sentiti nei corpi in cui hanno
esistenza. Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi
e specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in
un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi e
non avessero nei particolari Tesser loro. Ma questa soluzione è
aristotelica, e Boezio Tavverte espli- citamente: giacché per Aristotele
generi e specie son pensati incorporei ed universali, mentre esistono nei
particolari sensi- bili. Platone invece - Boezio ama rammentarlo -
ritiene che generi e specie non solo siano pensati come universali,
ma anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio dichiara
espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della questione
non perché egli la approvi di più, ma perché un lavoro, come il suo
commento, destinato a servir di introdu- zione alle Categorie
aristoteliche, aveva il dovere di adottare, in questa questione,
preliminare importantissimo, il punto di vista aristotelico.
13. — Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso, T «
Isagoge » - alla quale ci conviene ormai ritornare - può intendersi
divisa in due parti: la prima studia separatamente il genere, la specie,
la differenza, la proprietà e Taccidente; la seconda paragona prima il
genere alla differenza, alla specie, alla proprietà e alTaccidente ; poi
la differenza alla specie, alla proprietà e alTaccidente; infine tra loro
la proprietà e Taccidente. Cominciamo ora lo studio delle cinque
distinzioni logiche prese separatamente ad una ad una. 14. —
Porfirio osserva che la parola genere si usa con significati
diversi. Primo significato é quello per il quale genere (o
piuttosto gente) vuol dire stirpe. Esempi: « Oreste è delle gente
di Tantalo », cioè discende da Tantalo; < Pindaro è della gente tebana
», cioè è tebano di nascita. Nel primo caso è indicato il progenitore,
nel secondo la patria; in entrambi il termine da cui la stirpe, o gente,
o genere proviene. Secondo significato è quello per il quale
il genere (o gente, vuol dire quella collettività che è stretta da
un’origine comune Esempio: « Gli Eraclidi costituiscono una gente
(o genere) perchè discendono tutti da un comune capostipite:
Eracle». Terzo significato è quello per il quale si dice genere
quello a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine esso
contiene sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la
parola «genere » ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi
due in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi
si dice piuttosto stirpe, cioè Torigine da cui le specie derivano, da
essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da tutte la altre
specie che rientrano sotto altri generi. In questo terzo
significato « genere » è quel che si predica di più cose, differenti tra
loro per la specie, e indica cosa esse sono. La quale definizione
ha bisogno di essere chiarita punto per punto. « Quel che si predica di
più cose » : difatti, i predicati 0 si riferiscono ad una cosa singola o
a più cose. Ad una cosa sola si riferiscono gli individui, come quando si
dice: «questi è Socrate », e anche a una cosa sola si riferiscono: «
questi » e « questo ». Invece a più cose si riferiscono i generi, le
specie, le differenze e le proprietà e quegli accidenti che
risultano comuni, non propri di una cosa sola. Esempio di
genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » . Esempio di
differenza (che contraddistingue Tuomo dagli altri animali): «
ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la capacità di ridere
» . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco, nero, muoversi » .
Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di più
cose, non di una. Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si
predica di più cose differenti tra loro per la specie », in quanto
anche la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra
loro per numero, non per specie. Esempio: - la specie «uomo»
si predica di Socrate e di Platone, che differiscono numericamente in
quanto Socrate e Platone sono due individui diversi, mentre il genere «
animale » si predica delPuomo, del bue, del cavallo, differenti tra
loro non solo numericamente, ma per specie. Inoltre: « genere
è ciò che si predica di più cose differenti tra loro per la specie, e
indica cosa esse sono. » Giacché anche le differenze si predicano di cose
differenti tra loro per la specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa
sono. Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao,
rispon- diamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: «
Puoino è animale > ; ma se ci domandano le qualità delPuomo,
rispon- diamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza
e la mortalità. Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà,
perchè questa si predica d’una sola specie e degli individui di
essa, mentre il genere si predica di più specie. E differisce
dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si predichino di più cose
differenti tra loro per specie, ne indicano la qualità, non Pessenza
(come, ad esempio, il color nero). Ricapitolando: il predicarsi di
più cose divide il genere dagli individui; il predicarsi di più cose
differenti di specie lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare
la quiddità 0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti
comuni che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non
contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole. 15. — Anche «
specie » ha più significati : significa « forma » e significa, in logica,
ciò che rientra in un genere (« uomo » è specie compresa nel genere «
animale » ; « bianco » è specie del genere «colore*; «triangolo» è specie
del genere «figura»). Beninteso, come il genere è genere solo rispetto
alle sue specie, cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere.
Genere e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien
defi- nita: «ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si
predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma questa defi- nizione
conviene solo alle specie specialissime che sono sempre specie e non mai
generi, mentre le precedenti definizioni con- vengono anche alle specie
che non sono specialissime. Sono generi generalissimi quelli al di
sopra dei quali non esiste altro genere, come ad esempio « sostanza ».
Sono specie specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono
altre specie, come, ad esempio, « uomo », che ha sotto di sè imme-
diatamente i vari individui umani. Tra i generi generalissimi e le
specie specialissime inter- corrono generi subalterni, come ad esempio «
sostanza animata », « sostanza animata sensibile » , « sostanza sensibile
ragionevole » . Ciascuno di questi concetti, intermedi tra «sostanza» e
«uomo », è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra,
è genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra.
Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a « so- stanza »,
è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ». Ai due estremi della
scala c'è la « sostanza», genere generalissimo che non è mai specie, e
!'« uomo », specie specialissima che non è mai genere, mentre in mezzo i
generi subalterni sono a volte generi, a volte specie. Ora,
mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge- nitore in
progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele famiglie,
Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo unico, a cui tutti i
generi subalterni si lascino ridurre. Al con- trario, secondo Aristotele
sono dieci i generi generalissimi, asso- lutamente primi e irriducibili:
uno è la sostanza e nove gli acci- denti (qualità, quantità, luogo,
tempo, ecc.). Nè è valida obie- zione che se questi dieci predicamenti
sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\
chè, dice Porfirio, Ve^senza si predica in senso assai diverso
della sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle dieci
cate- gorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il
significato essere dalPuno all’altro predicamento. Ora, se i generi
generalissimi sono dieci, i generi subal- terni sono di numero assai
grande, ma tuttavia finito : infiniti, invece, sono gli individui che
vengono dopo le specie specia- lissime, e di essi non si dà
scienza. Platone insegna a dividere, mediante le differenze
specifiche, ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a
raggiungere le specie specialissime, che si dirompono negli individui.
Chi discende dai generi generalissimi alle specie specialissime
divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie
specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in unità.
Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune aduna.
Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di esse.
Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi (il genere si
predica delle specie), i concetti equipollenti si pre- dicano l’uno
dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire si predica del
cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani- male che nitrisce», e il
cavallo si predica del nitrire nella reciproca: < L’animale che
nitrisce è il cavallo »), ma non mai i concetti meno estesi si predicano
dei più estesi (la proposi- zione : « l’uomo è un animale » non può
convertirsi nella reci- proca: « l’animale è uomo »). Così i generi
generalissimi si pre- dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle
specie specia- lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi
subalterni si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle
specie specialissime e degli individui ; le specie specialissime si
pre- dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare.
Gli individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-
lità, mentre rispetto al genere è parte. 16. — Si parla di
differenza nel significato comune della parola, in senso proprio, e in
senso rigoroso. Nel significato comune < differenza » esprime la
diversità d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce
da Platone e differisce da sè stesso bambino. In senso
proprio, una cosa si dice differire da un’altra quando ne differisce per
un accidente inseparabile. (Accidente inseparabile è, per esempio, avere
il naso curvo, essere ciechi, avere una cicatrice causata da una
ferita). In senso rigoroso una cosa si dice differire da
un’altra quando se ne distingue per differenza di specie. Ad
esempio, un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a
specie diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no. In
generale dunque, ogni differenza altera ciò a cui si in- nesta: ma le
differenze comuni e proprie si limitano a renderlo alterato, le rigorose
lo rendono addirittura altro. E queste dif- ferenze rigoi-ose che rendono
altro ciò a cui si applicano, si dicono < differenze specifiche » , le
altre si dicono semplice- mente « differenze » . Queste non producono che
un’alterazione o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi
rispetto al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali
si definiscono appunto col genere e le differenze. Altra
classificazione delle differenze è la seguente: differenze separabili^
come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o malati, e differenze
inseparabili^ come l’avere un naso aquilino 0 camuso e l’essere
ragionevoli o irragionevoli. Le differenze separabili si dividono
ancora in differenze per se e differenze per accidens. Differenza per se
è, nell’uomo, la ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere.
Diffe- renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.
Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la rendono
altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo differenzia
dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma immortale che è
Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano
nel concetto della cosa e non la ren- dono altra, ma solo alterata (il
naso camuso non entra nel concetto di uomo, e altera un individuo, ma non
lo rende altro dai rimanenti uomini). Parimenti le differenze
per se non ammettono aumenti o dimi- nuzioni (tutti gli individui umani
sono uomini egualmente), invece, le differenze per accidens ammettono
aumento o dimi- nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o
meno curvo, ecc.). Fra le differenze inseparabili per se
talune servono a divi- dere i generi in specie, tali altre, invece, a
specificare i generi già divisi. Differenze inseparabili per se sono «
animato » e < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , «
ragionevole » e «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste
dif- ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze
costitutive della sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole »
sono, invece, divisive della sostanza < animale » in quanto per
esse si giunge dal concetto del genere « animale » al concetto
della specie « uomo » . Senonchè quelle differenze che son
divisive pei generi, sono costitutive per le specie: difatti, nelPesempio
ora addotto, le differenze « ragionevole » e « mortale » , introducendo
una di- visione nel genere «animale», costituiscono proprio cosi la
specie «uomo». Divisive e costitutive poi sono tutte le dif- ferenze
specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le definizioni delle
specie, mentre a ciò non giovano nè le dif- ferenze inseparabili per
accidens, nè, molto meno, le separa- bili (sarebbe ridicolo dividere gli
uomini secondo che abbiano il naso aquilino o camuso — differenze
inseparabili per accidens — 0, peggio ancora, secondo che stiano in piedi
o a sedere). La differenza viene anche determinata come quella che
la specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più
delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il con- cetto di
«animale» non include. (Or si domanda: se il genere non ha in sè le
differenze che caratterizzano le varie specie, queste donde le traggono?
— Giacché le specie non derivano che dai generi, e questi non posseggono
le differenze, nè pos- sono possederle, chè, se le possedessero,
potrebbero riunire in sè differenze opposte tra loro, come sono quelle
che contrad- distinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione
di questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le
differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni in sè
differenze contraddittorie, perchè il genere ha in potenza le differenze
che da esso nascono, senza averle in atto.) Altra definizione della
differenza è: «ciò che si predica di più cose differenti tra loro per
specie, per indicarne la qua- lità ». - Infatti, se uno ci domanda: « che
cosa è Tuomo? », noi rispondiamo indicando il genere a cui la specie
umana appar- tiene, e diciamo: « l’uomo è un animale » ; ma se uno ci
domanda la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri
differenziali, e diciamo: «L’uomo è ragionevole e mortale».
Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza alla
forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo, cosi la
differenza rende specie il genere. Altra determinazione della
differenza è : « ciò che è atto a dividere le cose che sono sotto il
medesimo genere » . Difatti, « ragionevole » e « irragionevole » sono
differenze atte a dividere l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel
genere animale. Altra definizione: « differenza è quella per la
quale differiscono fra loro le varie cose», giacché per il genere non
differiscono. Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli:
la differenza « ragionevoli » vale a separarci da essi. E ancora:
siamo ragionevoli noi e gli Dei : la differenza « mortali » ci separa da
essi. Definizione più profonda è la seguente: « Differenza non
è una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere le
cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determi- nazione che
riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. » Per esempio:
poter navigare, è particolarità esclusivamente umana, e tuttavia non è
differenza che costituisca la sostanza delPuomo. Differenze specifiche
sono quelle che fanno altra la specie e sono accolte nel concetto di essa
indicandone la qualità. Ci sono quattro sorte di qualità:
1) - Proprietà che convengono ad una sola specie, sebbene non
intera, come per Tuomo essere medico o geometra. (Solo gli uomini sono
medici e geometri; ma non tutti gli uomini sono tali). 2)
Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene non solo ad essa,
come per Tuomo essere bipede (sono bipedi anche gli uccelli).
3) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta la sua
estensione, ma solo in un determinato tempo, come per Puomo imbiancare
nella sua vecchiezza. 4) Proprietà che convengono ad una sola
specie in tutta la sua estensione e sempre, come per Tuomo poter ridere.
(Non importa che non rida sempre: importa che abbia natura di poter
ridere). Sono queste ultime le vere proprietà giacché possono
con- vertirsi con ciò di cui sono proprietà. (Chi è cavallo, può nitrire
; chi può nitrire è cavallo).
Accidente è quello che può essere presente o assente senza che il
soggetto si corrompa. Ci sono intanto accidenti separabili e
accidenti insepara- bili. Separabile è dormire; inseparabile il color
nero. E tuttavia, per quanto inseparabile, rimane accidente perchè,
sebbene corvi e Etiopi siano neri, si può sempre pensare un corvo e un
Etiope bianchi. L'accidente è definito anche « ciò che può
contingentemente esserci e non esserci * ; oppure « ciò che senza essere
nè genere nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in
un oggetto » . Determinate ormai tutte e cinque le distinzioni
logiche, bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno di
comune e cosa hanno di diverso. Di comune hanno il potersi
predicare di più cose ; ma il genere si predica delle specie e degli
individui ( « animale » si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo
cavallo e di questo bue); la differenza similmente delle specie e degli
individui ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi, e di
questo cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono sotto
di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ; la
proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli indi- vidui
di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto deiruomo quanto dei
singoli uomini); l’accidente cosi della specie come degli individui («
nero » si predica cosi della specie dei corvi come dei corvi particolari,
ed è accidente inseparabile; « muo- versi » si predica deH’uomo e del
cavallo, ed è accidente sepa- rabile), ma anzitutto si predica degli
individui, e in secondo luogo delle specie che contengono gli
individui. Ma conviene ora paragonare a due a due le cinque
distin- zioni logiche. 20. — Comparazione del genere con le
altre quattro roci. a) Genere e differenza Cosa hanno di
comune: 1) — Il genere e la differenza entrambi contengono
specie. Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne
contiene il genere. Esempio: la differenza «ragionevole»
contiene due specie: uomo e Dio ; mentre il genere « animale * contiene e
le due anzidetto e tutte le altre specie animali. 2)
— Quel che si predica del genere come genere, si predica anche delle
specie comprese in tale genere : e quel che si predica della differenza
come differenza, si predica anche delle specie comprese in tale
differenza. Esempi: del genere « animale » si predica Tesser
sostanza e Tessere animato: che si predicano anche delle specie del
genere « animale » e perfino degli individui di tali specie. Della diffe-
renza « ragionevole » si predica Tesser provvisto di ragione : che si
predica anche delle specie comprese sotto tal differenza [uomo e Dio) e
degli individui di tali specie (i singoli uomini e gli Dei).
3) — Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo- raneamente
le specie che sono sotto di essi. Esempio : tolto il genere «
animale > , è tolta anche la specie « uomo » ; tolta la differenza «
ragionevole », non ci sarà più nessun animale provvisto di ragione.
Cosa hanno di diverso: 1) — E’ proprio del genere predicarsi
di più cose che non la differenza, la specie, la proprietà e
l’accidente. Esempio: il genere «animale» si predica egualmente
del- l’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la
diffe- renza « quadrupede » si predica solo degli animali di
quattro piedi, la « specie > uomo solo degli individui umani, mentre
la proprietà del « nitrire » solo della specie cavallo e dei
cavalli particolari, e l’accidente « star in piedi » ancora di più poche
cose. 2) — Il genere contiene la differenza in potenza.
Esempio : il genere « animale » si divide in specie animali «
ragionevoli » e specie « irragionevoli » , « ragionevole » e « ir-
ragionevole » essendo le differenze che dividono il genere « ani- male »
in specie diverse. 3) — I generi sono anteriori alle differenze
poste sotto di essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche
le diffe- renze, ma non viceversa. Esempio: tolto il genere
« animale », son tolte tutte le diffe- renze (« ragionevole » e «
irragionevole »); mentre, tolte tutte le differenze, si può ancora
pensare la sostnza animata sensibile, cioè Tanimale. 4) — Il
genere riguarda Tessenza (o quiddità) d’unacosa: la differenza la sua
qualità. Esempio: Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è l’uomo? -
ragio- nevole. 5) Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime
diffe- renze. Esempio : il genere dell’uomo è « animale » ;
le differenze sono: ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e
d’impa- rare. 6) — Il genere è come la materia, la differenza
è come la forma. Giacché è la differenza che determina il
genere, come la forma determina la materia. b) Genere e
specie Cosa hanno di comune: Tanto il genere quanto la specie
si predicano di più cose. 2) — Entrambi sono anteriori
a quelle cose delle quali si predicano. 3) — Cosi il genere
come la specie costituiscono ciascuno un tutto. Cosa hanno di
diverso: Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono
contenute, non contengono i generi. Giacché sono i generi che,
determinati da differenze spe- cifiche, producono le specie: onde sono
naturalmente ad esse anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non
viceversa, chè, posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il
ge- nere, non è posta con ciò stesso la specie. 1 generi si
predicano univocamente delle specie: non cosi le specie dei generi.
3) — I generi sono superiori per le specie che comprendono sotto di
sè, le specie per le differenze che le determinano. I generi
possono anche essere contemporaneamente specie, ma non specie
specialissime ; e le specie possono essere contem- poraneamente generi,
ma non generi generalissimi. c) Genere e proprietà Cosa
hanno di comune: 1) — Tanto il genere quanto le proprietà seguono
le specie. Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è
ani- male quanto al genere; e se di specie è uomo, ha la pro-
prietà di poter ridere. 2) — Egualmente si predicano il genere
della specie e la proprietà di quelli che ne partecipano. L’uomo e
il bue sono animali allo stesso titolo; e cosi Catone e Cicerone hanno
egualmente la proprietà di poter ridere. 3) — Si predicano
univocamente il genere delle sue specie e la proprietà di quelle cose di
cui è propria. Cosa hanno di diverso: 1) — Il genere è
anteriore; la proprietà posteriore. Esempio: — Bisogna che ci sia
il genere ahimale, poi sia diviso dalle differenze e dalle
proprietà. 1) — Il genere si predica di più specie, la proprietà
di una sola specie, di cui è propria. 3) — La proprietà si
predica di ciò di cui è propria, cosi come ciò di cui è propria si
predica di essa : mentre il genere non si converte con nessun suo
predicato. Esempio: La proposizione « L’uomo è l’animale che ride
» si converte: esanimale che ride è l’uomo*. Ma la proposi- zione «
l’uomo è animale * non si potrà mai convertire: c l’ani- male è l’uomo. La
proprietà è in tutta la specie di cui è propria, in essa sola, e sempre:
mentre il genere è in tutta la specie di cui è genere, e sempre, ma non
in essa sola. Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli
uomini, solo degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è
in tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche in
molte altre specie oltreché neirumana. 5) — Poiché la proprietà e
ciò di cui é proprietà si con- vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di
cui é proprietà, tolto ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà.
Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto Tuomo
é tolta la proprietà del ridere. Al contrario, tolte le specie non
sono tolti i generi. Esempio : tolta la specie umana non é tolto il
genere ani- male. d) Genere e accidente Cosa
hanno di comune: Si é già detto che ci sono accidenti separabili^
come il muo- versi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color
nero: ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili
hanno di comune col genere il potersi predicare di più cose.
(Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose ina-
nimate). Cosa hanno di diverso : 1) — Il genere é
avanti le specie, mentre gli accidenti sono posteriori ad esse, anche se
si tratti di accidenti inse- parabili, giacché prima è ciò a cui accade,
poi é Taccidente. 2) — Del genere tutte le specie che partecipano,
parte- cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più o
meno. 3) — Dii accidenti sussistono principalmente negli
individui, mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle
sostanze individuali. 4) — Il genere dice quel che è
una cosa. L’accidente quale è e come è. Esempio: - Come è
l’Etiope? Nero. 21. — Comparazione della differenza con le altre
quattro voci. a) - Differenza e genere
Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere e
differenza. b) - Differenza e specie Cosa hanno di
comune: 1) — Della differenza e della specie si partecipa
egual- mente. Esempio: Gli uomini singoli partecipano
egualmente della specie « uomo » e della differenza < ragionevole »
. 2) — La differenza e la specie sono sempre presenti in ciò
che di esse partecipa. Esempio: Socrate è sempre ragionevole e
sempre uomo. Cosa hanno di diverso: 1) — La differenza
dice sempre la qualità delle cose, la specie la loro essenza o
quiddità. Esempio: - « Uomo » non è qualità, se non per le
differenze che, determinando il genere ♦ animale », costituiscono la
specie « uomo » . 2) — La differenza è in più specie.
Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari animali di
specie differente. La specie è solo negli individui che sono sotto
di essa. 3) — La differenza è altra cosa dalla specie a cui
dà luogo. Difatti, se si toglie la differenza « ragionevole »
, si toglie la specie « uomo » : ma se si toglie la specie « uomo », non
si toglie la differenza « ragionevole » , perchè vi è Dio.
4) — Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole » e «mortale»
compongono la sostanza deiruomo); mentre una specie non si combina con
un’altra per produrne una terza. (Un cavallo e un’asina generano un mulo;
ma non la specie < cavallo » con la specie « asino * generano la
specie « mulo *). c) - Differenza e proprietà. Cosa
hanno di comune: 1) — Della differenza e della proprietà le cose
partecipano egualmente. Esempio: gli esseri ragionevoli
partecipano della diffe-* renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri
che possono ridere partecipano della proprietà di poter ridere.
2) — Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle cose che le
hanno. Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba,
non ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é
giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco. Del resto,
anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura' umana, senza che
gli uomini ridano sempre. Cosa hanno di diverso: 1) —
La differenza si predica di più specie (ragionevole si dice dell’uomo e
di Dio), la proprietà si predica di quella sola specie di cui è
propria. 2) — La proprietà e ciò di cui è proprietà si
convertono. (La proposizione « l’uomo è l’animale che ride »
ammette la reciproca: «l’animale che ride è l’uomo).
Mentre la differenza segue quella cosa di cui è differenza, e non
si converte con essa. (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma,
posta la ragio- nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche
Dio). d) - Differenza e accidente Cosa hanno di
comune: 1) — Differenza ed accidente entrambi si predicano di
più cose. Esempio: Tanto la differenza della «ragionevolezza» quanto
l’accidente del « muoversi > si applicano a molte cose diverse.
2) — Tanto la differenza quanto gli accidenti insepa- rabili sono
presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano. Esempio:
Tanto la differenza < bipede » quanto l’accidente inseparabile « nero
> riguardano tutti i corvi e li riguardano sem'pre. Cosa
hanno di diverso : 1) — La differenza contiene, non è
contenuta. (La ragionevolezza contiene l’uomo perchè non è solo di
lui). Gli accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono
in più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ; per un altro sono
contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti (l’uomo,
oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto », ecc.) 2) —
La differenza non ha aumento e diminuzione, gli accidenti sì.
(0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno alti). 3) — Le
differenze contrarie non possono mescolarsi, bensì si mescolano gli
accidenti contrari. ( < Bipede » e « quadrupede » si escludono ;
ma « bianco > e . « nero » si mescolano a produrre il < grigio »
). 22. — Comparazione della specie con le altre quattro voci.
a) Specie e genere Furono già comparati quando si esaminarono
insieme Genere e specie. b) Specie e differenza
Furono già comparati quando si esaminarono insieme Diffe-^ renza e
specie. c) Specie e
proprietà Cosa hanno di comune: Specie e proprietà si
predicano Tuna deiraltra (se è uomo, ha la proprietà di ridere ; se ha la
proprietà di ridere, è uomo) ; giacché le cose partecipano egualmente
delle specie a cui appartengono e delle proprietà che le
caratterizzano. Cosa hanno di diverso: 1) — La specie
può essere genere ad altre specie ; la proprietà non può essere di altre
specie oltre quella di cui è propria. 2) — La specie sussiste
prima della proprietà, poi la proprietà ha luogo nella specie.
Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di
ridere. 3) — La specie è sempre presente in atto, nel
soggetto; la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza.
Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre ride sebbene
abbia natura di poter ridere. 4) — La specie sempre è sotto il
genere e si predica di più cose, differenti tra loro numericamente,
indicandone l’es- senza 0 quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di
cui è propria, e in esso è sempre, e inerisce a tutta la sua
estensione. Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gli uomini,
solo negli uomini e sempre negli uomini. d) Specie e
accidente Cosa hanno di comune: Si predicano di più
cose. Cosa hanno di diverso: 1) — La specie dice il «
che > di una cosa, l’accidente il « quale > e il « come » .
2) — Ogni sostanza può partecipare di una sola specie, ma di più
accidenti separabili ed inseparabili. 3) — La specie si concepisce
prima degli accidenti, anche se inseparabili (chè bisogna ci sia il
soggetto, perchè qualcosa gli accada); gli accidenti invece sono
posteriori e avventizi. 4) — Della specie si partecipa sempre in
egual misura, ma deiraccidente, anche inseparabile, in misure diverse.
Esempio: un Etiope è più nero di un altro. 23. — Com/parazione
della proprietà con le altre quattro voci. a) —
Proprietà e genere Furono già comparate quando si esaminarono
insieme Genere e proprietà. b) — Proprietà e differenza
Furono già comparate quando si esaminarono insieme Diffe- renza e
proprietà. c) — Proprietà e specie Furono già comparate
quando si esaminarono insieme Specie e proprietà. d) —
Proprietà e accidente Cosa hanno di comune: 1) — Tanto
la proprietà quanto Taccidente inseparabile sono indispensabili a ciò in
cui si osservano. Esempio: Come senza la proprietà del ridere non
esiste uomo, cosi senza color nero non esiste Etiope. 2) —
Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile sono sempre presenti a
ciò che li possiede, e in tutta la loro estensione. Esempio:
Tutti gli Etiopi sono neri, e sempre. Cosa hanno di diverso :
1) — La proprietà è presente in una sola specie. Tacci- dente
inseparabile in molte. Esempio: La proprietà del ridere è solo
delTuomo; Tacci- l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO
43 dente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma anche
del corvo, del carbone, deirebano, ecc. 2) — Sicché la
proprietà si converte con ciò di cui è proprietà, non cosi Taccidente con
ciò di cui è accidente. Esempio : c L'uomo ha la proprietà di
ridere > si converte in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero »
non si converte in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il
carbone, ecc. sono neri. 3) — Della proprietà si partecipa
sempre egualmente, degli accidenti in diversa misura. Si è
più 0 meno neri. 24. — Comparazione delV accidente con le altre
quattro voci. a) — Accidente e genere
Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere e accidente.
b) — Accidente e differenza Furono già comparati quando si
esaminarono Diffe- renza e accidente. c) — Accidente e
specie Furono già comparati quando si esaminarono insieme
Specie e accidente. d) — Accidente e proprietà Or
ora esaminati come Proprietà ed accidente. L'Isagoge si chiude con Tosservazione
che altri elementi comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati
ci sono, ma quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel
che hanno di comune. Tanto del primo quanto del secondo
commento boe- ziano abbiamo già esposto ciò che riguarda il celebre
prologo sulla realtà o meno degli universali. Ci tocca ora
dire qualche cosa sul complesso dei due com- menti, che tanta autorità
ebbero in tutto il Medio Evo, e tanto contribuirono a dare alla mentalità
delle nazioni di cultura latina quella struttura rigorosamente logica che
è rimasta loro caratteristica. Lo scopo da Boezio assegnato
al primo commento è assai semplice, giacché non va oltre la illustrazione
del testo. Boezio evita di accendere questioni, anche se il testo vi si
presti. Solo quando le obiezioni vengono cosi spontanee che non
risolverle vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio,
solo allora Boezio interviene per chiarire il pensiero delPautore,
giu- stificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le
difficoltà, tornare alla illustrazione del testo. Dove
Porfirio propone più classificazioni, Boezio cerca di connetterle tra
loro, in maniera da renderle più facilmente assi- milabili al lettore. E
dove Porfirio accenna appena a teorie assai note fra gli studiosi, ma
forse poco possedute dai princi- pianti, Boezio interviene a rammentare
tali teorie, e a trattarle, sebbene compendiosamente, in modo da fornire
al lettore princi- cipiante, al quale il primo commento è diretto, le
nozioni neces- sarie per intendere il testo di Porfirio. Così
Boezio torna due volte sulla teoria della definizione, la quale,
facendosi per genus et differentianij è possibile solo per gli individui
(definiti entro la loro specie), per le specie (definite entro il loro genere!,
e per i genej-i subalterni (definiti entro il genere immediatamente
superiore, fino ai generi gene- ralissimi), ma non per i generi
generalissimi, i quali, non avendo nessun concetto più elevato sopra di
sé, non possono essere definiti, cioè determinati entro Pambito di un
concetto più vasto. Onde, non potendosi definire, possono solo
descriversi, con Pin- dicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza
ampio, è fatto da Boezio, come già da Porfirio, alla teoria platonica
della divisione, che da ciascun genere generalissimo, mediante dicotomia,
cioè divisione in due, giunge fino alle specie specialissime.
Abbiamo già detto che Boezio cerca di rendere più evidente il nesso
che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta runa dopo
l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo. Questo avviene
specialmente per le classificazioni che riguar- dano le differenze.
Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze in
differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni, tutte le
differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi stessi (tu
cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino); 'proprie le
differenze individuali (capelli crespi, occhio cieco, ecc.); rigorose^ le
differenze che riguardano tutta la specie (ra- gionevole, irragionevole,
ecc.). Le quali ultime differenze sono le differenze specifiche, con le
quali si procede a dividere i generi in specie. Ma questa prima
classificazione può semplifi- carsi quando si avverta che tanto le
differenze comuni quanto le proprie si limitano a rendere alterato il
soggetto, mentre solo le differenze specifiche lo rendono altro.
Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze che
rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro. A
questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda; le
differenze sono o separabili o inseparabili. Questa seconda
classificazione si può collegare con la prima osservando che solo le
differenze comuni sono separabili (il sedere, il correre, ecc. sono
diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili dal loro
soggetto), mentre le differenze proprie e più proprie, cioè quelle che
riguardano l’individuo persistendo in lui e quelle che riguardano l’intera
specie, sono inseparabili (tanto un occhio cieco quanto la ragionevolezza
sono caratteri differenziali perma- nenti, e quindi inseparabili dal
soggetto che li possiede). Senon- chè, di queste differenze inseparabili,
le individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro (la
cecità altera un uomo, ma lo lascia uomo), mentre le specifiche o più
proprie rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende Tuomo
altro dai bruti). E inoltre, delle differenze inseparabili,
le individuali sono partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre
egualmente. Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di
indi- vidui che sono Tuno più biondo, Taltro meno biondo; mentre la
ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie umana, i cui
individui, in quanto sono uomini, sono tutti egual- mente partecipi della
ragione. Terza classificazione è quella per la quale le differenze
si dividono in differenze divisive del genere e differenze
costitutive delle specie. Son le medesime differenze che, prese in
modo diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra
costi- tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie «
ragio- nevole e irragionevole > , esse dividono il genere «animale»;
e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e immor- tale »,
esse dividono l'inferiore genere « animale ragionevole ». Ma se prendiamo
le differenze subalterne < ragionevole » (con- cetto più ampio) e « mortale
» (concetto restrittivo), queste differenze subalterne costituiscono la
specie dell'animale ragio- nevole mortale, cioè dell'uomo.
Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo commento
boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente nel secondo commento.
26. — Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che
tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica medievale,
riesce interessante il breve schizzo che del sapere del tempo Boezio
premette al suo commento. Nel dialogo filosofico che egli immagina
si fa chiedere dal giovane Fabio una illustrazione e prima una
introduzione al- l'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà
delPIsagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la
ragione del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei
punti, dunque, tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva
fatto il greco Ammonio nel suo commento alllsagoge. \Jintenio
è trattare del genere, della specie, delle differenze, delle proprietà e
degli accidenti. futilità deirisagoge è anzitutto quella
d’introdurre alle Categorie di Aristotele, ma è anche più vasta.
Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di che sia
la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa di nulla, «
vivax mens et sola rerum primaeva ratio est >. E questo amore di
sapienza è illuminazione dello spirito che conosce da parte di quella
pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo che questa fa deU’animo
umano perchè torni ad essa, di maniera che il desiderio di sapienza è
desiderio e amore della divinità e amore della pura mente divina.
È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza natu- rale le
anime umane. Da essa nasce la verità delle specula- zioni e dei pensieri
e la santa e pura castità delle azioni. Il che mena direttamente alla
divisione della filosofia, che è il ge- nere, in teoretica o speculativa,
e pratica^ o attiva. (0 e II sono le due lettere che spiccano su la veste
della Filosofia nel Be Conso- latione Philosophice). La teoretica, poi,
ha tante parti quanti sono gli oggetti che considera: si divide quindi
in: 1) — Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e me-
desimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai sensi, ma
solo alla mente ed all’intelletto: la quale specula- zione studia Dio e
la incorporeità dello spirito; 2) — Dottrina che si occupa di tutte
le opere celesti del- la suprema divinità, di ciò che nel mondo sublunare
ha animo più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime
umane: tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto
dei corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in
maniera che possono ora divenire più beate per purezza ed
intelligenza quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili ;
3) — Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura e le
passioni dei corpi. Di queste tre parti della filosofia teoretica
la seconda è meri- tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte
Tani- mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la
considerazione e conoscenza delle cose intelligibili. 27. —
Anche la filosofia pratica si divide in tre parti: 1) — VEtica^ che
s’orna ed accresce di virtù, nulla am- mettendo nella vita di cui non
possa essere soddisfatta, e niente facendo di cui debba pentirsi;
2) — la Politica, che assumendosi la cura dello Stato prov- vede
alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg- genza e
prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal- dezza della
fortezza e la pazienza della temperanza; 3) — V Economia, che si
occupa del buon andamento della vita famigliare. Alle quali
parti già descritte della filosofia si aggiunge da vicino queirarte che i
Greci chiamano Logica: parte della filo- sofia 0 suo strumento?
Boezio rimette la trattazione di questa questione ad una altra
opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva che questa disputa
sul genere, la specie, la differenza, la pro- prietà e l’accidente
prepara la via a tutto lo studio della filo- sofia. Col dire cosa sia
genere e cosa sia specie ci fa inten- dere che la filosofia è genere, e
teoretica e pratica sono specie. Col dire cosa sia differenza, ci rende
possibile di intendere se la logica sia una specie della filosofia,
differente, quindi, dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci
spiega la na- tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col
dire cosa sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali
ciò che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci
spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia. Utile alla
grammatica a cui insegna che il discorso è il ge- nere e otto sono le sue
parti o specie; utile alla retorica, a cui permette di distinguere tre
generi di causa, ciascuno diviso in specie a seconda dei soggetti:
utilissima alla logica, che nulla potrebbe definire (per genere e
differenza) se non sapesse cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza,
ecc. ; nulla potrebbe dividere se non fosse guidata dalla conoscenza
delle cose che divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare
giacché la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si
divide o qualcos’altro mediante le cose che si son divise. E
l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica aristotelica, perchè senza
di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove accidenti di cui è
parola nelle Categorie. Le quali voci signi- ficative sono quelle di cui
si compongono le proposizioni, di cui si tratta nel « De interpretatione
» . Le quali proposizioni sono quelle di cui si compone il sillogismo, il
cui ordine, la cui struttura e le cui figure sono studiati negli «
Analitici Primi », perchè sia poi possibile studiare il sillogismo
dialet- tico nella « Topica * e il sillogismo dimostrativo negli «
Ana- litici Secondi » . Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base
prima di tutta la logica aristotelica. 28. — Come nel corso
del primo commento non sono rare le occasioni in cui Boezio è costretto a
notare le imperfezioni e le oscurità della versione di Mario Vittorino,
cosi nel seconc^o commento Boezio presenta una traduzione propria, che
indubbia- mente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La
versione è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestr e
che nel primo commento, e che, specialmente nei primi fr a i cinque
libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più rigorosa
ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con
alcuni paragrafi dedicati alla filosofia in generale, alle sue parti,
alle sue utilità, ecc. Se la filosofia - dice Boezio - è il più
alto bene degli animi, converrà precisamente muovere dalle facoltà
delFanima. Una forza deH’anima è quella vegetativa, comune anche alle
piante, che non hanno sensi; un’altra è la sensitiva, che dove
sorge assume la prima come sua parte; una terza è la intellettiva,
che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica e conferma,
con pieno atto di intelligenza, quel che Timmagi- nazione sopperisce. La
qual potenza della ragione si esercita a indagare, anzitutto, se una cosa
sia, poi che sia, poi quale sia, infine perchè sia. Ma,
perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere nel falso,
occorre anzitutto una disciplina che, studiando le maniere di disputare e
gli stessi ragionamenti, possa additare qual ragionamento risulti ora
falso, ora vero, quale sempre falso quale non mai falso. Della quale
scienza - la logica - è duplice l’uso nell’inventare e nel giudicare:
topica e dialettica, trattate entrambe da Aristotele, ma la prima
trascurata dagli Stoici. Ora, questa logica è una parte della
filosofia o è solo il suo strumento? - Quelli che la considerano parte
della filosofia ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc.
solo la filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma,
delle due grandi parti della filosofia, la speculativa che si
occupa delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale,
nessuna tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque
quella disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non
essere considerata una nuova parte della filosofia; donde la
triparti- zione di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali
invece so- stengono che la logica sia strumento della filosofia, non sua
parte, osservano che questa scienza della ragione è diretta o a
conoscere le cose (fisica) o a trovare quei principi di morale che
producono la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica serve sempre
o alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie
non si escludano a vicenda: niente vieta che la logica sia ad un
tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha
innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e daH’etica;
strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così all’una
come aH’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun organo è al tempo
stesso parte e strumento : la mano rispetto all’organismo intero è
strumento; per sè, intanto, è parte. 29. — Ma veniamo allo scopo di
questa introduzione porfi- riana alle Categorie di Aristotele. Queste
sono i dieci generi di predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che
sia il genere. Di ciascuno di essi si dànno varie specie (varie specie di
so- stanza, di qualità, ecc.): ed anche ciò presuppone si sappia
che sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna
specie si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre,
ogni genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere
descritto. E dei dieci predicamenti, nove sono accidenti. Donde la
neces- sità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per
intendere le Categorie aristoteliche. Ma Porfirio spesso indica
l’utilità della sua introduzione per le definizioni, le divisioni e le
dimostrazioni, oltreché, come già si è visto, per l’intendimento delle
Categorie aristoteliche. Per le definizioni, perchè bisogna ben
distinguere il genere prossimo e la differenza specifica per fare una
giusta definizione; per la divisione in tutte le varie sue specie,
giacché vanno distinte divisioni dei concetti presi in sè stessi e
divisioni accidentali. Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono
di tre ordini : 1 ) — divisione del genere nelle sue specie ;
2) — distinzione dei vari significati di una parola; 3) —
partizione d’un tutto nelle sue varie parti. ' Le divisioni
accidentali sono anche di tre ordini: 1) — divisione di un
accidente secondo i soggetti che lo ricettano ( c dei beni, alcuni sono
nell’anima, altri nel corpo » ) 2) — divisione di un
soggetto secondo gli accidenti (« dei corpi, taluni sono (bianchi, altri
sono neri » ) ; 3) — divisione di un accidente secondo altri
accidenti ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide,
altre molli >). Per tutte queste divisioni occorre sapere
che sia genere e che sia differenza, quando luna parola abbia un
significato solo (univoca) e quando più significati (equivoca), e che sia
una parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere
sostanze ed accidenti. Infine, Tintroduzione porfiriana è
utile per le dimostrazioni, giacché queste si fanno o da cose già note, o
da cose conve- nienti, 0 dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose
connesse, 0 dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna
sapere che sia genere e che sia differenza, e che sia specie, giacché
sono 1 generi quelli che sono anteriori per natura alle specie,
e quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause
delle specie. 30. — Il secondo libro .tratta del genere con un manifesto
desiderio di porre più rigore nella trattazione .porfiriana, magari
rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presup- poste da ciò
che dice Porfirio. (Cosi, per esempio, per illustrare i significati, che
Porfirio espone, della parola genere, che si riferisce a volte al
progenitore da cui una gente deriva, a volte al luogo da cui una gente
proviene, Boezio richiama la celebre dottrina aristotelica delle quattro
cause, efficiente, materiale, formale e finale, alle quali aggiunge due
principi accidentali, il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei
Romani, cioè dei discendenti da Romolo, si indica in costui la
causa efficiente della stirpe; quando invece si dice: «Pindaro
Tebano», si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene).
Boezio insiste ancora sulla differenza tra descrizione e defini-
zione: 'il genere non può essere definito, chè, per essere defi-
l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO 53 nito,
dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando avesse un genere
sopra di sè, sarebbe specie, non genere; sicché, non potendo essere
definito, il genere è descritto, cioè ne ven- gono indicate le proprietà,
che sono come i colori con i quali si dipinge un quadro. L’intera teoria
del genere, della differenza, della specie, della proprietà e
dell’accidente, è chiusa come in un prospetto nelle seguenti
classificazioni boeziane. Ciò che si Ciò che si predica
predica di di più cose una cosa sola | S ’o 'in
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rQ O .P O ■TP O O (D VP
ce ^ P. P P ce p sostanzialmente
accidentalmente l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO
55 Boezio prosegue, poi, illustrando via via i passi
poifìriani che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali,
del resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che gli
uomini differiscono tra loro numericamente? - Nel senso che si dice: «
Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo »). 31 — Il terzo libro
tratta delle specie (e non prima della differenza nonostante che la
differenza, contenendo in sè più specie, sia ad essa anteriore, perchè la
specie è specie del genere, come il genere è genere della specie, epperò
vanno studiati in connessione Puno con l’altra). Le
illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo. Interessante
può essere Patteggiamento di osseqio ad Aristotele su le questioni delle
dieci Categorie ; atteggiamento che è di Porfirio e non viene mutato da
Boezio. Nè i dieci predicamenti possono ridursi tutti dXVente, perchè
ente ha significati diversi secondo che s’applichi alla sostanza, alla
qualità, alla quantità, ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e
non un genere d’un significato solo. Del resto, come ogni
predicamento cosi ogni predicamento è un predicamento ; sicché se ente
fosse gen^ e, i dieci predi- camenti avrebbero due generi: ente e uno\ e
ciò è assurdo, perchè non si può appartenere a più di un genere.
32. — Il quarto libro tratta della differenza, ripetendo lo sforzo,
visibile già nel primo commento, di dare organicità ed unità alla
trattazione porfiriana dell’argomento col connettere insieme le varie
classificazioni, tutte svolte da una distinzione fondamentale, tra
differenze sostanziali e differenze accidentali, e col condannare più
risolutamente di Porfirio quelle defini- zioni che « idem per idem
definiunt » quando dicono che < dif- ferenza è ciò per cui una cosa differisce
da un’altra», e che non precisano davvero cosa sia differenza quando la
definiscono «ciò per cui una cosa dista da un’altra», potendosi una
cosa allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali
che non costituiscono diiferenze in senso proprio. Il medesimo
quarto libro tratta anche della proprietà, ri- spetto alla quale osserva
che, se Tessere di una cosa è espressa dal suo genere, dalla sua
differenza e dalla sua specie, le sue proprietà non costituiscono la sua
sostanza, ma qualcosa di ac- cidentale, sebbene si chiamino proprietà, e
che quando Porfirio distingue proprietà di quattro sorte, non intende
enumerare quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro
si- gnificati diversi nei quali si parla di proprietà. Il
quarto libro tratta infine delTaccidente, condannando, più di Porfirio,
la distinzione puramente negativa, per la quale « ac- cidente è ciò che
non è nè genere, nè differenza, nè speqie, nè proprietà » .
33. — Il quinto libro illustra la comparazione che Porfirio
istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare osserva-
zione. Notevole è tuttavia che Boezio non lascia passare la
divi- sione porfiriana delTanimale razionale in animale razionale
mortale (Tuomo) e animale razionale immortale (Dio) senza notare che ciò
si poteva dire quando si ritenevano il Sole e gli altri corpi celesti
animati e divini. 34. — Su questi testi si chinarono, per
generazioni e generazioni, gli uomini del medioevo, come su libri di
profondis- sima sapienza. Se TEuropa uscì dal medioevo cosi
fortemente razionalistica, essa s'era fatta la sua potente quadratura
logica meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente vene-
rati e studiati. Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or
two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!” Augusto
Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani italiani; il Vico di
Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani
d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca
Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del
uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani
dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool
Library.
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